ALLA LUCE DELLA LUCE
Filippo Davoli, "Alla luce della luce" (Nuova Compagnia Editrice, 1996 - introduzione di Franco Loi).
Filippo Davoli, "Alla luce della luce" (Nuova Compagnia Editrice, 1996 - introduzione di Franco Loi).
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Prefazione di FRANCO LOI
1. L’amore mi ha condotto a questi volti. Davoli fa questa citazione tra le strofe dedicate al
matematico e sinologo Matteo Ricci? Sul misticismo non spetta a me dire parole nuove. Mettersi in
attesa davanti al mistero delle cose, dell’uomo, del mondo, è proprio di ogni poeta, e non solo del
santo. E in tutt’e due i casi, è il solo modo per portare un vero aiuto all’uomo. Non c’è vera poesia e
non c’è autentica santità senza un atteggiamento mistico, senza accostarci al silenzio, dal quale,
solo, proviene la voce e la parola; nel quale, solo, si giustifica l’azione.
A me pare opportuno accostare questa citazione all’altra, evangelica, interpretata dal Cantalamessa,
che si riferisce al distacco “dall’amore di Dio” che il Cristo sente angosciosamente tra gli spasimi
della croce. Ecco, a me pare che tutta la poesia di Filippo Davoli sia un perenne tentativo di
esprimere, nel corpo delle cose e delle esistenze, la compresenza del vuoto e del pieno, dell’oscurità
e della luce – e insieme un’attitudine all’amore, che è poi anche in un poeta compassione di sé, e
slancio al dialogo con l’ignoto.
Madonna mia che freddo / che bel freddo… dice un verso, ed è appunto in questa vocazione ad
afferrare l’antitesi il senso del suo poetare. Cerco me / in te che non ci sei, Attendo gli esiti che non
giungeranno, e così via, in un protendersi da un vuoto verso un vuoto ma nel colmo di una
speranza.
2. Ne abbiamo parlato a lungo nei nostri rari incontri: la tendenza è il silenzio, un rarefarsi della
parola per alludere all’evento dentro la vita. Nella poesia la parola non è mai superflua: o è
strettamente ed efficacemente legata all’essenza o è voluta dal ritmo e dal metro: c’è una legge di
sostanza e di musica. Per Davoli tutto ciò è quasi ovvio. Ma il poetare in lui ha anche una necessità
intima, rispondere alla provocazione dello spirito, rendere scarni gli strumenti, letterari e umani,
all’ardua e flebile voce che dice: Smettiamola / vado ripetendo perché l’attimo / del distacco sia
almeno, almeno quello / l’unico atto d’amore azzarda nel momento del “naufragio”. Ed è questa
caparbia volontà di significato e di presenza a caratterizzare la personalità del poeta e il suo “fare”,
mentre, insieme, gli affiora, bel oltre l’attitudine e la preparazione letteraria, la verità
dell’impotenza della parola in se stessa: Si sfanno le parole / come briciole di pane.
3. La citazione iniziale evidenzia la malinconia dell’”essere lontani da Dio” e tuttavia la
convinzxione di dover amare, di confermare il primato dell’amore – che è movimento verso – la
volontà di uno scambio con le creature. Ma non è questa la poesia / forse nemmeno si scrive, inizia
la penultima lirica in fondo al libro. Anche Noventa raccomanda ai poeti: Serché più in là. Giacchè
non nella poesia è lo scopo, pur se anche la poesia inerisce ai fini umani e divini, anzi, è necessaria
alla memoria, orientamento verso il fine, sguardo a quel “più in là” che incatena il mistico. Non mi
piace la “sistemazione” letteraria e non ho presunzione critica né propensione ai riferimenti e alle
somiglianze. Certo, Sereni è presente in questo libro. C’è la sua ritrosia al dire ciò che intimamente
lo muove, c’è il suo senso del vuoto e dello smarrimento – si pensi al “Belvedere” di “Stella
variabile” – c’è la dimensione inquieta dell’altro – l’amico, la donna, il paesaggio – e c’è,
soprattutto, una tradizione ermetica, malgrado sia Sereni che Davoli ne rifiutino le premesse
teoriche. Del resto, sappiamo che un’epoca raccoglie le somiglianze stilistiche più di quanto
appaiano ai contemporanei e indipendentemente dalle intenzioni. Ma preferisco riconoscere in
Davoli quell’atteggiamento così ben espresso in una poesia postuma di Franco Fortini: Vieni tu,
vieni accanto, voglio dirti / qualcosa che ricorderai, cioè la disposizione al dialogo, la costante
utopia di un interlocutore, più o meno privilegiato.
4. Non possiamo tuttavia porre in secondo piano – il mio “noi” è riferito al lettore – la propensione
di questo poeta a farsi medium verso l’ignoto, a oltrepassare i limiti di una convenzionale
descrittività o di una mentale conoscenza. Anche la rappresentazione della materia, della natura, dei
corpi, tende a svelarne le essenze, capirne i significati riposti: Fissano le tue mani le tue rose / cinte
d’acqua e i tessuti che già frusciano / lievi di te, sussurra in una bella poesia, e c’è un accenno
all’intelligenza delle mani e delle rose e una compenetrazione tra le creature; e sillaba più avanti:
Poi, a un tratto, forzare l’uscio, darsi / una fessura sul mondo e ancora sinteticamente: Amare
l’attimo prima dell’attimo di andare. Sì, rimembranza leopardiana. Ma anche l’intuizione che non è
così naturale il nostro guardare il mondo, che ci si dà uno sguardo, che, come una ferita, apriamo
sempre un varco tra le nostre abitudini e il nostro modo di subire la natura per, finalmente, vederlo,
il mondo. Non sono gli occhi che guardano, ma noi che spostiamo lo sguardo col mutare della
nostra coscienza. E quell’amare l’attimo prima dell’attimo ancora somiglia al prima del dì di festa,
ma lo sposta nella continuità – non c’è festa che delude, ma un’incessante amare l’attimo prima,
l’intensità di cogliere la vita e abbracciarne l’eternità. Sintomatico è quanto mi permetto di
stralciare da una lettera di Filippo: “E dire che la bellezza della nostra vita sta proprio in questa
precarietà, che ha la sua segreta ma incontrovertibile dimensione di dolcezza; e che, come tu sai
bene, proprio dalla precarietà del nostro Io nasce la consapevolezza di essere eterni, questa
fantastica e semplicissima scoperta che si rinnova ogni giorno…”. Perciò non occasionale la
citazione di padre Matteo Ricci, ma una consonanza profonda, una fratellanza nell’umiltà e nella
cecità visionaria della fede: E la notte veniva a perdifiato, / e cresceva domestica, annientata, / nel
tuo dolore di carne e di tempo, / la pienezza di quella Luce…Non c’è acquietamento, né
consolazione! La pienezza di quella Luce non toglie il dolore, anzi lo acuisce, perché accresce la
pochezza del nostro rispondere alla Sua volontà. Appunto dall’interno di una sofferenza, che la
carne crea a se stessa, si scopre la pienezza, buona e immortale, della madre Luce, e la nostra
impotenza a risponderle, ma anche la sua dolce benevolenza.
5. Non vorrei che le mie parole giungessero sproporzionate o inopportune alla modestia piana di
questa poesia. Ma preferisco, in ogni occasione, sottolineare l’ampiezza del sentire e dei propositi
entro cui si muove il poeta, evidenziare gli strati intimi di un nostro comune sentire e dialogare, tra
le disperazioni che pure ci tormentano, le quotidianità che ci tengono prigionieri o di cui ci
facciamo prigionieri e quegli aquiloni di speranza che ristagnano / legati a un filo che non si spezza
mai. Sì, poesie d’amore per una donna, momenti sfuggiti al quotidiano, ricordi, brevi ritratti, e poi
amici, la città, il paesaggio, le riflessioni. Sono tanti motivi che spingono l’uomo a dire. Ma,
attraverso questa memoria del vivere, emerge un incessante richiamo, sia pure venato di malinconia
o portato dal vento che sferza la solitudine, alla fiducia, al ricordo di sé, all’attenzione, al rispetto
per la vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino
ovunque spingano la barca.
(Edgar Lee Master)
Stu mancament del mund me fa paùra,
stu vöj de carna che fa restreng i òmm,
quèl gran silensi che passa ne la sera
e se mì ciami l’è silensi amô.
(Franco Loi)
Se piove non è lo stesso in casa o fuori
al tavolo di un bar
vuoto nel vuoto, scuro
nello scuro. E le femmine
che corrono via nelle pozzanghere
quando grida di sé la primavera
e è come se le auto si fermassero
e il cielo odora di vecchio e di nuovo.
Madonna mia, che freddo,
che bel freddo…
UN RICORDO
Una volta avemmo per prato
un grasciano: ce ne accorgemmo
più tardi,
quando l’odore ci veniva dietro.
Erano giorni, quelli,
in cui si diceva amore
come se fosse un bacio.
Dalle dense correnti
dagli androni d’ardesia
ancora questo ho da dirti: che l’amore
non è un rito composto e dignitoso,
semmai uno sghembo andare per approdi.
Seguendone il filo
giù per vicoli e porti
ci investe un fiotto di memoria e sale.
I RITORNI
So che i ritorni mi portano a fuggire
per non morire e per poter morire
fuggo da me
(e da te)
come la rondine che squarcia
l’ultimo lembo dell’amor di sé.
MATTINATA
Cerco nel letto sfatto
il calore della tua sagoma
le pieghe come di carta
che ha segnato il tuo corpo
e cerco me
in te che non ci sei
qui nella pagina bianca.
PRIMA
Avrei voluto dirtelo da allora,
avrei voluto dirtelo anche prima
di allora, anche prima
di me stesso, quando
neanche tu c’eri. Quando
non c’era il mondo e dove
abitava l’amore?
ADOLESCENZA
Un risomiglio di lune appicciate
incendia la notte
d’ombre puntite che scavano
nel molle dei pertugi e fanno
le lute, s’intrecciano
in giochi d’acqua, si brillano. Noi
ignoravamo i frutti dello scirocco
a uno stutarsi di luna.
PRITUDINE
Ti può un che di prito e di dolce
che ti ammala nel tratto,
un che quasi di sfatto
per cui si pende
- ed io pendo
ogni notte.
IL BLU
Quando piovve i tuoi occhi
scolorirono via (io
li guardavo, i tuoi occhi bianchi
sparsi a meraviglia
in una miriade di fiori)
CANTILENA
Se il tuo cuore è di vento, come il vento che sferza
la solitudine non è un dolore, è un lamento.
E la paura?
Oh, di quella non curarti!
Vorrei levarti di dosso quella malinconia
Che può far bene alla poesia, ma alla vita?
DALLE VETRATE
a Graziella Parra
E più in là
dove sconfina il cuore
e l’acqua s’infarfuglia, guarda:
la luce che catapulta il tempo
è assopita. È là
più in là
che s’apre la vetrata.
NOTIZIA
E quando scriverò che fanno
gli altri? non rispondermi
le solite cose la piazza il par
quel riottoso ciarlare di bottega
fammi sapere che s’è aperto un varco
stabilito un contatto
che un guscio s’è dischiuso.
Alta la voce e poca
e vera.
DOPO
Dopo ore trascorse al risveglio
leccando sulla tela gli acini
di nulla che mi rammentino
la tua pelle sudata
dopo
le frettolose calamità del nostro
incontro clandestino con tutta
l’aria ammorbata di te
ti sento
come nella bocca nel tuo spento
petto di lana e di latte
nel tuo occhiare di rosa e di candela
e di baci, infine, come il ricordo.
MANCINO
Leonardo allora che se ne
resta solo per giorni
tra i giornali e il bucato? Vederlo,
nella torre, tra gli odori
dei sughi che prepara…
Come un sovrano
con la pannella innanzi si apparecchia
sogni per le solitudini migliori.
DUE ZIE
3.
È stata una donna magra
come un macigno, secca come
le battute infelici. Una donna
di pietra come il suo nome
che si sbucciava poco. Soffriva?
2.
L’altra zia vigilava stentorea
chiusa nel suo cupo dolore
misto alle penombre del corridoio.
Anche il pavimento traballava
rigida lo tratteneva con il pianto
nella sua maschera dura.
1.
Passavano così tutte le estati.
TERESA
Fosti come lo sbadiglio e l’attimo
di sonno che rapiva il dolore,
la tua ombra un grido slanciato
e i tuoi capelli nella retìna…
Quasi una madre, mano
tenera e forte – come brillavi
quell’ultimo tuo giorno nell’estremo
latte che ti tremava…
Spiavi quella strana
serenità alle porte,
ti diffondevi appena nel sorriso
e poi che è stato?
Un fremere
di fiori e d’abbandono.
ZIA ESTERINA
Son tornate a fiorire le rose
e le colline hanno il tuo tratto gentile
e i tuoi sussurri pomeridiani
e i versicoli che odorano
di cucinato. Ancora
il brutto vaso di fiori gialli sovrasta
la soffittuccia e il televisore.
Ancora ti aggiri (è l’amore?).
CARPI
Lo gridano pure le grondaie
a forza tra le chincaglierie
e le fabbriche
piazza
che raccogli le piogge
della Liberazione.
Torna al rione, nevica
solo cenere
da quella volta.
FERMO
Lo sai chi è ‘mmorti? e sciorinano nomi
ch’avea sposato… un elenco di ricordi,
e un Duomo bianco, immenso, se ne tace.
Io mi riguardo appena il mio giardino
col pergolato e i fichi prematuri
e i campi che s’aprirono un’estate
come il mio corpo.
CAMERA CON SVISTA
Attendo gli esiti che non giungeranno
e le occasioni che mi attendono
andarmene. Quando per un’analogia
di soglie e crucci si ricaccia ogni vero.
Come di troppe altre voci e frammenti
il fermo immagine annuncia nel nuovo
niente di nuovo. Niente di nuovo.
Poi a un tratto, forzare l’uscio, darsi
una fessura sul mondo, sollevarsi
di peso in uno scatto
che vinca il vuoto e superi lo stallo.
Altro non c’è, di vero, qua attorno
che l’essere versati, spesi, sciolti
come diafane lacrime di luce.
PIANO BAR
Le pupille buttate qua e là
cosuccia tra le cose
tra i gusci ocra schiusi
e l’arancio bruno dei bassi
e dei fondi.
Farcela.
TRAVAGLIO
Fisso sul davanzale, come immemore
di te stesso, dell’aria che bevevi
sotto la tenda fradicia del bar.
Era un fiume di festa in mezzo al buio
e la strada era deserta di voci. Adesso
un altro temporale ti scuote, un dirmi
aiutami! e poi no, lasciami stare!
Prendi il filo, congiungiti.
L’AMOUR
Tutta la grazia del nascondimento,
diceva dopo un flettere di sonno
cupo di tromba. Dopo un abbandono.
Altro non c’era, tra le stelle. Un tonfo.
HORTUS
Fermi, insedotti, nei giardini
sulle terrazze a tetto, dove non giunge
alcun rombo di rose o di gerani
e sembra che nulla si muova
neppure al limitare dell’itinerario.
- dei morti, tu mi dici? Se ne scrive…
(Da vivi li si amava?)
LUDUS
La prese tale e quale morsicando
una carne poco cotta poco pronta.
Riempirsene
e non volere – questo sì –
in un groviglio di brandelli
saperlo che c’era la dolcezza
di nascosto, là in mezzo.
Tornando da sudori consunti
Per consuntivi teneramente amari
Sentirle, nel segreto
nelle urne soppresse quelle mani
quei furti
così poco notturni. Ripercollerli
a mente, negandosi.
SECONDA CLASSE
Pioggia che s’arruffa sui lampioni
è notte e cade freddo mentre leggo
di traverso le tue piccole dita
come la foto che stringi e ti sorride
da altri meridioni.
Non voglio il tuo amore, mi sazia
la fuga triste e leggera dei tuoi occhi,
la castità segregata come l’ombra
sgranata d’un ritratto di morti.
Ti siedo accanto e zitto in questa sala
periferica aspettando che un treno
qualunque ti porti a destinazione
e vederti rassettare i bagagli e scuoterti
al sibilo lontano che l’annuncia,
sparirmi a quel suo grido di frontiera
come le ultime note di un refrain.
DISCARICA
Dalle finestre delle università
da quelle dei palazzi d’ogni genere
non può venircene un senso di colpa
(noi che viviamo in strada)
se i libri non sanguinano più
dietro le siepi delle biblioteche.
CARNEVALE
Ca t’gniss un cancher!, dunque ce l’ha sempre
su col governo, il vecchio col berretto…
E gli amici giocano al bar
dell’Ospedale, dove ogni rito si consuma,
e vanno scoppiettanti i petardini
di carnevale, fuori stagione.
Sale d’attesa e di disillusione,
solite sagrestie piene d’aromi.
Ca t’gniss un cancher, boia d’un mònd, frastorni
della carta consunta che rimbalza
al limite del tavolo, grugnito
arso, lampante. Voce d’oltretomba
che un fare di maldestra età dissimula:
già la ruga si stempera, vacilla
quell’incresparsi liquido del mondo,
quel fremere di cellule. Sospira
tra le sue mani il mazzo da quaranta
tornato a liquefarsi, a ricomporsi
sotto le stanze asettiche, finali.
LA BANDA
Ci mancava soltanto la banda
con quei gran colpi bassi sul tamburo
e quell’arietta di falsa fanfara
e gli sfiati potenti, verginali
da primo coito (o mistico presagio).
Ci mancava la banda in prima fila
sulla piazzetta ferma da cent’anni
e i bimbi ballano, che ancora non lo sanno
e i pensionati ridono qua e là.
CAMERA SEPARATA
Mangi così la tua meletta cotta
quotidiana, un boccone nell’altro
a finir prima, ma i giorni non vanno
ugualmente
- per una volta che sarebbe
stato bene…
Conviene riderci un po’
da dietro la finestra quadrata
che non varia, nemmeno i rimorsi.
Che dirti
e darti, olte questa parola?
Si sa come vanno le cose…
Ma tu, per educazione, sulla soglia
tu non m’avresti sorriso…
GLI AQUILONI
E giocano i ragazzi nello stadio
e danno fiato e sudano virtù.
E volano i piccioni a sbruffi d’aria
tra i sampietrini e i sogni.
E ristagnano in centro gli aquiloni
legati a un filo che non si spezza mai.
FOTO RICORDO
Mi sarebbe piaciuto – se proprio
lo vuoi sapere
era quando
ancora andavano i loden
e l’odore di fumo nella macchina.
Fogli gettati ovunque e nel cruscotto
il tuo ombrello portatile. Al ritorno
ti piaceva scampagnare
ma solo per il gusto dell’aria
gelida sulla fronte. Ce lo raccontano
quelli di cinquant’anni, cos’era
il sessantotto. Il bianchennero
- sappilo – non si colora più.
CITTÀ IDEALE
La città se fosse una piazza smisurata
di gallerie alla luce e di finestre
dischiuse e le sue mura
le inevitabili conclusioni di un procedere!
Se così fosse la città in un verso
qualunque cosa o volto e non un perso
succedersi di abitudini. Ma è un borgo:
guarda dalle sue grotte in mezzo ai vicoli
i poeti che se ne vanno.
FERIA
Giù al mare si rilassano sdraiati
liquefatti in quell’oro trasparente
di silenzi artefatti e girasoli.
E qua intorno ronzano le cicale
rotanti tra gli arsenali delle rondini
a basso volo. Non uno spasso d’aria.
Sotto la loggia un tavolino vuoto
e un pulpito deserto in cattedrale.
FRAMMENTI
Inabissarsi in una soglia d’acqua
in un pallore di petali e sangue
chi lo può dire
che non si dia un bagliore di rinascita?
NAUFRAGIO
Smettiamola, è finita! Smettiamola
vado ripetendo perché l’attimo
del distacco sia almeno, almeno quello
l’unico atto d’amore.
Si sfanno
le parole come briciole di pane.
MONOLOCALE
L’unica cosa a posto è il disordine
(anche il televisore non ha voce
e bianco e nero come l’acqua mezza
vuota sullo sgabello). Ingombri
di stoffe sorde e musica d’élité.
Sulla sinistra un timido bagnetto
piastrellato di verde, fuori moda.
Sulla scansia un libretto con la dedica
e i resti di una tazza di caffè
… qui ci stringe un poco, qua si studia…
presentando la stanza, i suoi momenti
di rondine in declino, di vertigine
colma d’antri e di fughe. E come sfiori
di soppiatto una crepa al davanzale,
un margine di cielo che discosti
per un attimo il sogno da una vita
colma solo di sé, altro non resta
che il già mandato a mente, non che irrompa
un grido lieto che preannunci un fatto
e dia il suo lieto evento: altro è la vita!…
DOMENICA SPORTIVA
A Umberto Saba
Una radio commenta la partita
(ma gli occhi sono fissi alla tivvù)
nemmeno ci si allaccia
più
è tutto uno svirgolare di contatti
e passaggi di palla senza gol.
- È domenica! – dice. Ma è il pensiero
della morte che, ancora, aiuta a vivere.
LE TUE ROSE
Non c’è cielo, stanotte, non c’è inverno.
Fissano le tue mani le tue rose.
A sghimbescio col mondo per i viottoli
d’alta campagna accorre al suo buon grido
di vergine l’odore della pioggia.
Fissano le tue mani le tue rose
cinte d’acqua e i tessuti che già frusciano
lievi di te. Nudità di cui sei
d’ombra penombra, di riposo grido,
libro di voce, di te stessa me.
Talvolta, tra le serpi in convulsione
appare un rado stormo di ginestre.
SULLE ORME DI PADRE MATTEO RICCI
1.
Giunge, eccola, l’ora di odiare
con un supremo amore di rottura
che spalanchi all’azzurro delle terre.
Odiare i gusci, le loro memorie,
i gerghi, e solo di viole e di tube
il nuovo giorno. Odiare
l’attimo prima dell’attimo di andare.
Ma il viaggio lo si intraprende
la volta scorsa, da dentro.
2.
Ha la veste, di nero, e la barba,
gli occhi gli scrutano i libri
e l’altro mondo, e l’altro mondo
ancora. Ha di spine una carne
da ricominciare e di luce il taglio
guizzante del sorriso e gli stessi
uomini di per sempre che se ne
vanno in silenzio. E poi haun nome.
3.
Delle crisi non c’è traccia nelle cronache.
Non sudano dei dubbi sorti il giorno dopo.
Ti risollevano certo quei piccoli occhi
neri, quei pertugi indifesi di pesco
o i silenzi vocianti delle frasche
o dei boschi illuminati appena.
Oppure ancora quella voce del non indugio,
quel nero tuo chiarissimo indizio.
4.
Dalla città non si esce, non si
sbuca dai mercati rionali, non
segnali possibili di fuga. Ma
tu che non sei tornato non volevi
fuggire, nemmeno da te.
Adesso hai dalla tua il tuo nuovo nome,
un volto che ti si allunga ogni tempo
un po’, il nero della veste
che ormai ti sta più dentro
perché fuori è sbiadito.
5.
Fosti un uomo nuovo e davvero.
Nemmeno la corazza, Matteo
sbucciato al sole, Matteo
sbocciato di bianco e di fresco
tra i libri, gli occhi neri e quelle mani
che ridono, che chiamano
LI MA TOU.
6.
Non sono solo un mistico. Lo sai,
non ho amato in Te solo Te solo.
L’amore mi ha condotto a questi volti
che nessun libro contiene, a guerre
d’altre bandiere. C’è ancora
luce per me?
E il filo
Fu tenace, indistruttibile.
Quell’unico filo,
quell’esile trama.
7.
Ogni giorno una condanna
d’amore e di conoscenza, questa
per quello, la mano per la bocca,
la paura per l’incontro. Ogni
giorno e ogni notte, ogni notte
per ogni giorno d’amore
e di condanna
che ritorna.
8.
Oh, come schianta il tuo cuore,
radice senza misteri.
E il cosmo ti si apre a vertigine
giù, nei fondali di perla
e di sasso. T’increspa
il riandare di passi sommersi,
di secche battute di canna
su e giù per i viottoli e i muri.
Un calmo sopore fa ancora
dei tuoi occhi stanchi il suo giro.
9.
Giungerà dunque l’ora di tornare
con un supremo ricongiungimento
delle due anime in una e questa
alfine alle terre dell’azzurro. Amare
l’attimo prima dell’attimo di andare
stringendo in un istante d’assoluto
le sabbie calpestate, la madre che diceva
dai notizi e poi addio! In una
gloria di lacrime e di baci in quel
tuo ormai unico nome: LI MA TOU.
FERRAGOSTO
Non falco che stramazzi, indefettibile.
E il nuvolare delle cime è un becco
quasi di sfregio, un canto d’altro mare
e d’alto bordo. Silenzio che scalmana
dietro uno sterminio fitto di grilli.
MINA
Ci vuole la grazia di una forza
sconsiderata
(rimane?)
null’altro che la sagoma. I tuoi
ditini spersi nella mole oscura
e le note che spargi
impunemente.
VIVO AI PAESI
Perso per sempre. E come mi commuove
questo intrecciarsi franco dei paesi.
Senti portarti via, uscirti, essere
attraversato dai giorni, dentro un oltre.
PERIFERIA
Perché in fondo le ombre della notte
sono le luci e il loro gergo di rondine
spaesato è un fiotto d’ombra.
Ai lembi d’aria smorza l’allegria
un compatto ristare di baleni.
Che brulicare d’astri, quanta cenere…
BAR DELLO SPORT