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ALLA LUCE DELLA LUCE

Filippo Davoli, "Alla luce della luce" (Nuova Compagnia Editrice, 1996 - introduzione di Franco Loi).

Filippo Davoli, "Alla luce della luce" (Nuova Compagnia Editrice, 1996 - introduzione di Franco Loi).

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Poi, a un tratto, forzare l’uscio, darsi / una fessura sul mondo e ancora sinteticamente: Amare

l’attimo prima dell’attimo di andare. Sì, rimembranza leopardiana. Ma anche l’intuizione che non è

così naturale il nostro guardare il mondo, che ci si dà uno sguardo, che, come una ferita, apriamo

sempre un varco tra le nostre abitudini e il nostro modo di subire la natura per, finalmente, vederlo,

il mondo. Non sono gli occhi che guardano, ma noi che spostiamo lo sguardo col mutare della

nostra coscienza. E quell’amare l’attimo prima dell’attimo ancora somiglia al prima del dì di festa,

ma lo sposta nella continuità – non c’è festa che delude, ma un’incessante amare l’attimo prima,

l’intensità di cogliere la vita e abbracciarne l’eternità. Sintomatico è quanto mi permetto di

stralciare da una lettera di Filippo: “E dire che la bellezza della nostra vita sta proprio in questa

precarietà, che ha la sua segreta ma incontrovertibile dimensione di dolcezza; e che, come tu sai

bene, proprio dalla precarietà del nostro Io nasce la consapevolezza di essere eterni, questa

fantastica e semplicissima scoperta che si rinnova ogni giorno…”. Perciò non occasionale la

citazione di padre Matteo Ricci, ma una consonanza profonda, una fratellanza nell’umiltà e nella

cecità visionaria della fede: E la notte veniva a perdifiato, / e cresceva domestica, annientata, / nel

tuo dolore di carne e di tempo, / la pienezza di quella Luce…Non c’è acquietamento, né

consolazione! La pienezza di quella Luce non toglie il dolore, anzi lo acuisce, perché accresce la

pochezza del nostro rispondere alla Sua volontà. Appunto dall’interno di una sofferenza, che la

carne crea a se stessa, si scopre la pienezza, buona e immortale, della madre Luce, e la nostra

impotenza a risponderle, ma anche la sua dolce benevolenza.

5. Non vorrei che le mie parole giungessero sproporzionate o inopportune alla modestia piana di

questa poesia. Ma preferisco, in ogni occasione, sottolineare l’ampiezza del sentire e dei propositi

entro cui si muove il poeta, evidenziare gli strati intimi di un nostro comune sentire e dialogare, tra

le disperazioni che pure ci tormentano, le quotidianità che ci tengono prigionieri o di cui ci

facciamo prigionieri e quegli aquiloni di speranza che ristagnano / legati a un filo che non si spezza

mai. Sì, poesie d’amore per una donna, momenti sfuggiti al quotidiano, ricordi, brevi ritratti, e poi

amici, la città, il paesaggio, le riflessioni. Sono tanti motivi che spingono l’uomo a dire. Ma,

attraverso questa memoria del vivere, emerge un incessante richiamo, sia pure venato di malinconia

o portato dal vento che sferza la solitudine, alla fiducia, al ricordo di sé, all’attenzione, al rispetto

per la vita.

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