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ALLA LUCE DELLA LUCE

Filippo Davoli, "Alla luce della luce" (Nuova Compagnia Editrice, 1996 - introduzione di Franco Loi).

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Prefazione di FRANCO LOI

1. L’amore mi ha condotto a questi volti. Davoli fa questa citazione tra le strofe dedicate al

matematico e sinologo Matteo Ricci? Sul misticismo non spetta a me dire parole nuove. Mettersi in

attesa davanti al mistero delle cose, dell’uomo, del mondo, è proprio di ogni poeta, e non solo del

santo. E in tutt’e due i casi, è il solo modo per portare un vero aiuto all’uomo. Non c’è vera poesia e

non c’è autentica santità senza un atteggiamento mistico, senza accostarci al silenzio, dal quale,

solo, proviene la voce e la parola; nel quale, solo, si giustifica l’azione.

A me pare opportuno accostare questa citazione all’altra, evangelica, interpretata dal Cantalamessa,

che si riferisce al distacco “dall’amore di Dio” che il Cristo sente angosciosamente tra gli spasimi

della croce. Ecco, a me pare che tutta la poesia di Filippo Davoli sia un perenne tentativo di

esprimere, nel corpo delle cose e delle esistenze, la compresenza del vuoto e del pieno, dell’oscurità

e della luce – e insieme un’attitudine all’amore, che è poi anche in un poeta compassione di sé, e

slancio al dialogo con l’ignoto.

Madonna mia che freddo / che bel freddo… dice un verso, ed è appunto in questa vocazione ad

afferrare l’antitesi il senso del suo poetare. Cerco me / in te che non ci sei, Attendo gli esiti che non

giungeranno, e così via, in un protendersi da un vuoto verso un vuoto ma nel colmo di una

speranza.

2. Ne abbiamo parlato a lungo nei nostri rari incontri: la tendenza è il silenzio, un rarefarsi della

parola per alludere all’evento dentro la vita. Nella poesia la parola non è mai superflua: o è

strettamente ed efficacemente legata all’essenza o è voluta dal ritmo e dal metro: c’è una legge di

sostanza e di musica. Per Davoli tutto ciò è quasi ovvio. Ma il poetare in lui ha anche una necessità

intima, rispondere alla provocazione dello spirito, rendere scarni gli strumenti, letterari e umani,

all’ardua e flebile voce che dice: Smettiamola / vado ripetendo perché l’attimo / del distacco sia

almeno, almeno quello / l’unico atto d’amore azzarda nel momento del “naufragio”. Ed è questa

caparbia volontà di significato e di presenza a caratterizzare la personalità del poeta e il suo “fare”,

mentre, insieme, gli affiora, bel oltre l’attitudine e la preparazione letteraria, la verità

dell’impotenza della parola in se stessa: Si sfanno le parole / come briciole di pane.

3. La citazione iniziale evidenzia la malinconia dell’”essere lontani da Dio” e tuttavia la

convinzxione di dover amare, di confermare il primato dell’amore – che è movimento verso – la

volontà di uno scambio con le creature. Ma non è questa la poesia / forse nemmeno si scrive, inizia

la penultima lirica in fondo al libro. Anche Noventa raccomanda ai poeti: Serché più in là. Giacchè

non nella poesia è lo scopo, pur se anche la poesia inerisce ai fini umani e divini, anzi, è necessaria

alla memoria, orientamento verso il fine, sguardo a quel “più in là” che incatena il mistico. Non mi

piace la “sistemazione” letteraria e non ho presunzione critica né propensione ai riferimenti e alle

somiglianze. Certo, Sereni è presente in questo libro. C’è la sua ritrosia al dire ciò che intimamente

lo muove, c’è il suo senso del vuoto e dello smarrimento – si pensi al “Belvedere” di “Stella

variabile” – c’è la dimensione inquieta dell’altro – l’amico, la donna, il paesaggio – e c’è,

soprattutto, una tradizione ermetica, malgrado sia Sereni che Davoli ne rifiutino le premesse

teoriche. Del resto, sappiamo che un’epoca raccoglie le somiglianze stilistiche più di quanto

appaiano ai contemporanei e indipendentemente dalle intenzioni. Ma preferisco riconoscere in

Davoli quell’atteggiamento così ben espresso in una poesia postuma di Franco Fortini: Vieni tu,

vieni accanto, voglio dirti / qualcosa che ricorderai, cioè la disposizione al dialogo, la costante

utopia di un interlocutore, più o meno privilegiato.

4. Non possiamo tuttavia porre in secondo piano – il mio “noi” è riferito al lettore – la propensione

di questo poeta a farsi medium verso l’ignoto, a oltrepassare i limiti di una convenzionale

descrittività o di una mentale conoscenza. Anche la rappresentazione della materia, della natura, dei

corpi, tende a svelarne le essenze, capirne i significati riposti: Fissano le tue mani le tue rose / cinte

d’acqua e i tessuti che già frusciano / lievi di te, sussurra in una bella poesia, e c’è un accenno

all’intelligenza delle mani e delle rose e una compenetrazione tra le creature; e sillaba più avanti:

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