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Fig. 10, A. Carracci, Trionfo di Bacco e
Arianna, 1596-1600,Roma , Palazzo
Farnese
lui assimilati “perché il vino fa gli uomini feroci e terribili come è la natura di questi
animali […] caldissimi che leggermente saltano, come facevano le Bacche e come
sono gli uomini sovente riscaldati dal vino più assai che non è di lor natura” 66 (fig.
1c, cat. 62).
favole” individuate da Kerényi 62 che fu l’albero per antonomasia del dio anche nell’arte
figurativa, grazie alla conformazione stessa dei grappoli, dei tralci con pampini
(gli ampeloi) e degli acini d’uva, così congeniali alla traduzione in figura, anche
per le loro cromie.
Ma è la descrizione del carro trionfale di Bacco con relative motivazioni del
suo assetto a mettere maggiormente alla prova le capacità descrittive di Cartari in
un misto di ‘pittoricità’ e di filologia che raggiungono il diapason con una citazione
da Stazio che vuole il mezzo di locomozione coperto di tralci e con un traino di
pantere e di tigri, asperse di vino (tav. 69, fig. 1c) . Per Boccaccio il veicolo bacchico
non può che essere dotato di ruote che girano “come il cervello a gli uomini”
inebriati dal troppo vino. E per rendere più suggestivo e convincente lo spericolato
accostamento, Cartari si profonde in una lunga digressione per raccontare una
“novella piacevole” di ben due paragrafi in cui si narra di alcuni giovani di Agrigento
“ubriachi solenni”, vittime di una sbornia colossale. Tanto ebbri da gettare
mobilio e suppellettili dalle finestre del luogo del convito, credendo di essere in alto
mare su di una imbarcazione in preda alle onde. La digressione della “buona
ubriachezza” che durò “molti dì, onde quella casa fu chiamata la Galea” merita di
essere anche qui ricordata perché anticipa un paragrafo appena seguente in cui si
racconta – e si illustra alla tav. 70 – il celebre episodio mitologico 63 della “Nave di
Bacco” e la si descrive, sulla scorta della visualizzazione di Filostrato, nei minimi
particolari, con ‘un rumore di fondo’ non esplicitato il quale riconduce le nostre conoscenze
a un carro trionfale per la campagna d’India che era in realtà un carrum
nauale 64 congegnato in modo da poter transitare sul suolo, ma anche da guadare
fiumi e solcare mari. La minuziosa descrizione del Reggiano del vascello di Dioniso
lo vuole dotato di “prora in forma di pantera”, con albero maestro configurato
come un tirso, cui “erano attaccate le porporee e risplendenti vele” con ricamato
sopra in oro “Tmolo monte della Lidia e le Bacche che quivi andavano scorrendo”.
Tutto era coperto di tralci di vite, grappoli d’uva e di rami d’edera, mentre da sotto
coperta “spiccava fuori un fonte di soavissimo vino”. A questa imbarcazione ‘di
cuccagna’ mirarono alcuni malcapitati pirati che sulla scorta del racconto di Ovidio
tentarono di rapire il giovane Bacco vedendosi trasformati in delfini dal dio mentre
il vascello veniva coperto da “edera in copia sì grande che legò tutti i remi e si
distese per l’arbore, per l’antenne e per le vele”. A presidiare il nume – spaventando
enormemente i “corsali” aggressori – stavano “tigri, pantere e liopardi 65 ”, a
Fig. 11, P. Veronese, Bacco con i Lari
e, alle spalle, il Sonno e Tersicore,
musa della danza, 1561-62 c., Maser
(TV), villa Barbaro, Sala di Bacco
7. Dopo l’apice “figurativo” della descrizione dell’imbarcazione dionisiaca il testo
di Cartari va inquinandosi delle sue abituali digressioni che lo conducono ad accorpare
altre divinità collaterali, più o meno minori o pertinenti, al nume principale
cui è dedicato il capitolo. Ne è avvisaglia la pur importante evocazione di un risvolto
bacchico della figura del serpente, già ricordato per il concepimento di Proserpina,
presunta madre di Dioniso. Da due “ferocissimi”, ma inoffensivi serpenti,
inviati dalle Parche, fu avvinto Bacco “fanciullo”; “donde venne poi che le Bacche
celebrando le sue cerimonie maneggiavano gli serpenti senza sentirne alcuna offesa”.
Quelle Baccanti che, cinte di rettili, si abbandonavano alla “misteriosa cerimonia
[…] dello squarciato vitello”, in un rito già ricordato che Cartari ripercorre
narrando il supplizio di Penteo che – sulla scorta di Ovidio, ma non delle Baccanti
di Euripide, probabilmente da lui conosciute – si presentò alla madre, fuori di senno,
facendolo “parere un giovenco, overo un cinghiale” per esserne da lei dilaniato,
aiutata dalle sue compagne.
La più lunga delle divagazioni, assolutamente non afferente a rappresentazioni
artistiche cinque-settecentesche – gravita attorno alla pur intelligente assimilazione
di Bacco alla divinità egiziana di Osiride, con lunghe citazioni probanti da
Tibullo. Tutto il repertorio di animali a lui pertinenti viene sciorinato con dettagliati
particolari, anche relativamente a cerimonie afferenti a Oro (Horus) e a Tifone, di
cui si ricostruiscono genealogie e contiguità con l’Olimpo greco (vedi tav. 71).
Ritornato sui suoi passi, Vincenzo argomenta sull’uccisione di Bacco stesso a
opera dei Titani, mediante uno smembramento messo in relazione ai già ricordati
riti cruenti delle Baccanti che le esegesi moderne hanno appurato avvenivano senza
coltelli, ma con il solo uso delle mani 67 . Scoperta che illumina e chiarisce quanto
il trattato cinquecentesco riferisce sull’omicidio di Bacco, “fatto a pezzi e cotto e
di nuovo poi ritornato insieme e tinto di gesso perché più non fosse conosciuto”.
Significando con ciò “che le uve sono peste e tutte rotte da’ contadini che ne spremono
il vino, il quale bolle purgandosi ne’ gran vasi non solamente di legno ma di
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