COME ALL'ORIGINE DELL'ARIA
Filippo Davoli, "Come all'origine dell'aria" (L'Arcolaio, 2010 - introduzione alla lettura di Lucia Tancredi, Gianfranco Fabbri, Andrea Ponso)
Filippo Davoli, "Come all'origine dell'aria" (L'Arcolaio, 2010 - introduzione alla lettura di Lucia Tancredi, Gianfranco Fabbri, Andrea Ponso)
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I CODICI DEL ‘900
Collana diretta da Gianfranco Fabbri
N. 7
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Filippo Davòli
Come all’origine dell’aria
Introduzioni alla lettura
di Lucia Tancredi, Gianfranco Fabbri e Andrea Ponso
L’arcolaio
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© 2009 Casa editrice L’arcolaio, di Gian Franco Fabbri
Via Ravegnana, 534 – 47100 Forlì
Tel. 0543-774519
Sito: www.editricelarcolaio.it
e-mail : info@editricelarcolaio.it
ISBN 978-88-95928-26-5
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*
Ci sono case dove tutto il mondo pare farsi terrazza. La casa
di Filippo, a Macerata, è spalancata sui tetti. Certe case hanno
dimestichezza coi cieli, coi venti di sud-est che strattonano
le tende, con gli uccelli e le loro gazzarre. In queste case
viene più spontaneo dare del tu al mondo.
Ali si muove come se vivesse da sempre in questa casa. Ali
è afghano.
Mi verrebbe da chiedergli se la sua terra è ancora quella che
lessi anni fa in un libro di Peter Levi – un gesuita di buona
reputazione: il deserto coi laghi salati pieni di schiuma, le
montagne del Nuristan da cui si estraggono lapislazzuli e rubini
balaschi, Jelalabad coi villaggi pastorali intorno come ai
tempi di Virgilio, o Kandahar e i minareti azzurri dove fanno
il nido le cicogne.
Vorrei che mi dicesse che questi non sono solo i nomi tristi,
defloranti dalla guerra.
Ali è arrivato in Italia sputato da una guerra insonne.
In casa, in questo momento, ci sono pure Es Haq e Amr,
egiziano. Tre ragazzi.
Filippo mi mostra le foto degli altri ragazzi, quelli che lui
chiama “figli”: Klajdi, Almarin, Ahmad, Gledon, Khaled,
Lamine, Mohamed… Parla senza infingimenti.
Filippo è un poeta e ai poeti, si sa, non si addicono i peccati.
Essere padre per Filippo è una maniera nuova e vertiginosa
di mettersi al mondo.
Penso con consolazione che forse è finita l’epoca dei padri
che devono sorvegliare la discendenza dagli occhi, dalla linea
del naso o dalla propensione per il vizio o per la matematica.
Forse è giusto che decadano i vecchi padri verticali come
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icone, quelli che lasciano ai figli i blasoni, le saghe, le patrie
vere o presunte.
Un tempo Dio aveva promesso ad Abramo una discendenza
pari a quella delle stelle del cielo, ed era una terra rugiadosa
di latte e miele.
Invece, lo ha costretto nei mancamenti dell’esodo per
giungere ad una terra scabra piena di sassi di luna. In quanto
alla discendenza, la Scrittura è piena di donne sterili che urlano
dalla loro matrice serrata. Che, quando mettono al
mondo dei figli, dopo aver crepato il cuore, sono quasi sempre
figli unigeniti. Dio aveva promesso ad Abramo la discendenza,
poi gli ordina di schiantare l’albero con la radice.
È da quel momento che è cominciata l’orfanezza del mondo,
forse.
Dal capo di Isacco bambino tenuto fermo sulla pietra, dai
suoi occhi assorti nel buio del respiro.
Oppure, da Abramo col coltello levato in aria che dice
“Hinneni”, “Eccomi”.
O dalla bugia detta sul fare dell’alba, quando Sara la madre
si raccomanda: “Bada al bambino, perché lui ed io è come se
fossimo un’anima sola” e Abramo il padre risponde: “Porto
mio figlio a conoscere Dio”…
È da questa storia scabrosa che la vicenda dei padri e dei
figli unici si è incagliata sul fondo?
Eppure Dio deve onorare la promessa: tanti figli quanto un
acquario di stelle.
Forse Filippo ha ascoltato la buona novella.
Un tempo anche lui è stato figlio di una generazione ossuta
e stenta. Ora è padre di molti figli. A cui ha assicurato, in un
mondo di terrachiusa, la sua casa come l’approdo, l’asciutto a
vista per ogni viandanza. Ma Filippo ha fatto di più. Ad
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ognuno dei figli ha insegnato la sua lingua, la sua bella lingua
italiana i cui suoni aperti sembrano risonanti come conchiglie.
A chi ha affilato la parlata del deserto scortecciandola di
consonanti, o ai giovani contadini d’Asia che parlano piano e
roco come i colombi.
Per questi figli che sono capitati in bocca all’Occidente, Filippo
ha fatto sentire loro il sapore della nuova lingua con la
quale debbono vivere. Chi conosce una lingua mette al mondo
il mondo.
“Se mi fai uscire dall’aula chiamo gli uccelli. / Fischio in un modo
che loro capiscono / e mi fanno volare”, sussurra Ni.
I figli di Filippo partiranno dalla casa sui tetti, è verso il
mondo che dovranno stendere le braccia al largo.
Come ogni padre, quando i suoi figli prenderanno il volo,
lui non potrà impedire lo schiaffo dell’aria.
Filippo sa, però, che se dovranno attraversare la notte incatramata
sentendosi gli intrusi del mondo, sentiranno dentro
le parole venire in bocca, come naufraghi sul labbro di una
riva:
“essere come il carpino / mentre cresce il meriggio abitato / dai moschetti
e dai passeri, / dal fondo della radice negli ariosi / fiocchi lungo
i pendagli / spiccando il volo breve primaverile.”
Le parole della notte metteranno al mondo il mondo e scuciranno
nel buio un taglio di chiaro.
Lucia Tancredi
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Gli incendi
C’è tuttavia una cosa, all’interno della cattedrale di Autun, che
non mi stanco mai di guardare. Un dettaglio, sperduto in cima a
una colonna. È uno specchio inciso nella pietra tenera: la statua,
grande quanto tre spanne, di San Giuseppe in contemplazione del
suo bambino appena nato. Sul volto scavato di stupore di
quest’uomo, scorgo la meraviglia della nascita, molto meglio che a
guardare il bambino stesso. (…) È dunque questa la paternità, è
dunque una cosa semplice e misteriosa come questa: porsi al servizio
di ciò che accade senza pretendere di esserne il padrone, essere
soltanto l’intermediario tra il bambino e l’invisibile.
(Christian Bobin)
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Nudo. E la nudità che ti distingue
dagli altri crocifissi della Terra
è il sublime ed altissimo vedere
di chi scolpendoti nel legno rinunciava
a ogni cosa di sé. Non hai nemmeno
ferite, solo silenzio
che copre la superficie liscia, opaca
di chi ascolta.
Sei nudo internamente, come la vita
che il mistero compatta
negli iniqui dolori, nei percorsi
labili della notte. Soltanto nudo
e totalmente altro.
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“Il mandorlo fioriva. Ed era solo
un virgulto piantato.
Davvero così tanto ero mancato
se le mie mani lo ricordavano ancora”.
(Klajdi)
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“Un anno fa sono partito da casa
e non posso chiamare se non ho soldi
da mandare a mia madre. Che le direi?
Ma non ci torno, non ci tornerò più
a salutare i miei monti – lei, che pensava
che in tutto il mondo si parlasse persiano”.
(Alì)
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“Ho saputo dagli altri che a casa tua
si sta bene, perché tu ci vuoi bene.
Posso venire anche io insieme agli altri
a farmi un poco volere bene da te?”.
(Edison)
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“In questa stanza metteremo mio padre
e mia madre. Litigheranno sempre,
e così saprò che nulla si è interrotto
da quando con mio fratello siamo partiti”.
(Almarin)
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“Ignoro come è morta la gallina
e se nel taglio vivo della carne
chi tagliava pregava. Io non la mangio.
Tu abbracciami, però. Sento mia madre
nella tua calma, come nella conchiglia
il mare.”
(Ahmed)
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Quando il vento si posa oltre la notte
e un canto si solleva lungo i fiumi
tra le erbe non accolte
che dal ciglio di pietra, nell’alveo
che conduce, diresti
che tutto ha un senso,
anche il dolore, anche la morte
che accarezza quel ciglio, che lacrima
nei silenzi del fuoco. E appare
il bagliore dell’alba,
fraternità delle zolle, medesimo
sguardo alla luce, al vero.
La carta allora
torna ad aprirsi, un’orma
traccia il camminamento.
Ci interpella uno stesso fluire
oltre sterpaglie basse.
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“Io una ragazza che ci prova lei
io non la voglio. Vorrei
trovare la medesima distanza
che taglia dentro e attende”.
(Arben)
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“Oggi mi chiamo Leo. Sono il più grande
calciatore esistente. Sono argentino.
E dopo Roushan il chiaro,
la luce e il vento – senti come suona
il riverbero scabro delle lettere?”
(Es Haq)
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“Con quale autorità li ha mandati
all’inferno, un poeta? Forse un po’ troppo
superbo, come se lui…”
(Daniel)
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“Sto bene con questi matti, zio.
E tu il più matto di tutti. E invece
mi porteranno via, pare mi aspetti
mia madre. Usciamo, zio.
Andiamo a vedere l’aria dai tetti.”
(Alime)
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“Per poco mi cavano l’occhio con una pietra.
Mi hanno cucito alla meglio, ma l’ho salvato.
Qui si sta bene, adesso (chissà che cosa
dice mia madre questa mattina ai miei fratelli).”
(Abdul)
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“Se stai con noi non scappo. In Albania
allenavo i ragazzi nell’oratorio.
Ma qui manca il rispetto
se mi tocca guardare dalle grate.
Perché se mi vuoi bene
non mi porti da te?”.
(Dritan)
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“Guardami che ora salto
e faccio un cerchio intero
senza toccare terra. Guardami adesso
che mi avvito. Tu guardami,
che dopo devo andare
e non potrò tornare a salutarti”.
(Fathien)
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Avrei voluto infilarti in uno schema,
cucirti di parole, renderti bello
per opera mia. Sentirmi intelligente
nel definirti. Mi sarebbe piaciuto
rendermi indipendente dal tuo Nome
oltre il pronunciamento. Sigillarti
in un concetto, in un pensiero aperto
che sembri dialogante.
La vita che non ha nulla di eccezionale
me la coltivo, dicevo, come un piccolo
orto discreto. Illuminazioni del dire
lo renderanno, ripetevo, unico.
Ma il tuo Nome ritorna in altri nomi
quando meno ti aspetto. Evocarti
è il tuo sangue che ancora circola in me.
Darti voce è incrociarti nelle cose.
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“La foto che mi hai scattato dove ci siamo
tutti e due, è bellissima. Ora la vogliono
tutti quanti, ma che se ne fanno?
Nella foto ci sono io, mica loro!”
(Lahzar)
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“Ancora no, non ho visto Venezia.
Non sta bene ci vada finché non trovo
un lavoro. Quando ci andrò voglio guardarla
come un innamorato che può proporsi.”
(Boubakar)
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“Se mio fratello mi vuole vado con lui.
Sennò in un altro spazio, da dove guardare
l’aria. Ma dopo torno, qui ho gli amici.
O magari non torno, non lo so.
Mi piace andare per il bello di andare”.
(Alban)
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“Devi insegnarmi l’inglese.
È a Londra che devo andare, qui mi trattengo
per volere di altri. Là c’è mia madre.
Ho scordato il mio nome: ora ne ho cinque
e cinque età. Mi dovranno mandare,
quando li avrò stancati con le bugie”.
(Farman)
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“Devo trovare un lavoro, sennò a diciott’anni
come farò per continuare a studiare?”
(Amin)
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La vita ci ruba ogni grazia
perché è una grazia rompere le omertà,
come il serpente nel cesto: poco importa
se fu illusorio il canto del pifferaio.
La grazia era tutta nello sporgersi.
L’anima – credo – sporge sull’acqua mossa
del primo mare. Gli occhi accecati la inseguono.
È come il remo – mi dico – che affonda
di taglio e poi riemerge, roteando
nello scalmo.
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“Ho sognato la fabbrica. Mi stavano
insegnando il lavoro. Ero vestito
bene, da primo giorno. Per ogni ultimo
giorno che adesso vivo,
la notte non dormo più”.
(Mohamed)
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“A noi ci ha cresciuti la vita.
E con il clarinetto mi faccio festa
quando vorrebbe abbandonarmi il cuore.
Quando sono venuto era per studiare.
La vita, sempre lei, mi ha cambiato la strada.
Ma il clarinetto viene sempre con me
e quando è scuro la colora di luce.”
(Florian)
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“Perché se ti chiamo padre tu dici zio?
Un maestro è mio padre, non è mio zio.”
(Asif)
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“Il lavoro mi piace, il paese di meno
ma è tranquillo. La sera esco da solo
e vi penso, mentre mi godo la passeggiata.
Ma è così la vita dei grandi, mi dice mio padre.
E allora, se sono grande è già molto, non pensi?”
(Alfred)
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“Quando sarai vecchio ti porterò con la macchina.
Tu mi hai insegnato Dante e la poesia,
i miei bambini ti vorranno un gran bene
Anch’io come Leopardi ho sofferto tanto
e sogno l’infinito. Ti porterò
al mare, che ti fa bene per le ossa.
E là ballerò per te un hip-hop scatenato:
tutte le ragazze mi guarderanno,
ma è con i versi che le stregherò.”
(Wei Wei)
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“Quando parli ai ragazzi mi apri il senso
anche della mia vita. A casa ripeto
ogni suono e mi piace. Penso che è bello
continuare nel sogno di ciò che dice
il mormorare della voce, il sussurro
della memoria che guarda.”
(Nii Adama)
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“Ti ricordi che giocavamo insieme
a pallavolo e vincevamo sempre?
La nostra forza era volerci bene,
ora lo so. Ora le mani mi salgono
su pareti durissime, per ore ed ore.
Ora che la tua schiena ti è divieto
a qualunque manovra. Ma il bene resiste.”
(Gledon)
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“Non dirmi grande. Grande sei tu.
Io piccolo.”
(Malik)
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“Vieni a vedermi domenica, che gioco?
Mi devi dire come metto i piedi
e se ti piace come faccio gol.
Io ho la testa nei piedi, me lo dicevano
che ero piccolo ancora.
Ma se l’allenatore mi fa giocare
divento grande subito.”
(Leonard)
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Ritornano dal calcio con i borsoni
grondanti. Pregano alta
la calata di casa, azzurrobianchi
sul nero luccicante della pelle.
E un sorriso che abbaglia
quando all’amico scorto di lontano
porgono un cenno.
Il traffico li lambisce come un vento
leggero, ne asciuga la pena.
Vorrebbero
essere come il carpino
mentre cresce il meriggio abitato
dai moschetti e dai passeri,
dal fondo della radice negli ariosi
fiocchi lungo i pendagli
spiccando il volo breve primaverile.
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“Chiamo mia madre per sentirne la voce.
Basta mi dica pronto e riattacco.
La sua voce mi accarezza, la vedo”.
(Mostafa)
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“Io non mangio mentre mia madre muore.
E muore perché non mangia, laggiù”
(Modou)
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“Quando sono arrivato leggevo molto.
Mi piacevano i libri. Clandestino,
restavo giornate intere chiuso dentro
a rosicchiare tra i topi le mie pagine.
Poi sono stato male, per morire.
In ospedale mi hanno ridato il nome
e il fiato per lavorare, ma ora
che ho il documento in regola, sono tornato
in Africa. Ci sono cose che non si possono
spiegare: l’aria, la luce…”
(Guilou)
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“E tu pensi che basti una distanza
per quanto grande a cancellare il bene?
Da oggi, dentro l’Africa vedo anche te.”
(Thierno)
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“Non seguo, non capisco. Che vengo a fare
a scuola? Vediamoci fuori. Parliamo di noi.”
(Abass)
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“Vedi? La sigaretta che fumiamo
qui che c’è freddo ma noi stiamo dritti
e fermi, il fumo ci tocca gli occhi
e ci teniamo il male che devasta.
E questa è dignità. Ma ci fa bene
fumarcela un po’ insieme, perché soli
non si riesce a volte.”
(Akrem)
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“Una manciata di molliche per i piccioni.
Ai più infelici e timidi
ne lanci di proposito, ma volano
come proiettili il pane, come una caccia
a trappola, non afferrano nulla,
né il pane né la premura.
Così il tuo gesto manca molti di noi.”
(Aziz)
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I miei figli arroccati sul pennone
miracolo di un sogno ad occhi aperti
giù per il gorgo delle cupe, oppure
la distesa azzurrissima del grano
che ogni vento scompiglia, ma restando
aggrappati alle mura, in cima al cuore
che naviga il suo sogno. Tornare dentro
l’agitazione cosmica del microbo
che tocca nel suo minimo cammino
le molle universali, che scombina
gli ingranaggi del mondo.
È questo il meccanismo del randagio.
La notte chiede di essere percorsa
a piedi, con il corpo, dentro uno spazio.
La casa come l’auto
è un rimedio ingannevole che priva
del piacere di perdersi, guardando
con la testa all’insù, di lasciarsi
abbracciare dal freddo e dal caldo,
di ragionare a voce alta di tutt’altro
rispetto a quello che si congettura
quando il corpo è al sicuro.
Assassino il mestiere: la corteccia
entro cui muovermi senza molto rischio.
Guardo il ricordo
farsi mio memorabile nella luce
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e sforo nella bella lontananza
che è ricongiungimento.
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**
“ Tu che sai” è la sezione di questo libro di Filippo Davòli
che forse meglio rappresenta le dinamiche esistenziali più intime
del suo essere. Pare che egli, all’interno di questo prospetto,
abbia sentito il bisogno di incontrare l’oggetto del Segreto
della propria esistenza, ovvero la donna che lo dette
alla luce e che, per ragioni indipendenti della sua volontà, fu
costretta a lasciarlo in cura all’ente ospedaliero in cui lo partorì.
Successivamente un’altra donna lo crebbe e lo condusse all’età
adulta, proprio come avrebbe fatto la prima, poi scomparsa
nel Nulla. Nel tentativo (riuscito) di farsi capire soprattutto
a sé stesso, Filippo ha posto in capo alla raccolta un
verso di un suo maestro, Piero Bigongiari, il quale afferma
che: “L’amore è un istante che non passa”. Subito dopo, il Nostro
s’affida al proprio estro e mette in corsivo un testo che entra
di diritto nelle radici fonde: “…il cuore non è / l’ombra… //
…È piuttosto parola / (l’occhio apre la luce, dentro / scopre una
malìa inattesa, la conduce per nebbie e profezie”. Ecco: sommando
le due differenti affermazioni ne ricaviamo la mirabile essenza
cardiaca, ovvero: il cuore è fulmineo ed eterno (e quindi
innominabile, perché letale al nostro sistema emotivo), ma
nel contempo è pure “fola” e non “logos” (“direzione di luce”,
non “definizione di luce”).
Il testo di pagina 60 ci appare come la prima, vera dichiarazione
del poeta fatta alla madre. Siamo così di fronte a un
vocativo forte, “estensivo” (in definitiva, lui chiama la genitrice
biologica, oppure quella adottiva?). Neanche l’autore
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può sapere tanto. Il canto emesso conferisce alle due figure
femminili una sacralità che ha del tremendo, nell’accezione
positiva dell’indicibile. Si percorrono così varie dizioni, procedendo
innanzi nella lettura. Pare quasi che Filippo si conchiuda
in una specie di altalena interpretativa. Ora si rivolge
alla madre con versi come questi: “Madre, mia prima ed ultima
sorella / cui forse ritornerò da polvere schiusa …”, ora invece accoglie
in sé riverberi della mamma di tutti i giorni - della guida
sicura -. Nel primo caso, egli dà l’idea di reimpostare una nascita
al contrario - caratterizzata dall’entrata nel covo uterino,
in attesa del Giudizio Universale -, mentre nel secondo, invece,
privilegia il favore degli abbracci e della fonte giornaliera
di cibo nutriente.
Se le due figure femminili si confondono e si miscelano in
una idea totale di maternità, il Figlio conferisce alla sua doppia
natura filiale un canto urgente, ultimativo: “(era il vuoto a
crearti, a crearmi per te. / Ti inventavo purché tu non apparissi. / Il
desiderio era il gorgo dell’assenza. /Coltivavo così la nostra morte.)”.
A pagina 64 inizia il rocambolare della fola, ovvero lo scalpitìo
della semplice narrazione che conduce al mito e non al
logos. (“Ti ricordava ancora la puerpera / che si ricorda di me quando
dormivo / nelle tue sacche incolumi / …”; e che sembra alludere
all’atmosfera dei versetti dell’Antico Testamento, là dove
si scrive dell’abbandono del piccolo Mosè nella cesta sul fiume.
Il giorno in cui la Madre invia la creatura in direzione
della Mamma. Sicché poi, adulto, il nostro poeta avrà modo
di rammentare la prima figura di donna con le seguenti parole:
“Mi avevi conservato nel silenzio / per paura di loro – e quanto
avevi ragione, se al mio dunque si levarono / indifferenti del tuo cuore
di madre // … // Ma il nome che salvarono è il mio sangue / che
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vive ancora. È il tuo segreto assillo / che viene per parola a dirti grazie.//”
Davòli passa così da una invocazione rivolta alla madre a
un’altra invece, tutta dedicata alla mamma. Il poeta può solo
chiamare le due figure attraverso la preghiera; del resto non
può fare altrimenti, dal momento che le sacralità delle due
genitrici potrebbero annientarlo. Filippo ricorre allora alla
perfetta ambiguità letteraria, tanto essenziale in poesia, e scosta
la significanza del livello di cruda verità verso l’allusione,
necessaria a svelenire la eccezionale compattezza della parola.
Un uomo, dunque. Un uomo, prima del poeta, ci appare
del tutto inteso a percorrere la linea entro cui scorgere i due
pianeti fiammeggianti che, giorno dopo giorno, sollecitano al
meglio la tenera condizione umana di questo figlio duale.
Gianfranco Fabbri
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Tu che sai
L’amore è un istante che non passa.
(Piero Bigongiari)
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Perché il cuore non è
l’ombra che si distende nel vento.
È piuttosto parola
(l’occhio apre la luce, dentro
scopre una malia inattesa, la conduce
per nebbie e profezie,
voce, destini).
Non temere, vorrei dirti.
Non avere paura del tuo sentire,
ora che il freddo sembra spegnere il fiato
e il silenzio non preludere ad altro
che a una sciagura.
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Il groviglio dei secoli come in un pugno
teso alla terra. Sì, è di terra la voce
dell’angelo incarnato, che dal gorgo
con le mani levate, agitando l’azzurro
come una bandiera di carne e di croce
spera e barcolla. Non cogli,
occhio che ascolti da una medesima terra,
che quella voce è la tua?
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TRE CARTOLINE
1.
Escono la domenica mattina
con le fiammanti utilitarie
e un’andatura di accompagno,
quasi fermi nel sole invernale.
I contadini solidi nel riposo
col cappello che rade la cappotta
sorridendo bruniti
al ciglio deserto della carreggiata,
frenando nelle discese, rallentando
al ticchettio dei contagiri. Vanno
ad una passeggiata con la macchina.
Sono piceni assennati, porosi
nel tratto bianco delle residue mulattiere.
Le donne hanno il vestito buono fiorato,
l’oro di casa le orna come madonne
e le bambine portano le orecchine
con il pendaglio, e un filo di smalto
e le trecce imbrigliate nei fermagli.
Ostentano con garbo un italiano
che l’assedio dei simili tritura.
I fumatori arrochiti parlano basso,
pasteggiano le parole con sobrietà.
Le vecchie si salutano per strada
sollevando la testa e le mani,
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beate nel cappotto coi bottoni grandi
e il collo di finto pelo. Vanno alla messa
dolci nel passolento della lucidità.
2.
Quieti palazzi della periferia
che vi ergete a baluardo contro i monti,
che difendete le disperazioni
di chi vi abita. Quieti palazzi domenicali,
dove le donne che piangono
tacciono nel segreto di passi leggeri
trascorsi al fuoco basso della tenacia,
al giusto della pazienza.
Quieti palazzi della periferia
dove i figli sonnecchiano aspettando
di sentire i rumori di cucina
coltivando il riposo
e una luce radente veste i letti
prima dell’abbandono. Adusti salgono
i giovanetti come la mattina.
Fingono nelle loro sicurezze
di non sapere quello che conoscono
nel fondo dei loro muscoli. Guardano
il giorno con apparente tranquillità,
appesi al filo fragile dell’infanzia.
Quieti palazzi indenni
alle usure del sentimento, alle ubbie
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dei cani, al graffio ripido dei gatti,
che resistete immobili alle tempeste,
nell’antica saggezza del sopravvivere.
3.
Nelle pozze la pioggia si fa acqua.
Specchio di perla che partorisce il mondo
e simulacro limpido di insetti.
L’aria punge assordante le pupille,
snerva la vista un ritorno di luce.
Dentro il verde dei platani lontani
s’azzitta la città, vanno i bambini
a stuzzicare l’acqua e la vita.
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Il paese di mia madre ha gli occhi larghi
verdi d’erba e di mare, e il naso d’aquila.
Il paese di mia madre ha i capelli neri
liberi dentro il vento, ma una lacrima breve
chiusa nella memoria.
Il paese la copre fino al tramonto
poi la lascia vibrare nel suo sogno,
disperdersi nelle contrade della campagna.
Il paese di mia madre è svanito con me.
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Ai giardini, sull’orlo del laghetto dove il sole si specchia
tra le erbe morte – foglie che il sabbione racimola
tra gli scarti del bordo, e che non ingoia, lasciandole
come viluppi irrisolti a ondeggiare nella piatta melmosa,
agitate da poca aria o smosse per gioco da una barchetta
di carta, soffiata dai bambini…
qualche fitta mi toglie il respiro,
mi morde seduto tra i vecchi a riflettermi.
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Madre, mia prima ed ultima sorella
cui forse ritornerò da polvere schiusa,
se leggi certo capirai chi sono.
Da tanti giorni nei giorni non ti penso
se non nelle preghiere.
Madre, fosti un tumulto
che sprofondava l’anima in delirio.
Poi ritornò la pace, ed eri e sei
la sorella segreta che mi volle
e questo di sicuro non è poco.
Sei il sangue che si ammala, sei le ossa
che cedono all’usura anticipata.
Sei gli atomi degli occhi, che sono tuoi.
E in tutto questo che tocco mi manchi.
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Rincorrerti nelle giunture, perché sei viva
e l’ansia di portarti è di non poterti
portare come una stigmata, l’uomo
che in me scantona e vuole nascere, il figlio
che per sempre ti resterò.
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(nell’incubo dell’infanzia galleggiavo.
Anna Maria, ribattezzata in fretta
dalle premure che ho chiamato mamma.
Ma il tuo nome era il mio, tuo testamento
per me grumo disperso in mano a Dio
erano le parole che mi insegnarono
per sanare il tuo vuoto senza rancori.
Io non volevo andarmene da qui,
non ti avrei mai riconosciuta se non come
la sagoma del vecchio che saliva
di giorno alla finestra
e minacciava di portarmi via.
Un muratore ignaro che giocava
forse con un bambino, che ignorava
la crudeltà del gioco.)
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(era il vuoto a crearti, a crearmi per te.
Ti inventavo purché tu non apparissi.
Il desiderio era il gorgo dell’assenza.
Coltivavo così la nostra morte.)
70
Ti ricordava ancora la puerpera
che si ricorda di me quando dormivo
nelle tue sacche incolumi. Scoprivo
la bella tenerezza di chi cerca.
Parlava di una donna innamorata,
giovane bella e sola, maltrattata
da una madre assillata dal buon nome.
Mi avevi conservato nel silenzio
per paura di loro – e quanto avevi
ragione, se al mio dunque si levarono
indifferenti del tuo cuore di madre.
Ma il nome che salvarono è il mio sangue
che vive ancora. È il tuo segreto assillo
che viene per parola a dirti grazie.
71
Se ti incontro tutti i giorni non so
se magari ti sfioro e ti saluto
e se tu non lo sai che c’è di più.
Non lo so, non lo sai, forse sospetti
oppure no un volto familiare
sperso nel mondo ed invece l’hai qui.
O forse così lontana, così altra
soltanto altrove ti conoscerò. Guarderemo
distrattamente il ticchettìo degli astri
e farsi strada la luce, la comprensione
del sangue, ma come in un fiume
sovrumano di tenerissime solitudini.
72
Non ti ho potuta cogliere, ti sperde
una congiura umana di decreti
e forse un’altra vita, un’altra piena
d’acque libere ormai da giorni inquieti.
Ho smesso di cercarti quando l’angelo
a cui ho dato da sempre il tuo affettuoso
nome insostituibile, ha intrapreso
la discesa dei giorni, fino a spegnersi
dopo un Natale in cui non c’era il mondo.
Sono già dodici anni, tra poco.
Uno strappo feroce che ha graffiato
l’unico specchio della mia esistenza,
quello del cuore. Ma il mio volto ha il tuo nome.
Così il pensiero ti tocca a ogni risveglio
e non ti ha più lasciato. Ti sorride.
73
Ora riemersa
come per un incanto dai ricordi
di un mio vecchio dottore che sapeva,
tutto si scioglie facilmente, appari
nella tua concretezza. Ora posso
volerti bene anche se non vuoi.
74
Ci sono sospiri che non qualcuno non coglie.
Io li vedevo, ed erano raffiche.
Piombavano nei miei occhi sospesi.
E c’ero dentro, fino a tutta la vita.
Ma nulla è nuovo, è un mare antico come la storia.
Per esso si naviga insieme alcuni tratti
poi le onde sospingono altrove:
tutto, salendo verso l’orizzonte
cambia nome. Poi torna.
Lì comincia l’amore.
75
Quanto abbiamo parlato, noi due
quando ti accoccolavi su un fianco
e mi dicevi di non avere paura
mentre l’avevi tu. Non volesti guardarmi
per paura di amarmi (e di morirne)
vorrei tenerti in me come tu allora.
76
Come vorrei che fossi tu
l’orma che spariglia la rena
e si apre un varco tra i muschi
tu la carezza pulita dei giorni
tu la salinità.
Nelle mani come colombe
inquiete e falangi di ferro
la tua bocca è un giaciglio di sonni.
Sono parole le pietre di casa
un albero colmo di rosso e del verde
dei ramarri assetati (perlustri l’aria
con la tua lente,
sezioni il cuore)
Fossi tu veramente
fossi davvero tu.
77
La mia attesa di te è dilatazione
del frammento superstite del cuore.
Nello slargo improvviso cede il margine
si assottiglia la difesa, si apre il cosmo
attraverso le minuzie del guardare.
Piccole cose, delicati spaventi
e come una certezza segreta
che viola l’incubo, che riempie l’incavo
e dentro la terra bruna trova riposo.
78
È come una febbricola a interrogarmi:
passeranno altri dieci anni prima di giungere
davanti a lei? E come parrà il suo stupore,
non avendo più vita da percorrere
o poca, giusto il tempo di accomiatarsi.
Le vorrei sorridere, sia pure con la mano
dalle più fonde distanze. Sapesse però che sono io.
79
(Il viaggio – mai l’avremmo creduto –
ora ci sorveglia da un estremo di luce.)
80
Portami il canto lieve della luce –
una traccia, un sigillo, un’opportuna
calma. Rendimi, tu che sai…
81
82
***
“Eppure amo la mia pesantezza / dentro la quale si dischiude il mondo”
Filippo Davoli
“Vorrei che queste non fossero parole / ma un piccolo testamento
del volere”.
La parola “testamento” si presta a diverse interpretazioni,
soprattutto, qui, trattandosi di asserzione poetica. È sicuramente
un testamento particolare: non dimentichiamo che
“Testamento” è anche la traduzione poco precisa, a dire il
vero, delle Scritture; potremmo quindi leggere questi testi
come appunto testamento e evangelo, annuncio, lieta novella,
amore sconfinato per la vita, per l’incarnazione - e non certo
come abbandono o via di fuga e di rinuncia. Si tratterà di
vedere cosa possiamo dire di questo, in che modo vi possiamo
entrare ed essere accolti. Proviamo a formulare alcune
riflessioni in merito, senza nessuna pretesa di completezza o
di sistematicità – caratteristiche, queste ultime, che rischiano
sempre di far morire quell’aria che soffia tra i vuoti della
scrittura e che appunto la tiene in vita, come nella dinamica
tra torah scritta e torah orale della tradizione ebraica.
Leggere e praticare la vita secondo la dinamica del-l’evangelo
è già redenzione; non nel senso di un mondo pacificato e
privo di contrasti, che schiva il dolore e il male, ma nel senso
di una redenzione ad un tempo conclusa e imminente, già e
non ancora, che lascia aperto uno spiraglio, sempre, e non solo
per speranza ma – attraverso questo pungolo a volte difficile
e a cui non siamo più abituati della speranza stessa – verso
una pratica dell’esistenza che non si chiude nei suoi doni, nei
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suoi possessi e possedimenti, ma che si apre, anche dolorosamente,
al mistero tremendo e dolcissimo dell’altro e
dell’Altro: qui, oggi, ora. In questo preciso momento, che
poi non è altro che il presente stesso della scrittura e della
vita nel suo insieme stratificato e leggero, profondissimo e
lieve, tragico e gioioso, oscuro e accecante. Come ha scritto
Kant a proposito dell’analogia fidei, che essa non significa affatto
una similarità imperfetta di due cose, ma una perfetta
similarità di relazione tra due cose del tutto differenti, così
dovrebbe essere ogni relazione con l’alterità, con il suo dono
e la sua concretezza anche quotidiana.
Il lato liberante del dono non è quindi mai, nemmeno per il
dono della parola (che viene dato a chi scrive da un altro per
altri, come lo stesso annuncio evangelico e la stessa figura di
Cristo) il possesso del dono stesso, la cancellazione della sua
integrale alterità, quanto piuttosto ciò che nel dono “lega”,
crea una relazione, un essere con, una circolazione di energia,
di ascolto e di gesti concretissimi. Il dono ricevuto della
stessa scrittura, come quello delle Scritture e della Parola di
Dio non può essere mai bloccato, reso letterale: esso deve
camminare sulle vie del mondo, deve incontrare l’altro in
quanto altro, e solo in questo incontro sprigionare la sua forza;
queste scritture, non a caso mi pare, come la Scrittura
stessa del canone biblico, tendono all’anonimato: niente a
che vedere con le teorie moderne e postmoderne della scomparsa
dell’autore – qui, piuttosto, si invoca con forza la comparsa
dell’altro, la sua collaborazione ermeneutica e di vita,
che non è la stessa cosa! Come ricordava Mark Twain, infatti,
il rischio, dal punto di vista del rapporto con la scrittura e
le Scritture, è sempre quello di fare un elogio funebre a un
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vivente: l’elogio può essere certo fedele e appropriato, ma
sarà sempre disgraziatamente prematuro!
In questa modalità di vita e di scrittura, allora, si è sempre
in questo dolcissimo paradosso di anticipazione e incarnazione,
di profezia (nel senso concretissimo che il termine ha
nella tradizione biblica) e rispetto del passato, del dato, del
dono e del peso della stessa tradizione (sia essa poetica, teologica,
memoriale ecc.): “Vorrei giungere là / con lo sguardo
già là da tempo immemore”, senza “separazione dall’altro”,
certamente, ma proprio in virtù di un amore per il “basso”,
per il vivente, per la quotidiana, minuscola e grandissima esistenza
di tutti i giorni, feriale, silenziosa.
Filippo abita in un palazzo in centro, al terzo o quarto piano,
se non sbaglio: c’è molto silenzio, si sente il vento e si
vedono d’inverno le montagne imbiancate di neve; mi raccontava
che spesso, anni fa, scendeva a dormire in macchina
per il troppo silenzio, per sentirsi vicino ai rumori della vita;
tuttavia, quella casa in alto non è inaccessibile: ci si arriva facilmente,
e la porta è sempre aperta, a tutte le ore; vi si sentono
le voci sciamanti degli ospiti, degli amici, di chi è di
passaggio, lingue e dialetti diversi, intonazioni, cadenze musicali
o sguaiatamente vive, risate grasse e discorsi al limite
dell’indicibile. Ecco, anche la struttura della lingua poetica di
Davòli potrebbe essere paragonata a tutto questo: è un codice
che rischia fino in fondo la sua semplicità, che poi altro
non è che complicità e vicinanza con il lettore, qualunque esso
sia, una lingua che si fa accogliente per dare davvero voce
agli altri, non solo metaforicamente ma nella pratica - eppure
è allo stesso tempo una lingua classicamente limpida, alta,
come se ne sentono poche, che non si richiude nei forzieri
del mestiere, che ricorda la migliore tradizione italiana senza
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l’attaccamento alla divisione tra alto e basso, e senza nemmeno
certi giochetti sterili e del tutto intellettualistici di avvicinamento
alle lingue dei mass media ecc.
Lo so, il paragone è forse troppo grande, quasi blasfemo,
ma potremmo pensare che la lingua della poesia dovrebbe
essere qualcosa di simile al far parlare il silenzio di Cristo di
fronte allo scherno di chi stava sotto la croce e gli ingiungeva
di salvare se stesso, di scendere dal legno: infatti, quel silenzio
non è il silenzio dell’alto e del distacco dal mondo; non è
la presunzione di avere già in tasca la gloria e il regno, quanto
piuttosto un atto di amore smisurato per la terra, per
l’esserci fino in fondo; Dio, in Cristo, in qualche modo, si
libera da Dio stesso, si libera della sua libertà e della sua imperturbabilità,
mostra una vicinanza concreta e ad un tempo
senza confini, non si stacca dal legno, apre le braccia… e nel
momento dell’ultimo respiro, nel momento di massimo dolore
e distacco, dove l’urlo è quasi disumano, non a caso recita
il famoso versetto del salmo. In questo urlo lacerante indistinguibile
da questa “citazione” canonica dalle Scritture si
mostra tutto quello che potrebbe essere la preghiera – e la
stessa poesia: carne e parola, sentire e ascoltare – tanto che
Cristo stesso, nel citare la Scrittura non si mostra come absoluto
ma piuttosto legato in maniera filiale al Padre, alla comunità
che si incontra e si interroga incessantemente attorno
alla Parola e alla sua saggezza e tradizione, in una relazione
che è l’unica ontologia possibile e viva: carità e compassione
come fondamento della verità – e non viceversa. È una sequela
impossibile per noi. Infatti anch’essa, come tutto il resto,
non può essere che un dono.
Andrea Ponso
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Figure senza erbario
Radici che non dissero inutilmente
(Giampiero Neri)
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È un mattino odoroso. La luce cala
come un manto sottile, alza le fibre
ricomposte dei campi.
È un mattino di bel silenzio. L’aria accarezza
fresca le mani strette sulla ringhiera
e lo sguardo che fugge. La solitudine
ha bisogno di un canto sussurrato.
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Dall’abisso sale la luce
di una terra minuscola
la Parola è una vastità di chiarori
nel farsi dell’aria,
per quelle scure cavità di vita
dove le ore si rivelano al loro doppio
e brillano sommerse in un loro fulgore
segreto.
Come all’origine dell’aria.
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Vorrei che queste non fossero parole
ma un piccolo testamento del volere.
Non però assimilabile a un lasciarsi andare,
quanto piuttosto una più piena coscienza.
Come la rondine che sigilla il lascito
in un volo infinibile.
91
Vorrei lasciare il mondo come la mano
che sfiora lieve la tastiera del pianoforte
e non perde respiro nel portamento
di legatura in legatura
e stacca quasi impercettibilmente
i grappoli di note.
Le dita sanno cosa detta il cuore.
92
Vorrei scivolare dentro l’acqua come un mistero
complice di chi vede e di chi sa,
tornare a quel primo giorno innocente
privo di scorie, senza memoria di altro
che dell’amore. Un amore schiodato.
Io sola carne vestita di luce
che sorrido al mio corpo.
93
Vorrei che almeno nel finale
si percepisse il senso dell’azzurro
come quando la tela delle nubi
si dirada e soccombe alla luce.
Ma non vi fu separazione dall’alto
nel profondo dei giorni.
In essi sempre un barlume
di significanza, la percezione
di come le cose si fanno compagne
oltre il rumore delle voci.
Vorrei giungere là
con lo sguardo già là da tempo immemore.
94
Vorrei che le parole che dicemmo
e che scrivemmo sparissero nel fuoco,
arse dentro l’amore.
Trasfigurati anche i volti, fatti cellule
della mia stessa pelle.
Il respiro di ognuno mi corre nel sangue,
ogni momento avverto che ritornano.
Aprimi all’eternità già da questo
preciso battito. In esso mi accompagna
la cecità visionaria dell’ascolto.
95
Vorrei lasciare un segno di rimando
all’ora della nascita. Significare
non altro che un pulviscolo su cui
la luce imprime un nome.
Eppure amo la mia pesantezza
dentro la quale si dischiude il mondo.
Particelle amorose nel mosaico
fibroso degli incontri.
96
Vorrei un destino di parola innamorata
che non si sazia di sé. Guarderei fedelmente
come mia stessa sposa chi sarò
e chi sono, chi ero. Vorrei
vibrare nel Corpo arioso
di un’infinita gratitudine.
97
Vorrei giungere fino a lui, lasciarmi
sedurre fino agli atomi da lui.
Mi inchioda stretto a un dolore amoroso
quando mi tocca e fugge ed io precipito
ad occhi aperti, afferrato su me.
Eppure lui mi circonda di tenerezza
e le sue orme le vedo ancora, lo riconosco
perché la sua è una voce che non si dimentica
e il suo respiro batte caldo al corpo.
Vorrei carpirlo, ma non è questo. È invece
chiudermi gli occhi e aprirmi alla luce
inesausta del suo volo.
98
Vorrei che si capisse che è per grazia.
La pagina fu tramite fiorito
del respiro e non altro. Solamente
nell’alone del transito si illuminava.
Oltre e durante ci segnava un vento
che leviga le pietre, un’acqua dolce
che dà forma alle cose.
Io lo dicevo come il dito indica.
99
Vorrei dunque sparire lievemente
pur continuando a vivere. Restarmene
nel dono dei segreti quotidiani,
dove tutto significa.
100
In me resisterà come un sigillo
di luce. Se restando rivedrò
occhi di terra io nel mio sogno incolumi
li veglierò. Come un dono
vorrei…
101
Non sapevo
delle fessure che concede il legno
(l’aria vi penetrava per spifferi
insospettati).
Non sapevo che le parole
giocano sulla carta come bambine.
Il pianto copriva le zolle,
i fiori brillavano dietro la porta.
102
Nota dell’autore
Alcune poesie della seconda sezione, decrittate – per così dire
– rispetto alla precedente stesura, sono già apparse in Una
bellissima storia (Grottammare, Stamperia dell’arancio, 2000) e
14 solitari (in 7 poeti del Premio Montale, Milano, Crocetti,
2002); le plaquettes Figure senza erbario (Venezia, La Spina
Editrice, 2005) e Gli incendi (Forlì, L’Arcolaio, 2008) hanno
an-ch’esse subito qualche aggiustamento. Tralascio qui di indicare
le varianti, ritenendo la presente versione definitiva e
il libro, così composto, finalmente compiuto.
103
104
INDICE
Pagina 9 Introduzione di Lucia Tancredi
11 GLI INCENDI
13 Nudo.. E la nudità che ti distingue
14 Klajdi
15 Alì
16 Edison
17 Almarin
18 Ahmed
19 Quando il vento si posa oltre la notte
20 Arben
21 Es Haq
22 Daniel
23 Lim
24 Abdul
25 Dritan
26 Fathien
27 Avrei voluto infilarti in uno schema
28 Lahzar
29 Boubakar
30 Alban
31 Daoud
32 Amin
33 La vita ci ruba ogni grazie
34 Mohamed
35 Florian
36 Asif
105
37 Alfred
38 Wei Wei
39 Nii Adama
40 Gledon
41 Malik
42 Leonard
43 Ritornano dal calcio con i borsoni
44 Mostafa
45 Modon
46 Guilou
47 Thierno
48 Abass
49 Akrem
50 Aziz
51 I miei figli arroccati sul pennone
53 Introduzione di Gianfranco Fabbri
57 TU CHE SAI
59 Perché il cuore non è
61 Il groviglio dei secoli come in un pugno
62 Tre cartoline
65 Il paese di mia madre ha gli occhi larghi
66 Ai giardini, sull’orlo del laghetto…
67 Madre, mia prima ed ultima sorella
68 Rincorrerti nelle giunture…
69 (nell’incubo dell’infanzia galleggiavo…
70 (era il vuoto a crearti, a crearmi per te …
71 Ti ricordava ancora la puerpera
72 Se ti incontro tutti i giorni non so
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73 Non ti ho potuta cogliere, ti sperde
74 Ora riemersa
75 Ci sono sospiri…
76 Quanto abbiamo parlato, noi due
77 Come vorrei che fossi tu
78 La mia attesa di te è dilatazione
79 È come una febbricola a interrogarmi
80 (Il viaggio – mai l’avemmo creduto –
81 Portami il canto lieve della luce
83 Introduzione di Andrea Ponso
87 FIGURE SENZA ERBARIO
89 È un mattino odoroso. La luce cala
90 Dall’abisso sale la luce
91 Vorrei che queste non fossero parole
92 Vorrei lasciare il mondo come la mano
93 Vorrei scivolare dentro l’acqua…
94 Vorrei che almeno nel finale
95 Vorrei che le parole che dicemmo
96 Vorrei lasciare un segno di rimando
97 Vorrei un destino di parola innamorata
98 Vorrei giungere fino a lui, lasciarmi
99 Vorrei che si capisse che è per grazia
100 Vorrei dunque sparire lievemente
101 In me resisterà come un sigillo
102 Non sapevo
103 Nota dell’autore
107
108
Libri già pubblicati nella collana “I codici del ‘900”
Mauro Germani
Gianluca D’Andrea
Fabio Michieli
Giovanni Nuscis
Enrico De Lea
Roberto Cogo
Filippo Davòli
Livorno
Canzoniere I
Dire
La parola data
Ruderi del Tauro
Io cane
Come all’origine dell’aria
109
110
Finito di stampare da
Digital Print s.r.l., Segrate (Mi),
nel mese di Dicembre 2009
per conto della casa editrice
L’arcolaio, di Gian Franco Fabbri
111
INDICE
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