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Le “imagini” di Bacco, dio del vino

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Fig. 12. G. Carpioni, Seguaci di Bacco

ai piedi del simulacro lapideo di

Sileno, 1645-50 c., Venezia Ca’

Rezzonico, coll. Martini

pietra ancora e talora di gesso, e pare quasi cuocerli, e lo cuocono anco alcuni come

che così poscia si conservi meglio; e sono dopo riposte insieme le stracciate

membra perché la vite al tempo suo riproduce le uve intere”. Dopo questo apprezzabile

saggio di ermeneutica sui significati simbolici e sull’operatività pratica

della vinificazione, il Nostro affila ulteriormente le armi interpretative a sua disposizione

affondandole, a costo di ripetersi, nelle componenti per così dire ‘botaniche’

del mito dionisiaco. “Perché Bacco era anco creduto da alcuni de gli antichi

essere quella virtù occulta che a tutte le piante dà forza di produrre i maturi frutti”

e al dio “erano fatte le corna e lo vestivano da femina per mostrar che nelle piante

sono ambo le virtù, di maschio e di femina” (cat. 62) dato che “generalmente

ogni pianta produce le foglie e gli frutti da sé, senza che altra le si congiunga, il che

non è degli animali”, quasi che ogni vegetale fosse crittogamo. Tale virtù dionisiaca

occulta sarebbe alla base della familiarità del nume “alle Dee Eleusine” che presiedono

alla germinazione, tra suolo e sottosuolo, tronco e radici, come Cerere e

Proserpina, tutrici di quella z¯oè di cui avrebbe argomentato nel nostro presente K.

Kerényi. “La intera virtù seminale che piglia sua forza dal Sole”, con cui Dioniso era

identificato, indusse le “favole” a reputarlo anche padre di Priapo, alla cui figura

Cartari riserva almeno tre pagine di trattazione, qui riassunte nei tratti essenziali, in

considerazione della loro scarsa incidenza artistica a motivo del ritegno suscitato

dal minimo comun denominatore, il “membro fatto del legno del fico, e chiamato

da loro fallo”, anch’esso talvolta rosso, come quel “panno che aveva quel […] calore

qual dà forza al seme fin nelle viscere della terra” (vedi tav. 72). Vincenzo ovviamente

ignora, qui come nel paragrafo relativo al capro 68 , che in questi elementi

c’è già in nuce l’origine dell’orchestra e del coro nell’immenso raggiungimento

artistico della tragedia greca 69 . E pur continuando a dissertare sull’argomento a un

certo punto lo stesso Vincenzo considera, rivelando i limiti delle sue analisi, come

di alcuni aspetti delle cerimonie dei fallofori sia meglio tacere “per degni rispetti

oltre che di nulla servono a disegnare le imagini di Priapo, che fu fanciullo, grasso,

brutto e mal fatto”, avvertendo di essere in procinto di lasciarsi prendere la mano,

come gli capitava spesso.

Un passaggio tuttavia va qui privilegiato per colui che era considerato il dio

tutelare degli orti, “alla guardia dei quali si stava con una lunga canna in testa per

ispaventare gli uccelli” (tav. 72), relativamente alla presenza accompagnatoria dell’asino,

a lui accomunato “per l’odio che portava a questa bestia” (tav. 72 e fig. 1b

di tav. 67) a seguito del famoso episodio del raglio che destò Vesta, insidiata dal

dio come mirabilmente aveva già figurato Bellini nel celebre Baccanale ora a Wa-

Fig. 13 S. Ricci, Baccanale per il

ritrovamento di Arianna in Nasso,

1715, Venezia, Gallerie

dell’Accademia(verificare don dott.

Scarpa anche la data)

shington, sulla scorta di Ovidio 70 .

A onta dei propositi, Cartari tuttavia non omette di riferire sulla somiglianza

tra asino e Priapo relativamente alle dimensioni degli attributi sessuali di ciascuno

(e di tutti i Satiri e Sileni in generale, aggiungiamo noi!) e su come l’animale venisse

sacrificato al dio, spesso sostituito dal capro per identiche ragioni. Su quest’ultimo

e sulla sua forza generativa – che da sempre lo aveva associato e lo assocerà

alla libidine – il Reggiano si dilunga specificando come “col medesimo animale fu

anco mostrato Bacco alle volte perché trovasi ch’egli si cangiò in esso [capro] quando

con gli altri dèi fuggì dalle mani di Tifone in Egitto”. Come del resto era già avvenuto

per Dioniso fanciullo per essere sottratto dal padre Giove alle ire di Giunone

e “perciò fu il capro poi sempre vittima molto grata a Bacco, o pur fu forse perché

questa bestia è grandemente nocevole alle viti”, in ciò ribadendo quanto già

anticipato nei paragrafi dedicati a Pan. Laddove il caprone che bruca e devasta le

vigne è vero tòpos dell’arte, sulla scorta soprattutto di mirabili precedenti archeologici.

8. Cogliendo a pretesto una leggenda bacchica e fallica sulla nascita del re di Roma

Servio Tullio, concepito da una serva dal seme di un Lare, Cartari si profonde in

una lunga digressione sui Lari in generale, sul cane come custode delle case, da

essi tutelate, sui Penati con relativi agganci a Dioniso (tav. 73). Se ne fa menzione

per l’afferenza, se non altro, con le rappresentazioni freschive somme di Palo Veronese

nelle decorazioni dei soffitti delle due stanze meridionali della villa Barbaro

a Maser, dedicati all’Amor coniugale e a Bacco stesso (fig. 11) 71 . La divagazione

si amplifica poi sulla figura del Genio, “nume domestico” anch’egli “che infino dal

loro primo nascimento accompagnava gli uomini sempre”, interessantissimo anche

dal nostro punto di vista con incidenze ad esempio in stampe del Tempesta 72 .

L’inserimento del Genio nel capitolo di Bacco (tav. 74) trova giustificazione nella comune

primordialità radicale della z¯oè e del rinnovamento della nascita, nonché

nella contiguità alla ‘figura’ del dàimon creativo, comune alla genialità e all’ebbrezza;

in aggiunta al particolare, invero accessorio e singolare, che vede il platano,

sacro al Genio, portare foglie molto simile alle bacchiche viti.

Con tutte le sue omissioni e tutti i suoi limiti, dovuti alla ricchezza senza qua-

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