Io lavoro per la morte • recensioni e approfondimenti
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Edizione del: 21/10/17
Dir. Resp.: Norma Rangeri
Estratto da pag.: 12
Sezione: SPETTACOLI Tiratura: 11.389 Diffusione: 38.631 Lettori: n.d.
Foglio: 1/1
049-105-080
Peso: 38%
Il presente documento è ad uso esclusivo del committente.
Servizi di Media Monitoring
Quotidiano
Data
Pagina
Foglio
22-02-2019
16
1
006166
.
Codice abbonamento:
Teatro dell'Elfo Puccini
22 feb 2019
Io lavoro per la morte
Nicola Russo, con la brava Sandra Toffolatti, mette in scena il personaggio della madre che non
c’è più, raccontando con coraggio il suo lento estraniarsi dal mondo ma anche la sua immutata
capacità di fascinazione – Maria Grazia Gregori
Io lavoro per la morte è il titolo all’apparenza misterioso del nuovo testo di Nicola
Russo in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano. All’apparenza misterioso perché in realtà
di vero c’è la morte, quella ormai avvenuta, della madre del protagonista (lo stesso Russo)
che racconta la sua storia in prima persona. L’altra parola “lavoro”, invece, è all’inizio
piuttosto indecifrabile, ma in realtà allude al lavoro del figlio di voler raccontare sua madre
e in questo modo – pensiamo – di elaborare il lutto della sua mancanza. Una madre
piuttosto originale, distratta, gran fumatrice, anzi a un certo punto siamo proprio portati a
pensare che sia la sigaretta l’unica cosa a legarla alla vita. Una madre inquieta e un
altrettanto inquieta moglie per un padre che non c’è più, poco preoccupata dalla cose di
casa, svagata. Ma è stato proprio questo suo comportamento inspiegabile a renderla
indimenticabile per il figlio. L’autore ci dice, del resto, che è proprio lei il modello del suo
personaggio e ci racconta di come la madre a un certo punto della sua vita si sia estraniata
da tutto: dagli amici, dal cibo, dall’ordine, dai figli, scegliendo come metro di vita la
solitudine, vivendola in una casa che rischia di assomigliare a una zattera perduta nel mare
della dimenticanza forse patologica, come del resto a poco a poco sembra fare questa
madre.
Nell’evolversi della storia Io lavoro per la morte assomiglia sempre di più alla cronaca di un
lungo addio, pensato da questo figlio che si è sentito e continua a sentirsi come dimenticato
ma affascinato da questa madre fuori dalla norma che sembra non fare nulla. Ma a ben
pensarci, con il proseguire del racconto non possiamo fare a meno di credere che in realtà
per vivere così è necessario un grande impegno, un grande lavoro su se stessi che sembra
impossibile perfino alla protagonista. Che, evocata dal figlio, ci appare come una bella
donna elegante, svagata, con alle spalle a fare da sfondo un paesaggio cittadino con basse
case o alti casermoni e molte piante in fiore in cui è come immersa. E intanto si lamenta di
come è stata sepolta senza una lapide, senza una foto: una gettata di cemento e via, come
se chi avesse fatto questo avesse avuto una gran fretta di liberarsi di lei. Il figlio rimprovera
alla madre la sua assenza e le sue mancanze anche da viva. Una presenza, quella di questa
donna, all’apparenza impalpabile ma quanto necessaria che, intuiamo, ha sempre
affascinato il figlio proprio per questa sua voluta estraneità e la scelta lontananza.
Io lavoro per la morte è un testo interessante, limpido. Per metterlo in scena a Nicola Russo
bastano pochi oggetti – un tavolo, due sedie – a ricordare una casa, e un piccolo schermo
sullo sfondo su cui proiettare immagini di case e di natura. Quello che invece è necessario
sono gli attori che si immergono nei personaggi a cominciare dalla brava Sandra
Toffolatti che traccia con ironia, gusto e un filo di cattiveria la sua madre elegante, svagata,
inquieta e terribilmente infelice. Nicola Russo da parte sua nel triplice ruolo di scrittore,
regista e attore si conferma interprete di spessore in questo affresco familiare che sembra
riguardarlo da vicino.
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Repliche fino al 24 febbraio 2019. Foto di Federica
Di Benedetto
Io lavoro per la morte
testo e regia Nicola Russo
elaborazione drammaturgica Nicola Russo e Sandra Toffolatti
scene e costumi Giovanni De Francesco
luci Cristian Zucaro – video Lorenzo Lupano
con Sandra Toffolatti e Nicola Russo
produzione Monstera in collaborazione con Le vie dei Festival – si ringrazia Artisti 7607 e
Ilva Garuti
L'ARTE COME NON L'AVETE MAI VISTA
NICOLA RUSSO PORTA IN SCENA UN
TOCCANTE “IO LAVORO PER LA MORTE”
EMILIANO METALLI — 20 OTTOBRE 2017
INIZIEREI CITANDO KUNDERA: “FORSE NON SIAMO CAPACI DI AMARE
PROPRIO PERCHÉ DESIDERIAMO ESSERE AMATI, VALE A DIRE VOGLIAMO
QUALCOSA (L’AMORE) DALL’ALTRO INVECE DI AVVICINARCI A LUI SENZA
PRETESE E VOLERE SOLO LA SUA SEMPLICE PRESENZA.”
Nicola Russo, in questo suo lavoro in prima nazionale per Le vie dei festival al teatro Tordinona di Roma, mette
invece due presenze l’una accanto all’altra, senza pretese, aspettando solo che il dramma (o l’azione) nasca
spontaneo dall’interazione fra loro.
È un interno spoglio quello che accoglie i due personaggi (madre e figlio), un tinello immobile e immutato, uno
fra molti, tanto da sembrare quasi uno scenario post atomico, beckettiano nella sua ovvietà. Ma questo suo essere
scontato in realtà permette al pubblico di essere assorbito dalla storia, di immedesimarsi fin da subito, dal
monologo di apertura della madre, schiacciata sul fondo contro uno schermo/televisore/finestra che mostra
continuamente scorci di palazzi. Intorno a queste due anime – perché più di anime si tratta che di persone – tutto è
avvolto nella plastica bianca, asettico, senza identità.
È assente la nozione di tempo, se non fosse per la scansione dei video che impongono la visione di esterni
architettonici o dettagli naturali. Si ha l’impressione di vivere un continuo flashback duplice, racconto dell’uno e
dell’altro punto di vista, che si intrecciano, si respingono, si sommano o si sottraggono. È assente la motivazione
di questa presenza: la madre è proiezione del ricordo o forse vita stessa? Il figlio è vivo o morto? Ricorda dopo
il funerale o dopo molti anni? E il gioco drammaturgico, a chiave come i giochi enigmistici, si rivela (forse) sul
finale, quando le parole crociate si manifestano per quello che sono: tappe o ricordi di una vita, forse di un
sogno o di più incubi.
IL DUBBIO SI SCIOGLIE NELLA BATTUTA CONCLUSIVA, IRONICA, SPIAZZANTE:
“IO LAVORO PER LA MORTE”, PRELUDIO DI UNA ENNESIMA SIGARETTA,
SIMBOLO ANCH’ESSO DI LIBERTÀ, DI VITA E FORSE DI IDENTITÀ.
I due interpreti danno il meglio l’uno, il figlio, nel distacco doloroso, ma mai addolorato, a volte stordito, l’altra,
la madre, nei tempi sempre diversi, nell’ironia, nelle pose plastiche, nelle lievi intonazioni inaspettate. Fra i due,
per scrittura, vince la madre, che è il vero centro drammatico. Il figlio è solo specchio e questo si intuisce anche
nella costruzione registica. Lui veste di scuro, si muove di meno, si mimetizza. Lei veste di rosa, visibilmente
vintage con i suoi capelli vaporosi e le sue scarpe col tacco, ma non solo. Lei ricorda Jessica Lange per il modo
di fumare, Monica Vitti nel modo di ridere e qualche volta Anna Marchesini in un paio di passaggi più ironici.
Non per togliere identità a Sandra Toffolatti, ma per dire che la sua profonda opera di trasformismo ha
raggiunto picchi di notevole interesse.
A Nicola Russo si riconosce invece la toccante dolcezza del dolore, la sua naturale attitudine al racconto, non
per mancanza di immedesimazione, ma solo perché la vera protagonista “in azione” di questo testo è la vita
vissuta da lei, dalla madre.
Ma a Nicola Russo va soprattutto il merito di aver costruito un testo e uno spettacolo sull’assenza, dolce,
toccante, coinvolgente, ma mai scontato, mai piegato al sentimentalismo, sempre lucido anche nell’uso
consapevole dei linguaggi e dei riferimenti extrateatrali.
Gli applausi di un pubblico caloroso lo hanno confermato senza dubbio.
PAC
MAGAZINE DI ARTE & CULTURE
Nicola Russo racconta con originalità l’essere figli quando una
madre muore
7 novembre 2017
LAURA NOVELLI | Entra in scena con un tailleur rosa cipria e un’aria da signora bene un po’ retrò. Lo
spazio – una casa in fase di smantellamento e imballaggio – sembra angusto rispetto alla sua figura. Se non
fosse per quella finestra sul fondo che lascia alludere al mondo-di-fuori (inaccessibile, negato, oppure forse
troppo spesso sognato), e se non fosse per alcune immagini video che proprio di quel mondo rimandano
vibrazioni e movimenti. Ma lo spazio sembra angusto anche per l’altro personaggio in scena: un uomo
giovane, vestito semplicemente di nero che se ne sta seduto in un angolo. Sono madre e figlio. La madre e il
figlio che Nicola Russo – sensibile autore, regista e interprete insieme con Sandra Toffolatti – immagina nel
suo originale Io lavoro per la morte, in cartellone al teatro Tordinona di Roma nei giorni scorsi nell’ambito
della rassegna Le vie dei Festival.
Ci sono solo loro due in questo universo popolato da memorie e da incubi: Nicola e Marcella, N. e M.
Tuttavia non si chiamano per nome. Non dialogano. Piuttosto, raccontano una doppia storia di separazione,
lutto, infanzia, malattia, esperienze familiari, che pare imbastita su due traiettorie drammaturgiche diverse
(poi ci si accorgerà che non è esattamente così). All’inizio la situazione è surreale, intrigante, tuttavia ancora
poco chiara. Voce morbida ma profonda, la madre racconta un sogno violento, cruento e torbido alla fine del
quale le resta il rammarico che nessuno dei terroristi “si sia accorto di lei”.
Poi l’uomo inizia a “dire”, a descrive la donna come se la vedesse con gli occhi della mente ( “Sei seduta in
tinello. Hai in mano una sigaretta […]”) e si fa strada la sensazione che la pièce ci voglia far riflettere sulla
possibilità di tenere in vita chi non c’è più. O meglio, sulla possibilità di tradurre artisticamente il bisogno di
riappropriarsi dell’altro – di comprenderlo realmente – dopo che l’altro ci ha lasciati per sempre. Il dato
biografico, personale, non può che assumere però un respiro universale. Senza retorica. Lontano dai
patetismi, dal melò, dai cliché più ovvii. La scrittura di Russo – di cui mi piace ricordare l’originalissimo
sguardo sull’età matura regalatoci in Vecchi per niente del 2015 – possiede anzi una linearità solo
all’apparenza semplice; capace, bensì, di intrecciare abilmente piglio ironico, gusto anti-realistico,
declinazioni grottesche, registri quotidiani. Attraverso un avvicendarsi di ricordi affastellati come dentro un
flusso di coscienza, la madre e il figlio – ognuno seguendo il proprio percorso fabulatorio – si ritrovano. La M.
della Toffolatti – davvero superba, plastica e al contempo epica, forte e poi fragile, arguta e poco dopo
ingenua – è qui una proiezione immaginaria del figlio. Un fantasma concreto, materico, che gioca a
riavvolgere il nastro della propria vita, sovrapponendo allo sguardo di N. la propria versione dei fatti, la
propria verità post mortem. C’è Pirandello a fare da capolino dietro questi quadri di memoria a due velocità.
Dietro questo continuo parlare l’uno dell’altra senza essere uditi. E teatralmente il marchingegno funziona
proprio perché, in una regia sobria ma non banale, accosta due universi umani ed interpretativi quanto mai
diversi: volutamente dimesso, sottoesposto, pacato il figlio; altrettanto volutamente barocca, energica,
fluttuante, arguta la madre.
Con la sigaretta spesso accesa, ella racconta la sua infermità, la sua chiusura in casa, la sua immobilità di
casalinga, e la sua stessa morte. E alla sue parole fanno da contraltare quelle del figlio. Il loro reciproco
amore passa – adesso – attraverso gli oggetti, le tre calamite a forma di pulcino con cui facevano un gioco
durato quarant’anni, le fotografie, il ballo sulla spiaggia con i butteri della Maremma, la corsa in macchina in
cerca della tomba del padre, i film pieni di azione e pugni in faccia, le parole crociate. L’orrore per il velo di
tulle con cui le avevano coperto il volto nella bara. E soprattutto, quell’ostinato desiderio di fumare. Quella è
stata la sua trasgressione. La sua più libera libertà.
Insomma, un progressivo disvelamento di sé che è desiderio di conoscere e di conoscersi. E nell’epilogo il
nastro della storia di riavvolge come d’incanto e vira verso una prospettiva surreale: poggiata la testa sul
tavolo, M. racconta un atro sogno. E’ la cassiera di un cinema, ad un certo punto si allontana dal suo posto
per andare a vedere il film. Qualcuno le fa notare che non è corretto lasciare il proprio lavoro. E lei dichiara
commossa: “Ma io lavoro per la morte”.
IO LAVORO PER LA MORTE
testo e regia Nicola Russo
elaborazione drammaturgica Nicola Russo e Sandra Toffolatti
con Sandra Toffolatti e Nicola Russo
scene e costumi Giovanni De Francesco
luci Cristian Zucaro
video Lorenzo Lupano
parrucca Aldo Signoretti
grafica Liligutt Studio
immagine locandina Giovanni De Francesco
produzione Monstera in collaborazione con Le vie dei Festival
si ringrazia Artisti 7607 e Ilva Garuti
Teatro Tordinona 18-20 ottobre
Le Vie dei Festival 2017 – prima nazionale