10.09.2022 Views

Un cristallo maledetto

In una terra ormai dimenticata dal tempo e dagli uomini, si racconta di un cristallo dai poteri inconcepibili. Trasmesso in eredità di padre in figlio per innumerevoli generazioni, porta prosperità e gioia all'intero regno. Sfortunatamente, in cambio, reclama le vite di coloro che lo possiedono.

In una terra ormai dimenticata dal tempo e dagli uomini, si racconta di un cristallo dai poteri inconcepibili. Trasmesso in eredità di padre in figlio per innumerevoli generazioni, porta prosperità e gioia all'intero regno. Sfortunatamente, in cambio, reclama le vite di coloro che lo possiedono.

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.


UN (o forse "IL")

CRISTALLO MALEDETTO

Un raccontro super breve di Giuliano Olivotto


QUESTA È UN'OPERA DI FANTASIA. NOMI, PERSONAGGI, LUOGHI E

AVVENIMENTI SONO FRUTTO DELL'IMMAGINAZIONE DELL'AUTORE

O SONO UTILIZZATI IN CHIAVE FITTIZIA. QUALSIASI SOMIGLIANZA

CON PERSONE REALI, VIVE O MORTE, EVENTI O LUOGHI È DEL TUTTO

CASUALE.

COPYRIGHT ©2022 GIULIANO OLIVOTTO

GIULIANO.OLIVOTTO@YAHOO.COM

TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI. NESSUNA PARTE DI QUESTO LIBRO

PUÒ ESSERE RIPRODOTTA O UTILIZZATA IN ALCUN MODO SENZA

L'AUTORIZZAZIONE SCRITTA DEL PROPRIETARIO DEL COPYRIGHT,

FATTA ECCEZIONE PER L'USO DI CITAZIONI PER UNA RECENSIONE.


Capitolo 1

Radulfus giaceva reclinato sul suo comodo trono

basculante, fissando inconsciamente tre grossi mosconi

dalla folta pelliccia marrone che si rincorrevano

gioiosamente tra le torce accese fissate alle pareti della

grande sala reale. Uno di loro, forse il più audace, mentre

stava per afferrare con le sue possenti mandibole chitinose

la zampa posteriore del suo compagno, che volava poco

più avanti, roteò più volte su se stesso, forse per

aggiungere pathos alla scena già veramente drammatica,

ma inavvertitamente si avvicinò troppo a una lingua di

fuoco che in un attimo lo lambì.

Pochi istanti dopo, tra le risatine sommesse dei suoi

due compagni di un tempo, l'audace moscone si spense da

solo in un angolo, scoppiettando allegramente.


Il re stanco, spingendo in fuori il ventre, spostò il suo

centro di gravità oltre il punto di equilibrio e il trono

cominciò a dondolare e a cigolare. Mentre contraeva ed

espandeva ritmicamente il suo addome rigonfio, si

rallegrava e si congratulava con se stesso per la sua

intraprendenza. Il trono basculante gli era costato una

fortuna, ma funzionava perfettamente. Grandi assi di

cedro intarsiate, fissate al suolo con chiodi di bronzo

brunito, sostenevano una sfera di alabastro in cui era stata

intagliata una nicchia rivestita di pelli di coguaro albino.

Un intricato sistema di martinetti e corde nascoste

permetteva all'insieme di oscillare da uno stato di sicura

immobilità a un altro di inebriante e morbido dinamismo.

Come il fragore prodotto da un fulmine che si abbatte

con forza su una quercia millenaria e la riduce a un

mucchio di braci rosse e fumanti, così all'improvviso le

trombe di peltro all'esterno annunciavano l'ora del bagno

reale.

Le ultime note stavano ancora riecheggiando nell'aria

densa quando Radulfus, consapevole della sua posizione,

premette un interruttore nascosto sotto le pelli di coguaro

e le pesanti porte di ebano rivestite di corallo della grande


sala del trono si aprirono come la bocca avida di un

mostro. Un sordo ruggito in lontananza ruppe il silenzio

piatto e una frazione di secondo dopo una valanga di

acqua salmastra inondò fragorosamente la stanza

semibuia. Spruzzi di schiuma raggiunsero dolcemente il

collo, la fronte e quasi tutte le parti nude di Radulfus,

mentre il pavimento cedeva all'immensa furia della

colonna d'acqua, inclinandosi pericolosamente.

Dalla sicurezza del suo trono basculante, il re immobile

guardò le acque ribollenti precipitarsi nella voragine

nascosta sotto il pavimento. Diminuita la pressione,

quest'ultima si riallineò ai fermi cromati disposti a

raggiera sulle pareti, e l'ordinata e fresca sala reale

riacquistò la sua quiete. A quel punto, decine di ancelle in

sgargianti vesti di seta profumata fecero la loro comparsa

emergendo da fessure nascoste da spessi arazzi ricamati

in oro. Le ancelle tenevano in mano vasi di oli profumati,

tessuti pregiati, bastoncini di marmo, fette di anguria e

gabbie di vanadio piene di conigli bianchi dal pelo

morbido.

Un tuono lungo, forte e troppo roboante, seguito da un

sussulto e da un sospiro di compiacimento, fece barcollare


le donne, che sbiancarono immediatamente in volto

nonostante vi fossero, in un certo senso, abituate.

Le pareti, spesse come sessanta dorsi d'asino messi in

fila, tremarono quando alcuni blocchi di arenaria di

modeste dimensioni caddero dalla volta, frantumandosi al

suolo e seminando il panico.

Gli occhi sconcertati dell'ancella che portava una

ciotola piena di fagioli borlotti cotti al vapore

incontrarono quelli di Radulfus, mentre un'espressione

imbarazzata si dipingeva sul volto di quest'ultimo (la

nicchia in cui sedeva fungeva anche da cassa di risonanza

e per questo motivo a volte era difficile per lui nascondere

alcune delle sue espressioni spontanee). La giovane

ancella, prima impietrita, poi risoluta, girò sui tacchi di

corno d'alce e scomparve nell'ombra del colonnato.

Le altre donne ruppero l'imbarazzante silenzio con

canti soavi, cospargendo ogni metro quadrato della stanza

con grandi quantità di balsami, profumi e spezie.

Tuttavia, l'aria era diventata piuttosto pesante.

«Kallikles è arrivato!», proclamò un paggio,

irrompendo con il fiato corto alla presenza di Radulfus.

«Kallikles è venuto a corte con le sue cento figlie dai


fianchi vivacemente dipinti, sire!», continuò il

messaggero inginocchiato tra gocce di sudore.

Il silenzio nella sala reale era insopportabile quasi

quanto l'odore.

«Egli presenta in dono le seguenti mercanzie: cento otri

di panna acida, cinquanta misure di corteccia di olmo

macerata in altrettante misure di succo di bergamotto, tre

metri di garza iridescente, due casse di abiti dismessi del

duca padre, una collana di zampe di tordo montano,

mezzo cesto di formaggio pecorino, due dita di idromele,

cinque noccioli di pesca, l'estremità di un corno di

stambecco e un ciuffo di peli pubici misti!» concluse il

paggio in un sol fiato.

Radulfus si agitava scontento sulle pelli di coguaro

ancora umide, mentre Garralda, la sua schiava preferita,

gli pettinava le folte sopracciglia con un pettine ricavato

da un finto osso di orso polare.

"Fate entrare Kallikles! Prima, però, lasciate che il

saggio Dadrul si unisca a me senza indugio!", esclamò il

re, allontanando da sé le serve più brutte.

Alcune delle ancelle rimaste inserirono grossi bastoni

di marmo, che reggevano a malapena, in altrettanti fori


nelle pareti. Uno scatto sordo seguiva la fine del

movimento. Quando tutte le bacchette di marmo furono al

loro posto, le spesse tende che coprivano le magnifiche

volte della sala reale scattarono all' indietro in apposite

nicchie distribuite tra i pilastri di sostegno, scoprendo

affreschi di inestimabile bellezza che raffiguravano scene

di caccia e di pesca lacustre.

Un possente portamazze, rivestito di un'armatura di

gusci iridescenti di murici spinosi, si fece strada tra i

paffuti coniglietti usciti dalle loro gabbie di vanadio e,

dopo aver estratto due barre d'ambra da chissà dove, iniziò

a strofinarle insieme con grande sforzo finché le sue vene

temporali non si gonfiarono in modo allarmante.

Una cascata di scintille bluastre precipitò nel grande

braciere riempito di sterpi e radici di palissandro; dopo un

battito di ciglia, la grande sala reale risplendeva

orgogliosamente di mille sfumature di giallo; sembrava

che il sole stesso fosse sceso tra quelle mura. Un intricato

sistema di specchi telescopici e lenti prismatiche

convogliava un fascio di luce dorata proprio sulla figura

di Radulfus, facendolo assomigliare agli dei immortali.


Riflessioni oscure offuscavano la mente del sovrano

mentre giocava con Mogo, il suo criceto portafortuna.

Perché mai Kallikles si era spinto fino alle Isole

Esterne con una carovana di donne e di doni? Quali

richieste avrebbe portato all'attenzione della sua

ammirevole ed eclettica persona?

Dadrul fece il suo ingresso trionfale da una botola nel

soffitto.

Cadde a peso morto, fischiando, da un'altezza di circa

tredici metri su un cesto di vimini rozzamente intrecciato,

e qualcosa nelle menti dei presenti mutò.

Il saggio era in grado di leggere i pensieri degli altri. Si

insinuava come un serpente all'interno delle volute della

corteccia cerebrale e si metteva in ascolto. Era il mentore

di Radulfus da quando Bertulf, suo padre, era scomparso

in circostanze misteriose mentre si radeva le gambe con

una pietra pomice nella grande sauna del palazzo. Pochi

mesi dopo, quando fu certo che Bertulf non sarebbe più

tornato, Radulfus fu nominato re e il saggio Dadrul gli

consegnò in quell'occasione il caldo cristallo magico, ora

bersaglio dell'avidità di Kallikles, ingiungendogli di non

separarsene mai poiché quello, se mantenuto a stretto


contatto con l'epidermide regale, avrebbe assicurato

prosperità e gioia all'intero regno senza nemmeno lo

sforzo di dover intraprendere la minima attività legale o

giuridico-normativa nei confronti di chicchessia. Inoltre,

avrebbe tenuto sotto controllo da solo le variabili

macroeconomiche keynesiane, assicurando una crescita

costante del prodotto interno lordo, un alto tasso di

occupazione e un tasso di disoccupazione inferiore a

quello di qualsiasi altro Stato concorrente, senza con

questo soffocare il flusso di import-export.

Per essere sicuro di non interrompere mai la

congiunzione epidermica con l'amuleto, Radulfus aveva

fatto costruire il trono basculante, da cui non si separava

mai.

"Sarò vigile", dichiarò Radulfus con un filo di voce

dopo averci pensato a lungo. "Ordinerò alle mie guardie

di tenersi pronte a un mio cenno in caso di pericolo!".


Capitolo 2

Kallikles giocherellava nervosamente con l'anello a

forma di istrice che portava appeso alla narice mentre era

sdraiato su una panca nell'atrio; si chiedeva perché stesse

aspettando così a lungo. Le possenti porte d'ebano

ricoperte di bassorilievi di corallo erano presidiate da due

enormi guardie armate di pesanti alabarde il cui sguardo,

perso nel vuoto, suggeriva che sicuramente non erano

state addestrate a rimanere in piedi in quella posizione per

ore e che, se il re non si fosse deciso ad accogliere gli

ospiti, sarebbero crollate a terra per un calo di zuccheri,

gettando nel ridicolo l'intera guarnigione.

Una leggera brezza accarezzava le mura del castello,

portando con sé le stridule grida di alcuni uccellini dalle

piume iridescenti che svolazzavano allegramente nell'aria

limpida, ma in lontananza grandi nuvole nere cariche di


pioggia lasciavano intendere che presto sarebbe arrivato

un furioso temporale.

«Mio padrone,» sussurrò un servitore in abiti eleganti

all'orecchio di Kallikles, «le sculture di ghiaccio si stanno

sciogliendo e uno dei ballerini è fuggito dal gruppo

chiedendo asilo politico. Se Radulfus non ci fa entrare

subito, non garantisco più il successo dello spettacolo!»,

concluse sbuffando e arricciando il naso.

Kallikles non ebbe nemmeno il tempo di spezzargli

l’osso del collo che già i trombettieri del re annunciavano

l'apertura del portale, soffiando nelle squillanti trombe di

peltro. La carovana dell'Imperatore delle Lande Riarse si

riversò nella sala reale come un fiume in piena,

mantenendo però un rigoroso silenzio.

I danzatori ornati di piume si disposero uno accanto

all'altro vicino al grande braciere, facendo tintinnare i

campanelli di rame che avevano fissati alle dita dei piedi.

Le cento figlie di Kallikles, nascoste da spessi veli neri, si

accomodarono in fondo, vicino ai fermi cromati che

reggevano il pavimento. Immobili e silenti su una fila di

morbidi cuscini disposti in precedenza a questo scopo dai


robusti servitori eunuchi, i doni esposti venivano posati

qua e là in modo coreografico.

Radulfus osservava ora con attenzione i suoi cortigiani

che fremevano.

Dadrul, che si trovava alla sua destra e teneva in mano

una verga ingioiellata, gli si avvicinò preoccupato.

«Stanno tutti pensando a uno specchio d'acqua

tranquillo!» soffiò con voce grave Dadrul. «Non riesco a

percepire nessun altro pensiero, il che è strano».

Un rullo di tamburi interruppe la conversazione tra i

due e subito dopo la possente figura di Kallikles si stagliò

in controluce tra le porte aperte.

«Uno, dos, tres!" gridò l'imperatore da lontano. "Baila,

baila, Kallikles è qui!».

I danzatori iniziarono a pestare a ritmo serrato, con uno

stacco caratteristico sul terzo tempo, mentre le piume che

li ricoprivano frusciavano ritmicamente e i campanellini

ai piedi riempivano la sala di toni ramati. Abbandonando

lo schieramento, tra gridolini degni di furetti castrati e

salti volutamente maliziosi, i danzatori vorticano con un

movimento alternato tra centripeto e centrifugo,


preferendo però il secondo, fino a formare un quadrato

arrotondato dai bordi svasati e vibranti.

Kallikles, ancora in piedi al culmine della

concentrazione, tanto che un rivolo di sangue gli usciva

dalla narice destra, alzò le braccia di scatto mostrando le

ascelle cotonate e con una verticale di slancio unita e tesa

si tuffò in una capovolta in avanti seguita deliziosamente

da una ribaltata con ritorno tuffato e da una rovesciata

all’indietro.

Il ritmo era incessante e l'attenzione di tutti era

calamitata sull'Imperatore delle Lande Riarse che, dopo

un doppio enjambée da urlo e una ruota libera senza mani,

concludeva la sua esibizione con una rondata flic-flac da

lasciare estasiati anche i maestri di gara più esigenti. Il

tintinnio dei campanelli cessò e Radulfus, quasi

commosso da tanta bravura, stava per pronunciare un

discorso quando Dadrul si staccò dal suo fianco.

Con un'andatura solenne, il vecchio avanzò nel silenzio

degli astanti fino a portare la sua mirabile verga

ingioiellata a pochi decimetri dal corpo sudato di

Kallikles, che stava ancora riprendendo fiato respirando

come un mantice.


«Non mi aspettavo un frammezzo in due tempi, questo

te lo devo concedere", sibilò il saggio con tono

indispettito, "... ma nel volteggio, mio caro, facendo

passare prima le gambe e poi staccando le mani, seppur io

riconosca che si trattai di una primizia circense, mi hai

dimostrato che non sei quello che vuoi farci credere. Ti

credevo molto più intelligente, ma ti ho scoperto! Non c'è

solo una tranquilla pozza d'acqua nei tuoi pensieri!».

Kallikles fece un cenno di assenso e i danzatori

scomparvero nell'ombra, pigolando e tintinnando.

L'imperatore si presentò in tutta la sua magnificenza. I

riccioli d'oro, vergognosamente unti di olio di martora per

uso marinaresco, cadevano come una cascata impetuosa e

sudicia sulle spalle nude sadicamente istoriate con

tatuaggi di glifi e simboli superstiziosi. Una fascia

composta da stecche articolate di bronzo gli fasciava

l'addome massiccio, mentre delle calzebrache zebrate

facevano l’occhiolino da sotto i cosciali anch’essi

costituiti di lamelle dello stesso metallo. Ai piedi calzava

delle scarpe dalla forma arrotondata a "muso di bue",

impreziosite da corti speroni di madreperla.


Il petto villoso del padrone dei Quattro Deserti si

gonfiava con prepotenza, mentre il labbro superiore si

inarcava, lasciando scoperte zanne bianche e affilate.

Nell'aria c'era una tensione quasi elettrica e le cariche

elettrostatiche che vorticavano simpaticamente nella sala

del trono facevano sfrigolare i peli della schiena di

Radulfus.

«Avevi pensato che il venerabile Dadrul fosse così

sciocco da non aspettarsi nulla di più di una semplice

visita di cortesia da parte di un famigerato predone del

deserto?» ruggì il saggio, e con tono accusatorio aggiunse:

«Vuoi il cristallo, non è vero? Parla ora o taci per

sempre!».

«Non ho mai tollerato gli arroganti, tranne me stesso!»,

proclamò Kallikles con voce grave, mentre con un

inaspettato manrovescio imprimeva per sempre il marchio

del suo anello sulla guancia di Dadrul, che in risposta

sputò un paio di premolari.

«Imprigionate lo straniero!» gridò Radulfus a

squarciagola.

«Ormai è troppo tardi, pancione!», schernì Kallikles

con tale strafottenza che i danzatori, nascosti nell'ombra


del colonnato, fremettero di gioia, e un sommesso

scampanellio accompagnò lo sguardo gelido

dell'imperatore che diede ai suoi l'ordine di agire.

Le cento figure sedute vicino ai fermi cromati che

reggevano il pavimento della grande sala del trono, e che

fino a quel momento erano rimaste relativamente

immobili, si alzarono bruscamente, liberandosi dai pesanti

veli neri.

Sembrava che l'inferno stesso avesse dato vita a quelle

creature dai tratti orrendi.

«No, non può essere vero!» rantolò Radulfus,

rannicchiandosi tra le morbide pelli di coguaro. «Queste

non sono donne dalle tenere forme burrose, ma demoni

soldato assetati di sangue!».

Kallikles avrebbe voluto aggiungere, da buon sadico

qual era, una battuta di scherno per mortificare

ulteriormente il valoroso inventore del trono basculante,

quando la sua mascella si fermò a metà strada e il suo

campo visivo si riempì di odiosi puntini colorati. Una

risata idiota crebbe d'intensità nelle sue volute cerebrali,

facendolo vacillare. Anche i vili esseri che circondavano


la stanza si bloccarono, portandosi le mani alle orecchie o

quello che erano.

«Bello sganassone, ragazzo!» ringhiò Dadrul

stringendo tremante la verga ingioiellata «La tua mano è

stata più veloce del pensiero, ma come ti ho detto prima,

avevo già smascherato le tue intenzioni! Ora, guarda cosa

succede alle tue piccole creature!».

Uno dopo l'altro, i cento demoni soldato si

accasciarono a terra dolcemente, mentre l'odore di

cervella fritte aleggiava nella sala.

«Fermatevi!», gridò Garralda, l'ancella preferita del

sovrano. «Se torcerete anche solo un capello a Kallikles,

conficcherò nel ventre flaccido di Radulfus questo

pugnale intriso di intrugli velenosi di mia invenzione!».

Purtroppo Dadrul non si fermò.


Epilogo

Il cielo era cupo e le campane di Glodburg facevano

risuonare l'aria pungente, facendo sobbalzare le cicogne

che volavano in alto per evitare di raschiare il ventre sulle

cime aspre e innevate dell'imponente monte Strodmore.

Accoccolati davanti alle vivaci fiamme del camino,

sorseggiando le tazze di brodo di quelle cicogne che

avevano inavvertitamente sottovalutato le cime aguzze,

gli avventori della taverna "Il caldo abbraccio di

Gundigoot" chiacchieravano dolcemente seguendo la

danza delle ombre che serpeggiavano tra le travi fumose

del soffitto. Del tutto inaspettatamente, la porta della

taverna si spalancò e, girando vorticosamente sui suoi

cardini arrugginiti, andò a schiantarsi contro il muro

ammuffito, facendo cadere una pioggia di calcinacci sulla


sagoma sconvolta che irrompeva nella stanza a grandi

passi.

«Thymur, che maniere sono queste?», sbottò

arrabbiato il locandiere, «Quella porta d'acero e

quell'effetto di muffa sulle pareti mi sono costati una

fortuna!».

«Perdonami Gundigoot!» ribatté l'uomo. «Quello che

ho appena visto mi ha messo così tanta paura che non

vedevo l'ora di rintanarmi in un posto sicuro».

Gli avventori rimasero attoniti nei loro sudici abiti di

rafia.

Gundigoot si avvicinò zoppicando alla panca dove

Thymur si era accasciato, con stizza, porgendogli un

boccale di porridge fermentato.

Nel fitto silenzio della taverna si sentivano solo rutti

soffocati e scoregge sommesse.

Thymur si dissetò rumorosamente e poi si pulì con il

dorso della mano le chiazze di fiocchi d'avena che gli

inzuppavano la barba fulva.

«Stavo cavando le rape del mio giardino», disse

Thymur, «quando ho sentito un sussurro gelido profanare

il mio padiglione auricolare. Mi sono girato di scatto e mi


sono trovato di fronte una forma diafana con le sembianze

di mio cugino Gelther. Ragazzi, tutti sanno che ha avuto

un ictus! Nel luogo in cui hanno trovato il suo corpo, c'è

ancora gente che ride. Gelther, invece, era serissimo e mi

guardava con quegli occhi da maiale ectoplasmatico.

Siamo rimasti a lungo in silenzio e solo quando l'urina ha

smesso di scorrermi lungo la gamba gli ho chiesto con

voce tremante cosa volesse, quasi metabolizzando che

stavo guardando un fantasma».

Gundigoot spostò il peso dalla gamba di palissandro a

quella buona; non era mai stato un buon ascoltatore. Si era

già perso nella faccenda delle rape e ora non ricordava più

perché se ne stava lì invece di fare qualcosa. Fin da

bambino, aveva fatto fatica ad ascoltare oltre il "C'era una

volta..." delle storie che gli raccontava il nonno.

Approfittando della pausa, borbottò tra i denti non so

quale scusa e se ne andò canticchiando come se non fosse

successo nulla.

«Gelther alzò un braccio secco e fumoso», continuò

Thymur con gli occhi persi nel vuoto come se stesse

parlando a se stesso, «nel suo pugno nebuloso stringeva il

Cristallo Maledetto. Quello di Radulfus! L'aveva trovato


rovistando tra le rovine del fosso di Flecmore. Non potevo

crederci, ma il cristallo brillava proprio davanti a me. La

leggenda è così vera! Mio cugino mi diede il cristallo e

poi evaporò come nebbia mattutina».

«... e per fortuna!». Fu il coro di risposta che ottenne

dal suo pubblico improvvisato, che riprese a sorseggiare

il brodo freddo di cicogna, lasciandolo solo con le sue

paure.

Thymur non riusciva a capire il supremo disinteresse.

Aveva parlato di fantasmi, leggende e cristalli. Elementi

essenziali di ogni buon racconto fantasy. Le sue rape lo

stavano aspettando e fortunatamente, raccontando ciò che

aveva visto, aveva esorcizzato tutte le sue paure.

Mentre si alzava, però, ignorato da tutti, intuì che il

cristallo che aveva appeso al collo, sotto la ruvida tunica

di lana di capra, aveva già iniziato a elargire prosperità e

gioia all'intero regno senza nemmeno lo sforzo di dover

intraprendere la minima attività legale o giuridiconormativa

nei confronti di alcuno. Ed era felice.

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!