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Riflessioni di un prete

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ph. di copertina di D. Cavallo

5 Dicembre 2020

Buon Compleanno, don Fabrizio!


RIFLESSIONI DI UN PRETE

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Premessa

Anche quest’anno abbiamo accolto l’invito di quanti chiedevano

una raccolta delle riflessioni di don Fabrizio Cotardo.

Siamo al TERZO APPUNTAMENTO con le “ Riflessioni di un

prete” , nonostante i problemi di questo difficile 2020 ,un anno

di emergenza sanitaria che ha sconvolto le nostre vite ma che

non ci ha tolto il desiderio di accostarci con consapevolezza alla

Parola di Dio.

Ringraziamo ancora una volta don Fabrizio per averci fatto

dono del suo tempo, nonostante i molteplici impegni, dandoci

la possibilità, in un momento di grandi incertezze, di trovare,

attraverso le sue riflessioni sulla Parola, una spiegazione,

un chiarimento , un arricchimento, una consolazione , per

poter vedere nella crisi causata dalla pandemia un’opportunità

e non un’ occasione di smarrimento, di disperazione

Ancora una volta troviamo nelle parole di don Fabrizio un momento

di discernimento per leggere da cristiani la storia di cui

siamo protagonisti con la nostra umanità, con le nostre incertezze

ma anche con il bisogno di crescere nella fede, per essere

testimoni di speranza , di gioia, di solidarietà, di ascolto dell’altro,

per condividerne gioie e dolori in un abbraccio che speriamo

presto non sia più virtuale.

Con questa raccolta si è voluto andare incontro a chi voleva avere

a disposizione tutte le riflessioni di seguito, da rileggere in tempi

e modi personali, ma anche raggiungere quanti non hanno avuto

la possibilità di conoscerle, di apprezzarle, di meditarle per un

approccio diverso con la Parola di Dio .

Le restrizioni di vario tipo, cui l’emergenza sanitaria ci ha portati,

ci hanno indotto ad una nuova formula editoriale, in attesa di

procedere alla stampa anche di questo terzo opuscoletto.

Con queste nuove modalità si potrà raggiungere un numero di

lettori maggiore e in tempi brevi, e questo ci fa piacere.

Buona lettura.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

01.12.2019

Buon avvento!

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il

Signore vostro verrà» (Mt 24,42).

Comincia l’avvento.

Inizia un nuovo anno liturgico che ci permetterà, ancora una

volta, mai sazi della Parola di Dio, di metterci in ascolto della lieta

novella che diventa carne di un Dio che è mio compagno di strada,

sostegno nella vita.

“Vegliate perché non sapete in quale giorno il Signore verrà”.

Un invito che è gravido di attesa come lo sbocciare dei fiori in

primavera, preludio di dolci frutti che a tempo opportuno matureranno.

Una manifestazione che è già presenza ma ha ancora il gusto

dell’attesa.

È l’annuncio gioioso della fedeltà di un Dio che è venuto, viene e verrà.

È il compimento di una promessa rinnovata che già genera stupore e

riempie il cuore (e la vita) di meraviglia nuova.

Essere sentinella del giorno nuovo che si profila all’orizzonte

mentre la notte viene ormai messa in fuga dalla luce che avanza.

È già luce che sorge ma è speranza di un “pieno giorno” luminoso,

intenso, avvolgente.

Vegliare perché c’è la verità di un appuntamento: il Signore verrà.

Un imperativo che è invito, seguito da un’affermativa che è certezza.

Vigilare per non lasciarsi appesantire il cuore è uno stare attenti

per non incorrere in errori del passato: «Come nei giorni che precedettero

il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie

e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca,

non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti:

così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo» (Mt 24, 38-39)

Un appello a non lasciarci assorbire, una sollecitazione per non

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

essere travolti dalle occupazioni quotidiane, una chiamata a saper

essere, costantemente, cercatori della “perla preziosa” che si

nasconde nelle pieghe dell’umanità, della storia, della vita di tutti

i giorni.

Accorgersi.

Accorgersi che realmente Dio passa nelle mie giornate, mi benedice

nelle mie relazioni, mi sprona nella carità con le richieste di

coloro che abitano i miei spazi, il mio tempo.

Incontri, mani, situazioni che divengono i mille volti di Dio che

“passa”, mi visita ogni giorno, epifania del Veniente.

Rendersi conto di ciò che si vive, della concretezza dell’attimo

presente e dell’attuarsi costante di mille occasioni.

Presentire che il “Veniente” c’è, abita già il mio oggi, il mio passato

e il mio futuro.

Stare attenti, superare la sonnolenza del cuore, essere costantemente

vigilanti nel ricercare e scoprire la bellezza di Dio che

sceglie di manifestarsi nella straordinarietà dell’ordinarietà.

Vegliare, allora, è beatitudine realizzata nella prontezza di un

cuore vigile, appassionato, già ebbro nell’attendere, mentre pregusta

la gioia dell’incontro.

Verrà il Signore, “come un ladro di notte”, a rubarci il cuore, a

rapirci per farci totalmente suoi in un’eterna danza della Vita.

Per questo s’incarna.

Per questo nasce.

Per questo mi sollecita a vegliare.

Vigiliamo, dunque, perché questo è il tempo dell’attesa, dell’alleanza

che si rinnova, delle promesse che si compiono.

Questo è il tempo di un Dio “che viene” e noi, fedeli, non manchiamo

all’appuntamento.

Buon avvento!

Auguri per un nuovo anno liturgico sicuramente denso di attese

ma benedetto dalla fedeltà di Dio che non abbandona mai.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

08.12.2019

L’Eccomi di Maria

«Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una

città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa

sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe»(Lc

1,26-27).

A

l sesto mese ...

Come il primo Adamo fu creato nel sesto giorno, ora l’Angelo,

foriero di liete notizie, è inviato il sesto mese per annunciare

la nascita del “nuovo Adamo”, restauratore dell’antica armonia

perduta tra Dio e gli uomini.

Il primo Adamo creato nel giardino terrestre, il nuovo Adamo

concepito nel grembo Verginale di Maria, giardino olezzante di

virtù e fragrante di ogni bellezza.

«Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28).

Gabriele è latore del “Vangelo”, di liete notizie, parla di gioia,

porta la gioia di Dio, un Dio che sceglie, ama per primo ed ha la

grande umiltà di chiedere “permesso” prima di entrare nella storia

degli uomini.

E dalle parole dell’angelo si intuisce

subito che Dio sarà sempre il

“con te”, l’Emmanuele, Colui che

per sempre si farà compagno di

viaggio.

E lo fa a Nazaret, presso la casa

di una ragazza, nella normalità

di una qualsiasi mattina, affinché

d’ora in poi tutta la vita, ogni

aspetto della quotidianità abbia

l’intenso sapore di Dio, l’acuto

profumo di Eternità.

Nell’estatica primavera di un’alle-

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

anza ritrovata in un “sì” che cambia il corso della storia, si instaura

l’eterna antica danza tra un Dio che si fa uomo affinché l’uomo

divenga come Dio.

Il settimo giorno è il riposo di Dio, qui è Maria a divenire il riposo

dell’Eterno, tenda vivente della Shekinah, della Presenza che assume

la sua carne, che diviene Parola pronunciata, definitiva, di

un Dio che parla all’uomo di salvezza.

E Maria diviene l’amata per sempre e da sempre, immagine di

ogni creatura che aprendosi all’amore divino, dispone il proprio

cuore al “fiat”, per trasformare la propria vita in un’esplosione di

danza con l’Eterno.

E come le vetrate, attraversate dalla luce mettono in risalto i propri

colori rivelandone i disegni che esse custodiscono, così Maria,

attraversata da Dio, dalla sua grazia, fa emergere la bellezza delle

virtù di cui lei è scrigno.

L’eterno penetra la storia, il totalmente Altro si fa prossimamente

vicino, Colui che abita nei cieli stabilisce la sua tenda sulla terra, il

Tutto si fa frammento.

E Maria, l’Immacolata, con il suo “eccomi”, diviene la gioia di Dio.

15.12.2019

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Un Dio “diverso”

«Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?»

(Mt 11,3).

Una domanda, quella di Giovanni, che lascia trasparire la fatica

del credere.

Bella per questo.

Giovanni ha annunciato con tutte le sue forze la “maturazione”

del tempo messianico.

Un invito costante alla conversione il suo, fatto di deserto, di digiuno

e penitenza.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

E qui, proprio qui, nasce la domanda nel vedere nell’annuncio del

Nazareno la rivelazione di un Dio che respira la mia aria, diventa

compassione affinché le mie miserie siano trasfigurate dalla sua

misericordia.

Un Dio che accoglie i peccatori, li invita alla sequela, li perdona.

Un Dio “diverso” da quello che Giovanni aspettava ma non per

questo rinuncia all’attesa

Comprende, allora, che bisogna spalancare le orecchie del cuore,

capire con gli occhi della fede e sentire che il tempo delle profezie

è gravido di certezze: i ciechi vedono, i sordi odono, i muti

parlano, i malati vengono guariti.

Ma quanti ciechi, sordi, muti, malati restano da guarire.

Le guarigioni, allora, sono (e resteranno) segni della presenza

messianica che ci dicono che il sogno di Dio è cominciato e che

non si realizza in miracoli esorbitanti.

Un Dio che sorprende nel silenzio di un’apparente normalità.

Un Dio che non si lascia incasellare nelle nostre idee.

Un Dio che sorpassa le nostre aspettative perché decide di farsi

povero con i poveri, malato con i malati, piccolo con gli ultimi.

Un Dio prossimo nella sofferenza, persino nella morte.

Un Dio che incarna la nostra umanità sfregiata dai limiti del dolore

e con la sua compassione, con il suo perdono mette le ali della

libertà ai cuori che sanno riconoscerne la presenza e condividerne

il progetto.

E Giovanni, mai stanco di attendere, capisce che finalmente è arrivato

il tempo, inizia a guardare con occhi nuovi, si lascia plasmare

dalla perenne novità che Dio è, ne rispetta le scelte e ne gusta la

gioia.

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20.12.2019

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

A NATALE PUOI...

L

’aria profuma già di Natale, pacchi speziati di arancia e cannella,

luci colorate rendono brillanti le strade e le vetrine.

In chiesa l’antica novena, i canti, hanno il sapore d’altri tempi e

tutti, piccoli e grandi, col naso all’insù, gustiamo la magia dolcissima

del presepe.

I rapporti si distendono, le bocche si arrendono ai sorrisi, le mani

si stringono, ci si accorge dell’altro.

È inutile... la magica atmosfera del Natale è una delle rare occasioni

in cui torniamo ad essere realmente umani, realmente vivi.

Ci riscopriamo abitati da sentimenti, da nostalgia, il tempo stesso

rallenta, ci permettiamo di ritrovare spazi per noi, per gli altri, per

la vita.

È il luogo dove ritrovare la nostra innocenza da bambini, è un

esserci nel presente che inevitabilmente ci porta indietro nel

tempo per ricordare un’atmosfera familiare: un presepe, un

albero, sapori, regali volti ed emozioni di un passato che ormai

non è più.

Qui il brivido della vita ci attraversa, ci vediamo cresciuti, incapaci

di quelle stesse emozioni ma pazzamente desiderosi di riviverle,

di sentirle, di farle nuovamente nostre.

È la magica aria natalizia che ce lo impone.

È la luce dorata accompagnata dalle sempre uguali canzoni che

ci trasportano nel tepore dell’anima in quegli spazi più intimi, più

caldi, più familiari, di un tempo che fu.

Allora occorre guardare il Bambinello, rientrare nel proprio cuore

e lì scoprire che c’è il vero spirito del Natale che ci abita sempre,

da sempre... siamo noi a ricordarcene

solo una volta l’anno.

Se ce ne ricordassimo più spesso, sempre, saremmo “esseri umani

che hanno il coraggio di essere umani”, vivi, abitati dagli aspetti

più belli della vita.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Bellissimo sarebbe, allora, poter sostituire quel “a Natale puoi”

della ormai famosissima canzoncina pubblicitaria che ci accompagna

ogni anno, con: “nella vita puoi”.

Sì, nella vita puoi fare quello che non hai fatto mai perché se

“Vivi” puoi dare di più agli altri, a te stesso.

Sempre, non soltanto a Natale.

21.12.2019

La magia del presepe

Alcuni oggetti hanno un valore inestimabile poiché portano

dentro di loro una magia straordinaria.

Alcuni oggetti hanno una “preziosità” intrinseca perché hanno la

capacità di farti viaggiare nel tempo, di farti rivivere odori, sapori,

emozioni con una, non comune, forza evocativa.

Restavo affascinato di fronte al presepe che, puntualmente, veni-

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9

RIFLESSIONI DI UN PRETE

va allestito a casa mia e coltivavo, segretamente, il sogno di poter

“giocare” con le tante statuine che lo popolavano.

Vivevo con emozione lo “smontaggio” di quel piccolo capolavoro

perché, solo allora, mia mamma mi concedeva di poter fare mie

(per pochissimo tempo) quelle statuine meravigliosamente belle

ai miei occhi.

Sacre al pari di una chiesa, per questo non potevano toccarsi.

Anche quando venivano incartate e messe a riposo per un intero

anno dopo aver dato sfoggio dei loro colori, dei loro gesti enfatizzati,

delle loro facce piene di stupore, per tutto il periodo delle

feste.

Poi dignitosamente riposte perché “sacre”.

Con gioia immensa mi è capitato di accompagnare mio papà a

prendere il ramo (rigorosamente vero) che doveva essere “l’albero”

di Natale.

Rivestito di mille palline variopinte, (fasciate di preziosi fili serici o

di fragilissimo vetro) così come le luci (non perfettamente coordinati

come i finti alberi di oggi), con fili altrettanto colorati e, poi,

i necessari batuffoli di ovatta per simulare la neve, dolcemente,

depositata sui rami.

E, sempre, sotto l’albero, l’immancabile presepe, frutto dell’ingegneria

di mia mamma che con carta da impacco, rivestiva di tutto

per dare mille fogge ai tanti incavi, archi e anfratti che avrebbero

alloggiato i pastori.

E la farina che ricopriva tutto per simulare “il freddo e il gelo” di

quella notte magica in cui il Re del cielo scendeva dalle stelle.

In tempi più remoti ricordo anche le tante cioccolate appese ai

rami, persino quelle “preziose”, non facilmente reperibili che simulavano,

nelle forme, degli orsetti, degli improbabili (fin troppo

stilizzati) Babbo Natale.

E il fiume di carta stagnola che “sfociava” in uno specchio che,

nella mia fantasia di bambino, era il più bel laghetto su cui, addirittura,

galleggiava qualche “paperella” dall’inverosimile colore

rosso.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Poi, decine di pecore, il pastore, il pescatore, colui che ferrava un

asinello irrequieto, la “caldarrostaia”, la lavandaglia e tanti, tanti

pastori recanti doni e col volto adorante, espressivi al pari di una

parola pronunciata, detta con chiarezza.

Tanti gli angeli e i Re Magi, bellissimi, sui loro cammelli che prontamente

venivano posti “dietro”, all’estremità del presepe perché

“venivano da lontano”.

Io, il più piccolo, dovevo deporre Gesù Bambino nel presepe, al

rientro della messa della notte, in una culla di plastica che imitava,

nella foggia, delle sconnesse assi di legno ricoperte di paglia.

Mille i baci su quella statuina minuscola.

Persino papà “doveva” baciarlo.

E poi veniva ri-baciato quando il 6 gennaio, con l’angoscia della

fine del periodo delle vacanze, si smontava il presepe e, al canto

di “Tu scendi delle stelle”, si faceva una piccola processione in

casa, nelle stanze, con la statuina del bambinello e qualche candela

accesa.

Forse era un modo semplice per “spalancare le porte di casa al Signore”,

affinché potesse prenderne possesso e lasciare in dono la

sua benedizione prima di “volarsene in cielo”, come si diceva da

noi. Bellissimo il fuoco lasciato acceso la notte del 24 dicembre,

anche quando si andava a letto, perché Gesù Bambino, appena

nato, doveva scaldarsi.

E poi, la magia del risveglio mattutino con l’aria invasa dal profumo

del ragù che mamma preparava per le lasagne, piatto della

festa, per andare immediatamente a controllare, sotto il presepe,

se Babbo Natale avesse esaudito i miei desiderata.

Sono cresciuto.

Da circa ventitré anni non vivo più la festa di Natale nella mia

famiglia, con la mia famiglia (per ovvi motivi pastorali) però con

me ho un tesoro.

Queste semplici statuine.

Sono queste quelle della mia infanzia.

Ho accumulato tantissimi presepi.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Belli, preziosi, importanti.

Ma ho chiesto a mia mamma di poter portare con me queste

statuine “vecchie”, semplici, di plastica.

Le più belle al mondo, per me, perché ho il coraggio, ancora, di

guardarle con gli occhi sognanti di quand’ero bambino e loro,

ancora, mi regalano le belle emozioni di allora.

Hanno il potere di farmi sentire, di rendere presente la mia casa,

la mia famiglia, la mia mamma, il mio papà.

Hanno il potere di farmi sentire il Natale, a tratti meravigliosamente

melanconico, ma bello, bello da morire.

E mi rivedo con il mento appoggiato sulle mani incrociate, bambino,

mentre contemplandole, desideroso di poterle toccare, sognante,

vivevo la “magia del Natale”.

Oggi sono mie.

Oggi sono una delle cose più preziose che posseggo.

Semplici.

Di plastica.

Rovinate.

Ma (per me) belle, belle da

morire.

E accarezzandole il brivido

del Natale mi attraversa,

sento che uno strano luccichio

mi abita gli occhi e

mi scende sulla guancia nel

pensare alla bellezza di quei

Natale che non vivo più.

Questa è la più bella natività

tra tutte quelle che posseggo

perché è l’unica che

mi fa tremare il cuore.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

22.12.2019

La capacità di sognare

«Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva

accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto».

Pochi passi ci separano ormai dalla mangiatoia di Betlemme,

pochi giorni dal Natale.

L’ultima delle quattro domeniche di Avvento.

Dopo la voce possente di Isaia, esperta sentinella nella vigilanza,

dopo la testimonianza del Battista, “voce che grida” l’avvento

della Parola, dopo il sì dolcissimo di Maria, donna dell’attesa,

ecco la storia tormentata del giusto Giuseppe.

Uomo del fare non del parlare.

Tace e opera.

Sogna e ubbidisce.

Ama e protegge.

Giuseppe, “colui che aggiunge”, questo il significato del nome.

E lui aggiunge quel tassello mancante, la sua totale disponibilità,

affinché l’intera storia della salvezza

non venga sprecata, rovinata.

L’intera vita di Gesù si tesse

tra Betlemme e Gerusalemme. In

mezzo, per circa trent’anni c’è Nazareth,

c’è la compagnia paterna

di Giuseppe, uomo dalla grande

generosità che ha la capacità di

sognare. Mi piace pensare che i

sogni di Giuseppe, uguali a quelli

di Dio, resteranno per sempre

“segni” nella vita di Gesù.

E l’immagine dolcissima di Giuseppe,

inginocchiato presso la

mangiatoia ai piedi del Bambino

Gesù, rivela l’altissima statura di

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

quest’uomo, padre nella fede e custode premuroso persino di

Dio. Uomo capace di abbandonare i propri progetti per lasciarsi

plasmare dalle sapienti mani di Dio che da sempre lo ha voluto

come custode, sposo della più bella fra tutte le creature e artigiano

della meravigliosa famiglia nazaretana.

Giuseppe l’uomo “giusto”, coraggioso e libero che non parla, collabora

con Dio ed ha la capacità di sognare, di superare i propri

limiti, quelli della stessa legge e di fidarsi ciecamente di Dio.

Giuseppe l’uomo dalle mani forti ma dal tocco leggero che custodisce,

l’uomo dal cuore ferito ma capace di consolare e che

sa amare, l’uomo dell’ascolto ubbidiente che ha Dio per Padre e

diventa, per un attimo, papà del Figlio di Dio.

Solo chi è capace di sognare sa che certi sogni diventano, poi, la

più bella realtà.

29.12.2019

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La logica della speranza

«Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto»

(Mt 2,13).

Gesù è solo un fiocco di carne piovuto dal cielo per posarsi su

poca paglia e già inizia il suo peregrinare, da viandante, in

cerca di accoglienza e protezione nei cuori degli uomini.

Questa è l’immagine dolcissima e terribilmente cruda del Vangelo

di questa domenica, della Santa Famiglia di Nazareth e di un

Cristo esule, teneramente scortato dalle braccia materne di Maria

e dai sogni del giusto Giuseppe che parte per l’Egitto.

Si realizza così, ancora una volta, la profezia di un Dio che confonde

i piani dei superbi divenendo, invece, custode premuroso

e paterno degli umili. Fugge, fin da piccolo, dai piani dei po-


RIFLESSIONI DI UN PRETE

tenti perché dovrà darsi “in pasto” ai bestemmiati dalla legge,

alle donne che per nome hanno solo quello del peccato, agli uomini

deturpati dall’errore. È la simpatia degli strani piani di Dio:

dall’Egitto Dio libera il suo popolo per mezzo di Mosè, e ora,

l’Egitto è l’unica “casa” che può garantire sicurezza al Figlio di

Dio.

«Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra

d’Israele» (Mt 2,20)

Per due volte a Giuseppe, “sognatore di Dio”, l’angelo ripete l’invito.

Sempre nel momento del riposo perché è lì che occorre essere

vigili per non cadere nell’ozio, è lì che Dio ci chiama all’esilio

dalle nostre false sicurezze per divenire esecutori dei piani divini

e, contemporaneamente, dei nostri sogni, quelli più belli perché

popolati da angeli.

E proprio come Giuseppe dobbiamo formare la nostra carovana

d’umanità: alzati, ritti, risorti, attenti ascoltatori e realizzatori della

volontà divina, portando sempre, con noi, il Bambino e sua Madre,

in una sorta di exitus e di reditus che partendo da un sogno

condiviso con Dio, diviene realtà abitata da Dio.

Ecco l’esempio della Santa Famiglia di Nazareth, nata da un’idea

di Dio, da Lui mille volte benedetta e custodita, ma che appare

un controsenso per chi non ha

gli occhi forgiati dalla Scrittura e

non comprende che l’agire divino

è totalmente diverso dalla logica

del mondo.

È “Vangelo”, allora, chi nella vita

di tutti i giorni, tra mille difficoltà,

continua a realizzare il sogno

di Dio sentendosi, nonostante

tutto, benedetto e da Lui

amato.È la logica della speranza,

è l’incarnazione della fede, è

semplicemente, frutto della carità.

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01.01.2020

RIFLESSIONI DI UN PRETE

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Contagiamo di gioia il mondo

«I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per

tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto

loro» (Lc 2,20).

Un versetto che mi riempie di stupore e che suscita profonda

emozione.

I pastori, gente abituata a stare nella solitudine in compagnia del

loro gregge, gente che sa apprezzare i colori dell’alba e il profumo

dei prati, gente dalle mani callose che sa ammirare il cielo

stellato, “se ne tornano lodando Dio per quello che hanno visto

e udito”.

Ed io invidio la loro capacità di stupirsi di fronte ad una stalla, un

po’ di paglia e qualche stella.

Segni semplici che nulla dicono dello straordinario evento che

sotto i loro occhi va compiendosi.

Ed io ammiro il loro meravigliarsi di fronte ad un uomo, una donna

e il loro bambino.

Desidero la semplicità del loro cuore che li porta a capire che lì

abita il mistero e, subito, abbandonando il gregge, vanno a nutrirsi

di quella Bellezza che è “caduta” sulla terra.

È la disponibilità di chi sa riconoscere l’essenziale.

È la libertà di chi ha il cuore impastato di semplicità e generosità.

I pastori, i primi ad essere avvisati dagli angeli, hanno la capacità

di cogliere negli occhi di quel bambino, terribilmente tenero, la

profondità delle stelle, la dolcezza dei colori di un crepuscolo, il

profumo della sua divinità, il suo essere Dio incarnato.

«Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole

nel suo cuore» (Lc 2,19).

Maria, la Madre di Dio, così oggi la liturgia ce la presenta, da

oggi in poi diventerà scrigno che custodisce tesori immensi nella

profondità di quel cuore tenero e disponibile che si è lasciato


RIFLESSIONI DI UN PRETE

plasmare dalle sapienti mani del Creatore.

La storia, quella di cui anche noi facciamo parte, da questo momento

in poi, viene tessuta con fili d’oro, ricamata dalla presenza

dell’Emmanuele, il Dio con noi, sempre presente per insegnarci il

gusto vero della vita.

Di fronte a questa certezza esulti anche il nostro cuore, contagiamo

di gioia il mondo e come i pastori lasciamoci abitare dal

gaudio e dallo stupore gridando a tutti la gioia di sentirsi amati

da Dio.

Lui, il nostro Dio, l’Eterno, che ha la polvere delle stelle nei capelli

ma che decide di camminare sulla strada della nostra storia.

05.01.2020

“Il Verbo si fece carne”

«In principio era il Verbo» (Gv 1,1).

In modo litanico la liturgia di questi giorni ci presenta il bellissimo

prologo giovanneo per aiutarci a comprendere, con stupore

rinnovato, le meraviglie che abbiamo celebrato nella liturgia,

nelle feste.

L’evangelista Giovanni, penetrando il mistero, ci presenta uno

spaccato della vita intima di Dio: quando tutto ha avuto inizio, in

principio, non c’è stato l’agire di Dio ma il suo esserci.

In principio, prima che tutto fosse, Dio era.

C’era.

Prima del tempo, prima della storia.

C’era prima che ogni cosa, cesellata dalla sua Parola creatrice,

avesse il dono della vita.

E presso Dio c’era anche il Logos, il Verbo, la Parola.

E questa Parola era, essa stessa, Dio.

Qualcosa (Qualcuno) di diverso ma che al contempo è Dio.

Questa Parola è esplicitata, detta, pronunciata da Dio.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

È pronunciata, nella immensità

dell’eternità, per essere

rivolta all’esterno di Dio: è

lo sbocciare, il fiorire, della

creazione.

Ed è in questa creazione, soggetta

al tempo, alla storia, alla

finitudine della condizione creaturale che accade il miracolo: «Il

Verbo si fece carne» (Gv 1,14).

E Dio che decide di “sapere” di uomo affinché l’uomo “odori”

di Dio. È il meraviglioso “assurdo” del Natale, è la straordinaria

“pazzia” della nostra fede: cielo e terra si fondono, eternità e

storia si mischiano, creatura e creatore si uniscono.

Dio diventa uomo perché l’uomo possa diventare come Dio.

Il Verbo di Dio pone la sua tenda, si accampa in mezzo agli uomini

e da quel momento l’uomo, ogni uomo, trova dimora presso

il cuore di Dio.

06.01.2020

Cercatori di Dio, inseguitori di stelle, realizzatori di sogni

«Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima.

Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si

prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli

offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Mt 2,10-11).

Abitati dall’inquietudine del cuore, i Magi hanno il coraggio

di guardare verso il cielo, di guardare le stelle e divenendo

camminatori, cercatori di sogni, trovano il Segno.

Legano ad una stella la ricerca della felicità e trovano la Luce che

spazza via ogni tenebra, s’incamminano sulle strade polverose

del mondo alla ricerca della Via, danno voce al loro sogno per

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

trovare la Verità.

Sopraggiungono silenziosi a Betlemme e, accolti da segni fragilissimi,

una Madre con un Bambino, abdicano dal loro sapere,

mettono da parte la loro scienza e divengono uomini di fede.

Vedono, riconoscono, si prostrano e celebrano la più bella liturgia

nell’offerta di oro, incenso e mirra.

L’oro, simbolo della bellezza della nostra umanità, espressione di

una vita degnamente spesa, offerta, donata che diviene ascolto,

obbedienza, servizio.

L’incenso, fumo che sale verso il cielo, spinta oltre i nostri limiti,

speranza che si materializza nella preghiera che giunge a toccare

i piedi di Dio, adorazione che diventa visibile, che t’invade col

profumo invitandoti a respirare il divino.

La mirra, unguento per cospargere il corpo dei defunti, segno di

ogni sofferenza, di ogni delusione e angoscia che ci domina, del

dolore del mondo, espressione della nostra finitudine, della fragilità

della nostra umanità.

I tre doni immagine del prezioso, del sacro, del doloroso hanno

il potere di parlare, di raccontare, di racchiudere tutta la vita

dell’uomo.

I Magi si prostrano, letteralmente,

“inciampano”,

depongono titoli,

onori, sapere, al cospetto

del Dio che s’è fatto

Bambino.

Cercatori di Dio, inseguitori

di stelle, realizzatori

di sogni, si fanno

“piccoli”, si inginocchiano

e, senza dire una parola,

ci regalano la più

bella lezione sulla fede.

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12.01.2020

RIFLESSIONI DI UN PRETE

La “voce” incontra la “Parola

«Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono

per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come

una colomba e venire sopra di lui» (Mt 3,16).

Sembra di vederla la scena.

Mentre il Giordano scorre, gonfio di acque, lambendo la terra

rossa, baciata dal sole, abitata da prosperi canneti, controcorrente

vi è il risalire di un altro “fiume”, più rumoroso, quello dell’umanità

che, portandosi i segni della fragilità, chiede a Giovanni di

ricevere il battesimo di penitenza.

Sembra di “sentire” Giovanni, la “voce che grida nel deserto”, ieratico,

austero, con la pelle riarsa dalla calura, dello stesso colore

della terra.

Magro da far paura, autorevole da incutere rispetto, catalizzatore

di sguardi, predicatore credibile di conversione.

Ed è questo il momento in cui la “voce” incontra la “Parola”.

Chiede di essere battezzato, Lui, il creatore delle acque, Parola

creatrice, Verbo incarnato.

Scende nel Giordano, come a voler discendere nelle viscere degli

abissi per poi risalire, portandosi dietro tutta l’umanità “lavata”

dal suo sacrificio.

Scende nel Giordano, compagno dei peccatori, per manifestare il

suo essere “Emmanuele”, il Dio degli ultimi, perché nessuno resti

indietro.

Inizia così la sua missione, la sua vita pubblica.

Scende per poi risalire.

Muore per poi risorgere.

E se scendendo nel Giordano scuote gli abissi, squassa le viscere

della terra, risalendo si spalancano i cieli, si scardinano le porte

celesti.

Umano e divino non più divisi, cielo e terra “devono” fondersi.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Le cataratte dei cieli si aprono e discende lo Spirito.

Lo Spirito che danzava sulle acque primordiali, ora discende

come colomba.

Come ai tempi di Noè, anche ora è l’inizio di una creazione nuova,

è l’incipit di una nuova alleanza.

Come per Noè, anche qui la Colomba “canta” una pace ristabilita.

E Giovanni che prima aveva ascoltato, ora vede.

Vede il compiersi delle attese, il realizzarsi delle promesse.

Dio si manifesta nella voce, forte come il tuono, dolce come il

miele: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento»

(Mt 3,17).

Una dolcezza che sgorga dal cuore del Padre: “Figlio, amato, mio

compiacimento”.

Dio, eterna Trinità, unica Divinità si manifesta.

Un Padre, un Figlio, lo Spirito.

Ed è con la testa bagnata dall’acqua del fonte e unta dal Crisma,

dal giorno del mio battesimo, sento che Dio ha per me le stesse

parole d’amore: “figlio, amato, in cui ho posto il mio piacere”.

Dal giorno del battesimo sono figlio di Dio.

Dal giorno del battesimo sono amato da Dio.

Dal giorno del battesimo, immerso in Dio, sono divenuto la sua

delizia, talmente importante che vorrà donare la sua vita per me.

Una, cento, mille volte.

E questo è Vangelo.

Questo è il mio Dio.

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19.01.2020

RIFLESSIONI DI UN PRETE

Giovanni vede...

«Giovanni vedendo Gesù venire verso di lui, disse: “Ecco

l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”» (Gv

1,29).

Tutti, nelle nostre storie, abbiamo un compito, il dovere inscritto

nel nostro cuore, di rispondere ad una chiamata, ad una

missione.

Giovanni, il grande specialista dell’avvento, è ancora qui, in questa

seconda domenica del tempo ordinario, per fungere da cerniera

tra i tempi delle attese e la maturazione del tempo, per

essere ponte tra il vecchio e il nuovo testamento, per sancire il

passaggio tra il tempo di Natale (conclusosi domenica scorsa) e

il tempo ordinario.

Giovanni “vede” Gesù venire verso di lui.

Giovanni dopo aver vissuto un’intera esistenza in ascolto della

voce degli antichi profeti, “vede” Gesù venire verso di lui.

Giovanni dopo essere stato la voce che grida l’avvento del Signore,

“vede” il concretizzarsi della Parola in Gesù che viene verso di

lui.

Giovanni “vede” la novità di un Dio che copre la distanza posta

tra noi e lui, “vede” la straordinarietà di un Dio che ci anticipa, ci

viene incontro, ci precede.

E se domenica scorsa è la Voce del Padre che testimonia che Gesù

è il Figlio bene-amato/amato-bene, se nel Battesimo di Gesù è lo

Spirito che discende come colomba posandosi e restando su di

Lui per indicare il suo essere Messia, oggi è Giovanni che esaurisce

la propria missione, indicandone l’identità: “Ecco l’Agnello di

Dio”.

Agnello di Dio.

Un’immagine densissima di significato, intrisa di Sacra Scrittura,

in grado di evocare fortissimi rimandi alla storia di fede dell’an-

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

tico Israele.

Agnello: animale mansueto, vittima usata per il sacrificio.

Agnello: le cui carni, consumate la notte della prima Pasqua, forniscono

energie per affrontare l’esodo verso i mari che si aprono

e le cui acque si ritirano, in grado di risparmiare la vita dei primogeniti

con il proprio sangue sparso sugli stipiti delle porte.

Agnello: sacrificio sgozzato sull’altare del tempio nella stessa ora

in cui Cristo muore sulla croce.

E Cristo sarà veramente l’Agnello mansueto, innocente, immolato

che ci nutrirà con la sua carne e ci proteggerà col suo sangue

nell’esodo della vita.

La missione di Giovanni, vissuta ed attuata fin dal grembo materno

e consumata negli sterminati spazi del deserto, si esaurisce

nello stupore: «Io non lo conoscevo» (Gv 1, 31; 1,33).

Per ben due volte Giovanni ripete con il cuore gonfio di meraviglia:

“non lo conoscevo”.

Mi piace leggerci dentro la sorpresa della scoperta di un volto di

Dio inaspettatamente bello, meno severo di quanto, anche noi,

osiamo immaginarcelo.

È la meraviglia di un Dio che travalica le nostre aspettative perché

ci viene incontro, ci precede, ci accoglie.

È la bellezza dello scoprire un Dio che si mette in fila con i

peccatori, che chiede di essere battezzato da lui, un Dio incarnato

che è veramente il volto della Misericordia del Padre.

E Giovanni, temprato dal deserto, si arrende di fronte a tanta bellezza,

si lascia abitare dallo stupore, spalanca il cuore alla meraviglia

ed è capace di rivedere le proprie posizioni e con estremo

candore ammette: “non lo conoscevo”.

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26.01.2020

RIFLESSIONI DI UN PRETE

“Convertitevi!”

«Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò

nella Galilea, lasciò Nàzareth e andò ad abitare a Cafàrnao,

sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali» (Mt

4,12-13).

la maturazione del tempo.

È Gesù abbandona Nazareth e inizia la sua avventura missionaria

nel luogo dei dimenticati.

Zabulon e Neftali, terra di confine, popoli di meticci, luogo degli

ultimi.

Ancora una volta, il Dio che ama le periferie della storia, delle vite,

si fa prossimo nella pietà.

Giovanni, la “voce” è stato consegnato e, presto, renderà testimonianza.

I martiri non muoiono, infatti, vengono “consegnati” e rendono

testimonianza.

E Lui, la “Parola”, in una sorta di staffetta della lieta notizia, riprende

lo stesso messaggio del cugino che bagnandolo nelle acque

del Giordano, ne ha visto l’epifania, l’ha reso epifania, indicandolo

presente nel mondo.

«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17).

“Convertitevi!”

Un comando.

Aprite il cuore, rivedete la vita, lasciatevi profumare dalla grazia.

“Perché il regno dei cieli è vicino”.

Perché Dio ha accorciato le distanze.

È prossimo, non più “altro”.

Già qui, già ora.

«Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli,

Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le

reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: “Venite dietro a

me, vi farò pescatori di uomini»» (Mt 4,18-19).

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Uomini che “gettavano le reti”, uomini di mare che sanno affrontare

le tempeste, uomini delle lunghe attese al chiaro di luna,

uomini che sfidano le avversità e già sperimentano la vicinanza di

un Dio che li vede, li scruta e li coinvolge.

Abbandonano tutto per condividere i progetti di un Dio che passa

lungo il mare della storia.

Lasciano tutto per avere in cambio il Tutto.

Resteranno pescatori ma, d’ora in poi, saranno “pescatori di uomini”.

Da pescatori a pescati, intrappolati per sempre nelle reti dell’Amore.

02.02.2020

L’amore sa aspettare

«Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione

rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a

Gerusalemme per presentarlo al Signore» (Lc 2,22).

Quaranta giorni dopo Natale e la liturgia ci ripresenta la stessa

scena: il Bambino, Maria e Giuseppe.

Si avverte il forte odore speziato dell’incenso, questa volta non

quello offerto dai Magi, ma quello che invade l’ingresso del tempio

insieme ai fumi degli olocausti che salgono verso il cielo per

ingraziarsi il favore divino.

Salgono al tempio Maria e Giuseppe per offrire e riscattare il Figlio

primogenito.

Lui autore della Legge si sottopone alle prescrizioni della legge

antica.

Viene presentato per diventare Figlio di Abramo, Colui che é Figlio

di Dio, da sempre, per sempre.

E mentre il Bambino, non ancora rivelato come Messia, rientra nel

suo tempio per prenderne definitivamente possesso, si celebra la

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

più bella liturgia dell’incontro tra il Vecchio e il Bambino, tra il testamento

antico ed il Nuovo, tra l’attesa e la Promessa realizzata,

tra l’invocazione e la Risposta, tra Simeone e il Messia.

Simeone, uomo dell’attesa che sa riconoscere nel bocciolo della

vita che ha tra le braccia, l’Autore della storia.

Simeone, l’anziano carico di vita ma non dai sogni spenti, capace

di amare perché sa che: «L’amore sa aspettare, aspettare a lungo,

aspettare fino all’estremo. Non diventa mai impaziente, non mette

fretta a nessuno e non impone nulla. Conta sui tempi lunghi»

(D. Bonhoeffer).

E l’incontro diventa profezia, gioia che esplode nel canto perché

l’Atteso si è reso visibile.

Gli occhi di Simeone si spalancano, così come le sue braccia e

nella gioia di vedere realizzare la Salvezza, la stanchezza del passato

e l’ansia del futuro, si risolvono in un cantico: «Ora puoi

lasciare, o Signore, che il tuo servo

vada in pace, secondo la tua parola,

perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,29-30).

Simeone ed Anna, un uomo e una donna, sentinelle capaci di

vegliare, vengono saziati nella loro attesa con la grazia dello stupore

che rende senso alla loro vigilanza

e riempie di grazia la loro intensa,

lunga vita.

«Simeone li benedisse e a Maria, sua

madre, disse: «Ecco, egli è qui per la

caduta e la risurrezione di molti in

Israele e come segno di contraddizione

e anche a te una spada trafiggerà

l’anima» (Lc 2,34-35).

Il vegliardo, cantore della Parola di

Dio, riconosce nel Bambino il suo

essere Messia, pietra angolare dello

stesso tempio, del tempio della fede.

Cristo è la pietra su cui si fonda l’agire


RIFLESSIONI DI UN PRETE

salvifico di Dio ma è pietra d’inciampo per quanti lo rifiutano.

Cristo è la Parola di Dio, «spada a doppio taglio che penetra fino

al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture

e alle midolla» (Eb 4,12).

E anche Maria è attraversata da questa “spada”, lei la Madre che

deve farsi discepola, deve piegarsi alla logica di questa Parola

esigente, talvolta difficile da comprendere, ardua nelle pretese

ma pur sempre bella, perchè Parola di Dio, perché capace di forgiare

l’uomo rendendolo capolavoro divino.

09.02.2020

Un po’ di “sale”, un po’ di “luce” e tutto cambia.

«Voi siete il sale della terra [...]

Voi siete la luce del mondo»

(Mt 5,14-14).

L

ui, il Figlio di Dio che si aggira per le strade di Galilea come

un ebreo marginale, rivestito di ordinaria quotidianità, parla di

sale e di luce.

Due immagini che “sanno” di casa, di famiglia, di vita.

È la spiazzante visione del messaggio evangelico che ci invita a

scorgere il “già presente” del Regno di Dio, nella magia di un granello

che si arrende al palpito della vita, alla pari dell’incanto di un fiore che,

distendendo i propri petali, esplode in colori, profumo e bellezza.

È lo stupore di riscoprire questo Regno simile al lievito che trasforma

della semplice farina in pasta che abbracciata dal fuoco, ci regalerà

l’aroma fragrante del pane buono.

Un Rabbunì, quello del Vangelo di oggi, che ci svela i segreti

dell’essere discepoli nelle dinamiche a noi più familiari.

Luce e sale, elementi ordinari da noi ben conosciuti che diventano

“segnaletica”, indicatori di una vita autenticamente realizzata,

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

spesa, donata.

Luce e sale dicono la capacità di Gesù di raccontarci le cose “di

lassù” partendo dalla semplice essenzialità delle cose di quaggiù.

Luce che arde, dona calore e illumina, facendoci vedere con chiarezza

le cose, mettendone in risalto i limiti ma anche e soprattutto,

il bello.

Sale che dona sapore, scomparendo negli alimenti, proprio come

il Cristiano che deve “sapere” di Dio, nella duplice accezione che

questo verbo può assumere.

I figli del Regno, infatti, devono averne il sapore ma devono, anche,

possederne la “sapienza”.

Il rischio, altrimenti, è quello di diventare sciapi, insipidi, senza

sapore; il rischio è di essere “lampade messe sotto il moggio” che

non illuminano, non splendono, non fanno chiarore.

Così il sale non sarà più sale e la luce non sarà più luce.

Nello stesso modo un Cristiano che non ha sapore e non splende,

è un “non Cristiano”.

Vediamo, allora, con meraviglia rinnovata, che la bellezza di tutta

la storia della salvezza (di cui noi facciamo parte) ci interpella

partendo da quanto ci è più familiare: un po’ di sale e tanta, tanta

luce.

Lasciamoci coinvolgere da questa ordinaria realtà che ci racconta

la normalità di relazioni quotidiane, recando in sè, però, lo straordinario

segreto della nostra felicità.

C’è il Regno di Dio, infatti, ogni qualvolta un Cristiano saprà essere

sale della terra e luce del mondo.

Un po’ di “sale”, un po’ di “luce” e tutto cambia.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

12.02.2020

Vivi il tuo tempo

E

ssere se stesso, sempre.

Anche quando cercheranno di isolarti inserendoti nelle bolle

della possessività, dell’invidia, della gelosia, dell’astio, della rivalità.

Prigioni queste che solo avendo fiducia in te stesso, non potranno

mai, realmente, bloccarti.

Il rischio è quello di cadere nella trappola di chi vuole farti sentire

diverso.

In fondo questa, però, è una verità: siamo tutti diversi perché

unici, irripetibili.

L’importante è prenderne coscienza da solo e non far dipendere

la concezione che hai di te stesso da ciò che gli altri dicono, pensano,

vogliono da te.

Non puoi piacere a tutti (e menomale!)

Tu, però, vivi il tuo tempo.

Lascia che siano gli altri a sprecare il loro, nella faticosa impresa

di competere con te. Tu non competere mai con loro.

Anche l’essere “presi di mira”, l’essere selezionati nella massa è

già un tratto distintivo: ti notano, sei diverso, non sei come loro.

D’altronde se è peccato sovrastimarsi è deleterio sottovalutarsi

dando retta a chi ha gli occhi

offuscati dalle cataratte dell’invidia.

Essere se stessi significa sentirsi

adeguati alla propria vita, godersela

fino in fondo, ricordando

sempre che “non c’è peggior

solitudine dello non stare

bene con se stessi”.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

13.02.2020

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E in questo silenzio..............Dio parla

A

volte si ha la necessità di far vibrare l’anima ricercando se

stessi.

La solitudine allora, ricercata e vissuta, diventa un navigare nel

mare aperto, sconfinato, in attesa di approdare nuovamente sulle

spiagge delle vite altrui, preparando la bellezza di nuovi incontri.

È in questa evasione dalla vita quotidiana, negli spazi di solitudine

cercati e abitati che riscopriamo la nostra vera essenza, solo allora

la solitudine, quella bella, diventa momento di verifica tra ciò che

dovremmo essere e ciò che siamo.

Stare da soli si trasforma così in “privilegio” che ti regala la più

bella compagnia: quella di te stesso.

È nella solitudine, infatti che germogliano i veri pensieri seri, essa

ti accarezza con tocchi leggeri di velluto e nel mare calmo che

essa provoca, ci si può specchiare guardando in faccia la propria

coscienza facendo sbocciare la libertà.

Da tutto.

Da tutti.

Da se stessi.

E in questo silenzio, finalmente, Dio parla.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

15.02.2020

Scalpellando, levigando.....

Amare è come avere di fronte un

blocco di marmo da scolpire.

Occorre togliere (con fatica) tutto

ciò che è “di più” affinché, da quel

blocco, possa emergere una statua,

un fregio, una scultura.

Tutti coloro che hanno festeggiato San Valentino hanno a disposizione

altri 364 giorni per fare dell’amore la loro opera.

Scalpellando, levigando, plasmando, modellando.

Con intenso sforzo.

Con costanza.

Nel tempo.

Perché l’amore è una scelta quotidiana, un impegno duraturo,

una promessa prolungata e rinnovata ogni momento, in ogni gesto,

in ogni parola, in ogni palpito.

Solo chi sarà perseverante vedrà la bellezza dell’amore vero.

Un amore destinato a diventare una vera opera d’arte.

Auguri a chi riesce a festeggiare l’amore anche il giorno dopo

San Valentino.

16.02.2020

Per” ben vivere “occorre “vivere bene”

«Avete inteso che fu detto agli antichi [...] Ma io vi dico»

(Mt 5,21-22).

noi custodi del “si è sempre fatto così” viene ricordato che è

A lo Spirito a far nuove tutte le cose, persino i precetti meticolosamente

declinati, tanto cari ai farisei.

Di “divino” avevano conservato ben poco, trasformati in vincoli

legali opprimenti, soffocando la consapevolezza di essere figli

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

(amati) di Dio.

Gesù, invece, ci ha appena ricordato che noi siamo chiamati ad

essere “sale della terra”, avendo il sapore di Dio e ci sollecita a

risplendere come “luci poste sul candelabro”, di luce divina, che

arde, brilla e riscalda la nostra vita e quella di quanti ci accostano.

Tutta la Legge, invece, è ormai ridotta a vuota osservanza di norme.

Un amore consunto simile a quello di vecchi amanti abitudinari

e stanchi.

Il Cristo, sempre innamorato del cuore degli uomini va a fondo,

scava Lui, il Pescatore di perle preziose, per portare a galla l’essenza

bella di ogni figlio di Dio.

Perciò se l’omicidio è l’atto finale, (sempre da condannare) non

meno peggiore è l’ira che sopraggiunge nel cuore dell’uomo, talvolta

domandolo, abbrutendolo, inquinandone le azioni, la lingua

e le relazioni e conducendo comunque alla “morte” dell’altro

e della nostra stessa anima.

“Non commetterai adulterio”: è la Legge normata.

Ma Gesù ci invita a purificare già lo sguardo, le intenzioni: “se

guardi una donna per desiderarla sei già adultero”.

Mai desiderare il possesso dell’altro, mai dare spazio alla voce

della concupiscenza, mai renderlo “oggetto” di desiderio perché

ne avvizzisci la bellezza del suo essere persona, capolavoro divino

che ne reca impressa l’immagine e la somiglianza.

“Non giurerai il falso” ma io vi dico: non giurate affatto.

È un invito ad essere sempre nella “luce”, nel “sapore”, nella

poesia della Verità.

Veri, sempre e comunque.

Con carità ma sempre figli della Verità.

Rabbia, bramosia, impostura: tre dimensioni che possono abitarci

interiormente.

Tre passioni da non liberare, da addomesticare, già anticamera di

omicidi, adulteri, menzogne.

Occorre guarire il cuore (il nostro, non quello degli altri) perché

solo un cuore puro produce uomini autentici, relazioni vere.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Gesù ci insegna a ben vivere.

Lui s’è accorto che prima di disciplinare “legalmente” i nostri rapporti,

abbiamo bisogno di essere guariti in fondo a noi stessi,

nella nostra anima.

Non è questione di morale.

Qui si parla di Vita (non di omicidi), di relazioni vere (non di desideri

adulterati), di verità (non di menzogna).

Insomma, per ben vivere occorre vivere bene.

Difficile?

Ma pur sempre possibile.

23.02.2020

Perdonare amando

«Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro

celeste» (Mt 5,48)

Ancora una volta Gesù parla di situazioni di conflitto: se ti danno

uno schiaffo; se vogliono portarti in tribunale; se ti costringono

a fare qualcosa.

Situazioni di conflitto, vita reale.

E poi usa dei verbi: “porgete”, “donate”, “fate” che devono essere

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

declinati nell’amore.

Verbi di difficile applicazione, quasi irreali.

Ma solo chi ama porge, offre, fa.

L’amore è tutto.

E, quando è vero, deve darsi a tutti.

Nessuno escluso.

Cominciando dai nemici.

È così che Gesù vuole forgiarci nell’assurdo della fede, chiedendoci

di carezzare nell’amore le vite di chi ci offende nel corpo,

nell’anima, nella dignità, abbracciandolo con la nostra vita ferita.

Parole dure.

Richieste divine, a tratti, assurde perché molti sono i nemici quando

si pensa di essere sempre nel giusto.

È più facile collocarsi tra gli offesi e non rendersi conto delle ferite

che infliggiamo agli altri se presupponiamo di essere sempre e

solo noi i “giusti”.

Ecco, allora, che Gesù non propone un semplice rimedio per arginare

le nostre storie lese che rischiano di imputridire nella chiusura

ferma e stantia dell’astio ma ci invita a ricercare sinceramente

la pace perché la vita vinca, fiorisca, sbocci.

La pace, l’unica che può estinguere definitivamente ogni contesa

perché violenza, odio, risentimento moltiplicano, generano, altro

risentimento, odio, violenza.

La pace è, quindi, l’argine, l’unica chiave che può forzare la serratura

del cuore dell’uomo e perfino, quella del cuore di Dio.

Amate, dice.

Amate e pregate per i vostri nemici e per quanti vi perseguitano.

Come fosse facile.

Ma chi odia è infelice.

Ecco quindi che il nemico diventa la nostra salvezza aiutandoci a

riconoscere e superare la nostra finitudine, sollecitandoci a puntare

in alto, a pensare in grande, a reagire con la semplicità di un

bambino nella ricerca sincera della gioia.

A noi imperfetti, feriti, risentiti, Gesù chiede di essere perfetti


RIFLESSIONI DI UN PRETE

come il Padre.

Perché se la Legge argina il male, Gesù chiedendoci di andare

oltre le offese proiettandoci nell’oceano del perdono, ci invita a

diventare “divini”.

È solo questione di amore.

(Solo)

Sentirsi amati e perdonati per perdonare amando.

«Vuoi essere felice per un’istante? Vendicati! Vuoi essere felice

per sempre? Perdona!» (Tertulliano)

27.02.2020

Vivificati...Risorti

U

n gesto sempre bello

e disarmante nella sua

semplicità è quello che inaugura

il tempo quaresimale:

un po’ di cenere sulla testa

mentre vengono pronunciate

le parole solenni del Vangelo

che ricordano di convertirci,

spalancando il cuore alla fede accolta come dono, praticata nei

gesti e vissuta nella quotidianità.

Un gesto che amo assimilare all’antica sapienza contadina, quando

i nostri nonni “concimavano” il terreno nel primo tepore primaverile,

spargendovi la cenere, sapientemente raccolta durante

tutto il periodo invernale.

Un gesto che rendeva fertile quella terra che, docilmente, accoglieva

quella cenere e che, a suo tempo, avrebbe ricambiato con

l’offerta generosa di tanti e diversi frutti.

Mi piace pensare all’imposizione delle ceneri in questi termini.

Un gesto visibile, un simbolo, affinché questo tempo di grazia

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

che ci è concesso nella Quaresima, renda “fertile” tutta la nostra

vita, la nostra fede, nell’ascolto assiduo ed attento della Parola.

Un gesto non solo penitenziale ma ben augurale, propositivo,

latore di speranza.

Come tutta la Quaresima, del resto, che in modo naturale prepara

e sfocia nella gioia della Pasqua.

Come il sorriso vispo e allegro di questi due bimbi che ci attendevano

ai piedi del presbiterio al termine della celebrazione, per

ricordarci che la Quaresima, in fondo, è tempo di preparazione

per giungere alla Pasqua vivificati e non mortificati.

Vivificati, fatti vivi da quella cenere che ci rende fertili, portatori a

nostra volta, di vita.

Vivificati.

Risorti.

01.03.2020

Facciamo spazio alla Buona Notizia

Mt 4,1–11

Un Dio incarnato che non cede alla tentazione dei miracoli,

alla lusinga dell’onnipotenza ma che sceglie la via dell’umiltà,

bussando in punta di piedi, al cuore degli uomini.

Un Dio che non soccombe di fronte alla proposta di mostrarsi

straordinariamente “miracoloso” ma che decide di proporsi semplicemente

nel dono della Parola.

Anche nel lasciarsi tentare Gesù, il Figlio di Dio, sceglie di essere

uomo fino in fondo.

Bella l’immagine del deserto, luogo dove ritrovarsi, dove ascoltare

Dio ma, anche posto dove perdersi, spazio delle tentazioni.

Tre sono le prove: il rapporto con se stessi, con Dio, con gli altri.

“Dì che queste pietre diventino pane!” e mostra a te stesso quanto

vali. Permetti che il tuo “io” faccia a meno di Dio.

“Buttati giù, così potremo vedere miriadi di angeli in volo pronti a

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

soccorrerti”. Tenta la fedeltà di

Dio alle sue promesse.

“Adorami e ti darò tutto il potere

del mondo” per poter dominare

gli altri ed evitare l’inutile

fatica della predicazione, delle

incomprensioni, della croce.

E mentre il suadente tentatore

insinua parole ingannevoli,

Gesù sempre, per tutte tre le

volte, risponde citando la Scrittura, la Parola che ci restituisce autenticamente

a noi stessi, consegnandoci il vero volto di Dio.

A noi vivere il deserto del tempo quaresimale scegliendo di farlo

diventare il nostro paradiso o la nostra perdizione.

E nel momento della prova avere la certezza che solo nella Parola

di Dio si trova l’antidoto per il veleno dell’antico tentatore.

È il momento giusto: facciamo spazio alla Buona Notizia.

AUGURI AD OGNI DONNA

07.03.2020

Donne

C

arezza di petali è il loro essere.

Impastate di vita, a loro volta scrigno della vita stessa, donatrici

di questa magica scintilla.

Affascinano perché, poetesse dell’esistenza, hanno sempre parole

di speranza nell’oggi, nel futuro, nel cuore.

Hanno il fuoco del vivere negli occhi: illuminano dove guardano

e accendono sentimenti in chi è da loro guardato.

Madri, sorelle, mogli, figlie a loro volta.

Compagne, amiche ma prima di tutto donne.

Immagine dell’amore, naturalmente donato, che si consuma per

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

l’altro: figli, mariti, fratelli, amici.

Capaci di non risparmiarsi nelle sofferenze ma sempre in grado

di riempirle di significato nuovo, quasi fossero scorza di un frutto

maturo che è la loro splendida realtà.

Naturalmente votate all’insicurezza delle cose essenziali pur di

anteporre l’amore per gli uomini di casa, cui il loro amore è donato

nell’essere sposa, nell’essere madre, nell’essere figlia.

È il coraggio dell’essere donna.

È il coraggio stesso della loro vita.

Belle finanche quando il tempo scrive sui loro volti le rughe del

suo passaggio, testimoni di una vita piena, spesa, donata.

Maestre del vivere “hanno un unico difetto: spesso si dimenticano

di quanto valgono”.

08.03.2020

La speranza sconfigga la paura

(Mt 17,1-9)

Dal monte alto delle tentazioni, al monte della trasfigurazione,

dalla sconfitta del satana che si ritira, alla bellezza del Cristo

trasfigurato, fatto luce, anticipo della vittoria della resurrezione.

Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni non perché migliori

degli altri ma perché faticano (forse più degli altri) a comprendere

la sua logica,

l’evento di un Messia che, pienamente uomo, deve attraversare

la sofferenza e la morte.

E giunti sul monte “fu trasfigurato”, il suo volto risplende della

primavera divina, fioriscono le vesti che diventano candide come

i gigli dei campi, capolavoro di Dio, mentre tutto risplende di

luce, impalpabile ma reale, viva e vivificante, vera e avvolgente.

E per questo Paradiso sceso in terra si scomodano finanche Mosè

ed Elia, interlocutori di Dio nel parlargli faccia a faccia, mentre ora

conversano con il Figlio, l’Amato, il Prediletto compiacimento di

37


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Dio.

Pietro si lascia abitare dallo stupore, sperimenta la meraviglia, la

bellezza della fruizione di Dio ed esprime il desiderio di fermare

per sempre quell’attimo di Paradiso: “restiamo qui”.

Invece bisogna scendere dal monte, riprendere la vita di tutti i

giorni, le fatiche della quotidianità e raccontare la possibilità di un

Dio prossimamente vicino, straordinariamente presente nell’ordinario,

divino a tal punto da farsi umano.

Mentre l’aria primaverile si veste di profumi e colori nel rituale

risveglio del creato che sono l’immagine più bella della natura

che si “ridesta” dal torpore invernale, ringraziamo il buon Dio per

il rinnovarsi annuale di questa “trasfigurazione”.

Guardiamo con speranza a tanta bellezza che può nutrire lo spirito

in questo particolare momento di apprensione per il mondo

intero e mentre osserviamo con intelligenza le disposizioni che

ci vengono fornite dalle Autorità preposte, cogliamo l’occasione

per attuare l’invito del Vangelo: “Questi è mio Figlio. Ascoltatelo!”.

La speranza sconfigga la paura, la prudenza sia sostenuta dalla

fede e il buon Dio possa trasfigurare questo momento in occasione

di grazia per ritrovarci, poi, insieme, “trasfigurati” nello

stupore generato dal credere.

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AI MIEI PARROCCHIANI

08.03.2020

RIFLESSIONI DI UN PRETE

39

Tempo di ascoltare

N

ella Domenica in cui il Vangelo è profumo anticipato di Resurrezione

nel racconto straordinario della Trasfigurazione,

giunge l’annuncio della sospensione delle celebrazioni in forma

pubblica.

Una decisione dolorosa, sicuramente, ma necessaria.

La saggezza della Madre Chiesa, la sua prudenza, attraverso i suoi

Padri e Pastori, ha discernuto ciò che è giusto, ciò che è bene per

i suoi figli.

E tutti sappiamo che, talvolta, il bene attraversa vie di privazione,

di difficili percorrenza ma, sempre e comunque necessarie.

Siamo nel tempo santo della Quaresima: tempo di digiuno, tempo

di penitenza.

In quest’ottica mi piace rileggere il digiuno Eucaristico che ci è

richiesto, affinché possiamo ri-scoprire la bellezza, la grandezza

di questo mirabile Sacramento, l’incanto del ritrovarsi insieme,

comunitariamente, nello spezzare la Parola di Dio e il Pane di vita.

Già pregusto, con occhi pieni di meraviglia rinnovata, quando

tutto sarà passato e insieme, come Popolo di Dio radunato dalla

sua Parola, potremo celebrare un’Eucaristia piena, un vero rendimento

di grazie, perché, ne sono certo, sperimenteremo ancora

la fedeltà di Dio alle sue promesse, la paternità di un Dio che mai

delude.

È necessario riprendere fiato.

È imprenscindibile razionalizzare lo scoramento, la paura, la novità

che in questo momento rischiano di offuscare la bellezza del

nostro essere cristiani.

Ho letto, ho ascoltato, parole piene di rabbia nei confronti di chi

“scende”, di chi “sale”, degli amministratori, della chiesa stessa.

Rischiamo di innescare una guerra di tutti contro tutti.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Credo, invece, che sia il tempo di ascoltare.

Ascoltare le indicazioni delle autorità civili e religiose.

Ascoltare le motivazioni degli altri e magari correggere, sostenere,

anche dissentire ma senza innescare guerriglie inutili, quanto

piuttosto temprandoci e sostenendoci vicendevolmente nella carità.

Sempre nella verità ma mai senza carità.

E poi mettersi in ascolto del Silenzio. Quel silenzio che aiuta a sedimentare

le nostre emozioni e lascia il posto all’unica Parola che

in questo momento può guarire le nostre ferite, le nostre paure.

La necessità, allora, di ascoltare la Parola di Dio che diventa balsamo

che sana e lenisce.

Di riprenderla in privato, o con tutta la famiglia e cercare di scavarla,

di cesellarla, alla ricerca di quel frutto dolcissimo che può

saziare la sete della nostra anima.

È il momento, questo, di ritornare finanche bambini, nella

riscoperta delle nostre belle devozioni private, della recita del

Santo Rosario, magari in famiglia come tante piccole chiese

domestiche, non dimenticando che «dove sono due o tre riuniti

nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20) ci ha assicurato

Gesù.

In questa paziente attesa, ne sono convinto, il tempo scorrerà

velocemente e, se Dio lo vorrà, celebreremo insieme la gioia della

Pasqua che quest’anno avrà un sapore particolarmente intenso,

vero passaggio dalla paura alla vita, vero esodo da una situazione

di estrema instabilità alla libertà dei veri figli di Dio.

Nel frattempo io (così come tutti

i miei confratelli) celebrerò quotidianamente

la Santa Messa.

In privato, senza la gioia di potervi

offrire e condividere il frutto

più bello del mio essere prete.

Ma vi presenterò al Signore, vi

affiderò alla Vergine del Monte

40


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Carmelo, Patrona della nostra Comunità parrocchiale, e vi porterò

nel cuore con l’affetto di fratello e di padre.

Ma voi restate uomini.

Non temete, restate uomini.

Uomini di speranza che si fidano e si affidano all’unico Salvatore:

Cristo Signore.

12.03.2020

41

“Ama”

M

olti pensano che la libertà consista nel fare ciò che si vuole.

Non è così.

La libertà, quella vera, quella pienamente umana, si manifesta nel

fare il bene.

E per essere realmente liberi dobbiamo divincolarci dalle nostre

passioni, dal nostro voler rivendicare costantemente i nostri “diritti”,

lasciare tutte quelle cose che (subdolamente o palesemente)

ci dominano, partendo proprio dal nostro “io”.

“Ama e fa’ ciò che vuoi”, diceva il grande Vescovo di Ippona,

esortandoci così al bene del prossimo e al contempo, al nostro.

“Ama”.

Perché quando ami, quando agisci in nome dell’amore, quello

vero, quello evangelico, non potrai mai sbagliare.

“Ama”.

Perché quando ami veramente non potrai non volere il bene del

prossimo. Dimentico di te stesso, anteporrai al tuo egoismo l’altro,

darai la precedenza all’Altro.

“Ama”.

Perché quando ami sei veramente, eccezionalmente, straordinariamente

libero.

E solo amando potrai fare ciò che vuoi senza sbagliare.

In questo c’è l’essenza della libertà.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Quella autentica.

C. Kingsley sosteneva: “Ci sono due libertà – quella falsa, dove un

uomo è libero di fare ciò che gli piace; quella vera, dove è libero

di fare ciò che deve”

Allora, approfittiamo di questo tempo per essere realmente uomini

liberi:

- amiamo, realmente;

- facciamo del bene facendolo bene;

- facciamo ciò che dobbiamo.

Nella maniera più semplice possibile: “standocene a casa”.

Così facendo otterremo dei risultati straordinari:

- tuteleremo gli altri;

- ci prenderemo cura di noi stessi;

- avremo massimo rispetto per la vita;

- faciliteremo il lavoro di quanti a casa non possono restarci per

continuare a garantirci sicurezza e tranquillità (medici, infermieri,

forze dell’ordine, volontari ecc., ecc.,)

Mai è stato così semplice fare del bene.

Oggi è possibile: è sufficiente non uscire di casa.

42


12.03.2020

RIFLESSIONI DI UN PRETE

43

È il tempo del silenzio

R

ipercorrendo le navate vuote della “mia” chiesa vedo i volti

di ognuno di voi nei banchi che abitudinariamente occupate.

È il tempo del silenzio, ripercorro le vostre storie, i nostri rapporti,

le nostre amicizie.

Dopo, quasi, quattro anni in mezzo a voi è la prima volta che mi

capita di entrare in chiesa senza nessuno ad attendermi o senza

la “fila post messa” dietro la porta dell’ufficio.

Vi penso e so che voi pensate a me. Molti i messaggi che mi giungono

in questo periodo.

Bello il “ritrovarsi” più volte al giorno sui gruppi della parrocchia

con messaggi che ci ricordano che ci vogliamo bene.

Tutti ci facciamo forza vicendevolmente ed è bello scoprirsi “famiglia”

anche in questo frangente.

In modo particolare, però, questa sera, penso ad alcuni miei parrocchiani,

collaboratori, amici che più che mai si ritrovano a lavorare

e che non hanno la possibilità di restare a casa.

Penso agli infermieri, ai medici, al personale ausiliario dell’ospedale.

Sento in loro la forte tensione ma anche la voglia di farcela.

Sento la fatica di lavorare in situazioni di estrema precarietà ma

avverto forte il senso del dovere e di grande responsabilità.

Ho sentito qualcuno di loro.

C’è il timore ma sono abitati da una splendida speranza.

Sono eroi anonimi di questa quotidiana anormalità.

Penso a tutto ciò che finora abbiamo dato per scontato: le messe

serali, il via vai di gente che invade gli spazi della Cattedrale, il fermarsi

in chiesa dopo le celebrazioni, il sostare sul piazzale della

Cattedrale a ridere e scherzare, il succedersi dei gruppi nei saloni

del nostro centro pastorale, il vociare allegro dei bambini nel cortile,

i volti speranzosi di chi viene a ritirare un pacco dalla nostra

Caritas, i volti generosi di chi ci aiuta a riempirli quei pacchi.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Tutto è grazia.

Avevamo bisogno di questo

momento per renderci

conto di quanto è splendida

la normalità.

E noi, figli della speranza,

sapremo attendere perché

il rivivere tutto ciò sarà ancora

più bello.

Siamo una Comunità bella.

Lo saremo ancora di più.

13.03.2020

Mentre tutto tace...

M

entre tutto tace, la primavera urla l’esplosione della vita.

Mentre tutto tace, i rintocchi di campana durante la consacrazione,

annunciano che la risurrezione è più forte della morte.

Mentre tutto tace all’infuori di me, la mia anima urla che Dio è

speranza.

Apparentemente tutto tace.

Occorre mettersi in ascolto e, con rinnovato stupore, scoprire che

Dio non ha mai smesso di parlare.

Il tempo si è dilatato, tutto è rallentato, tutto più umano.

Ricondotto alla mia fragile natura si spalancano gli occhi sulla

mia vera essenza.

Fatto per l’eternità.

Amato da Dio.

Impastato di scintille divine.

Tesoro prezioso in un vaso fragilissimo.

Questo tempo mi aiuti a superare i limiti del semplice “sentire”,

mi educhi ad ascoltare, per riapprendere il sapore della meravi-

44


RIFLESSIONI DI UN PRETE

gliosa sinfonia che Dio ha pensato per me: la Vita.

Non si tratta di uscire.

È necessario rientrare in me stesso e scorgere la poesia

dell’abbraccio di Dio.

13.03.2020

45

Andrà tutto bene

T

utta questa situazione ti segna, ti scava dentro, non ti lascia

indifferente.

E le emozioni (sia belle, sia brutte) sono amplificate.

Tre segni hanno fortemente caratterizzato la mia giornata.

1) La Via Crucis celebrata in una Cattedrale deserta.

Mentre ripercorrevo le stazioni, avanzando tra le navate, vi ho

pensato.

Ho pensato alle “nostre” Via Crucis.

Quelle guidate da ogni gruppo della Parrocchia. Quelle piene di

gente che canta, che prega, che calca le orme della croce, che

avanza tra le candele accese.

Oggi l’ho portata io e ad essere acceso era il cuore, non una candela.

Vi ho pensato e mi siete mancati ma ne sono certo: c’eravate.

2) Ho dovuto portare l’Eucaristia alle nostre Suore.

Ho aperto il tabernacolo, ho prelevato una pisside e mi sono avviato

per le strade deserte.

Locri vuota.

Locri svuotata.

Mi sono fermato sul sagrato e girandomi sui quattro angoli, ho

elevato la pisside, ho tracciato quattro ampi segni di croce e vi

ho benedetti.

Io e Lui.

Soli.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

3) Sono ritornato in chiesa, uscendo da essa ho alzato lo sguardo

e vi ho trovati tutti lì.

L’Azione Cattolica ha preparato questo cartellone che ha, d’improvviso,

colorato tutto.

Vale per me.

Vale per voi.

Uscendo lo troverete lì.

È un segno forte.

Serve a ricordarci quanto ci siamo mancati.

Serve a ricordarci che non ci siamo mai lasciati.

Santa notte a tutti, con questo segno di speranza.

14.03.2020

Ogni sabato....Ma non oggi

O

gni sabato, nella “mia” chiesa, si

compie il miracolo.

Nel cortile interno, ogni sabato, è sempre

primavera anche a Dicembre, anche

con il freddo.

Sbocciano “fiori” variopinti, allegri e l’aria,

come d’incanto, è abitata da “musica”

gaia, gioviale che ti riempie il cuore

e la vita.

Ogni sabato.

Ma non oggi.

Oggi i “miei” bambini mi sono mancati.

Ma l’eco del loro buonumore ha intriso queste mura.

Si tratta solo di attendere, saper aspettare.

Nel frattempo il sole diventa più luminoso, più caldo e prepara,

così, un “sabato” ancora più bello.

Quello del ritorno alla normalità.

46


15.03.2020

RIFLESSIONI DI UN PRETE

La storia di una “donna” ritrovata.

Gv 4,5-42

mezzogiorno, l’ora in cui il sole brilla alto nel cielo.

È È l’ora della luce, della rivelazione.

Luce che raggiunge gli angoli più bui, Rivelazione che comincia,

sempre, dagli ultimi.

Un pozzo.

E il pozzo già nell’Antico Testamento è foriero di grandi storie

d’amore.

Una donna.

Una donna e la sua tormentata storia: cinque mariti l’hanno abbandonata.

Una donna e la sua storia ferita.

Una donna cercata per il corpo viene avvicinata da Colui che, più

del corpo, ne mendica l’anima.

È il gioco dei paradossi: un uomo che parla con una donna.

Un giudeo che accosta una samaritana.

Dio che s’accosta all’impura.

La Misericordia e la misera.

Dio sbalordisce sempre, attraversa le strade proibite, sradica i

preconcetti, rifugge l’ovvio.

Dio sradica i rovi del giudizio che infestano anche le nostre relazioni.

E lei abituata ad essere assimilata al suo peccato, scorticata dagli

sguardi della gente, si meraviglia.

Non più identificata con le sue mancanze è restituita alla sua dignità

di persona.

Lui, invece, esperto di creazione, inizia a modellarle il cuore:

“Dammi da bere”.

L’Eterno assetato d’amore chiede d’essere amato.

Colui che estingue la sete, chiede da bere.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

«Signore, non hai un secchio e il

pozzo è profondo; da dove prendi

dunque quest’acqua viva?» (Gv 4,11)

Lei parla di pozzo.

Lui parla di sorgente.

Pozzo, acqua che ristagna.

Pozzo che dice la fatica dell’uomo nel

cercare l’acqua, ciò che dà la vita.

Sorgente, acqua viva che zampilla.

Sorgente che veicola l’idea di un dono trasmesso senza alcuna

fatica.

E la Samaritana, bagnata di luce, diventa missionaria.

Dimentica la brocca.

Come gli innamorati: trovato l’Amore tutto è relativo, incontrato

il Necessario, tutto è superfluo.

Diventa normale dimenticare ciò che prima si stava facendo perché,

l’Amore, ora, e solo l’amore, basta.

«Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola

della donna, che testimoniava: “Mi ha detto tutto quello che ho

fatto”» (Gv 4,39)

La Samaritana che prima rifuggiva l’incontro con chi da sempre la

giudicava, corre verso agli altri per annunciare la bellezza dell’Incontro.

“Mi ha detto ciò che ho fatto”.

Un incontro che comincia sempre dalle proprie cadute.

Un annuncio che parte sempre dal sentirsi perdonati.

Questa è la storia dell’anfora dimenticata.

Questa è la storia di una “donna” ritrovata.

16.03.2020

Giuseppe

Giuseppe, uomo del poco chiasso che profuma di resina, di

legno e di quotidianità.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Giuseppe, uomo coraggiosamente (e meravigliosamente) fragile

di fronte ai piani di Dio che ci insegna ad accettare la verità dell’amore

difficoltoso.

Giuseppe, uomo realmente, che da abile carpentiere ridona vita

nuova alle cose sfasciate, alle “storie” infrante.

Giuseppe, padre, veramente, del Figlio di Dio, a cui insegna la

fatica del vivere col lavoro delle proprie mani.

A lui affidiamo le nostre necessità, a lui, uomo talmente grande

che non disdegna di donare ospitalità a Maria e a quel Figlio, che

pian piano, imparerà a sentire suo.

A lui affidiamo le nostre richieste, confidando

che il suo immenso cuore sarà in

grado di ospitare anche noi, di riparare le

nostre vite sgretolate, di insegnarci l’arte

del vivere la volontà di Dio.

Giuseppe, lui, uomo della speranza che insieme

a Maria, donna della fede, ci fanno

dono della perfetta Carità.

Sotto il suo manto ognuno di noi trovi

conforto.

19.03.2020

Nella tua storia PAPÀ

Ti guardi indietro e, improvvisamente, ti vedi cresciuto, adulto.

Ti fermi.

Ti guardi dentro e scopri che gli anni sono trascorsi velocemente

ma alcune immagini, alcuni ricordi, inderogabilmente ti si sono

impressi nel cuore.

Immagini e ricordi.

Ricordi e situazioni.

Situazioni e volti.

Volti.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Oggi, con prepotenza, emerge il tuo.

Il tuo volto che continua a ricordarmi che per tutti sono “padre”

mentre per te sarò sempre figlio.

Tu che hai saputo donarmi la vita, ancorandomi, radicandomi alla

terra, inserendomi nella storia della tua, la mia famiglia.

Nella tua storia.

Tu che hai saputo, nel tempo opportuno, farmi dono delle ali

della libertà per volare nel cielo del mio futuro.

Tu che continui a vigilare su di me, con la stessa dedizione, con la

stessa discrezione ma con amore centuplicato.

Tu che per tutti gli altri sei “Giovanni” ma che io posso chiamare

teneramente “papà”.

Auguri!

(E insieme al mio papà, auguri a tutti coloro che svolgono il difficile,

bellissimo compito di

essere padre, ricordandovi

che questo è anche

il nome di Dio. Siatene

degni. Assaporatene

ogni giorno la bellezza.

Riscoprite quotidianamente

la straordinaria

“vocazione” legata a

questo nome: papà).

20.03.2020

Piccole fiammelle

C

on la recita del Santo Rosario alle 21:00, ieri sera ci siamo uniti

spiritualmente con tutte le chiese d’Italia.

I vescovi avevano chiesto, in questa occasione, di esporre, alle

proprie finestre, una candela accesa o un drappo bianco, simbolo

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51

RIFLESSIONI DI UN PRETE

della speranza che risiede in noi.

Nel silenzio (che ormai costantemente abita le nostre strade) ieri

sera mi sono commosso nel vedere sui balconi, in lontananza,

tante piccole fiammelle, fragili, tremolanti ma vivacissime che

sembravano voler “combattere” l’oscurità.

Piccole fiammelle che messe insieme divampano in un incendio

di speranza.

Speranza che vuole spalancare le porte di casa nostra, vuole aprire

le finestre delle nostre stanze, quelle in cui la nostra vita, in

questi giorni, sembra intrappolata.

E poi, inaspettatamente, arriva la luce.

La luce della solidarietà che vince ogni forma di oscurità.

È di un giorno fa la notizia: «Due pazienti provenienti dalla

Lombardia e affetti da Covid-19 sono in procinto di essere

trasferiti nell›unità di Terapia intensiva dell›azienda ospedaliera

Pugliese Ciaccio di Catanzaro».

La madre Calabria che ha accolto anche me, i calabresi dal cuore

d’oro, sanno ancora una volta essere straordinariamente generosi.

Una regione tra le più povere, una terra spesso dimenticata e oltraggiata,

è disposta a condividere quel poco che possiede.

Una regione che ha pochi posti letto in questa emergenza sanitaria,

spalanca le porte dell’accoglienza a due pazienti di Cremona

e Bergamo, due città fortemente provate dalla diffusione del

virus.

Solo due posti letto.

Solo due.

Un’immagine, per me, dalla forte valenza simbolica.

«Vide anche una vedova povera che vi gettava due spiccioli e disse:

“In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti.

Tutti costoro, infatti, han deposto come offerta del loro superfluo,

questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva

per vivere”» (Lc 21,2-4).

Rileggo in quest’ottica evangelica la disponibilità generosa della


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Calabria.

Terra bella perché ha il mare.

Terra bella perché ha i monti.

Terra bella perché ha i calabresi dal cuore grande.

22.03.2020

Un Dio che, sempre, vede

«Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva,

spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti

nella piscina di Sìloe» – che significa Inviato» (Gv 9,6-7).

Poche parole per raccontarci la storia di una carezza di Dio.

E Lui, Camminatore di strade, Percorritore di vite, stavolta non

usa parole per guarire.

Parla con i gesti, gesti che raccontano la salvezza, gesti che profumano

di Dio.

Stende le dita, tocca quegli occhi mai nati, ne tocca la sofferenza

di un’intera vita e vuole porvi rimedio.

La più bella immagine di Dio è questa: un Dio che, sempre, vede

ciò di cui gli altri neanche si accorgono, un Dio che si ferma lì

dove c’è dolore, un Dio che

prende l’iniziativa, un Dio che

vuole toccare, con le proprie

mani, la sofferenza dell’uomo.

Per sanarla.

Per guarirlo.

E Dio, con la pelle d’uomo, sputa

per terra, prende del fango e

proprio come l’episodio di genesiaca

memoria, ricrea l’uomo

senza difetti.

52


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Un uomo che, stavolta, ci vede.

Immagine splendida, questa, delle mani divine.

Mani che devono sporcarsi di fango, mani che devono essere

imbrattate della nostra umanità per poter aggiustare ciò che è

guasto.

Un solo comando: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che

significa “Inviato”, sottolinea Giovanni.

È necessario l’incontro con “l’Inviato” per poter ri-vedere.

Da Sicar a Siloe, dall’acqua del pozzo all’acqua della piscina.

Domenica dopo Domenica, questa Quaresima ci propone immagini

vivissime che odorano di battesimo.

Un “battesimo” che apre gli occhi, un battesimo accompagnato

dalla carezza di Dio.

Carezza di un Dio che ha le mani sporche di “fango”.

Un Dio che si fa Padre affinché noi possiamo essere rigenerati

come figli.

Un Dio che ci “apre” gli occhi per gustare l’incanto di questa realtà.

27.03.2020

53

Il mondo intero in quella piazza

U

na piazza “San Pietro” deserta.

Un Papa da solo al cospetto del

Crocefisso e della gran Madre di Dio.

Un uomo claudicante, visibilmente

commosso, con in mano l’ostensorio

che benedice una piazza apparentemente

vuota.

Apparentemente vuota, perché, ne

sono certo, il mondo intero, oggi, era

in quella piazza.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

E la pioggia abbondante, mi piace pensare, benedizione di Dio,

commozione di Dio dinanzi ai suoi figli che stanno riscoprendo la

bellezza di essere sulla stessa “barca”, la Chiesa.

Per remare insieme.

Per affrontare insieme le tempeste.

Perché come ci ha detto Francesco: “nessuno si salva da solo”.

Ricordiamocelo sempre.

Ricordiamocelo vicendevolmente.

29.03.2020

Gv 11,1-45

La casa dell’amicizia

N

ulla di più umano dell’umanità assunta da Dio.

Come le lacrime di Gesù.

Come la sua amicizia per Lazzaro.

E la casa di Betania, a ridosso delle mura di Gerusalemme, è il

luogo dove Gesù, in quella famiglia di amici, decide di essere

divinamente Uomo.

È la casa dell’amicizia.

Vera, bella, pura, disinteressata.

Quella casa che un giorno odora di morte perché Lazzaro, l’amico

di Gesù, non c’è più.

Nonostante l’affetto di Gesù, nonostante il discepolato, nonostante

la fede.

Marta, la donna dal molto fare e dalle mille preoccupazioni, in

nome di quell’amicizia che crea familiarità, rimprovera l’assenza

di Gesù: “se tu fossi stato qui”.

Gesù che ama sempre con il cuore di Dio, invita alla speranza.

Faticosa.

Impensabile.

54


RIFLESSIONI DI UN PRETE

“Se credi, vedrai la gloria di Dio”.

Se credi.

Oggi.

Nel presente.

Nonostante la morte.

Una logica quella di Dio, diversa da quella di noi uomini.

Noi vogliamo vedere per credere.

Lui ci invita, ci sollecita a credere per vedere.

E nonostante siano già trascorsi quattro giorni, nonostante l’odore

della morte, il macigno rotola e la voce forte, rassicurante di

Gesù, genera la vita: “Lazzaro vieni fuori”.

E il grembo buio e freddo del sepolcro, si apre alla luce, al tepore

della vita.

Perché l’ultima parola sulla vita dell’uomo spetta a Dio.

E Lui ha solo una Parola, parola che ci partorisce alla Vita eterna,

parola che ci libera dal potere delle tenebre.

05.04.2020

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Il “terremoto” di un Dio che salva

L

a grande settimana, la Settimana Santa, si apre

con il dono sovrabbondante di Parola di Dio.

Tanta, da ascoltare, rileggere, meditare.

Mi piace sottolineare un aspetto importante, un

filo rosso, un elemento costantemente ripetuto

nel racconto di Matteo.

La folla che accoglie Gesù a Gerusalemme, dice,

letteralmente l’evangelista, è “percorsa da un terremoto”.

È il terremoto presente, anche, nell’episodio della crocifissione.

È il terremoto presente, anche, nel racconto della risurrezione.

Quello della folla che accoglie Gesù con rami di palma, è un terremoto

interiore che porta ad interrogarsi: “chi è Costui, chi è


RIFLESSIONI DI UN PRETE

questo che, oggi, entra in Gerusalemme?”.

«La folla rispondeva: “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea”»

(Mt 21,11)

Un paradosso forte: da un lato la figura, forte, trionfalistica del

Messia, dall’altro la provenienza umile da Nazareth, un borgo

sperduto, dimenticato.

Da un lato le attese di un popolo che attende un Dio cui sottomettersi,

che si manifesta con forza e potenza grande.

Dall’altro il piano di Dio che decide di manifestarsi nella straordinarietà

dell’ordinario, facendosi compagno di vita.

Un Dio che lava i piedi degli uomini, che si lascia tradire, percuotere,

crocifiggere.

Un Dio che si dona nel Pane e nel Vino, un Dio che “consegnato”,

tradito, decide di “consegnarsi” nell’Eucaristia.

È lo stesso “terremoto” che dovrebbe innescarsi in ognuno di noi

per decidere da che parte stare.

Riconoscere in Colui che entra in Gerusalemme, “l’Osanna”, Colui

che aiuta, che salva, non secondo le attese degli uomini ma

nell’umiltà del piano divino.

Racconto che la Liturgia di questi giorni ci aiuterà a rivivere, passo

dopo passo, nel solenne Triduo Pasquale.

Quest’anno vissuto, in una modalità totalmente nuova, nelle nostre

case.

Non scoraggiamoci.

Siamo chiamati a fare (forse) l’esperienza più antica della Pasqua.

Nelle case.

In famiglia.

Nella “piccola chiesa domestica” che la famiglia è.

Nonostante questa Quaresima particolare, nonostante la quarantena,

possiamo riscoprire la bellezza di Dio che ha santificato

tutta la nostra quotidianità.

Nonostante tutto, insieme questa domenica, acclamiamo: “Osanna,

salvaci, aiutaci” per giungere alla prossima Domenica con il

grido di giubilo della risurrezione.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Lasciamoci scuotere dal “terremoto” del racconto evangelico, dal

“terremoto” di un Dio che salva non perché ha sofferto tanto ma

perché ama (al presente) ancora di più.

«Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù,

alla vista del terremoto e di quello che succedeva, furono presi

da grande timore e dicevano: “Davvero costui era Figlio di Dio!”».

(Mt 27,54).

06.04.2020

Mani vuote...Chiesa vuota

La Liturgia è il luogo dove sperimenti lo stare faccia a faccia con

Dio.

È il luogo della resa.

È il momento in cui puoi, finalmente, consegnare la tua vita nelle

mani di Dio affinché, Lui, ne faccia un capolavoro.

Madre Teresa diceva: “Quanto meno abbiamo, più diamo. Sembra

assurdo, però questa è la logica dell’amore”.

Questa foto, quest’attimo rubato, esprime tutto questo.

Mani vuote.

Chiesa vuota.

Apparentemente nulla da offrire.

Ma in quel momento eravate tutti lì.

In quelle mani avevo riposto ognuno di voi.

Il mio essere prete per la mia

Comunità è stata l’offerta più

bella deposta ai piedi dell’altare.

Faccia a faccia con Dio.

Tutti uniti da quel filo d’oro che

è la fede.

57


RIFLESSIONI DI UN PRETE

11.04.2020

Solo fiori dalle vostre case

U

na Pasqua strana, sicuramente. Sotto certi aspetti, bella perché

ci ha ricondotto all’essenziale.

Ci ha costretti a “fermarci”, a vivere tempi più umani, ad apprezzare

tutto quanto avevamo.

Il sole, non curante, continua a riscaldare le giornate.

La primavera, con prepotente vitalità, esplode nella sua bellezza.

Un po’ di primavera, questa mattina, ha varcato la soglia della

Cattedrale.

Con i suoi colori.

Con i suoi profumi.

Con i sorrisi, coperti da mascherine, ma chiaramente leggibili negli

occhi di quanti hanno voluto portare in chiesa i fiori del proprio

giardino.

E il semplice addobbo Pasquale è il risultato di tutto questo.

Niente fiori “perfetti”.

Niente sfumature studiate.

Niente colori abbinati.

Solo fiori “locresi”.

Provenienti dalle vostre case.

Semplici.

Ma belli perché si portano appresso i vostri sorrisi, i vostri cuori,

un po’ della vostra casa.

Oggi la Cattedrale è piena di voi.

Oggi la Cattedrale profuma di primavera.

Oggi in Cattedrale abita la nobile semplicità.

Ed io ho gioito (con la semplicità di un bambino) nel vedere che

ognuno, ancora una volta, ha dato ciò che ha potuto.

E credo che l’addobbo di quest’anno sia bello perché vero.

Vero ed essenziale.

“La capacità di semplificare significa eliminare il superfluo in

modo che solo il necessario possa parlare” (H. Hofmann)

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

E il Cero Pasquale, in mezzo a quei fiori, parla.

Parla per ricordarci che la Vita ha vinto per sempre la morte.

14.04.2020

Maria di Magdala

Gv 20,11-18

Una donna che si porta imbastito addosso il suo passato, le

dicerie della gente, gli sguardi impietosi di quanti non credono

nella possibilità del cambiamento.

Maria di Magdala.

La donna liberata dai sette demoni

ma che ora è abitata dall’amore,

talmente forte che mentre

gli uomini scappano, si nascondono,

lei rimane fedele.

Al mattino presto, quando era ancora buio.

È passato il venerdì santo.

Le tenebre non sono ancora definitivamente vinte. È ancora buio

ma un’alba nuova sorge, colora l’orizzonte.

Proprio come la vita che da lì a poco sta per sbocciare.

Quello di Maria è l’amore “pazzo” di chi, a causa della morte,

ha perso la ragione, il fondamento di questo amore stesso (un

amore che io ho avuto la fortuna di incontrare tante volte nel mio

ministero nel cercare di consolare chi ha subito gravi perdite).

Non dorme.

Non teme.

Non si rassegna.

Va al sepolcro perché sa che è lì l’Amato.

La sua è la storia di ogni amante che cerca l’Amore.

Ma fino a quando continuerà a guardare al sepolcro non si accorgerà

della “Presenza”.

Donna fedele ma con il bisogno di ricalibrare lo sguardo.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

«Si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi».

È necessario voltarsi, cambiare rotta, convertirsi per gustare la

sorpresa di un Dio che, nel momento del dolore, è già, da sempre,

con noi.

Un Cristo Risorto straordinariamente bello (totalmente diverso

da quello rappresentato nelle nostre chiese), non circonfuso di

luce, non sollevato da terra, non avvolto in drappi regali.

Bello nella sua quotidianità tanto da essere scambiato per il custode

del giardino.

Bello per questo: straordinariamente ordinario nonostante il profumo

di mirra, nardo e di altri oli usati per imbalsamarne il corpo.

Bello, ordinario e profumato come uno Sposo pronto per le Nozze.

Voltandosi, Maria non vede più il sepolcro, la nuda pietra che

parla di morte.

Voltandosi, Maria vede il giardino, luogo dell’esplosione della

vita.

Voltandosi, Maria vede il “custode” di quel giardino (di genesiaca

memoria), di quel paradiso sceso in terra che da quel momento

in poi sarà Terra Santa.

Voltandosi, Maria vede la Vita.

«”Signore, se l›hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a

prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”».

Le lacrime possono purificare lo sguardo o appannare la vista. Il

dolore ha annebbiato completamente gli occhi di colei che chiamano

Maddalena.

Lei ora ha soltanto bisogno di trovare ciò che resta dell’Amore.

E Gesù le indica dove trovarlo.

Glielo indica chiamandola per nome.

«Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì!”».

Riconosce Gesù nel timbro di voce.

Ne riconosce la voce, di Lui che è la Parola.

Chissà quanta dolcezza in quella pronuncia.

Talmente unica da farci aprire gli occhi, da terremotarci il cuore,

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

da infondere sicurezza.

Maria lo riconosce.

Nel riconoscerlo professa la sua fede.

E nella professione di fede comprende il suo ruolo.

Rabbunì che significa Maestro, Sposo, Signore.

Se Lui è il Maestro noi siamo i discepoli.

Se Lui è lo Sposo, noi Chiesa siamo la sposa.

Se Lui è il Signore, noi siamo i redenti, i salvati.

Maria viene chiamata per nome e diventa “apostola”, inviata.

È lei la prima annunciatrice del Vangelo della risurrezione.

È lei che ci insegna che l’amore vince tutto.

Tutto.

Anche la morte.

15.04.2020

61

Tutto parla di luce

I

n questi giorni di ottava di Pasqua e in quelli appena trascorsi,

siamo stati invasi dalla luce.

Una luna piena, straordinariamente grande, troppo vicina alla

terra.

Superluna l’hanno chiamata.

E poi le prime giornate di primavera che hanno indossato il più

bel sole che il cielo potesse mettergli

a disposizione.

Un sole che s’alza presto al mattino

e che la sera, sembra, non voler

andar via.

E poi, la liturgia bella della notte

santa, della madre di tutte le veglie

in cui si canta “la felice colpa

che meritó un così grande Redentore”.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Anche in essa la fa da padrone la luce.

Quella del Cero Pasquale che, da una piccola fiammella, sparge

raggi dorati tutt’attorno, divampando nella chiesa e nei cuori.

Tutto parla di luce.

Tutto è luce.

E quando c’è Lui, tutto “s’accende”.

Pensandoci, ho voluto riflettere (ho provato ad ipotizzare) che

mentre sulla grotta di Betlemme rifulge la bella cometa, con la

coda lunga (come la disegnavo da bambino), sulla grotta del sepolcro,

sicuramente, ci sarà stata una “superluna”.

Due grotte, quella di Betlemme e quella del sepolcro, che dicono

buio, freddo.

Due grotte, quella di Betlemme e quella del sepolcro che vengono

abitate dalla Luce.

Luce che illumina.

Luce che riscalda.

Luce che “colora”.

Ed è così che immagino la risurrezione, dopo aver letto il Vangelo

di oggi (i discepoli di Emmaus, Lc 24,14-35): un Gesù Risorto che

come la luce del sole e della luna entra senza bussare.

Senza imporsi, però.

Entra nella vita del discepolo, da Risorto, in punta di piedi.

Entra in punta di piedi, come se n’era andato, morendo su una

croce, come fosse un uomo qualunque.

Ed è bella, da morire, l’immagine di questo Risorto che va a riacciuffare

i discepoli che, delusi, fanno ritorno alla vita della loro

quotidianità.

Un Risorto che va a “ripescarli”.

In punta di piedi.

Ma usando l’arma più bella, quella che seduce, quella divina che

Lui ha sempre destreggiato con sapienza: la sua Parola.

Usa le reti, a maglie larghe, dell’amore.

Perché tutti possano “caderci dentro” ma tutti possano, se lo vogliono,

sbrigliarsi da quest’abbraccio divino.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Lo fa con i due di Emmaus.

Lo fa con Maria Maddalena.

Lo fa con i Dodici chiusi nel cenacolo.

Lo fa con Tommaso.

Lo fa con me, con noi.

Proprio come la luce di questi giorni.

Entra senza chiedere permesso, in punta di piedi, però.

E ti stravolge perché tutto diventa nitido, tutto diventa chiaro,

tutto si colora.

In punta di piedi.... ma quei piedi bucati ti scuotono l’anima.

16.04.2020

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Siamo chiamati a diventare Uomini

«Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma»

(Lc 24,37).

Credo che non ci sia modo più bello per descrivere l’umanità

degli Apostoli.

Noi, troppo abituati a concepirli “già fatti santi”, li allontaniamo

dal nostro vissuto, dalle nostre esperienze, perdendoci così quel

“sostrato” comune che è l’umanità, infarcita di fatica del credere,

di paura, di dubbio.

Santi non si nasce, si diventa.

Con fatica.

E con tutta l’umanità.

Ed è proprio nel momento di estrema

fragilità, nel momento in cui comprendiamo

con maggiore evidenza il nostro

essere fragili che accade il “divino”.

Anzi, quanto più sperimentiamo,

comprendiamo la nostra piccolezza, la


RIFLESSIONI DI UN PRETE

nostra finitudine, tanto più emerge con prepotenza (dolce prepotenza)

lo splendore del volto di Dio.

Un Dio prossimo, vicino.

Troppo preoccupati a voler apparire santi, ci perdiamo la meraviglia

della nostra umanità.

Troppo preoccupati a voler divinizzare Dio, vanifichiamo lo sforzo

Divino di farsi prossimamente vicino nella carne.

Quella carne che Lui ci mostra, che Lui ci offre per essere “toccata”.

«Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa,

come vedete che io ho» (Lc 24,39).

Quella carne da Lui assunta, ferita, redenta.

Mi piace pensare che il Vangelo di oggi voglia ricordarci proprio

questo: siamo chiamati a diventare Uomini.

Solo se diventiamo pienamente e veramente “umani” potremo,

poi, diventare Santi.

Umani nonostante i fallimenti possibili, capaci però (sempre) di

rialzarci.

In fin dei conti, il Vangelo di oggi, il Gesù Risorto del Vangelo di

oggi che mostra mani e piedi forati, vuol ricondurci al vero significato

della Fede: nelle ferite, nei fallimenti si annida il profumo

di rinascita, si nasconde la gioia della risurrezione, il vero volto

della Pasqua.

Vale per gli Apostoli.

Vale per me.

19.04.2020

Sperare nonostante tutto... si chiama Fede

N

ell’aria c’è ancora l’odore della morte, della paura, delle speranze

deluse eppure i discepoli si trovano nel cenacolo.

Fedeli come un innamorato ad un appuntamento, non si lasciano

vincere dai sensi.

Hanno visto la sua morte.

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65

RIFLESSIONI DI UN PRETE

Hanno sentito l’odore del sangue.

Hanno toccato quel corpo esanime.

Hanno sperimentato i morsi velenosi dell’angoscia e della delusione

ma l’amore è sempre più forte.

È il prezzo della fedeltà: sperare nonostante tutto.

E nella sera del primo giorno della settimana...

La sera, quando le angosce, l’ansia, le paure hanno il sopravvento.

La immagino anche come “la sera” del cuore, quando il buio sembra

soffocare anche gli ultimi bagliori di luce, di speranza.

La sera, i discepoli, fedeli ma spaventati, si trovano insieme.

Accomunati dalla paura.

Resi “comunità” dalla fede.

«mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i

discepoli [...] venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a

voi!» (Gv 20,19)

È la nostra esperienza di questo strano tempo Pasquale.

Come le nostre celebrazioni, a porte chiuse.

Per la paura.

Ma nonostante tutto, il Signore viene.

E si mette “in mezzo”.

Alla comunità, alle nostre vite, alle

nostre attese, alle nostre angosce.

Si mette “in mezzo” per infondere

speranza, per non farci sentire soli.

E viene a farci dono della “Pace”.

Pace fatta, realizzata.

Non dice: “la pace sia (sarà) con voi”.

Dice che la Pace c’è.

Se c’è Comunità, c’è il Signore.

Se c’è il Signore, c’è Pace.

Dovremmo ricordarcelo quando riassaporeremo

(io e voi) la bellezza

del dono (non di fare) di essere Comunità.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro

quando venne Gesù» (Gv 20,24).

Tommaso mi piace rileggerlo in chiave diversa.

Lo immagino intrepido, coraggioso, ostinato nel credere.

Viene detto “Didimo”, gemello.

“Gemello” di Gesù nell’ardore missionario.

Fedele all’annuncio, pronto, come il Maestro, a dare la vita.

Non presente perché caparbio, non assoggettato dalla rassegnazione.

E lo immagino, invece, abitato dallo stupore: “Non è possibile!

È troppo bello per essere vero: devo toccare le sue piaghe!”.

E Gesù, fedele come uno sposo, si ripresenta.

Otto giorni dopo.

Sempre di Domenica, il dies Domini.

Sempre “in mezzo” alla Comunità.

Non davanti.

Non dietro.

In mezzo. Come perfetto compagno di viaggio.

E Lui, incantatore di cuori, mostra le labbra socchiuse delle sue

ferite, labbra di innamorato, invaghito perdutamente degli uomini.

Labbra anelanti baci di riconoscenza, frutto di cuori ormai vinti

dalla sua passione, dalla sua Parola.

Tommaso, sconfitto, non tocca.

Tommaso, sconfitto, canta la meraviglia: “Mio Signore e mio Dio”,

come di fronte ad un desiderio realizzato, come di fronte ad una

speranza, ormai, fatta certezza.

Le piaghe sono epifania dell’amore e della fedeltà di Dio.

«Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno

visto e hanno creduto!» (Gv 20,29)

Troppo facile credere alla morte, molto più difficile credere nella

risurrezione.

È la pazzia dei discepoli.

È la sfida del Risorto.

Si chiama Fede.

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22.04.2020

RIFLESSIONI DI UN PRETE

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Il viaggio più bello

N

onostante la quarantena, in questi giorni ho viaggiato molto.

Ho esplorato posti meravigliosi, altri densi di sacralità, altri

aridi, infruttuosi.

Il mondo è pieno di meraviglie.

Alcune fatte dall’uomo.

Altre, le più preziose, sono quelle pensate da Dio.

C’è un luogo, però, dove tanta bellezza si raccoglie.

Per giungervi ci vuole costanza, fatica, coraggio.

Un viaggio intenso che può durare un’intera vita.

Un “pellegrinaggio” che molti, troppi, decidono di non intraprendere.

Belle le profondità degli abissi, casa delle acque e di quanto vi

abita in esse.

Affascinanti le vette dei monti, trono delle nubi, dei venti e delle

nevi.

Incantevoli i cieli dove risiedono gli astri e le stelle.

E poi distese immense di terra, sabbia e piante.

Ma il viaggio più bello è quello dentro se stessi.

Ci si scopre capaci di sognare, di ridere, di amare.

Spalancando la finestra sul nostro io interiore ci vedremo “capaci

di Dio”, costruttori di storia, realizzatori di mete.

Vedremo le nostre paure, i limiti, le cadute.

Vedremo i mondi dell’amore, della gioia, sfioreremo attimi di

felicità. Sentiremo tutta la

pesantezza del dolore, della

vergogna, dei limiti.

Ci scopriremo viaggiatori

nel tempo, abili nel ripercorrere

il nostro passato,

idonei nel pensare mete future.

Toccheremo con mano


RIFLESSIONI DI UN PRETE

che “siamo più” di quanto pensiamo, costantemente proiettati

nel divenire, come un’opera d’arte che Dio cura giorno per giorno.

E avremo contezza che la storia dell’universo abita dentro di noi.

Ne facciamo parte, ne siamo figli e, contemporaneamente padri,

generatori di altra storia.

Inabitati, inoltre, dall’Infinito, dall’Eterno che con costanza ci ama,

ci crea, ci dona l’esistenza.

È un viaggio faticoso ma si può avere un complice, una guida

sicura: il proprio cuore.

Si coglierà così la verità del nostro fondo, della nostra anima e

constateremo che non siamo soltanto ciò che gli altri dicono di

noi ma neppure, soltanto, ciò che noi vorremmo apparire.

Ciò comporta responsabilità, capacità di critica, voglia di mettersi

in discussione.

Fatica.

Un viaggio interminabile che ci porterà a carpire, per un attimo,

ciò che veramente siamo.

Lì vedremo la nostra vera bellezza perché smetteremo di paragonarci

agli altri.

Lì troveremo una bella compagnia: io ed io.

Io e Dio.

03.05.2020

“Perché tutti abbiano la vita”

«Le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore,

ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto

fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse» (Gv 10,3-4).

Come nelle prime ore del mattino, in questo inizio del mese di

maggio, l’aria non ancora abitata dal tepore del sole, è al contempo

piacevole e pungente, così risuonano le parole del Vangelo

di questa IV Domenica di Pasqua.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Ci svegliano.

Ci invitano, dolcemente, a prendere coscienza del grande amore

di Dio, solleticando, però, la nostra attenzione.

Con dolcezza.

Ci incoraggiano a sbocciare come fiori di questa nuova primavera,

nella consapevolezza di essere preziosi agli occhi di Dio.

Perché l’amore è uno sbocciare nuovo, perennemente, all’inizio

di ogni giorno.

E Dio, paziente, tesse ogni mattina l’ordito stupendo di questa

storia dove io e Lui siamo i protagonisti.

E da grande innamorato inventa sempre scenari nuovi, parole

nuove, storie nuove per incantare l’amato.

E Lui, esperto conoscitore di mangiatoie e ovili, vero Pastore Buono,

nel Vangelo che la Liturgia oggi ci regala, dipinge l’immagine

vivissima e densissima di questa attenzione divina nei confronti

delle pecore.

Non guarda il gregge nella sua totalità ma imbastisce un rapporto

personale, intimo, rivestendo ognuno di dignità.

Essere chiamati ciascuno col proprio nome, essere chiamati da

Dio, significa essere restituiti alla propria storia, unica, irripetibile.

Perché ogni nome reca con se una storia.

Una storia, però, abitata da Dio, in cui riecheggia la Sua voce che

ci chiama.

Essere chiamati da Dio significa essere abitati dalla Vita.

Le pecore vengono chiamate “per essere condotte, spinte, fuori”.

Perché Dio non vuole mai dei recinti attorno all’uomo.

Incoraggiante l’immagine

di Lui che “ci spinge” fuori

dall’ovile. Lo immagino

mentre ci invita ad uscire

dai nostri recinti, dalle nostre

sicurezze, dalle nostre

paure mentre ci sussurra

nell’orecchio, mentre ci


RIFLESSIONI DI UN PRETE

parla al cuore con la Sua Parola libera e liberante.

Questa è “la spinta” di Dio, sempre rispettosa, attenta.

Mai invadente, mai forzata.

Perché in quell’essere “chiamati per nome” ci vien detto che Dio

aspetta, rispetta i tempi (la storia) di ognuno.

Ma non si arrende.

Ci “spinge” fuori dall’ovile per essere liberi.

Per essere missionari.

“E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a

esse”. Non dietro, dove noi spesso posizioniamo i nostri “pastori”

dell’inevitabile “gregge” presente in ogni presepe.

Ma avanti per guidare, per aprire la strada, per sventare pericoli.

È lui che nella passione ci traccia la strada, ci indica la via da

seguire e ci detta il passo da intraprendere.

Per essere vero compagno di viaggio verso la meta che profuma

ancora questo tempo di Pasqua: «Sono venuto perché abbiano la

vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 4,10)

E... se c’è qualche “pecora nera”, di quelle che “scappano” (ma

questa è un’altra Storia), Lui pazzo d’amore, le corre dietro, la

recupera, se la mette sulle spalle e la riconduce su quel cammino

che è venuto a tracciare.

Il finale, però, è sempre lo stesso: “Perché tutti abbiano la vita”.

Tutti.

In abbondanza.

10.05.2020

La Verità si è rivestita di ordinarietà

«Non sia turbato il vostro cuore» (Gv 14,1).

Ci sono parole che ti “sfregiano” il cuore non perché sono violente

ma perché ti penetrano nell’anima, le senti tue.

E queste parole del risorto, che questo tempo di Pasqua ci con-

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

segna nel Vangelo domenicale, hanno l’intensità di un raggio di

luce che taglia, dirada le tenebre e al contempo si portano appresso

tutta la paternità di Dio.

Un Dio che si “preoccupa”, ci vuole gioiosi, non turbati, col cuore

libero, anche di fronte all’incertezza del futuro, anche nei momenti

di crisi.

«Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai; come

possiamo conoscere la via?”» (Gv 14,5).

E Tommaso (lui, pragmatico come spesso lo siamo noi) è l’immagine

concreta di questa umanità: fortemente radicato nella sua

razionalità, abitato dalla voglia di comprendere, capace, però, di

librarsi nelle vette altissime della fede, disponibile a mettersi in

discussione di fronte alle proposte di Dio.

Chiede, però.

Come nel cenacolo dove voleva toccare le cicatrici dell’amore che

segna, che scava mani, piedi e cuore.

Come nel Vangelo di oggi che lo porta a raccontare, quasi in maniera

sfacciata, la sua voglia di conoscere la “via” di Dio.

«Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita”» (Gv 14,6)

Via: strada che conduce alla meta ma anche compagno di viaggio

che si palesa, come ad Emmaus, nei momenti di scoramento per

farci dono della sua Parola, del suo Pane.

Verità: ciò che purifica la vista

(degli occhi e del cuore) per

vedere le cose come realmente

sono, per raggiungere l’essenzialità

dell’importante.

Vita: il contrario della morte,

“magia” inafferrabile, scintilla

divina, motore dell’uomo. Vita

donata, (la sua) offerta, amore

oblativo che diventa Ostia salutare,

sostegno per i pellegrini

tra le strade tortuose del mon-


RIFLESSIONI DI UN PRETE

do, pegno di Vita eterna.

Di fronte a tanto mistero le domande dell’uomo non si esauriscono.

È come il ritrovarsi di fronte alla bellezza sterminata del mare,

di fronte alla vetta altissima di una splendida montagna, di fronte

alle profondità insondabili del cielo: vedere tanta bellezza, toccarla

con le mani dei sensi e avere voglia di conoscerne l’artefice.

Al cospetto dei “capolavori” di Dio le domande si infittiscono, le

richieste si azzardano.

«Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”» (Gv 14,8)

Anche lui, come Tommaso, capisce che la verità è una presenza.

Comprende di esserne al cospetto e azzarda la domanda nei

confronti di quell’Uomo che ha veramente il profumo di Dio. Ne

ha la Parola che consola, ne ha lo sguardo che ti invita alla sequela,

ne ha il tocco che ti sana, ne ha il cuore che incendia pericolosi

fuochi d’amore.

Fuochi che ti bruciano.

Ti consumano.

Ti portano a spenderti in “luce” della testimonianza, in “calore” di

amore oblativo.

“Mostraci il Padre e ci basta”.

Quasi fosse la cosa più scontata del mondo.

Patriarchi, profeti, re e saggi, uomini di ogni tempo abitati dall’ansia

e dal desiderio hanno vissuto questa attesa.

Molti sono andati alla ricerca dello straordinario non accorgendosi

che la Via da seguire è un’altra, la Vita da ricercare e prossimamente

vicina, la Verità si è rivestita di ordinarietà.

È proprio come Filippo hanno rischiato di non “accorgersi” che

Dio è già compagno di vita, è già qui non occorre ricercarlo

altrove perché mentre tu lo cerchi, Lui ti ha già trovato.

«Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?

Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,8).

E ci si ritrova dirimpettai di Dio, faccia a faccia, bocca a bocca,

cuore a cuore.

È il miracolo di Emmaus, è l’esperienza degli Apostoli, è l’avventura

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

della nostra vita: avere affianco Dio e correre il rischio di non

incontrarlo.

Rimane bella, però, la richiesta di Filippo.

“Mostraci il Padre”. Il Padre.

È la domanda di chi ha compreso che Dio ha deciso di “vestirsi in

borghese”, di abitare la nostra quotidianità manifestandosi come

Padre. Non il Dio lontano ma il Padre, “ordinariamente” vicino,

prossimo. Non più invisibile ma palpabile nel perdono offerto ai

peccatori, nel servizio offerto agli altri, nei gesti umili e delicati

che hanno, appunto, tutto il sapore della paternità.

Cristo ne è la rivelazione.

Cristo ne è l’epifania, la manifestazione.

E mentre noi continuiamo a sondare l’immensità dei cieli alla ricerca

di Dio, corriamo il rischio di non accorgerci che Lui è già

chino sui piedi dell’uomo per lavarli, per insegnarci come si ama

veramente.

17.05.2020

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“Dilige et quod vis fac”

L

o ripeto sempre: l’amore (quello vero) è libero e liberante.

Libero, perché non si può imporre.

Liberante, perché quando ami (veramente) puoi fare ciò che vuoi,

diventi responsabile del bene del prossimo, ne diventi custode e

collaboratore.

Ed è nel solco del “dilige et quod

vis fac”, di agostiniana memoria

che mi piace rileggere il Vangelo di

questa sesta Domenica di Pasqua.

“Ama”.

Tutto si gioca su questo invito.

Appunto, un invito.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Anzi, il Vangelo di quest’oggi si apre proprio con questo “appello”:

«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15).

“Se”. Non un Dio che s’impone, non un Dio che avanza pretese.

Un Risorto libero e liberante, proprio come l’amore.

Anche da risorto quel Falegname che incantava con la Parola

spiazzante, capace di spezzare ogni sorta di vincolo, continua ad

elemosinare ascolto e amore.

Ma sempre rispettoso dell’altrui libertà, sempre attento ai tempi,

alle storie, alle dinamiche degli altri.

Amore e ascolto.

Amore e ascolto, Lui ce lo ha insegnato, camminano di pari passo:

«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti».

“Se decidi di amarmi, se decidi di seguirmi allora metterai in pratica

ciò che hai ascoltato” - è come se dicesse - “ciò che hai visto”.

Perché Lui, l’amore ce lo ha mostrato.

Quest’amore, ora, ce lo chiede in elemosina.

In tutto il Vangelo ci ha chiesto di amare gli altri, ci ha mostrato

come si spende, come si dona la vita per gli altri.

Qui e solo questa volta, ci chiede le briciole avanzate della nostra

attenzione.

Le chiede per se: “se mi amate”.

A ben pensarci appare come una richiesta scarna, senza condizioni,

senza pretese. Un Dio che resta sulla porta in attesa di essere

invitato ad entrare.

Un’immagine densissima, che toglie il fiato.

Ma viaggiare sulle ali dell’amore totalizzante, pieno, divino, lascia

a noi deciderlo.

È la trappola dolcissima dell’amore che ti fa battere il cuore: se

veramente l’hai conosciuto, non puoi farne a meno.

E così è con lui, il “Signore del rispetto altrui” che sa attendere, sa

aspettare, ostinatamente persuaso che prima o poi l’uomo, ogni

uomo, lo cercherà.

Nel frattempo, però, Lui ama per primo, ognuno, in ogni istante.

Lui, oggi ci assicura la sua ostinata presenza: «Non vi lascerò or-

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fani: verrò da voi» (Gv 14,18)

A noi ci lascia la libertà di amarlo: “se”.

Lui si prende la libertà di amarci.

Per primo.

Senza condizioni.

RIFLESSIONI DI UN PRETE

24.05.2020

75

In bilico tra fede e dubbio

«Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte

che Gesù aveva loro indicato» (Mt 28,16).

Siamo in Galilea, luogo di confine, perché è proprio lì dove ci

sono i confini che Lui ci insegna a costruire ponti.

Da sempre la Chiesa deve essere sul confine.

Uno spuntone che esce dalle viscere della terra e si innalza verso

il cielo sembra essere il punto di contatto tra umano e divino, tra

terra e cielo ma anche tra popoli diversi.

E su di esso si ritirano gli undici, coloro che nonostante la loro

umanità, nonostante i limiti, gli rimangono

fedeli. Il monte diviene l’ultima

spiaggia di chi cerca ancora di comprendere,

di capire. Undici.

Uno è venuto meno perché ha preferito

trenta monete d’argento, ha rifiutato

la “beatitudine della povertà”.

Undici, anch’essi liberi di andarsene.

Eppure restano.

«Quando lo videro, si prostrarono. Essi

però dubitarono» (Mt 28,17). Mentre

si prostrano, dubitano.

Il cuore, anch’esso è luogo di confine,

perennemente in bilico tra bene e

male, tra fede e dubbio.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Prostrati, ancorati alla terra nel dubbio ma con gli occhi del cuore

illuminati, rivolti verso il cielo.

Perché il cammino di fede ci accomuna tutti.

È lo stesso anche per gli Apostoli.

Anche per i Santi.

È un partire dall’esperienza concreta della propria fallibilità, della

propria finitudine ma avendo ben chiara la meta: il cielo.

Con le mani sporche di terra ma con il cuore capace di volare.

Con i piedi ancorati nella storia ma con gli occhi fissi sull’eternità.

«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel

nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro

a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20)

E nonostante tutto Lui continua a fidarsi di loro, continua a fidarsi

di noi. Si consegna alla fragilità e all’incoerenza di noi uomini

dubbiosi. Se gli uomini nella fede in Dio continuano a dubitare,

Dio ha fede nell’uomo, continua a fidarsi dell’uomo e si consegna:

Andate! Insegnate!

Insegnare non una dottrina però, ma uno stile di vita: “tutto ciò

che vi ho comandato”. Perché la fede la si insegna vivendola.

Perché la fede la si vive testimoniandola. Mossi sempre da un’unica

certezza: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del

mondo» (Mt 28,20).

Nonostante tutto.

Nonostante i dubbi.

31.05.2020

“Pace a voi!”

«Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i

discepoli per timore dei Giudei» (Gv 20,19).

Nel giorno di Pentecoste, al termine dei cinquanta giorni che la

Chiesa ci ha messo a disposizione per riscoprirci abitati dalla

gioia, la Parola ci riconduce al giorno di Pasqua.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

La scena descritta da Giovanni si pone in continuità con tante

altre vicende di uomini raccontate nella storia della salvezza.

Da sempre, lo stesso Vangelo, infatti, parla di cuori inariditi, spenti

dalla rassegnazione, di vite vissute a metà tra leggi e impurità,

tra peccati e punizioni, uomini irrimediabilmente perduti e peccatori

emarginati.

«Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!”» (Gv

20,19)

Ma da sempre la Scrittura ci

racconta anche di un Dio che

sa leggere oltre l’apparenze,

che riesce a intravvedere sorgenti

di speranza zampillanti

lì dove la fragilità dell’uomo

sembra proporre solo deserti

sterminati.

Il Risorto torna a scommettere

su questi uomini dal

cuore chiuso come le porte

della stanza in cui si trovano,

torna a salvare questi uomini

da quella stanza abitata dalla paura così come lo era diventata la

loro vita.

«Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli

gioirono al vedere il Signore»

E Colui che da sempre si è fatto Compagno, Amico, li raggiunge,

si fa ri-vedere portando in dono la pace.

Quella vera.

Quella che causa la gioia.

Quella che sconfigge la paura.

Quella che spalanca le porte.

Una gioia che solo il Risorto può donare.

Una gioia che passa da quelle ferite che Lui offre per mostrarci

fino a che punto Dio ci ha amato.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

La Sua presenza nel cenacolo non ha il tono del rimprovero. Serve

a ricordare che se anche noi lo abbandonassimo, Lui attraversa

finanche le porte chiuse, ci viene comunque a cercare per aiutarci

a comprendere quanto siamo preziosi.

Per Lui.

Per Dio.

E in questo episodio straordinario Gesù esagera, decide, come

sempre, di donare con abbondanza: «Detto questo, soffiò e disse

loro: “Ricevete lo Spirito Santo”» (Gv 20,22) Dono dolcissimo

del Padre, Consolatore potentissimo per piegare ciò che è rigido,

scaldare ciò che è tiepido, sanare ciò che sanguina, drizzare ciò

che è sviato.

E si ripete il miracolo di quel lontano mattino sul Lago di Tiberiade

mentre Pietro, intento nel suo lavoro, riassettava le reti:

«Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21)

Sono confermati nel “mestiere” più bello del mondo, essere cooperatori

della Grazia, collaboratori della Salvezza: «A coloro a cui

perdonerete i peccati, saranno perdonati» (Gv 20,23).

Da quel giorno lo Spirito è il respiro vitale di quanti hanno incontrato

il Signore.

È Lui che vivifica.

È Lui che santifica.

È Lui che sana le ferite.

È Lui, l›Amore, a farci figli di Dio.

07.06.2020

Amare si declina con donare

«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio

unigenito» (Gv 3,16).

Con ancora negli occhi “il vento impetuoso” dello Spirito e nelle

orecchie la Parola delle “lingue” di fuoco della Domenica

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

di Pentecoste, oggi, nella festa della Trinità, siamo condotti nel

cuore di Dio.

Un Dio che anche nell’amore decide di abbondare come quei

pani benedetti, moltiplicati, spezzati e distribuiti ma sufficienti a

riempirne altre dodici ceste con i pezzi avanzati.

Perché quando Dio dona lo fa sempre con abbondanza.

Anche e soprattutto nell’amore.

“Ha tanto amato il mondo”.

Non si limita ad amare ma vuole amarlo “tanto”.

Un “tanto” che vuole indicare un amore smisurato, impossibile da

quantificare, capace di creare una vertigine in chi riesce a comprenderne

la portata.

Un “tanto” esplicato ulteriormente dalle parole successive.

“Tanto da dare il Figlio unigenito”.

Questo è Amare.

Perché l’amore, quando è vero dona e, soprattutto, dona tutto.

Amare, allora, si declina con donare.

Finanche la vita.

Amore unico che assume un triplice nome: Padre-Figlio-Spirito.

Padre-Figlio nomi che dicono la necessità dell’esserci l’Uno per

l’Altro, nell’abbraccio di quel respiro vitale e vivificante dello

Spirito. «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per

condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo

di lui» (Gv 3,17). Non è sufficiente amare tanto.

Non è sufficiente donare il Figlio.

Ci vuole salvi, a tutti i

costi. Ed è di fronte a

questi due versetti che

riscopro la bellezza, il

fondamento del mio sacerdozio.

Un Amore smisurato

che mi farebbe dire

nuovamente, milioni di


RIFLESSIONI DI UN PRETE

volte, il mio “Sì” a Colui che mi Ama-da-Dio.

Buona festa della Trinità a chi si sente amato.

Buona festa della Trinità a chi rinnova, ogni giorno, il proprio “Sì”

all’Amore, alla Salvezza, alla Vita.

11.06.2020

La strada...

“Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è

vicino” (Mt 10,7).

Un’immagine dal “sapore” forte quella della strada che mi piace

rileggere in una pluralità di modi.

La strada che traccio nella/della mia vita che mi porta a mettermi

in cammino per poter passare da ciò che sono a ciò che devo

essere in un continuo migliorarmi.

La strada che devo percorrere per andare verso gli altri per raccontare

loro la prossimità di Dio, la mia vicinanza, la bellezza del

Vangelo. Ciò comporta l’abbattimento di muri, la costruzione di

ponti, l’edificazione di “strade sempre percorribili”, di luoghi di

prossimità, d’incontro.

La strada che imbocco nell’andare verso Dio dove, incredibilmente,

scopro che metà percorso già è stato coperto da Lui nel venirmi

a cercare, nel venirmi a salvare.

E nasce lo stupore nel vedere, nel sentire che “il regno di Dio si

è fatto vicino” ed io posso, devo

contribuire a realizzarlo.

La strada: il Vangelo.

La strada: la bellezza di un Incontro.

Perennemente in viaggio

abitati da una certezza: Lui c’è.

Emmanuele, Dio-con-noi è il suo

nome.

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14.06.2020

L’uomo” tabernacolo vivente “

RIFLESSIONI DI UN PRETE

«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51)

Mi pare che tutta la vita del Nazareno abbia un filo conduttore

che lo lega indissolubilmente al pane.

Fin dal suo apparire in una “mangiatoia”, a Betlemme-casa-del-pane.

E poi le miracolose moltiplicazioni dei pani, dono della bontà sovrabbondante

di Dio che passa attraverso la condivisione. Perché

se l’uomo con-divide ciò che possiede, Dio non è da meno, moltiplica

a dismisura fino ad avanzare.

L’odore fragrante del pane benedetto, spezzato, distribuito resterà

per sempre nel cenacolo anche nel gesto di quel boccone

donato a Giuda, incapace di lasciarsi profumare da Lui, Pane vivo

che si dona, fino ad Emmaus, dove lo riconoscono, ormai risorto,

nello spezzare il pane.

Il Pane, allora, rimane l’immagine per eccellenza della sua missione,

impregnato di resine odorose come le sue mani di falegname,

imbibito di perdono per i peccatori come le sue mani missionarie

che cercano quanti si perdono, saturo dell’aroma di pane fresco,

spezzato, donato, mangiato come le sue mani da Dio che si offre

agli uomini.

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e

io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,54)

Follia d’amore di Dio!

Un Dio che s’incarna nella semplicità di un Bambino adagiato su

poco fieno, un Dio che muore su una croce, un Dio che si fa Pane

per essere mangiato che sceglie la fragile semplicità di un pezzo

di pane “bianco” per restare sempre con noi.

Disarmante: Dio decide di stare sempre tra noi, con noi, in noi.

Per sempre.

Una Bellezza da batticuore la sua scelta, la solennità odierna, il

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Vangelo regalatoci.

Una Bellezza che si rinnova in ogni messa ogni qualvolta irriverenti,

distratti, stupiti, compiti tendiamo quelle mani ad accogliere

“l’Arreso all’amore” che nonostante tutto continua a “farsi

mangiare”.

Ed è qui che si compie il miracolo in me, in noi.

Noi che gli abbiamo costruito cattedrali, chiese e monumenti

dobbiamo ri-comprendere che Lui, da solo, s’é costruito quel

“tabernacolo vivente” che è l’uomo ogniqualvolta si ciba di Lui.

Ed io col mio essere prete contemplo in ogni messa il miracolo

del Suo farsi Pane.

Ogni giorno.

Buona festa del Corpus Domini.

19.06.2020

Il linguaggio del cuore

«Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché

hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti

e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25)

Queste Sue poche parole sono sufficienti a farci entrare nel cuore

di Dio, ce ne fanno comprendere la logica, hanno la capacità di

delinearne il più bel ritratto.

Sono trascorsi duemila anni.

Imperi e potenti sono tramontati, dimenticati.

Lui con la Sua umiltà continua a regnare.

Perché, in fondo, il linguaggio del cuore è l’unico

che rimane, l’unico che ogni uomo di ogni

tempo, di ogni luogo, continuerà a capire.

E mentre noi continueremo ad affannarci nella

ricerca di ciò che può farci “grandi”, Lui conti-

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nuerà a parlare, scegliere ed amare i “piccoli”.

Buona festa del Sacro Cuore.

Amiamo e ne comprenderemo tutto il messaggio.

RIFLESSIONI DI UN PRETE

21.06.2020

“Non abbiate paura!”

«Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure

nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre

vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati.

Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!»

(Mt 10,29-31).

di fronte alle paure dell›uomo che Lui, Dio, si fa ancora più

È tenero.

Quando il turbamento, il tormento, lo scoramento rischiano di

prendere il sopravvento nella vita dell’uomo, la Parola diventa

sguardo dolce, tenero, interessato.

Si incarna, accarezza, lenisce, guarisce.

Riscrive la vita dell’uomo, ci corregge: “non abbiate paura!”.

E lo fa con parole tenere, senza alcun rimprovero che rinvigoriscono

l’anima, si incidono nel cuore.

Persino due passeri non possono venire meno senza che ci sia un

coinvolgimento da parte di Dio.

Anche per i passeri Dio si scomoda, si lascia commuovere, diventa

partecipe, perché nulla accade nel mondo senza che Dio

non ne sia coinvolto, pronto a ricordare ad ogni creatura: “tu sei

prezioso per me!”.

E la notizia gioiosa di oggi mi parla di quest’amore smisurato

(proprio come Dio), immenso (proprio come il suo cuore): “voi

valete più di molti passeri”.

E Dio, che di amore se ne intende, ci dona la cifra delle sue attenzioni:

“perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati”.

Proprio come un amante geloso.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Lo stupore mi invade: “io sono prezioso per Dio”.

E lo stupore si tramuta in gioia, la paura scompare e la gratitudine

mi porta a dire che Lui sa amare, mi ama da Dio.

23.06.2020

“Perle preziose”

«Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle

davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e

poi si voltino per sbranarvi» (Mt 7,6).

Parole dure che non sembrano concordare con la misericordia

di Gesù a cui siamo abituati.

Eppure, a ben pensarci, sono un ulteriore stimolo di verifica da

applicare alla nostra vita (non a quella degli altri) per essere sempre

più impregnati del buon odore di Cristo.

Nel discepolato dovremmo imparare a distinguere il valore delle

“cose” affidateci, a riconoscerle come dono e custodirle come

“perle preziose”.

Il Vangelo stesso è un tesoro inestimabile, è Parola di Dio da

non sprecare, da vigilare, da proteggere da coloro che apparen-

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

temente dicono di volersi convertire per nascondere (finanche a

loro stessi) altre finalità.

Il criterio di verifica rimane sempre la carità: «Tutto quanto volete

che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti

è la Legge ed i Profeti» (Mt 7,12).

È straordinaria la versione della «regola d›oro» propostaci in

positivo.

Matteo non dice “non fate agli altri ciò che non vorreste fosse

fatto a voi” perché non è sufficiente non fare il male.

Siamo chiamati a non fare il male per fare il bene, a spenderci, a

donarci.

Siamo “vocati” a diventare noi stessi “perle preziose” semplici

come colombe e prudenti come serpenti.

Riscopriamo il nostro valore (e quello altrui) alla luce della Parola

di Dio.

28.06.2020

Lasciarsi illuminare dall’Amore

«Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me» (Mt

10,37).

Parole dure al pari, quasi, di una bestemmia, capaci di creare

scandalo perché contravvengono alla normale legge del cuore,

degli affetti. Eppure hanno il fascino della verità perché a pronunciarle

è Colui che d’amore se ne intende.

Parole esagerate proprio perché esagerato, sovrabbondante è

l’amore che Lui, per primo, ci riversa in grembo.

In fondo è proprio questo il termine di paragone da assumere.

Ci viene chiesto di innamorarci di Dio nello stesso modo in cui

Lui è innamorato dell’uomo, amando tutti i nostri affetti ma non

dimenticandoci che Lui è l’Amore, coltivando i nostri beni ma

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

tenendo sempre bene in mente che Lui è il Bene.

Si tratta, quindi, di non lasciarsi abbagliare dai sentimenti per

lasciarsi, invece, illuminare dall’Amore.

Quello vero. «Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere

d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in

verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt 10,42).

Anche un gesto semplice come l’offrire un bicchiere d’acqua, diventa

immagine di questo modo di amare perfetto.

Ed è proprio tra le esagerazioni del Vangelo di oggi che si annida

la verità del nostro Dio che si pone al di sopra dei nostri sentimenti

più cari e si nasconde, però, in un semplice bicchiere d’acqua.

Un nascondersi, quello di Dio che si pone tra due estremi: l’eroicità

della croce, la quotidianità di un bicchiere d’acqua donato in

Suo nome. Due poli che abbracciano tutta l’esistenza dell’uomo

perché quando stanchi, delusi,

arrabbiati, smetteremo di cercarlo,

sorprendentemente lo

troveremo affianco a noi nei

gesti di chi ci sta accanto.

Basta un solo atto d’amore, una

croce presa in carico, un bicchiere

d’acqua offerto per scoprire

che Dio c’è.

03.07.2020

Vide e credette

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con

loro quando venne Gesù. (Gv 20,24).

on era CON loro”.

“NÈ il dramma dell›isolamento, della chiusura solipsistica,

contraria alla natura stessa dell›uomo.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

È proprio dell›uomo l›essere «con» l›altro, è insito nella sua

natura, scritto nella sua dimensione creaturale «Poi il Signore Dio

disse: «Non è bene che l›uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto

che gli sia simile»» (Gn 2,18).

Non è bene che l’uomo sia solo.

Mai.

E noi siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio, del nostro

Dio che è “relazione” già nel nome, Padre, che da sempre è il

Dio-CON-noi.

E nella com-unità che il Risorto si manifesta, nell’essere con gli

altri che si fa l’esperienza del Risorto che viene.

Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli

che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29)

A quanti, come Tommaso, chiedono un segno affinché possa generarsi

in loro la fede, Gesù propone di credere affinché la loro

stessa vita diventi “segno”.

Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto.

È la beatitudine della fede.

Il Discepolo amato “vede” le bende per terra e crede.

Non vede il Risorto ma il sepolcro vuoto.

E nonostante ciò crede.

«Allora entrò anche l›altro discepolo, che era giunto per primo al

sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8)

Vide e credette.

Due modi diversi di “vedere”.

Quello di Giovanni.

Quello di Tommaso.

Ma dolcissima rimane la disponibilità del Signore che soddisfa le

“esigenze” diverse di ogni cuore credente: «Poi disse a Tommaso:

“Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e

mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!”»

(Gv 20,27).

Affinché ognuno possa giungere all’unica certezza che Gesù è il

«Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20, 28).


RIFLESSIONI DI UN PRETE

05.07.2020

Il Dio dal cuore divinamente umano

In fin dei conti le anime più belle, quelle più sensibili, hanno a

che fare poco con chi da sempre si è crogiolato nelle stanze dei

bottoni, vestendo le tuniche dalle maniche larghe e dalle frange

lunghe del potere.

Le anime più belle sono quelle sfregiate, ferite dalla vita che conoscono

il peso delle lacrime, il sapore amaro delle sconfitte e

l’acre odore del sudore.

Sono uomini, spesso falliti agli occhi del mondo ma belli perché

terribilmente umani, consci delle proprie storie impastate di tentativi

andati a male.

Sono uomini caduti mille volte che hanno provato, sempre, la

fatica della dignità nel rialzarsi.

Hanno aguzzato i sensi, però, sanno ascoltare il battito di ali della

farfalla, sentire l’odore del sole che sorge su un campo ancora

bagnato di rugiada, la voce profonda del mare che scava le fondamenta

degli scogli e la voce silente delle stelle che ammirano

la bellezza della luna che, ogni sera, prigioniera della sua vanità,

ostenta il pallore della luce che la abita.

Uomini, falliti, ultimi, disprezzati.

Abitati dalla poesia, attenti alla grandezza delle cose piccole perché

tutto è dono.

E mentre i potenti percorrono i corridoi vuoti del loro ego, abitati

soltanto dall’eco delle loro lezioni senz’anima, altisonanti, solo

i piccoli, gli ultimi si accorgono di Lui, l’immensamente grande

fattosi straordinariamente piccolo.

Talmente abituati nella ordinarietà della loro vita, questi ultimi,

non si accorgono che loro diventano lo stupore di Lui: «Ti rendo

lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto

queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt

11,25)

Allora malati, poveri, vedove e bambini, gli ultimi, le periferie,

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

ogni sorta di uomo senza

qualità alcuna, diventano gli

amati da Dio.

Solo loro si accorgono di

quanto Dio è capace di amare.

Solo loro, abituati, comprendono

il linguaggio della tenerezza.

E Dio diventa il loro rifugio sicuro: «Venite a me, voi tutti che siete

stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo

sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e

troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il

mio peso leggero» (Mt 11,28-30)

Da loro Dio “impara” lo sguardo tenero, la melodia dell’umanità

più vera, quella che Lui ha voluto assumere facendosi realmente

uomo restando pur sempre Dio.

Il Dio dei piccoli.

Il Dio dal cuore divinamente umano.

06.07.2020

89

“Le prese la mano”

I

ndossate le vesti della Misericordia, a tavola, consuma il pasto

con i peccatori e con ogni sorta di rappresentanza degli scarti

d’umanità, gli sminuiti, i senza valore, mentre il vociare sdegnato

dei farisei mette in discussione il suo essere Dio.

Come può il Messia lasciarsi contagiare dal morbo dell’amicizia

degli impuri?

Come cani rabbiosi si avventano sull’Agnello mansueto, pronti

a coglierlo in fallo mentre Lui presenta il volto più dolce di Dio.

Loro covano progetti di morte, la Provvidenza prepara due miracoli

per far sbocciare la vita nelle membra irrigidite di una fanciul-


RIFLESSIONI DI UN PRETE

la “addormentata” e di una donna il cui sangue comincerà a scorrere,

come linfa nuova, in un corpo rimarginato, sanato, salvato.

«Giunse uno dei capi, gli si prostrò dinanzi e disse: «Mia figlia è

morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano su di lei ed ella

vivrà». Gesù si alzò e lo seguì con i suoi discepoli» (Mt 9, 18-19).

Uno dei capi.

Gli si prostra dinanzi.

È l›atteggiamento di chi ne comprende la Bellezza e stramazza a

terra sotto il peso delle preoccupazioni, spogliandosi degli inutili

titoli e privilegi.

Un “capo” steso a terra,

con la polvere in faccia

mentre la vita lo bastona

tra capo e collo con la

morte di una figlia.

Prostrato dal dolore ma

non sopraffatto dalla disperazione,

abitato dalla

speranza e da una fede

autentica che lo porta a riconoscere il Signore.

Gesù si alza.

Quando l’uomo si prostra, Dio si alza per andargli incontro e risollevarlo.

«Ed ecco, una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni,

gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva

infatti tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello,

sarò salvata»» (Mt 9, 20-21).

Un tocco “rubato” che lungi dall’essere un portafortuna ha piuttosto

il sapore dell’intimità, della carezza, di un bacio furtivo.

Dinanzi alla Bellezza che passa per strada il fiato viene meno, la

paura della trasgressione delle regole rituali scompare, il coraggio

avanza nel disperato tentativo di porre rimedio ad una malattia

lunga dodici anni.

«Gesù si voltò, la vide e disse: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha

90


RIFLESSIONI DI UN PRETE

salvata»» (Mt 9, 22)

Dio ama i coraggiosi e li premia.

Si volta a guardare questa donna che ha avuto la forza di stendere

la mano per scaldarsi al fuoco della salvezza e non solo la guarisce,

la salva, donandole finanche il nome dolcissimo di “figlia”.

«Arrivato poi nella casa del capo e veduti i flautisti e la folla

in agitazione, Gesù disse: «Andata via! La fanciulla infatti non

è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma dopo che la folla fu

cacciata via, egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò» (Mt

9, 23-25).

Una sollecitudine quella del Maestro che sembra arrivare in ritardo:

“è morta” grida la folla in agitazione.

“Dorme” constata l’Autore della vita.

Alla cacciata della folla deridente segue il Silenzio, non una parola.

Il Silenzio diviene Parola di Dio che non dice ma fa: “le prese la

mano”.

È il tocco di Dio dinanzi a cui la morte arretra e la Vita si compie.

12.07.2020

91

La scommessa di Dio

«Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una

parte cadde lungo la strada [...] Un’altra parte cadde sul

terreno sassoso [...] Un’altra parte cadde sui rovi [...] Un’altra

parte cadde sul terreno buono» (Mt 13,3-8).

il Vangelo della scommessa di Dio.

È Un Dio che s’intende di semi, di spighe dorate, di terra.

Che conosce il mare, la pesca, le barche e le reti.

Parla volentieri di lievito, di sale, di luce e di ovili.

Ma, soprattutto, conosce il cuore dell’uomo, ne scruta l’animo e

ne comprende lo sforzo, la fatica nel far emergere quel meraviglioso

tesoro nascosto che si porta nell’intimo, nel “vaso” fragi-


RIFLESSIONI DI UN PRETE

lissimo della sua finitudine. Gesù, allora, comprende l’uomo nel

suo continuo lavorio nel cercare la coerenza, il suo impegno nel

rapportarsi con il dono magnifico della libertà, talvolta abusata.

Allora ecco che sulle Sue labbra, la storia del seme, delle spighe,

del seminatore, hanno il gusto dell’eternità, assumono i colori

del divino e la missione dell’annuncio diviene storia di semina, di

chicchi “sprecati”, donati con abbondanza.

Proprio come la presenza di Dio, grande, immensa, sovrabbondante

che si fa vita donata.

Diventa bello, allora, l’annuncio del Regno che diviene più vicino,

più accessibile perché

la figura familiare del Seminatore ci restituisce il vero volto di Dio,

un Dio che generosamente continua a spargere il buon seme

della Parola.

Sempre.

Su tutti.

Su ogni tipo di terreno.

Questa è la scommessa di Dio: seminare sempre e dovunque.

Sempre e comunque, tra rovi, sassi e, finanche, sul selciato.

Perché Dio è un sognatore e continua a scommettere che anche

il cuore più indurito, anche quello asfaltato dalla durezza e

dall’incoerenza, prima o poi “produrrà frutto“.

E Dio, il nostro Dio, sognatore e ottimista, con abbondanza, con

gesti larghi di misericordia, continua a gettare il seme della Parola

nel cuore degli uomini soffocato dalle parole.

Anche se questa può essere portata via, rubata dal nemico, anche

se questa rischia di cadere tra i macigni di cuori appesantiti

o tra le mille spine delle preoccupazioni

perché essa continua ad

illuminare.

Sempre.

Il Vangelo, questa Parabola, quindi,

non ci racconta lo spreco di un

“Dio-Seminatore” distratto e in-

92


RIFLESSIONI DI UN PRETE

capace, quanto piuttosto la sua caparbietà nel continuare a credere

nell’uomo, la sua ostinazione nello scommettere che prima

o poi, l’uomo sarà “terreno buono”.

Dio ci manifesta così la sua attenzione, la sua Paternità.

A noi non resta che dissodare il terreno della nostra esistenza per

renderla disponibile all’accoglienza del “seme gettato” da mani

divine, dalla bocca che possiede “Parole di vita eterna”.

«Chi ha orecchi, ascolti» (Mt 13,9).

19.07.2020

93

La pazienza di Dio

«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del

buon seme nel suo campo» (Mt 13,24).

Anche questa domenica il Vangelo ha l’odore, il sapore del

Pane.

Si parla di spighe, di semina, di terra.

E riemerge con estrema bellezza l’immagine di Dio, del nostro Dio

che vuole sporcarsi le mani con questa terra mentre noi, spesso e

volentieri, siamo tentati di relegarlo nell’alto dei cieli.

Un Dio che, ricordiamocelo, ha tratto l’uomo (il suo capolavoro)

da una manciata di terra.

Non da una terra qualsiasi ma da quella più nobile, più fine, in

grado di produrre frutto perché Dio, per la sua creatura, per l’uomo,

ha la delicatezza di scegliere sempre il meglio.

E mi piace rileggere il Vangelo odierno partendo da questa realtà:

quella “terra” che io sono, quel campo che è la mia vita in cui

Dio semina del buon seme, il seme del bene.

E il sogno di Dio è vederlo fruttificare mentre già Lui ne ha dissodato

le zolle, ne ha spianato i dossi, ne ha colmato gli avvallamenti.

«Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della

zizzania in mezzo al grano e se ne andò» (Mt 13,25).


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Da sempre il nemico di Dio tenta di imitarne i gesti, si ostina nel

volerne usurpare il posto.

Dio sparge la semente in pieno giorno, al tepore dolcissimo della

luce del sole che genera vita, mentre l’altro, il divisore, la caricatura

di ogni forma di divinità, semina con la complicità delle

tenebre, insinuandosi nel buio proprio come la morte.

Mentre Dio sparge del buon seme, l’altro semina un prodotto

fasullo, inutile, dannoso come la zizzania.

Mentre la semina di Dio è pronta a generare frutto, quella del nemico

può solo produrre il nulla assorbendo, comunque, energie

vitali che vengono, così, inutilmente perse.

Così accade ogni qualvolta siamo inclini al male: investiamo inutilmente

la nostra fatica, i nostri sforzi per poi restare a mani vuote,

più poveri di prima.

Il male non è mai un buon investimento.

«E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No,

rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con

essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano

insieme fino alla mietitura» (Mt 13,29-30)

Dolcissima la pazienza di Dio che vuole che neppure una spiga

vada perduta, frutto della Sua semina ma anche della collaborazione

di ogni uomo che ha un cuore sincero, disponibile all’ascolto,

aperto alla grazia.

I servi si fermano a guardare l’apparire del male, lo spuntare della

zizzania.

Dio, con occhio provvido, sa guardare avanti, già intravede il

bene.

È la storia dell›uomo, il terreno della sua vita in cui le radici del

grano buono e della zizzania, del bene e del male, continuano a

intrecciarsi ma agli occhi di Dio una spiga di buon grano vale più

di un intero campo invaso da inutili, sterili, erbacce.

È solo questione di prospettiva: Dio guarda sempre e solo al bene.

Grano e zizzania.

Due piante, due spighe ma solo una avrà il grembo gravido, pron-

94


RIFLESSIONI DI UN PRETE

to ad esplodere di vita.

Bene e male.

Due dimensioni che

mettono radici in noi

ma solo una sarà in

grado di partorire gesti

vitali, vivificanti, abitati

dalla grazia.

Assumiamo lo sguardo

di Dio, fermiamoci sul

bene, difendiamolo,

portiamolo a maturazione e la zizzania infestante che comunque

ci abita, avrà sempre meno spazio da occupare, mentre il “campo”

della nostra vita diventerà sempre più un mare di spighe dorate,

accarezzato dalla mano di Dio.

26.07.2020

95

Qualcuno ha interrato un tesoro per me

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo;

un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende

tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è

simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose;

trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi

e la compra» (Mt 13,44-46).

Mentre noi, ubriacati di elaborati sofismi teologici ci concentriamo

su un Cristianesimo fatto di rinunce, di conti in perdita,

Lui che di Dio e di uomini se ne intende, ci dice che il regno

dei cieli è un “tesoro”, una “perla di grande valore”.

Tesoro, perla, doni da cercare, da scoprire, da conquistare.

Tesoro e perla, un qualcosa, insomma, per cui vale la pena abbandonare

tutto per diventare ricchi di gioia.

Gioia improvvisa, ineguagliabile che sgorga dallo stupore, dalla


RIFLESSIONI DI UN PRETE

meraviglia di chi è cosciente di aver trovato qualcosa per cui vale

la pena investire tutto.

Gioia improvvisa, ineguagliabile che spinge a scelte drastiche

perché si è trovato il “tesoro”, la “perla” dell’amore di Dio.

«Poi va, pieno di gioia» (Mt 13,44) ecco il segreto degli abitatori,

degli abitati del Regno di Dio perché essa, la gioia, è il frutto

di un›autentica conversione, di un «Incontro» vero, che ti

porta a dimenticare quanto si è lasciato per avere sempre più

consapevolezza di ciò che si è trovato.

Spinti, riempiti da questa passione, avventuriamoci in questa meravigliosa

“caccia al tesoro” che è la nostra vita avendo contezza

che Qualcuno ha interrato un tesoro per me, mi ha riempito il

sentiero di perle preziose.

02.08.2020

Non più folla ma comunità

«Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì

compassione per loro e guarì i loro malati» (Mt 14,14).

sera ormai.

È Le ombre si allungano mentre il cielo attinge colori caldi da

tavolozze macchiate di arancio, rossi e gialli. Le stesse acque del

lago sembrano incendiarsi nel capovolgere le immagini di tutto

ciò che in esse si riflette, mentre la folla attende Colui che ha Parole

di fuoco in grado di infiammare cuori, vite, speranze.

E puntuale come un innamorato arriva.

Arriva e “vede”.

E quel suo vedere diviene declinazione

del verbo amare.

Accarezza con lo sguardo la

vita di ogni accorso, non della

folla, ma di ogni singolo uomo

che compone la “grande fol-

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97

RIFLESSIONI DI UN PRETE

la”. Ne avverte l’affanno, ne misura i battiti dei cuori inquieti, ne

raccoglie le lacrime, le attese e “sente compassione”.

Perché Dio avverte “la fame” che abita le nostre vite, non è distratto

e assente ma un Padre attento e premuroso.

Sente compassione e interviene: “guarì i loro malati”.

«Gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed

è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi

da mangiare»» (Mt 14,15).

I discepoli, coloro che si sono messi alla sua scuola, vigili e sensibili

iniziano ad affinare l’animo, ad accorgersi della mancanza

del necessario nella vita dell’altro ma continuano a ragionare,

calcolare e proporre soluzioni troppe umane: “congeda la folla”

perché ognuno si procuri del cibo.

Non hanno ben compreso che il discepolo deve sperare l’insperato,

è scelto per andare, condividere, moltiplicare e saziare la

fame di quanti si incontrano.

«Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro

da mangiare»» (Mt 14,16) come per dire: impegnatevi, realizzate

ora il Regno di Dio, iniziate a portare i pesi gli uni degli altri, da

abitati dallo stupore stupite «la folla» diffondendo la gioia di un

Vangelo non più raccontato ma realizzato.

«Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!» (Mt 14,17).

Quando si schiudono le mani e si aprono i cuori germoglia la

condivisione.

È il miracolo che l›uomo può compiere.

È il miracolo che, poi, Dio porta a compimento.

«Recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i

discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i

pezzi avanzati: dodici ceste piene» (Mt 14,19-20).

Quando Dio benedice il poco che l’uomo condivide, nascono sazietà

e abbondanza.

Un pane condiviso, benedetto, moltiplicato, avanzato che ha il

sapore della poesia, del cielo, del miracolo.

Cinque pani: una goccia che sfama l’oceano dei cuori cercatori


RIFLESSIONI DI UN PRETE

di Dio che scardina lo schema del “comperarsi” (che necessariamente

genera disparità tra chi molto possiede e chi non ha nulla)

per lasciare spazio alla meraviglia del condividere-benedicendo.

Da allora questo rimane uno dei miracoli più belli che la Chiesa

può fare (ancora oggi): trasformare la folla in comunità.

Comunità che ha la fragranza del Pane.

16.08.2020

“Signore, pietà di me!”

«Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione,

si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia

figlia è molto tormentata da un demonio»» (Mt 15,22).

Soltanto ieri contemplavamo la storia della Donna divenuta primizia

e profumo di speranza per le sorti dei figli di Dio, eccola

oggi, la storia di un’altra donna, una Cananea, una madre provata

dal dolore, insistente, come solo le madri afflitte sanno esserlo.

E il Vangelo che ci racconta storie di vite guarite, salvate, ci dice

pure che le donne, in questa meravigliosa storia di salvezza, sono

sempre forti, presenti, collaboratrici della potenza salvifica del

Rabbi di Nazareth, che deve essere manifestata.

Non è una discepola.

È una straniera.

Non ha la fede dei dotti, dei teologi ma la fede delle madri afflitte.

Eppure lei conia la preghiera più bella: “Signore, pietà di me!”,

pronta a commuovere quel Dio che neanche conosce.

«Ma egli non le rivolse neppure una parola» (Mt 15,23)

Ancora più grande, però, è la fede di questa donna, convinta di

riuscire a cambiare il cuore di Dio: «Ma quella si avvicinò e si prostrò

dinanzi a lui, dicendo: “Signore, aiutami!”» (Mt 25,25).

Si prostra.

Si inchioda ai suoi piedi aggrappandosi all’unica salvezza per la

vita della figlia, decisa a non muoversi senza aver ottenuto la mi-

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

sericordia cercata.

Appare strana e dura la reazione di Colui che ha teso la mano

a coloro che lo tradivano, che ha placato la sete di vita di donne

adultere, che ha chiamato e scelto uomini che da pubblicani,

ostentavano il loro peccato.

«Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini» (Mt

15,26).

Lui che ha sfamato una folla immensa con pochi pani moltiplicati

dalla sua parola benedicente, sembra spegnere quest’ultimo bagliore

di speranza che abita la vita, i passi, i gesti di questa madre.

«È vero, Signore – disse la donna, – eppure i cagnolini mangiano

le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (Mt 15,27)

Maestra di fede non s’allontana da Lui perché non prontamente

esaudita, non abbassa le serrande del dolore di fronte alla luce

della fede, ma con l’umiltà di chi ha compreso che non deve dire

a Dio il da farsi, riformula la domanda, resta ancorata nella speranza

e chiede il dono di essere “donna delle briciole”.

«Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga

per te come desideri»» (Mt 15,28)

Una duplice conversione: Gesù si lascia convincere dalla preghiera

della cananea e la cananea comprende che non si può chiedere

il miracolo senza prima divenire discepoli, ascoltatori del

Maestro.

La fede, come sempre, compie miracoli!

99


RIFLESSIONI DI UN PRETE

23.08.2020

«La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13)

Nel lungo peregrinare per le strade assolate e polverose, Lui,

il Divino Viandante con i piedi impolverati e stanchi ma con

le mani che hanno il tocco creativo di Dio, avverte la necessità di

fermarsi.

Senza sosta ha annunciato la bella Notizia del Regno, non più

lontano ma già presente.

Ha ribaltato il piedistallo dei potenti spalancando le porte della

salvezza agli ultimi, gli esclusi, gli scarti della società che per un

errore di comprensione della “legge divina” da parte dell’uomo,

erano allontanati per sempre da Dio a causa di una impurità mai

sanabile perché un “impuro” non è degno di Dio. E Lui che di

Dio se ne intende, predica, annuncia che Dio vuole essere degno

dell’uomo, si abbassa per far comprendere che non occorre essere

“puri” per incontrare Dio ma è l’incontrare Dio che ci monda

il cuore.

Ha raddrizzato mani rattrappite, incapaci di dare e ricevere affetto.

Ha plasmato lingue mute, morte, accarezzandole col tocco

della Parola, del Verbo.

Ha aperto occhi e cuori chiusi nell’ombra oscura dell’emarginazione

e della rassegnazione, spalancandoli alla luce di una dignità

precedentemente perduta, finalmente restituita.

Ha parlato di per-dono.

Un qualcosa che non si merita, non si compra, non si mercanteggia.

Si ottiene solo per-dono.

Una tra le cose più belle che Dio può fare.

Una tra le cose più belle che gli uomini devono fare per assomigliargli.

Ed ecco che il Regno di Dio inizia ad albeggiare sulla terra, a

germogliare in questo mondo, affondando le radici nel cielo e

spargendo i suoi tralci infestanti sulla terra, carichi di frutti di benedizione.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

È ora, però, di fare il punto: «la

gente cosa ha compreso? La

gente che cosa pensa di Lui?»

«Risposero: «Alcuni dicono

Giovanni il Battista, altri Elia,

altri Geremia o qualcuno dei

profeti»» (Mt 16,14)

Sembra di sentirle le voci ai crocicchi

delle strade, nei pressi della sinagoga, sulle rive del lago

mentre cercano di comprendere l’identità di quest’Uomo che sa

di Dio perché ne ha la Sapienza ma anche il sapore nel parlare,

nell’agire. Necessariamente uno dei grandi del passato: o un

martire perché i martiri sarebbero tornati in vita o un profeta

scampato alla morte. Purtroppo, i contemporanei di Gesù (come

spesso anche noi) sempre rivolti all’antico, incapaci di comprendere

e gustare il nuovo.

«Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?»» (Mt 16,15)

Un’avversativa dal gusto fortemente interpellante che esige una

risposta, una risposta diversa, però.

Il Cuore amante chiede di essere riconosciuto dall’amato.

«Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»(Mt

16,16).

Una professione di fede vera, autentica, sincera da parte di chi ha

ancora mani callose per le troppe reti riassettate, di chi ha la pelle

bruciata dal sole che sa di salsedine ma che ha affinato il cuore e

comincia a comprendere.

Ha solo iniziato il suo percorso di “conversione”. Deve ancora

capire che cosa significhi “Cristo”.

Imparerà a sue spese che la sua idea di Messia è lontana da ciò

che il Cristo vuole dire, da ciò che Cristo vuole essere.

«E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa

e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa» (Mt 16,18)

Pietro delinea l’identità di Gesù.

Gesù inizia a profilare l’identità di Pietro.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Da sempre è così: quando l’uomo apprende qualcosa in più su

Dio, scopre qualcosa in più anche di se stesso.

“Tu sei Pietro”, il primo sasso, il primo mattone che la Roccia, la

Pietra Angolare utilizzerà per costruire la sua Chiesa.

Da allora Pietro, esperto di reti, barche, mare, reti e remi continua

ad essere il primo mattone della casa costruita sulla Roccia.

Salda, sicura, stabile come lo sarà ogni cuore che, come quello di

Pietro, resterà per sempre abbarbicato a Cristo.

RIFLETTENDO (arrabbiato) AD ALTA VOCE

Una “ normale “ giornata al Pronto soccorso

L

unedì alle 04:30 partenza da Locri per arrivare, in Puglia (volando),

alle 08:20 presso lo studio medico di famiglia per ritirare

una ricetta medica che prescriveva un ricovero per fibrillazione

atriale e una grave forma di astenia.

Nel pomeriggio si parte.

Alle 16:00 si arriva nel fatidico ospedale.

Pronto soccorso stracolmo di gente (un vero e proprio assembramento

con tanto di poliziotti che hanno portato un ammanettato

in pronto soccorso e un’intera squadra di vigili del fuoco che si

sottomettono al famoso tampone).

Una minuscola stanza, senza bagni e con distributori d’acqua e

bevande fresche fuori uso, nonostante continuassero a “ingoiare”

monete senza rilasciare i preziosi liquidi refrigeranti.

Passano le prime ore e tutti vengono chiamati per il tampone

anticovid (nonostante l’assembramento precedente).

Inizio del calvario.

Verso le 20:45 primo colloquio con uno dei due medici disponibili.

Una ragazza giovane già stanca, estenuata.

Analisi, controllo dei sali minerali per eventuale idratazione, eco-

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

cardio.

Si constata fibrillazione in atto.

Si invita il paziente a ritornare a sedersi in pronto soccorso nonostante

l’astenia che lo porterebbe a sdraiarsi anche a terra.

Nessuna barella disponibile (dopo l’ennesima arrabbiatura arriverà

alle 01:30).

Trascorre il tempo.

Arrivano altri pazienti.

Due di loro, (uno arriva alle 21:00, l’altra alle 00:45) due giovani

ragazzi con fratture al braccio.

Vengono abbandonati anch’essi sulle sedie con le braccia (rotte)

a penzoloni.

Alle 04:30 viene comunicato loro che possono ritornare a casa.

Senza nessun intervento.

Devono presentarsi alle 08:00 direttamente in ortopedia.

Trascorre il tempo.

Ore 01:00 arriva un anziano con l’orecchio che necessita di punti

di sutura.

Nel sonno è caduto dal letto ed ha urtato contro il comodino.

Alle 09:00 del giorno dopo avrà ancora l’orecchio spappolato.

Pensando che avrebbe risolto prima con i punti di sutura, in un

PRONTO soccorso, non ha portato i farmaci salvavita che deve

prendere regolarmente al mattino.

Alle 04:15 arriva un anziano che viene fatto accomodare su una

sedia a rotelle.

Ha una frattura alla gamba.

Per ben quattro ore supplica per avere un antidolorifico.

Alle 08:30, finalmente, un’infermiera scocciata esce dalla sua

“guardiola” con una siringa, lo invita ad aprire la bocca e gli inietta

sotto la lingua il sospirato antidolorifico.

Nel frattempo il pronto soccorso si è svuotato e poi riempito.

Io in attesa di altri esami per mio papà.

Alle 05:30 ci viene comunicato che è necessaria un’altra visita cardiologica.


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Aspettiamo.

Alle 07:00 chiedo informazioni sulla visita cardiologica e mi vien

detto che il cardiologo è impegnato in un “codice rosso”.

Alle 08:30 torno a chiedere informazioni.

Risposta: “il cardiologo è in sala operatoria”.

Alle 09:00, dopo 17 ore in pronto soccorso decido di tornare a

casa con un uomo con fibrillazione in corso che non ha dormito,

non ha mangiato, non ha bevuto.

Tutto questo senza alcun risultato.

Prima di partire gli viene sfilato l’ago dal braccio che gli era stato

lasciato dal primo prelievo per altre eventuali analisi.

Uscendo dal pronto soccorso il braccio inizia a perdere copiosamente

sangue (uno con problemi di cuore prende degli anticoagulanti).

Ci si rivolge alle infermiere della “guardiola” che irritate rispondono

che stanno compilando dei moduli.

Il sangue sporca il pavimento.

La gente accorre con fazzoletti di carta.

Qualcuno bussa forte contro la porta del pronto soccorso.

Esce un infermiere inferocito.

Solo un vigilantes entra in infermeria e con garbo porta della

garza disinfettata.

17 ore che, finalmente, si chiudono con un gesto di umanità.

30.08.2020

Vale per Lui, vale per noi

«Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare

a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei

capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il

terzo giorno» (Mt 16,21).

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Tra i campi di grano accarezzati dal vento mentre un nugolo

di polvere tufacea imbianca volti e piedi, arriva la notizia che

tramortisce il cuore: “il Maestro deve soffrire e morire”.

D’incanto sembra svanita la gioia della rivelazione di domenica

scorsa: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivificante”.

Facile essere discepoli nella sequela di un Messia vittorioso, difficile

mettersi al seguito di un Figlio di Dio che deve morire.

A Gerusalemme non ci saranno gli angeli cantori di Betlemme, né

i prodigi di Cafarnao ma soltanto silenzio e dolore.

Ecco l’annuncio.

Ecco la profezia ormai prossima come prossima è la tappa di Gerusalemme.

«Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo:

«Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai»» (Mt 16,22)

Tra la professione di fede di domenica scorsa e il rimprovero di

oggi c’è l’immagine di Pietro.

Generoso, disponibile, caparbio, pronto a dare la vita e abbandonare

tutto ma difficile nell’accettare i piani di Dio.

Proprio come ognuno di noi.

Perché nei piani di Dio c’è sempre la croce.

Per Lui, per noi: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi

se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare

la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per

causa mia, la troverà» (Mt 26,24-25)

Non dimenticando mai, però, che dietro il deserto della croce

già risplende un giardino che canta la vita con tanto di giovani

in bianche vesti che annunciano:

“Non è qui. È

risorto!”.

Per abitare questo giardino

è necessario attraversare

il Calvario.

Vale per Lui, vale per noi.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

06.09.2020

Un tesoro prezioso:

la fraternità

F

acile parlare di Dio avendo nel

cuore la certezza della sua Paternità.

Altrettanto consolanti le molteplici

affermazioni della Scrittura che parlano della nostra figliolanza

divina: «siamo figli di Dio e lo siamo realmente» (1Gv 3,1)

Difficile ricordare che siamo una comunità di fratelli.

Fragili. Limitati. Umani.

Ecco, allora, il promemoria di Gesù: «Se il tuo fratello commetterà

una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti

ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello» (Mt 18,15)

Si parte da due certezze: l’altro mi è fratello (E i fratelli non si scelgono,

ci sono); l’altro può anche sbagliare.

Si arriva ad una soluzione (assurda come tutte le richieste che

odorano di Vangelo): se l’altro sbaglia, vallo a “convincere”. Non

è l’ammonizione di chi ha la verità in tasca ma si tratta della sollecitudine

evangelica di chi vuole “guadagnare” un fratello.

Eh già!

Il perdono non nasce dal sentimentalismo sdolcinato di chi riceve

le scuse perché ha subito un torto. È la decisione di chi, pur

essendo ferito, decide di andare a recuperare una relazione.

Le pretese forti del Vangelo: a “convertirsi” deve essere colui che

ha subito il torto, proprio ad immagine e somiglianza di Dio che

va alla ricerca del figlio perduto anche se questi, volontariamente,

si allontana da casa. Un dialogo, una ricerca che deve nascere

in nome della fraternità. Se ascolterà avrai “guadagnato” un tesoro,

quel tesoro prezioso che è la fraternità necessaria nella chiesa,

necessaria per essere chiesa.

«Se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone,

106


RIFLESSIONI DI UN PRETE

perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se

poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà

neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano»

(Mt 18, 16-17)

Insomma, tentale tutte perché il contrario del guadagno è la perdita.

Se perdi un fratello perdi un tesoro immenso.

E se proprio non dovesse ascoltare, “sia per te come il pagano e

il pubblicano”. Cioè sia per te come gli amati da Gesù.

Non scarti, non rifiuti, non ultimi ma bisognosi di un “amore a

senso unico”.

E tu ama come Gesù, in pura perdita.

Insomma discepoli del Misericordioso, misericordiati perciò capaci

di misericordia.

Già amati perciò capaci di amare.

13.09.2020

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“Per - dono”

«Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio

fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò

perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti

dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» (Mt

18,21-22)

Un Vangelo scomodo.

Per me, per voi, per tutti.

Pietro, in vena di generosità, ha voluto esagerare (dal suo punto

di vista) nel proporre un perdono rinnovato sette volte perché

tutti sappiamo quanto costa, quanto sia faticoso (talvolta doloroso)

il perdonare.

Gesù rilancia: “settanta volte sette”.

Lamech, di genesiaca memoria chiedeva di essere vendicato settantasette

volte.

Gesù ci chiede di abbandonare la vendetta, il rancore, il risenti-


RIFLESSIONI DI UN PRETE

mento, la rabbia, ogni rivalsa.

Settanta volte sette.

Sempre.

Non perché migliori.

Non perché più buoni.

Non perché più santi.

Ma solo ed esclusivamente perché noi, per primi, siamo perdonati,

amati.

Eppure noi continuiamo ad essere cristiani perdonati, pronti a

ricorrere settantasette volte alla Misericordia di Dio ma incapaci

di donarla una sola volta a chi ci ha ferito.

Forse proviamo a perdonare con lo sconto: “perdono ma non

dimentico” divenendo contrabbandieri di misericordia, lesinando

riconciliazioni a prezzi scontati (e lo sconto lo applichiamo a noi

stessi).

Non aggiungo altro.

Taccio e ripenso a chi “mi è debitore”.

Rifletto sui miei “debiti”.

Sospendo ogni commento sulla pagina del Vangelo di questa

Domenica e medito su una parola che non può essere sporcata

da altre: “per - dono”.

L’amore è cosa seria.

Si vive, non si può predicare.

108


17.09.2020

RIFLESSIONI DI UN PRETE

La santità nascosta

Don Roberto Malgesini è stato ucciso due giorni fa mentre

espletava ciò che più gli stava a cuore: prendersi cura degli

ultimi della società, degli invisibili.

Una sua scelta quella di trasformare la strada nella sua chiesa e di

predicare il Vangelo con la testimonianza della carità.

Quasi fosse una cosa semplice.

Ho letto che non amava essere al centro delle attenzioni, rifuggiva

telecamere e social, tanto che è quasi impossibile trovare un

video con lui protagonista.

Improvvisamente, però, è salito agli onori della cronaca: social,

tv, giornali hanno parlato di lui, del suo operato, mostrandocelo

in foto (rarissime tra l’altro) vestito di bianco (come i giovani in

bianche vesti che nel Vangelo annunciano: “Non è qui è risorto!),

con le braccia allargate (ad indicare accoglienza per tutti, come

quel Cristo in croce che lui ha annunciato), con un accenno di

sorriso (come chi ha capito il vero senso della vita e ne gusta

appieno il sapore) e mentre celebra l’Eucaristia (ciò per cui ha

vissuto, servito, amato, fino a dare la vita).

In due giorni ho letto tanto su di lui.

Articoli, commenti, riflessioni.

E sono rimasto stupito.

Ho visto la retorica di ogni forma politica perché mentre da un

lato alcuni vogliono impossessarsi del suo “martirio” per utilizzarlo

contro quegli ultimi che lui ha servito, dall’altro vogliono

strumentalizzarlo per portare avanti le proprie convinzioni.

Ho visto che le stesse amministrazioni che presentano falle gravi

nella gestione dell’accoglienza e che, magari hanno avversato

anche l’opera caritativa assistenzialistica di questo “prete di strada”

(così come è stato definito), prima preoccupate del decoro

urbano lasciandolo solo, senza nessun supporto e considerandolo

nemico di certune ordinanze, ora piangono don Roberto come

109


RIFLESSIONI DI UN PRETE

un martire.

Ho visto i commenti della

gente.

Di laici e preti.

Alcuni mi hanno lasciato

l’amaro in bocca.

Di laici e preti.

Tutti quei post, quei

commenti che hanno

il retrogusto amaro

dell’accusa scontata (questo sì che è un vero prete!) e del predicozzo

morale (anche di preti).

Mi piace pensare che prima della sua uccisione anche don Roberto

è stato semplicemente un prete.

E come tale incompreso, criticato, osteggiato.

Provo ad immaginare le critiche (anche) di una certa chiesa benpensante

che ne giudicava l’operato (un prete deve stare in chiesa

e deve avere una propria parrocchia), il vestire (un prete deve

avere la tonaca e non può andarsene in giro con uno zaino sulle

spalle con jeans e polo) e le idee (classificandolo politicamente).

In mezzo a tante voci, oggi, vorrei dire qualcosa anche io.

Sicuramente opinabile.

Non necessariamente condivisibile.

Don Roberto, credo, ci abbia insegnato un paio di cose fondamentali:

Innanzitutto la bellezza di una chiesa che attraversa le

strade delle nostre città e continua a farsi carico degli ultimi.

E quando si fa del bene non è necessario “gridarlo”. Attenzione,

quindi, ai giudizi perché tanti “don Roberto” potrebbero essere in

mezzo a noi che operano senza fare rumore.

Poi, ci ha mostrato che la santità nascosta esiste (anche nel 2020)

mi vive accanto e porta il volto di fratelli e sorelle che forse vestono

in jeans e hanno una straordinaria vita normale (dimentichiamo

troppo spesso come il nostro Dio abbia scelto di “umanizzarsi”).

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

La sua morte, quella di don Roberto, ha svelato che il bene fatto

non va perso, anzi, la morte stessa è stata la trasfigurazione di

questo prete che fino ad oggi nessuno conosceva.

Infine, mi piace pensare che tutti i preti (ognuno a modo suo,

ognuno con i propri limiti) sono “preti di strada” (nella diversità

dei ruoli e dei carismi) perché a fondamento di ogni vocazione

c’è un “Incontro”, una chiamata, una missione affidata: andare

per le strade della vita della gente, entrare nelle case e perché no,

restare anche in chiesa.

Ma, lo ripeto, ricordiamoci sempre che il bene quando lo si fa non

necessariamente fa rumore.

Anzi perché sia “Bene” è necessario farlo in silenzio.

Anzi, spesso, lo stesso silenzio può essere “Bene”.

Don Roberto me lo ha insegnato.

20.09.2020

111

“Andate anche voi nella vigna...”

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì

all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna»

(Mt 20,1).

Poche righe dalla forte valenza evocativa dove si parla di alba,

casa e vigna che in me richiamano le bellissime mattinate settembrine

della mia fanciullezza quando il calore tiepido di un

timido sole profumava l’aria di mosto appena pigiato mentre la

vendemmia trasformava in gioia il lavoro di un intero paese.

Il padrone esce per chiamare operai per la sua vigna accordandosi

per una paga equa, giusta.

Un vero contratto che viene stipulato per un denaro al giorno.

«Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano

in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna;

quello che è giusto ve lo darò”» (Mt 20,3-4)


RIFLESSIONI DI UN PRETE

Vide che erano disoccupati.

Un “padrone” che non bada alle proprie necessità ma si accorge

del bisogno degli altri.

Un padrone che vuole tutti impegnati perché la sera possano

portare a casa qualcosa, perché il giorno non sia sprecato.

«Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto»

(Mt 20,5) come anche alle cinque del pomeriggio, mentre ormai

il sole si tinge di colori dalle tinte calde preparandosi a lasciare il

posto al pallore eburneo della luna.

Proprio come quel Padre misericordioso che anche prima di andare

a dormire si affaccia sull’uscio di casa in attesa dell’ora del

ritorno del figlio.

Proprio come il Padrone di questa parabola che va raccogliendo

“operai dell’ultima ora” ai margini della strada della vita che, altrimenti,

resteranno per sempre disoccupati.

Proprio come Gesù che nella sua ultima ora continuerà ad assoldare,

anche sulla croce, operai per la sua causa: “oggi stesso sarai

con me in paradiso” (Lc 24,43)

«Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore:

“Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi

fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero

ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono

che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno

un denaro» (Mt 20,8-10)

Quando fu sera...

Al calar del buio, quando la vita si spegne per lasciar posto al

riposo.

Una sera che, però, viene abitata dalle chiacchiere di disapprovazione:

«Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo:

“Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati

come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”»

(Mt 20,11-12)

Ed è proprio mentre il cuore dell’uomo protesta invocando “giustizia”

che emerge il volto più bello di Dio che non si arrabbia,

112


RIFLESSIONI DI UN PRETE

non respinge, dialoga, spiega il perché delle proprie scelte, ama.

Ecco... un Dio che ama i primi corrispondendo quanto è dovuto

ma che ama in egual modo gli ultimi donando loro ciò che scaturisce

dal fondo immenso della sua generosità.

«Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non

ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro?

Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo

quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio?

Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”» (Mt 20, 13-15)

Amico.

Il problema non è del Padrone che tratta tutti da amici.

Il problema è nostro.

Se continueremo a “contrattare” con Dio in termini di salari legali,

dovuti, riceveremo quanto pattuito e, perennemente infelici,

guarderemo la misericordia usata agli altri.

Se saremo “operai dell’ultima ora” che non contrattano ma che si

fidano anche quando è tardi perché il “sole già volge al tramonto”,

sperimenteremo la generosità di Dio che abbracciandoci non

vorrà mai farci sentire dei falliti della vita.

Perché ci vuole salvi.

A tutti i costi.

E continua a sperarlo, a chiamarci fino all’ultimo minuto.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

27.09.2020

Storie con una stessa trama

La Parola fu la sua forza e con quella riuscì a compiere le più

grandi rivoluzioni partendo dai cuori degli uomini.

Lui, esperto conoscitore tanto delle realtà del cielo, quanto delle

attese dell’umanità, spesso imbastiva storie che parlano di Dio

ma che raccontano, ancora oggi, la storia di chi le ascolta.

La mia, la tua.

Alcune sembrano tessute dalle stesse mani pazienti e amorevoli:

storie che hanno una stessa trama, parlano di un padre che ha

due figli.

Storie che ci raccontano di figli che si perdono per poi ritornare

sui propri passi e scoprire l’eterna bellezza di un Padre che attende.

«Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi

va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma

poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed

egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò» (Mt 21,28-30)

Sembra il racconto della quotidianità di tante nostre famiglie.

Due figli, uno stesso Padre.

Due atteggiamenti diversi, un’unica richiesta.

«Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?» (Mt 21,31)

Il primo che sembra ribellarsi ma che ha la libertà di relazionarsi

da figlio o il secondo, apparentemente servizievole ed obbediente

che, invece, vive un rapporto di sottomissione?

Il primo che sa di rivolgersi ad un Padre o il secondo che si relaziona

con un “signore”?

Il primo che “si pentì e vi andò” o il secondo che mente e non si

pente?

Sbriciolando ulteriormente il brano di questo Vangelo per gustarlo

ancora con maggiore consapevolezza, ci si accorge che i

due figli, in realtà, sono le due “anime” che ci abitano, i nostri

due modi di essere figli di quel Padre che ci chiama a collaborare

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

nella sua vigna, in attesa di festeggiare insieme la vendemmia, la

raccolta di grappoli traboccanti di vita eterna per essere pigiati

e trasformati in “vino novello” dello Spirito che dona l’ebbrezza

dell’eternità, la gioia dell’amore divino.

«In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti

nel regno di Dio» (Mt 21,31).

Finisce così questa storia per ricordarci che uomini e donne dalla

storia impastata di miserie e che apparentemente dicono il loro

“no” alla richiesta del Padre proprietario della Vigna, spesso sono

poi diventati i più grandi santi, agricoltori infaticabili ed esperti

raccoglitori di “grappoli” di grazia.

È la dinamica della conversione che ci ricorda che mai è troppo

tardi.

È l›agire di Dio che guarda con tenerezza chi si lascia amare da

figlio e che sbatte all›ultimo posto i primi della classe che nella

ipocrisia di belle maniere e apparenze, tentano di compiacere un

«Signore».

Questa è la storia della libertà di un “no”.

Questo è il racconto di quel cuore che si perde per poi ritrovarsi

attanagliato nella profonda nostalgia di “casa”.

Tutto si gioca in un’unica, semplice differenza: sentirsi servo o

figlio.

Il figlio che sa dire, ha la libertà del “no” o il servo che schiavo di

un’idea sbagliata di Dio, per paura, dice i suoi falsi “sì”.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

04.10.2020

L’uomo aiutante nel / del sogno di Dio

«C’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una

vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il

torchio e costruì una torre» (Mt 21,33).

Anche questa domenica si parla di vigna e di uomini appassionati,

innamorati di essa.

Nel racconto, è ancora più bello il constatare che quando Dio

parla di sè in terza persona, si definisce “uomo”.

Un vignaiolo che desidera una vigna e con tutto l’amore di cui è

capace sgombrando il terreno dai sassi, vangandolo con caparbia

e pazienza ne crea una, la chiama all’esistenza, la pianta.

La pianta e la protegge.

La protegge con smisurata esagerazione e tanta, tanta premura:

la cinge con una siepe e vi innalza una torre per difenderla, perché

Dio è tremendamente geloso.

Ama follemente per questo ha cura di ogni dettaglio.

E Dio, lo sappiamo ama le piccole cose, è attento ai dettagli e

nulla è lasciato al caso.

A fondamento di tutto, però, anche in questo racconto c’è il riverbero

di ciò che risiede nelle profondità del cuore di Dio: la ricerca

della felicità per l’uomo.

Per ogni uomo che sempre chiama a divenire suo collaboratore:

«La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano» (Mt

21,33)

Ama la vigna è vero, ma più d’ogni altra cosa, ama l’uomo che

vuole suo socio, suo aiutante che è bene ricordare, non è il padrone

della vigna, della vita, della terra, della storia.

L’uomo è in affitto, aiutante nel / del sogno di Dio.

Ma se Lui, Dio, chiama gli uomini a scrivere la Storia a quattro

mani, loro, da sempre, rivendicano il diritto di scrivere le proprie

vicende autonomamente, pretendono il possesso della vigna af-

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117

RIFLESSIONI DI UN PRETE

fidatagli: «Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò

i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero

i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo

lapidarono» (Mt 21,34-35).

Un crescendo di violenza per la bellezza rigogliosa e fruttuosa

di un vigneto che scatena il desiderio di possesso dei mezzadri

che però non blocca l’amore di Dio che non s’arrende, dialoga

sempre: «Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi» (Mt

21,36)

ma senza alcun effetto se non quello della violenza e della morte.

E Dio che è Padre paziente, facendo appello alla sua Paternità,

ricostruisce ponti:

«mandò loro il proprio

figlio dicendo:

“Avranno rispetto

per mio figlio!”» (Mt

21,37).

Per amore dei figli,

manda il Figlio.

È il buon cuore di un

Dio che esagera nel

continuare ad aver fiducia dell›uomo e mentre l›uomo bastona e

sparge morte, Dio carezza e dona vita.

«Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede.

Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!” Lo presero, lo

cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.» (Mt 21,38-39)

Gli uomini cui è affidata la preziosa vigna di Dio, il suo regno, cacciano

il Figlio, gli donano la morte e ripiegati sui propri egoistici

interessi, non si accorgono che Dio, in un atto estremo di ulteriore

fiducia, ha già trovato altri uomini a cui chiede la disponibilità

del cuore entrando in punta di piedi nella loro libertà: «Perciò io

vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che

ne produca i frutti» (Mt 21,43).

Nessuna vendetta sanguinaria perché l’odio si ripaga con l’amore


RIFLESSIONI DI UN PRETE

e questo Dio lo sa.

Ce lo insegna, ce lo chiede.

E mi rincuora sentire questo racconto che m’assicura che il ventre

di Dio è sempre gravido di tenerezza anche dinanzi ai miei rifiuti.

Mi rincuora sapere che nonostante la mia sterilità, nonostante

il rispetto di Dio per la libertà degli uomini, Egli trova sempre il

modo di far fruttificare la propria Vigna con la collaborazione di

vignaioli buoni che sanno riscrivere la storia con il bene capace di

cancellare, annullare il male.

Perché l’amore è sempre più forte di ogni tradimento.

18.10.2020

“Ridatemi il cuore dell’uomo”

«I farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come

coglierlo in fallo nei suoi discorsi» (Mt 22, 15).

È facile immaginare la scena che Matteo ci restituisce con un›unica

pennellata: farisei ed erodiani insieme, da sempre acerrimi

nemici, probabilmente di notte, a porte chiuse, tessono intrighi

per imbavagliare la Parola libera e liberante.

Perché la cattiveria si cova sempre in gruppo.

I piani spietati si programmano nelle stanze del potere, sempre

a porte chiuse.

E l’inganno spesso si veste con abiti di lusinga, nasconde i graffi

con apparenti carezze:

«Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio

secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non

guardi in faccia a nessuno» (Mt 22,16)

Una domanda cattiva, abilmente studiata a tavolino per metterlo

contro il potere o contro la sua gente: «Dunque, di’ a noi il tuo

parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (Mt 22,17)

Si parla di denaro.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

Argomento scabroso quanto la sessualità che ancora oggi può

essere usato per infangare dignità.

Si parla di denaro e potere, materia delicata che ancora oggi può

mietere “vittime” anche nel campo della Chiesa.

La risposta del Rabbí è conosciuta.

Lui che scava l’anima dei suoi interlocutori, tenero rivelatore del

Padre con i semplici ma prudente Maestro con i ruffiani costruttori

di tranelli, risponde invitando a guardare la realtà:

«Mostratemi la moneta del

tributo» (Mt 22,19)

Una risposta che è roba-da-Dio: a

Cesare rendete il suo denaro, da

lui coniato con la sua stessa immagine

ma a Dio ridate indietro il

suo tesoro, ciò che lo rende ricco,

quell’uomo che ne porta l’immagine

e la somiglianza.

“Ridatemi il cuore dell’uomo, i suoi

pensieri, il suo amore. Il resto datelo

a chi volete”. È parola di Dio.

25.10.2020

“Amerai”

«I farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai

sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della

Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella

Legge, qual è il grande comandamento?»(Mt 22,34-36).

Ancora una volta i farisei, artigiani di intrighi, si riuniscono, cercano

alleanze e tramano contro il Maestro di stile che li ha

smascherati per l’ennesima volta sulla questione del tributo.

119


RIFLESSIONI DI UN PRETE

E stavolta scomodano un dottore della Legge, un teologo che

parla con le Parole di Dio e che da esse riceve l’autorità che da

tutti è riconosciuta.

Loro, i dottori della Legge, sono l’ultima ancora di salvezza per i

farisei, poiché questi teologi hanno l’ultima parola su tutto, anche

sulla Parola.

«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?»

La Torah stabilisce 613 precetti e tutti, anche loro, già sanno che

l’osservanza del sabato è il più sacro dei comandamenti perché

finanche Dio e i suoi angeli lo osservano riposandosi il “settimo

giorno”.

Ma lo interrogano per tentarlo con la saccenza di omuncoli vuoti

che non s’accorgono del Messia che gli è di fronte, ripiegati come

sono sul loro io.

“Per tentarlo”.

Una “tentazione” che si ripresenta costantemente, al momento

opportuno, nella vita del Rabbi che già nel deserto aveva lasciato

a bocca asciutta e a mani

vuote il tentatore fallito.

Gesù non scende nei cavilli

di un vuoto legalismo, di

una sterile, finta religiosità

e rifuggendo i rovi spinosi

della polemica, si manifesta

ancora come Dio dalla

bellezza inaudita che tutti

spiazza con la sua capacità

di fare sintesi della Scrittura,

della vita intima di Dio,

del vissuto dell’uomo, attingendo

la risposta non nella

sequenza dei molteplici

precetti fatti di prescrizioni

e imposizioni ma nel Credo

120


RIFLESSIONI DI UN PRETE

stesso d’Israele che più volte al giorno ogni israelita ha l’obbligo

di ricordare: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con

tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e

primo comandamento» (Mt 22,37-38)

E siccome Dio quando parla d’amore esagera sempre, aggiunge:

«Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te

stesso» (Mt 22,39)

Punto.

Qui è riassunta tutta la Legge, qui sono compendiate tutte le

profezie.

“Amerai”.

Nell’amore c’è la legge, nell’amore c’è la giustizia, nell’amore c’è

tutto Dio e la sua misericordia.

“Amerai”.

Declinato nel tempo senza durata del futuro perché se il passato

ci è perdonato, il futuro deve essere tempo di redenzione.

“Amerai”.

Al futuro e allo stremo delle capacità umane: “con tutto il cuore,

l’anima, la mente”.

Fino a saziare il desiderio di ricerca d’infinito.

Fino allo stordimento dei sensi nella vertigine di un amore che si

fa ricerca di un Dio che, sorprendendo, si fa trovare per donarsi.

Ma non basta.

Occorre amare l’Altro ma è necessario amare l’altro.

Illimitatamente e senza escludere nessuno.

Il Maestro di Nazareth è ancora una volta Rabbi di finezza che

ci aiuta a comprendere che nel cuore divino Dio e uomo vanno

sempre a braccetto, camminano insieme, mai uno senza l’Altro.

Credere, allora, diventa voce del verbo amare da declinare all’infinito

già nel tempo presente, proiettandosi, però, nella dimensione

divina del futuro, fino a sfociare in quell’orizzonte senza fine

che è la Vita.

121


RIFLESSIONI DI UN PRETE

01.11.2020

Un ponte tra cielo e terra

«Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: “Beati i poveri in

spirito...”» (Mt 5,2-3)

B eatitudini.

Legge nuova, parole belle, sgorgate dal cuore del Maestro che

custodiscono il pellegrinare sulla terra degli uomini innamorati di

Dio mentre accentuano desideri di cielo, evocando un modo di

diverso di essere uomini, un modo possibile per essere santi.

Beatitudini.

Mentre invitano l’uomo a guardare il mondo, la storia con occhi

pieni di stupore di chi è assetato di Paradiso, raccontano il modo

di guardare di Dio alla vita, alle vicende dell’umanità.

Situazioni quotidiane, vita di tutti i giorni, lacrime e speranze, non

cose straordinarie perché la santità si annida nella nostra ordinarietà.

A cambiare, allora, non sono le situazioni ma il modo diverso di

rapportarsi ad esse, avendo il coraggio, la voglia, la nostalgia del

gusto di eternità e la coerenza degli innamorati del Vangelo.

Ecco allora che poveri, miti, piangenti e affamati, misericordiosi e

puri, seminatori di pace, perseguitati e calunniati sono l’elenco in

cui rientra ogni uomo che sperimenta la fatica del vivere.

Persino le lacrime, nel progetto di Dio, sono fonte di santità.

In fondo, a fare la differenza è il modo di rapportarci con queste

realtà: i Santi hanno saputo viverla con cuore puro, con la certezza

di chi avverte, nonostante tutto, la carezza di Dio in fondo al

cuore.

Le beatitudini, allora, sono un ponte tra cielo e terra, tra ciò che

siamo e ciò che potremmo essere, tra già e non ancora.

Uno squarcio di sereno tra i mille problemi della nostra esistenza,

un anticipo di luce nella fatica del vivere, una pregustazione della

gioia del raccolto mentre ancora si fatica nel dissodare il terreno

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

della nostra fragile umanità.

La santità è possibile.

Il Vangelo oggi ce lo ricorda non promettendoci orizzonti di felicità

in un ipotetico domani ma invitandoci ad abitare la storia

senza paura, al di là di ogni spavento, di ogni preoccupazione

che potrebbe stordirci il cuore.

Se sapremo fare questo, beati noi.

Buona festa a tutti, allora e... siate santi nella straordinarietà del

vostro ordinario.

08.11.2020

“Dateci un po’ del vostro olio...”

R

agazze armate di luce che si tuffano nelle tenebre, lampade

vedove di olio e tempo d’attesa che ha il sapore del futuro

eterno, questi i temi belli del Vangelo regalatoci dalla liturgia di

oggi.

E poi si parla della fatica dell’attesa, del ritorno dello Sposo, del-

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

la vita che a volte ci appare come un vagare nella fitta coltre di

tenebra.

Ecco allora che a noi rimane la scelta: o lasciarci avviluppare dall’oscuro

o vivere la sfida del quotidiano “restando accesi”, come le

fiaccole delle dieci vergini del Vangelo di oggi.

O trasformare l’attesa in un incontro gioioso, in una festa di nozze,

sfidando finanche il sonno che posandosi sulle palpebre ci

appesantisce l’anima o stancarsi cedendo alla rassegnazione, trasformando

il ritardo dello Sposo in un suo non ritorno e assopire

il cuore anestetizzando l’anima.

Ma il Vangelo ci assicura che lo Sposo viene, comunque.

Il suo arrivo sarà divisione tra chi ha saputo vigilare con le lanterne

accese e chi di fronte alla troppa fatica dell’attesa, ha spento

le lampade e l’amore

«A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli

incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono

le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del

vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge

risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate

piuttosto dai venditori e compratevene”» (Mt 25,6-9)

Olio che manca.

Olio che brucia.

Olio che fa luce.

Olio che non può essere condiviso.

Caratteristiche in comune con l’emozione di chi è innamorato,

con la passione che t’incendia la vita, con il desiderio che ti fa

arrossire l’anima... con l’amore che arde, brucia e illumina.

«Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo

e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e

la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e

incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”» (Mt 25,10-11)

Alla fine anche le “rassegnate alla stanchezza” riescono a procurarsi

dell’olio.

Ma è tardi.

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

La porta è chiusa.

È la legge del tempo.

Ci sono “tempi giusti”, tempi che ci sono donati e non vanno

sprecati, momenti unici, irripetibili.

Non è sufficiente recuperare l’olio per la lampada che si spegne

quando, perdendo il gusto dell’attesa, manchi l’incontro con lo

Sposo.

Perché, a volte, perdere tempo equivale a perdere le persone.

E... sprecare la vita equivale a perdere Dio.

125


RIFLESSIONI DI UN PRETE

15.11.2020

“Fidarsi”

«Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un

viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni» (Mt

25,14).

Ci sono pagine di Vangelo che già dal primo rigo ti inebriano

l'anima.

Lo immagino trasfigurato Gesù, quando parlando di Dio, per aiutarci

a capirlo, ce lo racconta come "un uomo".

Un uomo che si fida, si affida ad altri uomini.

Non è eresia. È il modo più bello per raccontarci come Dio "decide

di parlare il linguaggio degli uomini", per dirci come Dio

vuole farsi capire dall'opera meravigliosa scaturita dalle sue mani,

l'uomo.

(Mamma mia! Se ci penso mi scoppia il cuore: Dio mi ha pensato,

Dio mi ha "fatto". Ogni mia fibra è tessuta dalle mani meravigliose

di Dio).

"Chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni".

Da sempre Dio agisce in questo modo.

Già ad Adamo affida il creato, lo riveste di una dignità altissima

affidandogli "i suoi beni".

È questione di fiducia.

Quella vera, quella cieca, autentica, che è possibile vivere ancora

nei nostri paesini quando, d'estate, si lascia (tranquillamente) la

porta di casa spalancata.

Perché ci si fida.

E fidarsi è sempre un pensare "bene" dell'altro.

Dio si fida, affida e parte.

Non resta a vigilare.

Si "sposta" affinché l'uomo possa esprimersi in piena libertà.

«A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo

le capacità di ciascuno; poi partì» (Mt 25,15).

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

È importante la precisazione di Gesù: "secondo la capacità di ciascuno".

Dio dona a tutti ma non nello stesso modo.

Affida ad ognuno secondo le proprie capacità affinché tutti portino

frutto.

È la giustizia di Dio che affida per far fruttificare.

È la gioia di Dio nel vedere l'uomo realizzato, portare frutti.

Non chiede cose superiori alle sue forze, non chiede l'impossibile.

Se Dio si fida dell'uomo, dona.

Se l'uomo si fida di Dio, può.

«Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli,

e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti

due, ne guadagnò altri due» (Mt 25,16-17)

Ma il racconto di Gesù ci presenta anche un terzo uomo: «Colui

invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca

nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone» (Mt 25,18)

Non è il gesto che delude, è la motivazione che lascia l'amaro in

bocca che non lo realizza pienamente, che lo rende sterile, incapace

di "fruttare": «Ho avuto paura e sono andato a nascondere

il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (Mt 25,25)

Incapace di relazione, ha paura di chi gli ha affidato del suo, di chi

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

lo ha reso degno di fiducia.

Questo è l'uomo che perde Dio non perché non ha investito i

talenti ma perché non ha capito nulla della sua logica.

Il Vangelo ci racconta di un Padre che ha, costantemente, la mano

tesa verso pubblicani, prostitute e mascalzoni d'ogni genere.

Uomini e donne quasi soffocati dal peccato.

Uomini e donne salvati, però, perché fiduciosi in Dio, si affidano

al suo amore di Padre.

Ce ne sono altri che muoiono perché hanno il timore di investire,

hanno paura di Dio.

Sono quelli che si accontentano del minimo indispensabile, non

rischiano, non tendono al massimo immaginabile perché non si

lasciano scompigliare l'esistenza dal soffio vitale dello Spirito.

22.11.2020

“Cristo Regni”

Con la solennità di Cristo Re si conclude l’anno liturgico.

Il Vangelo, in quest’ultima domenica, si apre alle realtà ultime,

la fine di questo anno trascorso in compagnia di Matteo, il

pubblicano diventato apostolo, ci proietta verso il fine della vita

dell’uomo.

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli

con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno

radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore

separa le pecore dalle capre» (Mt 25,31-32).

Si parla di gloria, si parla di angeli, di trono ma alla fine emerge

sempre l’immagine più bella di Dio cui siamo abituati: un pastore.

Un pastore che separerà le mansuete, docili pecore che amano

restare in gregge, dalle testarde capre che amano scappare per

rivendicare autonomia e indipendenza.

«Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti

del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per

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RIFLESSIONI DI UN PRETE

voi fin dalla creazione del mondo”» (Mt 25,34)

Un invito: venite!

Tutta la vita dell’uomo è attraversata da questa chiamata, da questo

appello che ci sarà rivolto anche nell’ultimo giorno.

Dall’inizio alla fine.

Sempre.

“Benedetti del Padre”.

Detti-bene da Colui che è Padre (proprio come Gesù ci ha raccontato

per un anno intero) e che, come il primo giorno in cui

il primo uomo fu chiamato all’esistenza dalle sue mani creatrici,

così anche alla fine dei tempi, Dio continuerà a stupirsi della sua

creatura bella e buona, capace di bene, capace di suscitare la bene-dizione

del Creatore.

«Ho avuto fame, ho avuto sete, ero straniero, nudo, malato, in

carcere»

Siamo benedetti ogni qualvolta ci accorgeremo che Dio abita la

nostra ferialitá e continua ad avere il volto dei piccoli, degli ultimi,

dei dimenticati.

Mangiare, bere, ospitare, vestire.

Un pezzo di pane, un sorso d’acqua, un vestito e la disponibilità

a spalancare le nostre “porte”.

Mischiando tutti questi ingredienti che abitano la nostra quotidianità,

ci accorgeremo che in essi è racchiusa la vita.

Nostra e degli altri.

Un ordinario che diventa straordinario.

Un oggi che è già futuro.

Una vita che profuma di Vita.

Un Paradiso alla portata di tutti.

E per coloro che non avranno capito che l’eterno abita l’effimero,

per coloro che non avranno riconosciuto Dio vestito di ferialitá

nel volto dei bisognosi, la sentenza sarà dura: «Via, lontano da

me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i

suoi angeli» (Mt 25,41).

E a “maledirli” non sarà Dio che ha solo parole di benedizione, ma


RIFLESSIONI DI UN PRETE

le opere che non hanno compiuto, la vita che non hanno vissuto

e che hanno negato anche agli altri: «ho avuto fame e non mi

avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da

bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete

vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato» (Mt 25,42-

43)

E ci sarà di che disperarsi quando ci accorgeremo che la salvezza

era più vicina di quanto pensavamo: nella dispensa con il pane,

in un bicchiere riempito d’acqua, nei nostri armadi stracolmi di

vestiti e nelle porte spalancate come le braccia di Colui che dalla

croce ci mostra come si ama, come si regna, come si vive.

E sarà inutile difendersi: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato

o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non

ti abbiamo servito?» (Mt 25,44) perché dimostreremo, ancora,

di non aver capito.

Non si tratta di servire Dio ma di amare il fratello.

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ph. di copertina di D. Cavallo

5 Dicembre 2020

Buon Compleanno, don Fabrizio!


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