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Dirò del Rodi - Giuseppe Merlini

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a cura di

Giuseppe Merlini

ARCHIVIO STORICO




1970

2020

DI RÒ

del RODI

Ricerca storico documentale:

Giuseppe Rolli

Archivio Storico comunale di San Benedetto del Tronto

(foto Baffoni, foto Giammarini, foto Sgattoni)

Archivio della Capitaneria di Porto di San Benedetto del Tronto

Archivio della Capitaneria di Porto di Ortona

Archivio della Capitaneria di Porto di Catania

Archivio della Capitaneria di Porto di Ancona

Archivio della Società Micoperi

Archivio di Stato di Ascoli Piceno

Biblioteca comunale “G. Lesca”

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze

Si ringraziano:

Roberto Acanfora, Gigi Anelli, Marco Bertocchi,

Giuseppe Bruno, Giacomo Cagnetti, Maurizio Capponi,

Giacomo Capriotti, Giuseppe Carucci, Domenico Caselli,

Mario Cesarii, Giovanni Battista Crescenzi, Alessandro Di Blasio,

Remo Di Felice, Barbara Domini, Antonio Fabiani,

Alfredo Giammarini, Rovero Impiglia, Marco Marinelli,

Giuseppe Marzano, Elvio Mazzagufo, Agustina Micaela Medrano,

Paolo Mengoni, Maria Concetta Pompei, Romiti, Nicola Rosetti,

Paola Rosetti, Romualdo Rosetti, Maria Teresa Rosini,

Antonio Silenzi, Nazzareno Torquati, Francesca Vitelli,

Giuseppe Voltattorni, Giustino Zazzetta.

Interno copertina:

acquerelli di Carola Pignati

© Tutti i diritti riservati per testi, foto e documenti.


a cura di

Giuseppe Merlini

ARCHIVIO STORICO





Ci sono vicende che travalicano i confini della cronaca per assurgere a

simboli di un’epoca. Il naufragio del motopeschereccio “Rodi” è una di

quelle.

A mezzo secolo di distanza da quella sciagura, resta il ricordo di due grandi

dolori: quello di famiglie improvvisamente orfane di un congiunto,

quello di una comunità che rifiutò di rassegnarsi ad una burocrazia insensibile

attraverso una mobilitazione di popolo a cui ancor oggi guardiamo

con ammirazione e rispetto.

L’Amministrazione comunale ha voluto ripercorrere i passaggi di quei

giorni di fine 1970 attraverso una serie di approfondimenti documentali

racchiusi in questo cartellone che abbiamo voluto chiamare “Dirò del

Rodi”. Nel logo creato per l’occasione è stata inoltre graficamente recuperata

la memoria del motopesca ma anche delle sue gemelle Onda (disegnata

nel segno di infinito) e Luna (richiamata dal simbolo ordinale ° del

numero 50).

Grazie alla collaborazione della Fondazione “Libero Bizzarri” ed al lavoro

di ricerca svolto dall’Archivio storico comunale, in questa pubblicazione

acquisiscono dignità autonoma molti documenti ufficiali frutto di una

lunga ed appassionata ricerca dello studioso Giuseppe Rolli. La collaborazione

di molti sambenedettesi che ricordano e raccontano ha poi aggiunto

elementi interessanti e rievocato il clima culturale e sociale in cui maturarono

le contestazioni.

In un ideale passaggio di consegne dal mezzo di comunicazione cartaceo a

quello telematico, grazie al QR Code inserito nella bandella della copertina

è possibile accedere alla pagina del sito istituzionale del Comune dove,

oltre ad altro materiale iconografico e documentale, è pubblicato il video,

anch’esso intitolato “Dirò del Rodi”, che i registi sambenedettesi Giacomo

Cagnetti e Rovero Impiglia hanno realizzato attingendo al materiale girato

all’epoca dal cinefotoreporter Alfredo Giammarini.

Crediamo che in questo modo il Comune abbia reso il giusto omaggio, a

mezzo secolo dai fatti, non solo ai marittimi periti a bordo del “Rodi” ma

a tutti i sambenedettesi che, in quelle settimane, mostrarono al Paese di che

cosa sia capace una comunità ferita ma indisposta a subire l’onta del disinteresse

per la tragedia che stava vivendo.

L’Assessore alla cultura

Annalisa Ruggieri

Il Sindaco

Pasqualino Piunti


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Sulla tragedia del Rodi è stato scritto molto, tanto. In 50

anni, al di là di ogni personalismo, oltre ogni considerazione

più o meno socio-politica, si è cercato di raccontarne la

storia, narrare le vicende che ne scaturirono, dettagliare -

attraverso testimonianze dirette e resoconti - il malumore,

la frustrazione, la rabbia, il clima agitato e sgomento di

un’intera città sconvolta dall’ennesima tragedia del mare.

Altre “morti azzurre”, altro dolore, reso più lacerante e

maggiormente mortificato dall’immediata contiguità del

Natale. Per questo motivo, al di là delle caratteristiche tecniche

relative all’imbarcazione e alle sue gemelle “Onda” e

“Luna”, si è preferito pubblicare in modo più cospicuo

quella significativa documentazione capace di dare voce

all’oggettività di una memoria che, seppur infausta, deve

continuare ad essere raccontata. In particolare, la preziosa

documentazione fotografica viene proposta per dare concretezza

a nomi, vicende e ambientazioni. Tutti i documenti

rintracciati sono stati suddivisi in cinque specifiche

sezioni: soccorsi, proteste, l’inchiesta, visita ministro,

cordoglio.

“Dirò del Rodi” vuole essere anche qualcosa di più di una

commemorazione: è un tentativo di inquadrare il fenomeno

della marineria a San Benedetto del Tronto in modo più

sistemico e complessivo ed è un invito a guardare oltre i

fatti esclusivi della tragedia, aprendo lo sguardo alle manifestazioni

e alle contestazioni spontanee a cui diede vita

l’intera popolazione locale. Il sacrificio delle dieci vittime

unitamente alla veemente protesta civile determinarono un

importante lascito: in prosieguo di tempo, a livello politico-sindacale,

sarebbe stato sancito il riconoscimento di un

contratto nazionale di lavoro per regolamentare l’inquadramento

professionale della “Gente di mare”.


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Onda, Rodi, Luna: le barche

Onda, Rodi, Luna assieme al Ciccoli, già Atlanpesca, sono le prime

barche oceaniche costruite ex novo per pescare oltre le colonne

d’Ercole. Tutte le altre, adibite alla stessa tipologia di pesca, erano

imbarcazioni di riutilizzo nel senso che vennero convertite per lo scopo,

dopo essere state acquistate qua e là in varie parti d’Europa dagli armatori

sambenedettesi. Arriveranno poi anche altri scafi di nuova costruzione, che

andranno a formare la serie GTO (Giulianova Tortoreto Oceanica Pesca).

Progettate dall’ing. Giuseppe La Ferla, Onda, Rodi e Luna erano barche

gemelle della società “Aretusa” e vennero costruite dalla “Società Esercizio

Cantieri” di Viareggio. Lunghe quasi 58 m e larghe 9 m circa, la prima di

esse ad essere varata fu l’Onda il 9 aprile del 1964, comandata da Guido

Libbi. Fu poi la volta

del Rodi varata al

comando di Giacomo

Capriotti il 7 giugno

ed entrata in esercizio

il 9 luglio; il Luna

scese in mare il 29

agosto dello stesso

anno con in plancia il

comandante Salvatore Piunti. Immatricolate come “motonave da pesca”

dapprima presso la Capitaneria di Porto di Viareggio quindi trasferite alla

matricola del compartimento marittimo di Ancona. Tutte in acciaio, con

due alberi, gli scafi inizialmente erano, così come il Ciccoli, di color

grigio, poi la carena divenne tota nigra con l’opera viva rossa o verde.

Possedevano serbatoi per 2400 quintali di nafta e 600 quintali d’acqua

dolce ed erano fornite anche di un distillatore per l’acqua marina in grado

di produrre 100 litri d’acqua all’ora per gli utilizzi più vari di cucina, di

lavatrice, di servizi igienici. Il motore principale, o di propulsione, era un

Ansaldo ad otto cilindri della potenza di 1065 HP in grado di compiere 410

giri al minuto. La velocità massima di questa tipologia di motonave era di

tredici miglia e mezzo all’ora. Con un’autonomia di 110 giorni, l’Onda, il

Rodi e il Luna effettuavano una campagna di pesca media di circa 70

giorni di cui 8/10 giorni per il viaggio di andata ed altrettanti per quello di

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ritorno. Al di là della strumentazione di bordo in plancia (radar, scandagli,

ecc.) e di sala macchine, a bordo erano stati installati anche motori ausiliari:

3 diesel tipo Mercedes-Benz a sei cilindri, della forza, ciascuno, di 220 HP,

dei quali due motori utilizzati come generatori di corrente alternata a 220

volt in grado di produrre 360 kilowatt per i compressori frigoriferi,

l’illuminazione, il salpancora; 1 motore in grado di produrre corrente

continua adibito al verricello per salpare le reti; 1 motore diesel di 55 HP

per l’illuminazione nei periodi di sosta.

I verricelli salpareti e salpancora, l’argano di tonnellaggio, la timoneria, i

telegrafi di macchina erano stati forniti dalla ditta “Nuova S. Giorgio” di

Genova Sestri mentre i motori elettrici e le pompe erano della società “E.

Miarelli” di Milano; l’impianto elettrico era stato messo a punto dalla ditta

“Schiavoni” di Ancona e quello di condizionamento d’aria dalla “De

Cardenas” di Milano. Di notevole importanza era l’impianto generatore del

freddo della ditta “Barbieri di Bologna, costituito da due compressori ad

ammoniaca, ognuno dei quali in grado di produrre 460.000 frigorie/ora e

capaci di abbassare la temperatura nelle due celle di congelazione a -40°C,

-50°C e nelle due stive di conservazione a -20°, -30°C. L’isolamento delle

celle di congelazione e delle stive di conservazione, realizzate dalla ditta

“Pruriplast” di Ascoli Piceno, prevedeva un metodo all’avanguardia per i

tempi in grado di utilizzare quantitativi di schiuma poliuretanica sia espansa

sia rigida.


L’equipaggio era costituito, normalmente, da 25 uomini: il comandante, un

direttore di macchina, due ufficiali di coperta, due ufficiali di macchina, due

sottufficiali di coperta, due sottufficiali di macchina, un cuoco, un maestrino

di mensa, 13 marinai compreso il mozzo e il garzone. A Las Palmas inoltre

venivano reclutati anche un paio di pescatori spagnoli adibiti a lavori di

pulizia del pesce (decapitazioni, sventramento, lavatura, ecc.).

L’equipaggio dell’Onda, del Rodi, del Luna disponeva di razionali cabine

ricavate quasi tutte sul lato sinistro perché sul lato destro si svolgevano

tutte le manovre di pesca. Erano fornite di armadietto, di illuminazione

anche sulle testate delle cuccette e di aria condizionata. La cucina ampia in

lunghezza era posta sul primo ponte di coperta e affacciava sulla parte

destra della barca. Alle sue estremità due sale da pranzo: una per i marinai

e i sottoufficiali, l’altra per gli ufficiali. Nella cambusa si conservavano i

viveri non deperibili mentre per frutta, verdura, carni ed altri alimenti

erano state installate due celle frigorifere appositamente dedicate.

Sul ponte di comando era stata ricavata la saletta nautica, dotata di

numerose carte di navigazione e di un radiogoniometro, mentre una cabina

era riservata appositamente agli apparecchi radio riceventi e trasmittenti.

Al posto del timone i comandanti disponevano di una leva che si spostava

in senso orizzontale. A fare bella mostra di sé e quasi ad assumere valore

apotropaico, così come da sempre lo sono gli occhi di cubìa, sulla parete

esterna della plancia sovrastante la prua del Rodi era stato disegnato

Paperone, sull’Onda invece Topolino. L’Onda, il Rodi e il Luna, così come

le altre imbarcazioni della marineria sambenedettese, effettuavano la pesca

a poca distanza dalla costa occidentale dell’Africa, dalle 12 MN, limite

delle acque territoriali, alle 50 MN, circa, tra il 24° di latitudine nord (in

direzione di Villa Cisneros, Sahara spagnolo) a circa 10° di latitudine nord,

di fronte alle coste della Guinea, la cosiddetta platea continentale, zona

definita della “grande pesca a strascico” perché la più popolosa di specie

ittiche.

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Il primo equipaggio dell’Onda

Il primo 18 equipaggio del Rodi


La pesca

La pesca alla quale erano adibite l’Onda, il Rodi e il Luna si

effettuava con la rete a divergenti, del tipo chalut à panneau

francese, dell’otter trawl inglese e della Scherbretnetz tedesca. Si

tratta di una rete a strascico di nailon che veniva calata da 10 m a circa 300

m di profondità, con un “sacco” lungo 42 m, largo 28 m ed alto 11 metri

all’apertura.

Il lato superiore dell’apertura, chiamato “lima da sughero” era provvisto,

nella parte centrale, di una serie di galleggianti, il lato inferiore, detto “lima

di piombo” invece appesantito da un cavo di acciaio e piombi.

Durante il traino della rete l’apertura era tenuta divaricata da due divergenti

(due tavoloni del peso di circa una tonnellata, ciascuno) collegati ad un

cavo alla distanza di 70-80 m dall’estremità del rispettivo braccio della

rete; i cavi di alaggio proseguivano dal divergente fino a giungere

all’imbarcazione dove si avvolgevano ad un verricello costituito da due

tamburi che si potevano manovrare indipendentemente l’uno dall’altro in

modo da regolare la lunghezza dei cavi; la lunghezza di alaggio dai

divergenti era regolata in base alla profondità della zona di pesca, dove la

rete veniva calata in mare dalla fiancata e trainata per circa tre ore, alla

velocità media di 4-4,5 miglia all’ora. Per tirare a bordo, o salpare o alare

la rete, per mezzo del verricello salparete occorreva circa un’ora; il fondo

del sacco veniva slegato e il pescato veniva deposto sulla coperta della

motonave.

Mentre ci si preoccupava di selezionare il pescato (cernie, dentici, orate,

ombrine, sogliole, caponi, razze, gattucci, palombi, calamari, seppie, ecc..)

per qualità e taglia, la rete veniva di nuovo calata in mare per proseguire la

pesca.

Intanto il pesce veniva sventrato, lavato in acqua di mare raffreddata

(quello di dimensioni piccole, di 20-30 cm di lunghezza veniva soltanto

lavato) e poi disposto dentro cassette di legno di due dimensioni (78x45x11

cm; 88x53x12 cm) che venivano sistemate nelle due celle di congelazione

con una temperatura fino di - 40°C. - 50°C.

Dopo tre ore di sosta nelle celle di congelazione (che potevano contenere

fino a 40 q.), il pescato, completamente congelato, veniva smistato, per

equilibrare il peso, nelle due stive di conservazione di cui una di poppa

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(con una capacità di 120 tonn.) e

l’altra di prua (150 tonn.). Quando

le stive erano piene si poteva

riprendere la rotta di ritorno.

La tecnica di congelazione applicata

a bordo dell’Onda, del Rodi, del

Luna come pure di altri natanti, era

denominata “ultrarapida” e

Da sx: Gino Mascaretti, Pietro Rosetti, il procacciatore,

Tommaso Marinangeli e Federico Meo

permetteva di conservare, anche a

distanza di tempo (da diversi mesi

fino ad un anno) i prodotti della pesca ed altri alimenti, con le caratteristiche

del prodotto fresco chiamato dai francesi surgelé, dagli americani quick

freezing e dagli italiani surgelato.

Tra dicembre 1966 e maggio 1968 le tre unità vennero trasferite e quindi

iscritte al Compartimento marittimo di Messina perché la Società Aretusa

aveva trasferito la propria sede legale nel porto siciliano potendo così

attingere ad indennità di trasferimento oltre ai fondi previsti dalla Cassa

del Mezzogiorno. L’Aretusa contava quattro soci: i tre cognati Tommaso

Marinangeli, Gino Mascaretti, Federico Meo, e Pietro Rosetti. Fu proprio

Pietro Rosetti, che aveva già fondato l’Associazione Armatori

Sambenedettesi, ad avere per primo l’intuizione del sud America, nuovo

fronte di pesca. Nel 1965 l’Onda venne trasferita a Callao per la pesca del

palombo nelle acque peruviane mentre il Rodi e il Luna rimanevano in

zona di pesca in Atlantico.

Si pescava “alla parte” secondo un sistema arcaico che si rifaceva al periodo

della pesca a vela transitato poi con l’avvento della motorizzazione e

utilizzato anche per i motopescherecci locali in pesca nel Mediterraneo

durante il secondo dopoguerra inoltrato. Per la pesca mediterranea in realtà

esisteva un contratto collettivo stipulato tra sindacato e armatori, ma nulla

era stato normato per la specifica categoria dei lavoratori atlantici. Ci si

rifaceva “alla parte” dunque anche per la pesca oceanica, un sistema che

prevedeva uno stipendio in compartecipazione senza conoscere a priori la

spettante retribuzione certa. Tolta la parte più sostanziale, quella degli

armatori, poco meno della metà era grosso modo così ripartita: comandante e

direttore di macchina, due parti (anche se in genere i comandanti e i direttori

di macchina si accordavano direttamente con l’armatore); I ufficiale di

coperta e I ufficiale di macchina, una parte e tre/quarti; sottoufficiali tra cui il

II ufficiale di coperta, il motorista e capiservizio (elettricista, nostromo,

retiere, cuoco), una parte e mezza; i marinai, una parte. La classe marinara per

la verità non godeva di pensioni e altre forme di previdenza in linea coi tempi.

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Il naufragio e le contestazioni

Il 23 dicembre 1970, alle ore 11 circa, la nave cisterna “Mariangela

Montanari”, in navigazione al largo di Martinsicuro e diretta a San

Benedetto del Tronto, comunicava al locale Ufficio Circondariale

marittimo di aver avvistato uno scafo di nave rovesciata a circa 3 miglia

e 800 m al largo della foce del Tronto e iniziava immediatamente

un’accurata perlustrazione intorno al relitto per un raggio di circa 5

miglia. Accertato che si

trattasse del Rodi, le

operazioni di ricerca dei

superstiti si protraevano

nella zona di mare

compresa tra San

Benedetto del Tronto e

Pescara, fino a tutto il 25

dicembre. Oltre alla

Mariangela Montanari e

al rimorchiatore Saipem

Orsa parteciparono alle

operazioni di soccorso

anche mezzi aerei, unità

La motocisterna Mariangela Montanari

militari, mercantili e i motopescherecci Conte Bianco, Nuovo S. Vincenzo

de’Paoli, Nicola Emma, Alba Costanza, Traversa, San Diego, Ida Nicola,

Tramontana. Il 24 dicembre partiva pure da Ancona, per avvicinarsi alla

zona delle ricerche, il rimorchiatore Cesare Davanzali e in quella sofferta

e surreale vigilia di Natale la Saipem Orsa tornava di nuovo in mare verso

le ore 10 per cercare di agganciare il relitto capovolto. Vi riuscì in parte

dato che lo scafo non si smosse nonostante l’assistenza del rimorchiatore

Blankenburg.

Le ricerche dei naufraghi intanto davano esito negativo, in quanto

venivano rinvenuti in mare solo dotazioni di bordo, attrezzi e altri oggetti

vaganti; l’Adriatico continuerà a restituire pezzi e apparecchiature

appartenenti al Rodi fino a metà gennaio 1971. Si voleva però che il mare

o il relitto restituissero almeno i corpi dei marittimi, ma complicazioni

burocratiche rischiavano di ritardare il recupero dello scafo mediante

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l’utilizzo di adeguate tecnologie. Fu così che improvvisamente esplose la

protesta: non era ancora stata firmata la dichiarazione di perdita della

nave, l’assicurazione traccheggiava prima di esporsi a risarcimenti e così

l’esasperazione montò sempre più accesa negli animi della gente in un

continuo crescendo fino a sfociare in blocchi e in azioni di vera e propria

disobbedienza civile: “Vogliamo sapere chi dobbiamo ringraziare per

questi nostri morti, per questo Natale di lutto” recitavano alcuni cartelli

incollati alla buona sui muri cittadini, e il 27 mattina alcuni esponenti di

“Lotta continua” appesero, in diverse zone della città, dei manifesti con su

scritto “I falsi pianti degli armatori” invitando tutti a vendicare quei morti.

Come non era mai accaduto in precedenza, l’intera cittadinanza, al di là

del rango sociale e del credo politico, si ritrovò compatta, dagli studenti ai

marinai: si procedette al blocco della linea ferroviaria, furono alzate

barricate per impedire il traffico sulla SS 16 finché non si fossero snellite

le pratiche burocratiche forse ingarbugliate ad arte da parte di chi, pur di

temporeggiare, adduceva a pretesto persino le avverse condizioni

atmosferiche. Un’idea fissa ed unanime si era ormai impossessata del

cuore e della mente dei sambenedettesi: FARE PRESTO! La priorità

assoluta era quella di recuperare il relitto e con esso, si sperava, tutti i

corpi dei marinai, anche di quelli più giovani, dei “libretti bianchi”, di

coloro cioè che erano al primo imbarco.

Oltre ai giovani studenti di Lotta Continua, salirono sulle barricate anche

gli esponenti della destra giovanile e i sambenedettesi che non contribuirono

in maniera aperta, parteciparono comunque più o meno direttamente

perché ispirati da un forte senso di solidarietà, quel particolare sentimento

capace di creare comunione tra gli animi disponendoli all’unità soprattutto


in occasione di grandi tragedie. In poco tempo tutta la città era in

agitazione e questa rivolta manifesta ebbe come conseguenza di dividere

in due e di bloccare l’Italia tutta: fermi i treni, interrotte la Statale 16 e la

Salaria. I contraccolpi negativi si cominciavano a sentire già alla stazione

di Bologna sotto forma di ritardi e di cancellazione di convogli, ma anche

tutto il versante sud orientale della penisola non poté sottrarsi all’isolamento.

Il 28 venne indetto uno sciopero generale e le saracinesche di tutti gli

esercizi commerciali rimasero abbassate. La protesta fu determinante

perché di lì a poco avrebbe assunto anche una connotazione sociale e

politica: molta gente prese coscienza della pressoché totale mancanza di

tutele previdenziali ed infortunistiche nei contratti della “Gente di mare”.

Ciò fu di stimolo per i rappresentanti dei partiti politici, dei sindacati,

delle categorie dei pescatori e degli armatori nonché dei vari enti locali a

sollecitare un incontro con le autorità di governo per rivendicare maggiori

garanzie e migliori condizioni di lavoro per i marittimi del settore: un

contratto di lavoro specifico per la pesca oceanica; il rinnovo dei contratti

per migliorare le condizioni economiche e professionali dei pescatori tutti,

oltre ad una serie di richieste riguardanti un adeguamento della struttura

portuale e una migliore razionalizzazione della stessa. I passaggi più crudi

dell’autunno caldo, il nuovo “biennio rosso” - quello delle lotte operaie e

studentesche che caratterizzarono le città industriali e universitarie d’Italia

tra il 1968 e il 1969 - con le dovute proporzioni e corrispondenze ebbero

modo di ripetersi con le medesime modalità anche a San Benedetto del

Tronto. Il Rodi fu la miccia che innescò in maniera irreversibile la bomba

del disagio crescente di un’intera categoria: gli uomini della pesca

oceanica erano ormai stanchi dei tanti convegni sul tema che si erano

susseguiti senza peraltro risolvere nemmeno in modo incipiente i problemi

posti sul tavolo ed erano frustrati dalla prospettiva di dover continuare a

sopportare fatiche che avevano davvero poco di umano durante le lunghe

campagne di pesca. Si trattava di una singolare forma di occupazione nella

quale la voce “doveri” non contemplava mai il corrispettivo “diritti”,

cosicché orari e turni di lavoro erano concetti meramente aleatori: si

lavorava ininterrottamente durante le ventiquattro ore senza sosta alcuna,

se non qualche attimo di riposo per consumare velocemente pasti o per

stendersi giusto una mezz’ora con gli abiti in dosso intrisi di salsedine e

magari ancora con gli stivali ai piedi. Le burrasche, i venti, il caldo umido

di alcune zone rendevano il lavoro ancor più faticoso e disagevole.

Le sofferenze fisiche si sommavano ad un generale malessere psicologico

che trovava il suo fattore scatenante in quella che in lingua portoghese,

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con accezione brasiliana, è più della nostalgia: è la saudade, di chi era in

mare aperto, lontano e in un deprimente stato emotivo, cui faceva da

corrispettivo quella non meno penosa di chi restava a casa in attesa e in

accorato pensiero, in una condizione di continua tensione solo appena

attenuata dalla presenza solidale degli altri congiunti.

Lo Statuto dei lavoratori promulgato con la legge 20 maggio 1970, n. 300

lasciava ben sperare anche in relazione alle aspettative e alle rivendicazioni

della “Gente di mare”. Molti però compresero che l’efficacia della riforma

e i suoi effetti pratici avrebbero tardato a concretizzarsi stante anche la

mancanza di un punto di riferimento certo dal punto di vista istituzionale

dato che il Comune era commissariato, essendo stato sciolto il Consiglio

comunale venti giorni prima; a questo si aggiunse l’ormai atavica

mancanza di fiducia nei confronti della classe politica, resa poco credibile

da sostanziale inadempienza rispetto alle consuete aleatorie promesse

elettorali. Furono questi sostanzialmente i fattori che alimentarono la

rivolta cittadina: i disordini nelle strade e nelle piazze assumevano

sempre più connotazioni

rivoluzionarie, dato che

quello che si voleva era un

effettivo cambiamento

radicale nella considerazione

umana, economica, politica

e sociale del comparto

pesca tutto. Nei giorni di

protesta, infatti, si parlava

non solo del recupero dei

morti del naufragio, non

solo di contratto di lavoro

e di assicurazioni, ma

anche dell’adeguamento

delle strutture portuali per

renderle più efficienti

rispetto al mutato scenario

apertosi con la pesca

intercontinentale; si entrava

nel merito dei criteri per la

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Prima pagina della “raccolta firme”

per il recupero delle vittime del Rodi


costruzione di navi sicure e adeguate alla navigazione oceanica; della

disponibilità di fondi pubblici per gli armatori e di tutta una serie di altre

problematiche suscitate da quella nave capovolta senza governo che la

corrente aveva spostato verso sud con il suo carico di morte. I manifestanti

piazzarono una postazione microfonica alla stazione, dalla quale giovani,

marinai e chiunque altro volesse, prendendo la parola, invocavano ad alta

voce e pubblicamente quanto fino a quel momento era stato sottaciuto, pur

essendo noto a tutti.

Il Governo intervenne dietro le pressioni, le insistenze, il sollecito politico

delle autorità locali recatesi a Roma, ma anche per scongiurare che si

replicasse la situazione dei “Moti di Reggio Calabria” ancora in atto, pur

se riconducibili a motivazioni del tutto differenti. I blocchi e le rimostranze

terminarono il 29 dicembre con l’avvio dei lavori di recupero da parte del

pontone “Micoperi 30” che, con l’ausilio di due rimorchiatori, iniziava ad

operare sotto gli occhi di migliaia di sambenedettesi che si erano portati

ad Ortona davanti al relitto del Rodi sul quale prendevano avvio le

operazioni di ispezione dello scafo.

I solenni funerali delle quattro vittime, rinvenute all’interno della nave

rispetto ai dieci membri dell’equipaggio, si svolsero alla presenza delle

autorità, tra cui l’ammiraglio Luigi Angelo Longanesi Cattani comandante

del dipartimento marittimo dell’Adriatico. L’11 gennaio 1971 una

delegazione di marinai sambenedettesi incontrava, finalmente, il ministro

della Marina mercantile Salvatore Mannironi.

Mentre veniva aperta una commissione di inchiesta per il sinistro

marittimo del Rodi al fine di raccogliere elementi tecnici emergenti

dall’esame del relitto, sul fronte delle conquiste sociali dei marittimi si

doveva attendere ancora. E’ vero che dalla fine degli anni ’50 la situazione

aveva iniziato a prendere una piega diversa con i comandanti e il personale

specializzato che iniziarono a fare accordi diretti con gli armatori per

migliorare le condizioni retributive; per i marinai tuttavia nulla era

cambiato in modo sostanziale e rimanevano ancora ostaggi della

consuetudine. Occorre doverosamente segnalare l’eccezione costituita,

per breve periodo, dalla CO.PE.A. (Società Cooperativa di Lavoro Pesca

Atlantica) che, oltre a recuperare il concetto e i valori della cooperazione,

cercò fattivamente di migliorare le condizioni dei pescatori imbarcati sulle

proprie unità pescherecce, le motonavi della serie Sardatlantic: la

Cooperativa realizzò importanti conquiste come lo stipendio fisso, le

ferie, i turni di lavoro. Per il resto era ancora tutto da fare, specialmente

dopo il fallimento della stessa CO.PE.A. Il contratto di lavoro collettivo

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verrà firmato dalle organizzazioni sindacali e dalle associazioni armatoriali

solo il 1° ottobre 1984. Nonostante i miglioramenti ottenuti consistenti nel

riposo settimanale non inferiore alle 48 ore, orario di lavoro quotidiano di

8 ore anche in navigazione e in zona di pesca, tredicesima e quattordicesima

mensilità, retribuzione minima svincolata dal risultato delle campagne di

pesca, l’avventura oceanica sambenedettese era ormai in agonia e

destinata a tramontare di lì a poco.

Un po’ di tempo dopo presso la locale Pretura iniziarono gli interrogatori

per i fatti del Rodi, a carico degli imputati per la sommossa popolare del

27 dicembre del 1970, con specifici capi d’accusa: “incitamento della

popolazione mediante altoparlanti sistemati su autovetture; rovesciamento

sui binari ferroviari della stazione di carrelli portabagagli, carrelli

portavivande, numerosi tronchi di legno ma anche altri oggetti; blocco

stradale; blocco della zona del Porto; apologia mediante volantinaggio e

mediante affissione di stampati”. Di tutta una città solo sedici furono i

sacrificati. Il rinvio a giudizio ci fu il 20 aprile del 1983 e, con sentenza

del tribunale di Ascoli Piceno, in virtù di un’amnistia che aveva annullato

le infrazioni, si dichiarava il non doversi a procedere nei confronti dei

sedici imputati.


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- soccorsi -

































- proteste -

































- l’inchiesta -




























Schizzi a corredo della deposizione del comandante della Mariangela Montanari








































Il relitto del Rodi

nel porto di Ortona



- visita ministro -











- cordoglio -









Stadio F.lli Ballarin - l’arrivo dell’ammiraglio Luigi Angelo

Longanesi Cattani per i funerali delle vittime del Rodi






Finito di stampare nel mese di dicembre 2020

dalla Fast Edit di Acquaviva Picena (AP)

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