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Recensione Marzia Ratti

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M A R Z I A R A T T I

densità materne e corporeità di genesi ricorrenti

Ostinatamente in direzione del proprio stato nascente

per connettersi con le proprie origini,

superare paure e frustrazioni intense,

ritrovare significati innovativi per la propria esistenza

A cura di Davide Pagnoncelli

Psicologo, Psicoterapeuta, Arteterapeuta


Le opere tridimensionali dell’artista sono certamente impattanti, come la corrente impetuosa di un fiume rinchiusa in un alveo troppo stretto, per altri versi

debordanti di energia e di impulsi profondi, direi pure viscerali. Le opere necessitano di spazio tramite il quale delineare un messaggio diretto, senza

fronzoli, senza artifici per attenuarne l’impatto provocativo e che difficilmente lascia il fruitoreemotivamente neutro.

Le opere dell’artista possono suscitare interesse o attrazione oppure turbamento o shock, ma, senza dubbio, sono provocative, arrivano direttamente anche

alla parte rettiliana del cervello, sferzano con delicata rudezza. Appare evidente una rimessa in discussione perenne, anche in direzione contraria

all’usuale procedere e alle solite forme espressive. Ciò diventa stimolo pulsivo perché Marzia, come tutti d’altronde, sa più di quello che comprende: infatti

persiste un residuo inespresso e inesprimibile razionalmente.

È appunto questo residuo, non marginale, che pulsa, spinge, talora obbliga prepotentemente, che necessita di trovare una modalità artistica per venire alla

luce. Marzia è sedotta dalla luce, dalla luce unita al colore. Lo sguardo e l’esperienza di chi si immerge nelle opere non può non produrre sbigottimento,

soprattutto ad un primo approccio, ma ciò che importa è che esso sia creativo, sgorgante da una pulsività che, a sua volta, fa sussultare chi si immerge in

tali opere.

Questa pulsività difficilmente lascia impassibili, propone e impone domande, traccia direzioni di cammini con l’obiettivo di avvicinarsi alle profondità dei

propri vulcani interiori. Luce e colore accompagnano come due angeli custodi, ravvivano, talora saettano, scandagliano le cantine dell’inconscio:

ecco dove può essere stimolato a dirigersi chi sente sulla propria pelle, in modo immersivo, talune spinte delle produzioni artistiche di Marzia.

Camminare e ri-camminare, trovarsi e ri-trovarsi perché non ci si è mai definiti e mai conosciuti del tutto.


Oltre la linea dell’orizzonte, al di là del proprio cervello razionale, verso gli abissi del proprio inconscio, mai esplorato a sufficienza.

In un certo senso calza a pennello la frase di un ex calciatore della Nazionale italiana che così commentava un suo bellissimo goal: “Ho cercato di trovare

un angolino, senza guardare la porta, immaginandola”.

Per poter accedere a una parte dei cunicoli del Séprofondo di Marzia, le opere vanno guardate ma anche sentite, percepite, un po’ a occhiaperti e un po’ a

occhi chiusi, appunto immaginandone le recondite risonanze e centrature.

RI-RI-RI incessanti, ovvero apparenti clonazioni, apparenze dove si fermano gli individui già clonati, ciclostilati pedissequamente come volantini e poi

replicanti senza anima propria. Creazioni e ri-creazioni, generazioni e ri-generazioni come scosse telluriche che disincrostano pareti

appiccicate appena e costruzioni con traversini appoggiati a malapena su apparenti certezze granitiche, ormai logore e stantìe.


Dove sta l’intralcio di replicazioni che appaiono clonate e pedissequamente ripetitive, perfino talora ossessive?

L’ostacolo si materializza se ci si accosta all’opera accompagnati dal proprio giudice tutelare, piuttosto che lasciar vibrare, dietro alla superficie, il proprio

profondo fetale che scuote e ri-scuote, fa oscillare certezze senza nerbo e sicurezze scialbamente asintomatiche.

Ri-generazioni dinamiche che contrastano progetti societari di clonazioni robotiche eumanoidi, che sono allergiche ad algoritmi fotocopiati emessi per

individui sicuri solo in gregge e che si distanziano da coloro che donano specchi ai narcisi timorosi di solcare vie profonde. Ri-generazioni che ri-portano

verso abissi ancestrali e inevitabili nuclei di “origini originali”.

“Ma come, non cogliete?”, sembra ripetere incessantemente l’artista; “Se non comprendete, non mi resta che rinnovare il mio messaggio travestito con

forme differenziate e plurimi vestiti”. Non resta che ripetere le dinamiche di ri-creazione per stimolare lo spettatore a interrogarsi, tramite risonanze, su cosa

possa permanere sotto le apparenti clonazioni.

Opere che possono fungere da specchio per ri-andare alle piccole e grandi clonazioni quotidiane che non pochi individui tramandano ai loro figli, già da

quando sono feti.

Se la tua realtà è distopica, puoi sempre creare sintonia e sintropia, pulsivamente connettive con coloro che non temono i lampi e perciò si nutrono di

contrasti, di luci e di ombre, non rifuggono da provocazioni vitali, perché la luce squarcia il buio pesto con ritmo irradiante.


RINASCITE RICORRENTI

Suggestioni fetali da trasportare

nelle borse dell’inconscio

borse visibili

con venature invisibili,

energia da canalizzare

sempre

e ricorrentemente.

Cloni appaiono

a chi solo con gli occhi guarda,

vortici irrituali di chi sente

inquietudini dell’anima

nelle intercapedini embrionali

nascenti;

creazioni

ri-creazioni,

generazioni

ri-generazioni ricorrenti

talora ossessive,

sempre genuine,

talora delicate

ornate di fanciullesche ricerche

di femminili evocazioni,

stilettate abbraccievoli

per sottostanti tenerezze.

Esperimenti memori

di intime e profonde

esperienze di arcaiche

cronologie

e costellazioni familiari.

“Cosmologazioni” intrecciate

di pulsività interiore

che non bada come erutta e sgorga

ma desidera,

appunto,

dialogar con pulsioni

assieme a colui o colei che esperisce l’opera;

senza baratto di mediazione sensoriale,

lampi e saette

di acute richieste connettive

che bramano arrivare

all’ombelico del Sé,

proprio e pure di qualcun altro.

Colori tridimensionali

e ingenuamente tersi,

quasi a rimmemorare

organi fetali e infanzie,

plurime infanzie unite a quelle

quelle di chi dentro l’opera

vi entra appieno.

Molla di nostalgie profonde

ricerche ripetitive e toste

pur di entrare in sintonia

del big band ove tra sorgive e fonti

ebbero inizio anche i colori

che ancora irradiano nel mondo rinascente,

linguaggi senza dizionari e grammatiche,

senza scuola con profe.

Colori in cui immergere le mani,

ripetitività per certi pressante,

per altri ricerca seriale

ma di sfumate diversità.

È forse più facile trovar differenze tra i nati di donna

oppure tra plurimi feti appena abbozzati?

A chi guarda da fuori appaiono uguali

ma chi ama ed è genitore

ritrova diversità celate,

anzi più ama e più trova venature allusive,

mezze tinte divise ancora a metà della metà,

accenni velati di intonazioni:

question d’amour..

Reliquie di stati nascenti

ri-cercate con artistiche ossessioni

con “pulsanti pulsività”

fino, forse, verso pulsazioni

che originaron la vita,

fino a scrutare nell’utero,

senza saper se è possibile o no,

fin dove permane l’essenza dell’inizio.

Reliquie tridimensionali

talora debordanti

di laceranti intuizioni,

di ricerca di evidenze

per sussurrare e spesso gridare

che ognuno,

tu e noi,

noi e tu

non siamo prodotti solamente

dell’utero di madre nostra;

perché io e te, noi,

siamo nati da tanti uteri

e stiamo perennemente setacciando

archeologie fetali sgorgate in origine.

Più che camminar verso il nuovo

ritorno al mondo che era

per poter ancora

rinnovare ogni alba:

perché il tuo e nostro topos è lì.


D’altronde cosa c’è, cosa ci sarà nel futuro prossimo? Come si può mirare e comprendere la luce del sole restando in superficie o distogliendone lo

sguardo? Come si può abbracciare l’oceano, o perlomeno desiderare di farlo, navigando solo in superficie?

Tu che ti accosti a queste opere, se desideri giungere nei pressi dell’ombelico del feto e intravederne almeno i bagliori dell’alba, non restare accostato, a

lato o in periferia, lasciati provocare e provoca, accostati poco a poco e arriva al costato, costi quel che costi.

Non esistono gestazioni e parti banali per chi sogna di esplorare l’inconscio embrionale.

È una sfida, certamente! Ma è bello accettare sfide che esplorano, interrogano e possono essere foriere di scoperte inattese, improvvise e che fanno sentire

sempre più “conosciuti a se stessi”.

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