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Mare Al Traverso - Nicola Coccia e Bruno Dardani

Registro internazionale marittimo, un nuovo rapporto fra shipping e finanza, forse anche la necessità del cluster marittimo di fare fronte comune. Queste le premesse, oggi ancor più valide, che hanno spinto Nicola Coccia, già presidente di Confitarma, e Bruno Dardani, giornalista già inviato della pagina marittima del Sole24ore, a cercare di mettere insieme memoria e aspettative scrivendo un libro su passato, presente e futuro nel rapporto non sempre facile fra mondo armatoriale, banche e altri soggetti finanziari.

Registro internazionale marittimo, un nuovo rapporto fra shipping e finanza, forse anche la necessità del cluster marittimo di fare fronte comune. Queste le premesse, oggi ancor più valide, che hanno spinto Nicola Coccia, già presidente di Confitarma, e Bruno Dardani, giornalista già inviato della pagina marittima del Sole24ore, a cercare di mettere insieme memoria e aspettative scrivendo un libro su passato, presente e futuro nel rapporto non sempre facile fra mondo armatoriale, banche e altri soggetti finanziari.

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MARE AL TRAVERSO

Nicola Coccia - Bruno Dardani

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MARE AL TRAVERSO

Nicola Coccia - Bruno Dardani



Indice

007 Premessa

011 capitolo 1 - La storia non insegna

021 capitolo 2 - Shipping pandemia

033 capitolo 3 - Pericolo e opportunità

039 capitolo 4 - E se fosse stato SGA?

043 capitolo 5 - Dottor Schaub c’è un ottimo investimento

049 capitolo 6 - Se il meccanismo si inceppa?

057 capitolo 7 - Un carato difficile

063 capitolo 8 - Cina, guerra e pace

071 capitolo 9 - Il miracolo SGA

079 capitolo 10 - SGA-rrare o no?

083 capitolo 11 - Fondi o affondi

087 capitolo 12 - Cambiare… registro

099 capitolo 13 - Rotta verso un futuro diverso

105 Conclusioni

113 Gli autori



Premessa

Lockdown, per chi è abituato da sempre a dividere la sua vita fra

ufficio, viaggi, incontri e aerei, il tempo infinito, quello che non ha

confini, regole, procedure e scadenze, si trasforma facilmente in

un limbo. E in questa atmosfera ovattata il bisogno di contatti, di

relazioni, diventa quasi una necessità fisica, per ripristinare un ordine

del fare e anche un ordine del pensare.

Gli amici, i vecchi amici, specie quelli che in molti casi non si

contattano per mesi, perché comunque psicologicamente sono una

presenza, diventano un’esigenza primaria, un legame con la realtà

che l’isolamento tende ad annebbiare.

Ed è proprio così che nasce questo libro di riflessioni sparse su un

mondo condiviso: una telefonata, una voce nota, le ormai consuete

considerazioni sulla pandemia, la voglia di confronto con chi del

confronto ha fatto un mantra basato sulla conoscenza di dinamiche

talora complesse.

E poi spontanea, come i numeri composti sulla tastiera dello

smartphone, la voglia di riflettere e al tempo stesso di cercare difficili

quadrature del cerchio in un mondo, quello dello shipping, che è il

nostro terreno comune, ed è anche quello sul quale sono cresciuti

negli anni stima e rispetto reciproco.

Abituati da sempre a confrontarci e a tentare di capire alzando la

testa oltre la frontiera dell’ovvio, abbiamo anche scelto senza fatica il

titolo di questa nostra riflessione a quattro mani. Era troppo scontato

parlare di tempeste perfette, di burrasche e bonacce. Ripensando a

questi ultimi dieci anni, ma anche riflettendo sulla nostra ambizione

di fornire qualche indicazione positiva, quasi automaticamente ci è

venuto in mente quel mare che non è tempesta, ma che mette a

dura prova coraggio e determinazione e che funziona come una

sorta di selezione naturale: “mare al traverso”. “Mare al traverso.

Mer à travers”. È quando il mare percuote ne’ sianchi del bastimento

che naviga” …Dal Dizionario teorico-militare del 1847.

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Per la gente di mare è una delle condizioni che rendono meno

governabile la barca, la nave, il piroscafo, il bastimento…

Per chi, come noi, il mare al traverso lo ha preso più di una volta,

ma specialmente ha visto amici, conoscenti, anche grandi capitani,

lottare con le onde e il vento che violentano la murata, talora

dovendosi arrendere e non riuscendo a rimettere la prua al mare, i

ricordi, anche quelli amari, diventano un tesoro.

Per gran parte della nostra vita professionale siamo stati testimoni, e,

in parte, anche protagonisti di quanto è accaduto. Certo, da due punti

di osservazione profondamente differenti, ma, per motivi complessi,

comunque convergenti.

Molta acqua è passata sotto i ponti, in questo caso sotto le chiglie

delle navi. Abbiamo conosciuto capitani di lungo corso, capitani di

impresa, capitani coraggiosi. Attraverso loro abbiamo imparato a

riconoscere i significati che anche solo una ruga sotto gli occhi o sulla

fronte possono rivelare.

Ci siamo immersi, anche attraverso le Associazioni di categoria, nel

mare dei rapporti complicati fra imprese caratterizzate da una forte

personalizzazione. E forse non potrebbe essere diverso per un mondo

che trova le sue caratteristiche predominanti nella personalità dei

suoi capitani d’impresa, ma anche nel rapporto quasi possessivo con

la nave, rapporto che non trova riscontro o somiglianza in nessun altro

tipo di relazione fra imprenditore e mezzi di produzione (avete mai

visto un industriale chiamare con il proprio nome non l’azienda ma

lo stabilimento?). Abbiamo ripercorso le modalità sempre originali di

intuizioni cosi come di errori di valutazione, verificando quanto e con

quale rapidità le conseguenze impattassero sulle aziende.

Abbiamo anche assistito alle profonde trasformazioni che hanno

riguardato, da un lato, la struttura di un mercato che nel cuore

della globalizzazione ha rincorso i miti delle concentrazioni e del

gigantismo, riproducendone anche in modo quasi automatico

le derive negative in settori profondamente differenti; dall’altro i

rapporti fra armatori e finanziatori. Dalle ultime propaggini delle

8


PREMESSA

società armatoriali di famiglia, alle KG tedesche meglio conosciute

come le società dei dentisti, alla crisi del tradizionale credito navale

di origine bancaria, sino all’avvento dei Fondi di investimento in

una situazione di generale sottocapitalizzazione delle imprese

armatoriali.

Abbiamo vissuto o direttamente sul ponte o dalla banchina del porto

quel mare al traverso che ormai da oltre 12 anni si infrange sul mondo

dello shipping: dalla grande crisi dei noli del 2008, alla scoperta che

questo mercato non è obbligatoriamente ciclico come si era pensato

per anni; abbiamo avuto conferma che le scelte definitive tali mai non

sono e che, ad esempio parlando del gigantismo navale, queste scelte

hanno sempre e comunque una scadenza; abbiamo specialmente

assistito a un fenomeno inarrestabile: quel fenomeno per cui finanza

e shipping sono e saranno ormai costretti a una coabitazione forzata,

“State insieme ma non troppo vicini: poiché le colonne del tempio

sono distanziate, e la quercia e il cipresso non crescono l’una

all’ombra dell’altro”.

Lo affermava lo scrittore e filosofo libanese Kahlil Gibran, profondo

conoscitore del genere umano. Ne parlava probabilmente con

riferimento alla vita di coppia, ma si attaglia perfettamente al

rapporto complesso, difficile, conflittuale, talora drogato, che è

intercorso specie negli ultimi due decenni fra il mondo dei trasporti

marittimi e quello di banche, investitori, fondi.

Abbiamo vissuto in questi mesi l’incubo delle “distanze sociali” che

del sociale sono l’esatto contrario. E ci siamo chiesti quanto questo

mondo stravolto da una globalizzazione senza controlli e garanzie

abbia bisogno di terreni comuni di riflessione, dove, come speriamo

accada fra noi, porre a comune denominatore le conoscenze

parallele di due, come noi, che hanno osservato e monitorato sotto

ogni aspetto, le dinamiche i questa cellula anomala dell’economia

mondiale che è lo shipping.

Su una scelta abbiamo concordato da subito: abbandonare

9


l’ambizione di produrre uno dei tanti testi scientifici anche per evitare

- come accaduto troppo spesso nel mondo dello shipping – di essere

clamorosamente sbugiardati dai fatti.

Il nostro punto di partenza è un altro, e forse è lontano parente della

teoria del caos. “L’avvenire è la porta, il passato ne è la chiave”.

Diceva Victor Hugo, noi due, con un gioco di domande e risposte

spesso implicite nel testo, tenteremo di guardare attraverso il buco

della serratura, consci di non poter insegnare se non il rispetto

dell’imprevedibilità. Ci siamo anche sforzati in modo irrazionale di

pescare in memorie lontane esempi e prodromi di ciò che sarebbe

accaduto, scoprendo che le rotte, a esempio, della globalizzazione

erano già state tracciate da secoli e che – come spesso accade

all’umanità – erano state accantonate nelle pagine di libri di storia

coperti da polvere e sempre più spesso non letti.

E quindi anche la struttura di questo breve libro, saggio, riflessione,

sarà ispirata allo stesso concetto: l’imprevedibilità, viaggiando su una

macchina, o meglio, su una nave del tempo alla ricerca di tesori e di

indicazioni che avrebbero potuto e forse potranno risultare utili per

un futuro oggi ancora più incerto.

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CAPITOLO 1

LA STORIA NON INSEGNA

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Una cosa è certa: le lancette dell’orologio della storia hanno

preso a muoversi in maniera frenetica maciullando una

dopo l’altra le certezze, trasformando i progetti in pericolosi

salti nel buio, riconfigurando come in un gigantesco videogioco

equilibri geo-politici che da decenni, forse da secoli,

parevano essere un punto di riferimento intoccabile. Il mazzo

di carte degli equilibri economici mondiali sta riservando

le incertezze di un gioco di puro azzardo. Altro che

globalizzazione guidata….

Ciò che non era accaduto per anni, spingendo anche i più

acuti analisti di geo-politica e di strutturazione del mercato, a

lavorare su mantra, su punti di riferimento fissi, si è verificato in

pochi mesi, nell’anno forse più complesso nella storia moderna

dell’umanità. Il bisesto 20 e 20 non sarà ricordato solo per

gli effetti, probabilmente tanto disastrosi quanto ancora in

parte incalcolati e incalcolabili, della pandemia, ma anche per

l’abbattimento di riferimenti quasi sacri e quindi per l’obbligo

di qui in avanti, di navigare a vista.

I recenti accordi di pace fra Israele e gli Emirati e l’innesco di

una reazione a catena che sta travolgendo il Medio Oriente

e coinvolgerà tutto il mondo sunnita, probabilmente

accentuando l’emarginazione di Turchia e di Iran, potrebbero

essere prodromi dell’emersione di un vero e proprio continente

economico e sociale, in grado di trarre le sue radici da una storia

millenaria e di costruire il suo futuro di grande potenza posta

a metà strada fra occidente ed Estremo Oriente, Cina in primis.

E la guerra fra Cina e Stati Uniti con un’Europa che per ora,

solo attraverso la Germania, sembra aver riscoperto l’India

come frontiera della globalizzazione, rappresenta solo l’inizio

di una storia tutta da scrivere con conseguenze epocali in

settori di frontiera come sono quelli dei traffici marittimi,

dell’interscambio globale di merci, della portualità.

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LA STORIA NON INSEGNA

In questi mesi, si era parlato con sempre maggiore insistenza

di globalizzazione di ritorno, di re-shoring, ovvero di un

ripensamento critico sulle conseguenze di una globalizzazione

indiscriminata e incontrollata, “responsabile” anche della

pandemia ma, a ben vedere, prima di affrontare queste

tematiche, oggi così attuali, sarebbe davvero necessario

guardarsi indietro, rileggere pagine di storia per comprendere

che le esperienze anche quelle negative, raramente

insegnano e, quasi mai, fissano regole comportamentali e

confini invalicabili entro i quali gli Stati, le Nazioni, anche le

Organizzazioni internazionali si muovano correttamente.

Di certo la diffusione del Coronavirus ha disseminato di paura le

comunità del pianeta. Ma se avrà insegnato davvero qualcosa,

lo diranno solo i fatti.

Lo sanno bene gli uomini di mare, per i quali il confine fra

il giusto e l’ingiusto è determinato dallo spirare e dalla

direzione dei venti. Uomini di mare che, certo possono

essere annoverati fra gli antesignani, quasi i pionieri, della

globalizzazione, ma che, forse, nella realtà del loro viaggio

hanno solo seguito la rotta in quel momento più conveniente

e meno pericolosa.

Lo shipping, più che in ogni altro settore economico, potrebbe

insegnare quanto instabili possano essere o diventare

anche in tempi rapidissimi le condizioni che determinano il

successo di operazioni internazionali, la riuscita di commerci,

l’affermazione di direttrici di scambio.

Ma proprio lo shipping nel terremoto in atto nell’economia

globale, fatica a sua volta a trovare le risposte, prime fra tutte

quelle relative a un rapporto con la finanza che, oggi come non

mai, è diventato la chiave strategica di lettura del futuro, e che,

oggi come non mai, richiede sia un’operazione verità: sia sulle

motivazioni degli insuccessi passati, sia sulla necessità ormai

cogente di cambiare gioco e forse anche giocatori.

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E proprio per queste motivazioni abbiamo voluto dedicare

alla globalizzazione, quasi due capitoli di riflessione. Si, di

riflessione critica finalizzata a comprendere il presente e a

immaginare il futuro salpando da una considerazione di fondo

solo apparentemente banale: chi va per mare può essere

testimone di quanto volatile possa anche essere la reputazione

di chi cavalca le onde. Ormai dimenticati i cartelli del “saremo

tutti più buoni” che caratterizzarono il primo lockdown in

Italia, incominciano a circolare analisi geopolitiche basate sui

fatti. Analisi che evidenziano come nella globalizzazione il re

sia diventato davvero nudo e come inevitabilmente il Post

Covid renderà inevitabile una riscrittura globale delle regole di

ingaggio della globalizzazione spingendo verso una “gestione

attiva” della stessa. Non sarà facile trovare punti di equilibrio

anche perché quello che puntava a coniugare, in un pianeta

profondamente asimmetrico, profitto e vantaggio economico/

finanziario, con la tutela degli interessi più fragili, non è stato

mai individuato. Se non, parzialmente, nello sforzo attuato

all’interno di una Unione europea allargata e motivata a ridurre

il gap con gli ultimi Paesi entrati a farne parte.

È in quest’ottica che abbiamo tentato di individuare il filo

conduttore, forse fragile, di episodi confinati nella storia,

per trarre qualche esempio che serva oggi ad affrontare con

grande concretezza, e forse con minore condizionamento

ideologico, i confini, i vantaggi e i mutamenti inevitabili della

globalizzazione di ritorno.

Ecco il primo esempio.

“Mio signore, è una sentenza molto dura. Per quanto mi

riguarda io sono la persona più innocente fra tutti loro, ma i

testimoni hanno giurato il falso contro di me”. C’è chi afferma

di aver sentito queste parole riecheggiare per decenni, nei

corridoi di Whitehall, la Camera dei Comuni, a Londra: a

secoli di distanza dalla sua ultima difesa accorata contro una

condanna a morte già decisa e già scritta, il fantasma del pirata

14


LA STORIA NON INSEGNA

William Kidd sembra oggi assurgere a simbolo di tutte quelle

contraddizioni che il processo di internazionalizzazione dei

traffici, senza verifiche o senza controlli, stanno emergendo

prepotentemente”.

Ma cosa c’entra con noi il fantasma di William Kidd? Se non

riportarci alla mente vecchie canzoni sui pirati che fungevano

da sigla a telefilm nella Tv dei ragazzi, quando eravamo

bambini e quando la tv era una e una sola, e in bianconero?

Ti ricordi quel ritornello: “Quindici uomini, quindici uomini…

sulla cassa del morto”. Cantavano quei pirati da operetta.

Per noi William Kidd, certo meno conosciuto rispetto a Francis

Drake o ai corsari di Tortuga, è anche un simbolo ante litteram

di quanto avremo assistito in anni recenti; simbolo di una

globalizzazione che è politically incorrect chiamare con il

suo nome più antico e negativo: colonialismo. E vogliamo

provocare subito con una prima distinzione manichea di

comodo fra il colonialismo cattivo e una globalizzazione che

doveva (pre Coronavirus), essere comunque buona sino a

prova contraria; sino a scoprire che sulle sue rotte viaggia la

sotto-globalizzazione della povertà e dello sfruttamento, la

schiavitù 4.0, e in aggiunta, i virus.

Asteniamoci quindi dai giudizi morali sul passato. William Kidd

aveva la licenza a operare da pirata, quel certificato da corsa

(oggi si chiamerebbe concessione), che una volta accordato

può sempre e comunque trasformarsi in un mandato ufficiale

ad agire per conto di una Corona o di uno Stato o di Potere.

William Kidd, pirata inglese, è un simbolo poco noto ma

terribilmente attuale della globalizzazione di comodo: come

pirata transita dall’illegalità degli arrembaggi compiuti nelle

Indie occidentali spesso a danno di galeoni spagnoli, alla legalità

di un incarico “professionale” per conto della Compagnia delle

Indie orientali, e quindi indirettamente del governo inglese;

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per poi ripiombare nell’area grigia dei mari in cui la bandiera

della pirateria incombe come segnale di morte certa.

Socio di un Lord, reclutato dalla Corona per servire l’Inghilterra,

capitano dell’Adventure Galley, vero e proprio incubo per le

navi francesi che navigano al largo delle coste del Madagascar,

Kidd per anni è uno degli alfieri della Compagnia delle Indie

orientali. Strumento estremo di concorrenza sleale sulle rotte

dell’interscambio mondiale sino a diventare vittima di se

stesso, essere tradito dal Paese che gli aveva firmato la lettera

da corsa, quella che lo autorizzava ad attaccare navi nemiche

dell’Inghilterra; e oggi di Kidd si ricorda solo, in qualche elitario

libro di storia, l’ arringa di accorata auto-difesa contro il sistema.

Cosa c’entra con lo shipping e con la finanza?

C’entra eccome. Le sue parole al vento non avrebbero impedito

a chi lo aveva usato come messaggero della globalizzazione, di

decretarne la morte, l’immersione del suo corpo in un barile di

catrame e l’impiccagione del suo cadavere lungo una sponda

del Tamigi a monito dei tanti pirati che erano formalmente

autorizzati ad esserlo, ma finché faceva comodo.

È l’8 maggio del 1701. E Kidd è uno dei tanti chiamati a svolgere

il lavoro sporco per la neonata Compagnia delle Indie orientali

alla quale 37 anni prima, re Carlo II aveva accordato per decreto

il diritto di acquisire nuovi territori, battere moneta, comandare

truppe armate ed esercitare la giustizia sui propri territori. In

poche parole, il sogno per ogni multinazionale dei tempi nostri.

È la conferma che la globalizzazione buona, quella pro-poveri,

quella in aiuto, quella verde non esisteva? Perché ora esiste?

La globalizzazione segue sempre e comunque una rotta lungo

la quale le regole sono scritte in funzione di interessi o sono

difficili da codificare: se non fosse così come potrebbe una

nazione avvantaggiarsi a danno di altre o di intere comunità?

16


LA STORIA NON INSEGNA

E quegli interessi vincono sempre e comunque: la Compagnia

delle Indie orientali è il braccio commerciale, ma anche braccio

armato sulle rotte strategiche di quella globalizzazione che

era deprecata nei metodi e nei fini in modo ben più radicale di

quanto le leggere brezze di critica abbiamo sfiorato sino a oggi

la nostra globalizzazione senza controlli.

Per noi, quindi, rispondendo alla domanda iniziale, William

Kidd è solo un primo indizio?

Il secondo indizio è portato dal vento che soffia nelle vele

di un’altra potentissima corporation del trading globale,

la Compagnia olandese delle Indie orientali, Vereenigde

Geoctroyeerde Oostindische Compagnie, in breve VOC,

costituita nel 1602, sulla base di un’esclusiva garantita dal

governo olandese a svolgere i traffici da e per l’Asia.

È trascorso più di un secolo. La Compagnia olandese si è

impadronita degli avamposti commercialmente più strategici

su quella che oggi verrebbe definita una “via della seta” di

mare o – come piace dalle parti di Pechino – una Silk & Road

Initiative. Un successo dietro l’altro, ma fenomeni incontrollabili

o sottovalutati condurranno anche la Compagnia olandese

verso la cessazione dei traffici e quindi la liquidazione totale.

E cioè?

Cerchiamo di continuare sul filo di una storia che si potrebbe

trasporre pari pari in un trattato di geopolitica dei giorni nostri.

È il 9 ottobre del 1740: una coltre di umidità si solleva dalle

paludi di Batavia e si infiltra nel dedalo di capanne, nei vicoli

fangosi, dove insetti e mosche la fanno da padroni, come per

altro le ricorrenti epidemie testimoniano. È un formicaio che

brulica dalle prime luci dell’alba: i lavoratori cinesi, anche quelli

che hanno fatto fortuna, in questa terra di nessuno nell’isola

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di Java, sembrano non fermarsi mai. Più di 10.000 vivono

nell’Ommenslanden, da dove raggiungono ogni giorno le

grandi piantagioni di canna da zucchero o i cantieri per la

costruzione della città nuova.

Il governo coloniale e la Compagnia olandese delle Indie

orientali, che ha avamposti commerciali nelle aree più

strategiche del sud est asiatico, sanno che ogni giorno che

passa, in quella fornace di caldo e umidità, un fuoco brucia sotto

il fango. La globalizzazione del lavoro nelle colonie olandesi è

fuori controllo. Gli scontri fra popolazione locale e immigrati

cinesi sono sempre più frequenti e anche le deportazioni di

massa di popolazione cinese verso Ceylon e il Sud Africa boero

non sono sufficienti a disinnescare l’ordigno attivato dalla

globalizzazione povera del lavoro.

Molti cinesi sono accusati apertamente di aver fatto i soldi e

messo insieme ricchezze nascoste schiavizzando gli indigeni.

Senza dubbio il fatto di essere approdati sull’isola con il

pedegree di artigiani specializzati li ha imposti come una

sorta di classe intermedia nei cantieri che stanno edificando

la capitale Batavia, l’odierna Djakarta. Non c’è negozio nella

città nuova che non parli cinese. Non c’è famiglia cinese che

ogni giorno non si allarghi con immigrati clandestini che si

stabiliscono in capanne fuori dalle mura della città.

Sono trascorsi pochi anni dalla grande epidemia di malaria

che ha falcidiato la popolazione e per gli indonesiani gli untori

si nascondono proprio in quella Chinatown ante litteram di

gente che non si mischia, non si amalgama… e si arricchisce

troppo in fretta.

Giambattista Vico parlava di corsi e ricorsi della storia.

Passeggiando con la mente nelle strade strette e fangose di

Batavia non pare neppure esserci il bisogno di scomodare il tuo

illustre conterraneo di Napoli: i protocolli – come affermerebbe

18


LA STORIA NON INSEGNA

volentieri una moderna società di consulenza – non cambiano,

si ripetono.

Ma nessuno impara.

Vero. Nel 1740 Batavia è in fiamme: si parla di un nuovo

provvedimento di deportazione di massa che non riguarda

certo i cinesi che possiedono i mulini per la macinazione dello

zucchero, o le distillerie dove si produce l’Arrak, l’acquavite

frutto delle fermentazione di riso e melassa che viene esportata

anche in Europa. Riguarda quella massa in movimento di

operai e piccoli commercianti cinesi che convivono con le

paure inclusa quella estrema: il sospetto che i deportati anziché

giungere a destinazione vengano buttati in mare non lontano

dalle coste di Giava e diventino pasto per gli squali.

Nel 1740, i prezzi mondiali dello zucchero crollano, si dimezzano

rispetto alle quotazioni del 1720. L’economia di Batavia entra in

crisi: povertà e fame diventano compagni di viaggio e semi di

brutalità. Gruppi di lavoratori cinesi di zucchero si ribellano: con

attrezzi agricoli trasformati in armi aggrediscono le guardie,

incendiano i mulini e trucidano 50 soldati olandesi.

La reazione della Corona non si fa attendere: 1800 soldati

accompagnati dagli schutteni della milizia borghese e da

undici battaglioni di coscritti respingono un attacco lanciato

da 10.000 cinesi.

È l’inizio della fine: le truppe affiancate dagli abitanti di Bali

entrano nella bidonville cinese. I cannoni sparano alzo zero

contro le case che prendono fuoco come torce, una dopo

l’altra. Chi si salva e tenta di fuggire viene trapassato con spade

e forconi. Donne incinte, bambini, tutti sgozzati con il machete;

nessuno viene risparmiato e la caccia casa per casa, barca per

barca, persino nelle corsie degli ospedali, procede per giorni e

giorni sino a quando la palude di Batavia è trasformata in un

enorme stagno di sangue.

19


Poco più di 50 anni dopo la VOC, la Compagnia olandese delle

Indie Occidentali, con la madre patria Olanda occupata dalle

truppe rivoluzionarie francesi, ammainerà la sua bandiera

Orange.

Troppo semplice cercare parallelismi…

Può darsi, ma teniamo a mente questi due indizi, questi

due esempi. Ci serviranno. Da un lato il pirata William Kidd

strumento violento utilizzato e usato, sino a quando serve,

per imporre le regole di una grande corporation del trading e

dei traffici marittimi. Dall’altro, il crack di un mercato, nel caso

quello dello zucchero, in grado di innescare una reazione a

catena di magnitudo tale da sfociare in pandemia sociale.

Esempi utili per costruire la cornice del puzzle, la parte più

semplice, all’interno del quale cercare nella memoria di

entrambi i tasselli di una grande raffigurazione: la crisi dello

shipping.

20


CAPITOLO 2

SHIPPING E PANDEMIA

21


Tempi difficili?

Certo ogni generazione ha ripetuto questa frase in modo più

o meno motivato, cercando risposte, speranze, persino ricette

per navigare verso acque più calme.

L’emergenza, in cui questo strano anno 20 più 20 (due più due

fa quattro e nella lingua cinese la parola quattro, Pinyin, ha

una funesta assonanza con la parola morte) ha precipitato il

pianeta terra, sta senz’altro dimostrando un assioma: il mondo

cambia poco e con fatica.

L’ubriacatura di tecnologia avanzata nella quale ci siamo

cullati per anni si è dissolta con il Covid-19: l’epidemia è stata

affrontata a 500 anni di distanza dalla Peste di Milano e di

Venezia con l’unico banale rimedio di isolare intere comunità

e di trasformare gli ospedali in lazzaretti in versione moderna,

ma sempre incubatori di morte.

E sono in molti a interrogarsi su cosa accadrà quando “sul

ponte non sventolerà più la bandiera bianca” e quando la

caccia inevitabile alle responsabilità scatenerà la voglia di rese

dei conti.

Vuol dire che nulla cambia?

I due casi con i quali abbiamo iniziato questa nostro libro di

bordo sulle vicende recenti, attuali e future dello shipping (e

in particolare di quello italiano), quella della British East India

Company, nata nel 1707, e della Vereenigde Geoctroyeerde

Oostindische Compagnie, sono forse figli della stessa pulsione

verso l’internazionalizzazione che è la matrice irrinunciabile

dello shipping.

Un’internazionalizzazione che ha e conserva la caratteristica

di auto-gestirsi, diventando a più riprese incontrollabile come

accaduto quest’anno con l’epidemia del Coronavirus e che

22


SHIPPING E PANDEMIA

paradossalmente racchiude la magia di insegnare poco o nulla

alle generazioni che seguiranno.

Passeggiando per la prima volta lungo il grande terrapieno sul

mare realizzato a Gioia Tauro per servire uno dei tanti centri

siderurgici che non sarebbero mai stati costruiti, Angelo

Ravano, uno dei padri della moderna logistica, ebbe a dire che

“qualsiasi accadimento, operazione, innovazione, quando

si parla di traffici internazionali, trading, ha una scadenza,

ma più trascorrono gli anni e più le persone e le imprese lo

accreditano invece di una eternità che non esiste”. Si riferiva

nel caso specifico ai terminal per il transhipment delle merci,

ma le sue parole si applicano, quantomeno nello shipping, a

molti fenomeni di moda.

Se non si è in grado di comprendere in anticipo che la scelta

di oggi non sarà valida che per un limitato periodo di tempo

inseguendo a occhi bendati i mega trend, le infatuazioni

economiche e finanziarie, la conclusione logica e inevitabile

sarà sempre e comunque quella delle Compagnie delle Indie.

E a rendere tutto più complesso nello shipping continuerà a

essere lo spirito di imitazione che ha trovato e troverà terreno

fertile nella globalizzazione.

Molte esperienze avrebbero dovuto forgiare le coscienze,

ma non è stato e non è mai così; quando i profitti appaiono

facili, il livello di guardia si abbassa e anche la conoscenza

e la consapevolezza dei precedenti negativi non fornisce

trincee adeguate per ripararsi dal rischio in un settore abituato

comunque a ricondurre i default a cause ed eventi particolari, a

risacche destinate a impattare solo su talune spiagge.

E quindi la storia non si insegna?

Precedenti come quello delle VLCC e delle ULCC, le grandi navi

23


cisterna, che per lo shipping italiano sono riconducibili ai nomi

“Coraggio” e “Volere” di Achille Lauro, erano legati nel bene e

nel male a eventi geopolitici territorialmente circoscritti e ciò

impediva anche agli osservatori più acuti di comprendere

quanto estese fossero le foreste nelle quali si stavano già

muovendo le tigri di carta.

E invece già in quegli accadimenti, nella chiusura di Suez ad

esempio, si celavano i semi di una pandemia economica

e commerciale che si sarebbe abbattuta prima o poi

sull’interscambio mondiale, brutalizzando le aspettative di

mercati in passato sempre sani e in grado sempre e comunque

di riproporsi sui binari di business plan rigidi.

In questo quadro di errori ripetuti e di lezioni non imparate

esiste una data chiave?

Nelle analisi di molti attenti osservatori delle realtà umane

e delle scienze sociali, hanno iniziato a trasparire i dubbi

incentrati sul pericolo di una globalizzazione non gestita; una

globalizzazione che oggi ha creato una pandemia sentinella,

domani potrebbe generare piaghe che sembravano essere

confinate negli anni bui e lontani della storia dell’umanità.

Ma pochi hanno posto il Covid-19 in relazione con una

data che aveva provocato una reazione a catena fuori

controllo:,quella dell’11 dicembre 2001: l’adesione della

Cina al Wto, ovvero la madre di tutte le globalizzazioni, quel

passe-partout in grado di aprire ogni porta, rendere fluidi i

traffici, i commerci, la schiavitù e anche i virus.

Quella di Giulio Tremonti era stata una delle voci isolate a

denunciare i rischi di uno scivolo che avrebbe globalizzato

anche i pericoli, rendendo complici e co-vittime comunità

distanti migliaia di chilometri, esponendole all’impatto di

fenomeni, crisi, dissesti, che solo pochi anni prima, specie

24


SHIPPING E PANDEMIA

in Cina in virtù della “riservatezza” del regime, sarebbero

rimasti confinati, anche nei loro effetti letali, nei confini di

qualche remota regione al centro dell’Asia. Tremonti aveva

remato contro-corrente fronteggiando il coro dei fautori

di una globalizzazione a traino cinese che infiammava gli

entusiasmi dell’economia e della politica mondiale, capace

di accantonare le memorie e i valori di quella democrazia che

faticosamente resta l’unico grande patrimonio dell’Europa, ma

anche sottovalutando, come il Covid ha dimostrato, una vera e

propria messe di pericoli indotti.

Oggi l’altra faccia della medaglia ha palesato timidamente la

sua esistenza?

La globalizzazione non gestita, e anzi esaltata, ha assunto, senza

che nessuno lo evidenziasse o si facesse carico di denunciarlo,

le caratteristiche di una globalizzazione della povertà specie

nelle aree più fragili del pianeta.

Ora ha in parte svelato minacce, rischi e paure: c’è già chi parla

di una globalizzazione delle pandemie, delle pestilenze, del

dissesto sociale, in un contesto internazionale che tende a

premiare chi dispone degli strumenti per imporre le regole e che

riesce a conquistare il consenso nelle democrazie più deboli;

una globalizzazione in cui all’esaltazione dell’universalità,

fa seguito un meccanismo di adattamento e di obbedienza

passiva.

Ma torniamo allo shipping, sempre tenendo accesa la luce su

quel fatidico 11 dicembre del 2001.

Tutti i grandi fenomeni, dal gigantismo delle navi

portacontainer, a quello dei porti, a quello del turismo

e delle navi da crociera, sono per molti aspetti figli di un

processo di universalizzazione che nel settore armatoriale si

è tradotto in un continuo e costante adattamento e quindi

di accondiscendenza ai mercati. Lo shipping per sua natura è

25


stato il precursore della globalizzazione come le Compagnie

delle Indie avevano preconizzato.

In un pianeta sottoposto allo stress di un boom demografico

incontrollabile, di una dilatazione dei consumi, e di uno

sfruttamento intensivo delle risorse indispensabili per la

sopravvivenza di intere comunità, le distanze geografiche

si sono trasformate in distanze economiche, da allungare o

accorciare virtualmente a seconda delle esigenze del mercato

globale. E il trasporto marittimo per primo, seguito poi dal

fenomeno di delocalizzazione industriale, e infine dalla

digitalizzazione globale, ha fornito gli strumenti perché ciò

avvenisse.

Proprio nel trasporto marittimo si è attivato un effetto

moltiplicatore senza precedenti: dagli anni 70 ad oggi il

trasporto per mare è letteralmente esploso dal punto di vista

dei quantitativi trasportati al punto che ciò che sino agli anni

settanta veniva trasportato in un anno oggi viene mosso in

una settimana.

Quali dovrebbero e avrebbero dovuto essere le chiavi di

lettura per non subire ma guidare questi processi?

Premesso che è facile essere profeti quando i fatti sono già

avvenuti, i numeri, quelli dei quali troppi si dimenticano o

hanno una naturale predisposizione a non confrontarsi, sono

disponibili, eccome.

- In un lasso di tempo minimo la popolazione del mondo è

raddoppiata già partendo da una base notevole di 3,5 miliardi .

- Nei fatti ad un mondo di 3,5 miliardi ne abbiamo affiancato

un secondo con altrettanti abitanti.

- A fronte di una maggioranza di comunità che consumavano

solo l’essenziale per sopravvivere, ora la diffusione di benessere

e consumi ha stravolto il quadro di riferimento.

- Sono pochi i prodotti finiti che hanno l’intero ciclo produttivo

26


SHIPPING E PANDEMIA

in una nazione o in un continente.

- Distribuendo le varie fasi di lavorazioni fra più continenti la

stessa merce viaggia più volte intorno al mondo.

Un esempio pratico.

La produzione dei divani: gli chassis vengono realizzati in

Turchia, le pelli vengono dal Brasile, i divani sono assemblati

in Europa ed esportati in tutto il mondo, gli scarti di pelle

finiscono in Cina dove vengono lavorati per diventare gadgets

o altri oggetti in pelle.

Ma torniamo allo shipping.

Si, e lo facciamo restando in Cina, forse l’unico Paese in cui

,grazie a un fattore tempo che è considerato filosoficamente

una variabile indipendente nelle scelte, le decisioni strategiche

sono frutto di una politica dirigistica in grado di impattare

direttamente sugli assetti globali: Pechino è diventata la

fabbrica del mondo, e lo shipping lo sa bene, perché il

ridimensionamento e la crisi delle industrie cantieristiche

giapponesi e quindi coreane ha alla base una strategia di

conquista di mercato che si concretizza in tempi terribilmente

stretti.

Negli anni 2005/2006 la Cina decide, e ribadiamo, decide,

che dovrà diventare la più grande potenza cantieristica del

mondo. Si. Lo decide per una scelta strategica dirigista che

viene applicata nei minimi dettagli: le nuove costruzioni

vengono offerte a prezzi di bargain e non da cantieri esistenti,

ma da cantieri virtuali che vengono realizzati sulla base delle

commesse in serie di una certa tipologia di nave. È il caso delle

post-panamax la cui produzione in serie è rallentata solo dalla

indisponibilità in numero adeguato di motori marini prodotti

in Germania.

27


Le esperienze personali sono più efficaci di qualsiasi discorso.

Sono stato testimone attivo del progetto di un gruppo di

armatori italiani interessati a costruire navi adatte al transito

attraverso il nuovo canale di Panama e protagonisti di una

trattativa con un importante cantiere cinese, potenzialmente

disposto a dedicare una parte delle sue infrastrutture solo

alla costruzione di questa nuova tipologia di navi. Giunto al

traguardo delle dieci e più navi in ordine, il gruppo cantieristico

cinese si offre, a fronte di questo livello di commesse, di

costruire in pochi mesi un cantiere nuovo di zecca da dedicare

esclusivamente a questa tipologia.

Come leggere oggi quell’esperienza vissuta di persona?

Nella finanza o nel mercato immobiliare diremmo senza

esitazioni che si tratta dei prodromi di una bolla che tende

oggi a fagocitare tutti in una sorta di limbo non cognitivo, che

alimenta un’errata visione collettiva: la domanda non avrà mai

fine e i profitti saranno costanti.

Persino il primo shock del post Olimpiadi di Pechino non

viene colto in tutta la sua potenza rivelatrice. Il fatto che la

Cina sia andata in overdose di prodotti e materiali prodotti per

infrastrutture che sono state già realizzate, e per altre che non

si faranno, è considerato da molti poco più di un incidente di

percorso.

Ciò oscura le menti: nessuno o molto pochi si accorgono che il

gioco si sta trasformando in una vera e propria roulette russa

e che il colpo nascosto nel tamburo della pistola si chiama

finanza: l’armatore tende a essere sempre bancocentrico, è

immaturo per la Borsa o per alleanze con fondi di investimento

,e i suoi sonni sono popolati, e non potrebbe essere altrimenti,

dal timore di dover lasciare il timone dell’impresa; per contro le

banche continuano a considerare positivamente il settore e la

28


SHIPPING E PANDEMIA

gara che si è innescata fra gli Istituti per finanziare nuove navi è

la premessa naturale della bolla.

Ma è facile affermarlo oggi. In allora, il settore sembra

invincibile: noli alti, trasporti in incremento costante, una

più che comprensibile voglia di rivalsa delle banche italiane

rispetto a istituti bancari stranieri che avevano fatto il bello e

il cattivo tempo nella concessione dei crediti al settore; il tutto

corredato da un’insufficiente specializzazione e conoscenze

inadeguate alla dimensione della sfida e dimenticando il

vecchio motto : “Il Banchiere bravo è quello che ti sa negare un

finanziamento spiegandoti le ragioni“.

B&B, ovvero banche e brokers bussano di continuo alla

porta degli armatori con offerte imperdibili: equity minimo

per avviare nuove iniziative e siglare nuovi contratti. In quella

fugace età dell’oro è difficile anche per l’armatore chiudere le

orecchie al canto delle sirene: l’occasione è unica.

Anche i più prudenti, persino quelli che non avevano mai

ordinato una nave nuova, giocando prudentemente le loro

carte sul mercato delle second hand, credono al miracolo

che si stava compiendo sotto i loro occhi mettendosi in scia

con quello spirito di emulazione che è facile criticare solo a

posteriori.

Come detto, facile valutare i pericoli di una spirale se non si

sta scivolando a grande velocità al suo interno. E l’acme di

questo processo (simile per altro in tutti i fenomeni di bolla) si

manifesta nella disponibilità delle banche italiane a finanziare la

loro quota anche nei pagamenti iniziali per acconti accettando

che la quota dell’armatore venga effettivamente versata

non al momento della stipula, bensì durante la costruzione

grazie a utili prospettici che si sarebbero realizzati durante la

costruzione della nave.

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Il top si aggiunge, quando il mercato continua a salire e alcune

compagnie greche si quotano sui mercati finanziari specie

quello americano nei fatti scaricando sul mercato stesso

gli effetti di una bolla che da lì a qualche tempo in avanti

sarebbe scoppiata. E non marginale nella gestione di questo

apparentamento shipping-finanza è il ruolo dei figli di armatori

con formazione finanziaria in università internazionali, specie

inglesi e americane, e mentalmente pronti ad applicare ciò

che hanno imparato in un mercato le cui caratteristiche di

instabilità e imprevedibilità congenite erano invece ben

presenti nei pensieri dei loro genitori.

I budgets sono influenzati costantemente da un andamento

record dei noli, che annichiliscono le previsioni più

ottimisticamente positive di crescita, consolidando

l’impressione di un mercato invincibile: e ancora una volta è

opportuno e utile richiamare l’esperienza vissuta sul campo

con la licenza di non citare né il nome della banca né quello

dell’armatore.

Siamo a metà degli anni Ottanta. Un armatore ordina alcune

navi, il prezzo di commessa per le nuove costruzioni è in lire

e chiede il finanziamento sempre in lire a un Istituto bancario

italiano: a garanzia esiste già un contratto di noleggio in

dollari di lungo periodo. Si predispone il budget previsionale

e il giudizio sull’operazione che è giudicata interessante,

anche se non self-sustained: i soli noli non sono sufficienti a

sostenere l’intero budget. La banca insiste perché si realizzino

condizioni di auto-sufficienza nel senso che ogni nave debba

da sola autosostenersi nel budget finanziario. Alla luce di ciò

e considerando che tutte le uscite o quasi sono in lire e che

l’unica soluzione possibile passa attraverso un incremento dei

ricavi, la formula vincente è quella di una graduale svalutazione

della lira di almeno il 20% rispetto alla valuta USA dopo tre anni

dall’ inizio del contratto di noleggio; ecco che il budget torna in

perfetta quadratura: la pratica viene approvata e tutto va liscio

30


SHIPPING E PANDEMIA

al punto che, dopo tre anni il direttore generale di quella banca

si complimenta dicendo che ero stato più bravo dei loro esperti

nel prevedere con esattezza la svalutazione della lira rispetto al

dollaro e interrogandomi su quale fosse la mia fonte segreta.

Questione di vision. La risposta, ci si rende conto oggi, è al

confine fra l’economia, la finanza e la filosofia. Il risultato è che

l’operazione mi frutta la fiducia incondizionata del direttore

della banca che chiederà di sfruttare la mia vision per altri

finanziamenti nello shipping. Potenza e aleatorietà dei budgets

previsionali.

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32


CAPITOLO 3

PERICOLO E OPPORTUNITÀ

33


Da un lato la Cina con la sua enorme capacità cantieristica e

con la disponibilità a offrire condizioni imperdibili; dall’altra

lo shipping internazionale che ha messo a punto alcune

formule vincenti, ma non eterne.

Per tentare di capire iniziamo dalla crisi e non dalla definizione

delle formule che appaiono vincenti. Poi riavvolgiamo la bobina.

Muovendo da una prima considerazione: la crisi dello shipping

come sempre accaduto nasce da una sovracapacità di stiva

che sfocia in una depressione dei noli. Non è necessariamente

utile cercare colpe o responsabilità: dagli anni Ottanta al 2008,

data da cui inizia un’inarrestabile crescita della disponibilità di

stiva, la globalizzazione ha spinto sull’acceleratore delle rotte

marittime alimentandosi anche attraverso l’adesione della

Cina al WTO, ma quando il tasso di crescita si è stabilizzato

su un andamento più lento e riflessivo, si è trasformato in un

cambiamento strutturale e permanente.

La parola crisi, scritta in cinese, è composta di due

caratteri. Uno rappresenta il pericolo e l’altro rappresenta

l’opportunità.

Lo affermava John Fitzgerald Kennedy.

La crisi del settore shipping precede quella della finanza nel

2008 (ed entrambe sono frutto dell’esplosione di una bolla

preesistente) e per mesi se non per anni nasconde sotto il

tappeto la sua gravità e anche la parziale inadeguatezza con

la quale viene affrontata da molti players anche istituzionali.

Sul ponte di comando ci sono le banche tedesche e il

governo tedesco. Il meccanismo delle KG, i fondi finanziati

da investitori privati invogliati da forme di vantaggio fiscale

e simpaticamente chiamate le “società dei dentisti”. La crisi

del mercato si riverbera sul valore degli investimenti e scatta

la tagliola per gli investitori e le banche. Tutto già scritto forse

anche se lo shipping tende a cristallizzare le formule che si

sono rivelate vincenti.

34


PERICOLO E OPPORTUNITÀ

In Germania al contrario di quanto accadrà in Italia, le crisi non

finiscono sulle prime pagine dei giornali: KG e non performing

loan, azzerano il capitale delle banche nate e cresciute proprio

per finanziare lo shipping e spesso controllate a maggioranza

dai Land.

Mentre in Italia grandi istituti viaggiano verso il default alla

luce del sole, la partecipazione dei Land (versione tedesca

delle Regioni a statuto autonomo) nel capitale delle piccole

banche di shipping consente alle banche nazionali tedesche

di assorbire le banche finanziatrici dello shipping con una

garanzia pubblica (quella dei Land) sui crediti in portafoglio

cioè detto più semplicemente con la possibilità di archiviare le

pratiche nei sottoscala evitando default pubblici.

Ma anche le garanzie dei Land hanno una scadenza e

proprio nel lasso di tempo fra un default che in un mercato

sano sarebbe risultato inevitabile e il subentro di un grande

Istituto garantito dalle amministrazioni regionali, si consumerà

il secondo fenomeno epocale nel rapporto fra shipping e

finanza: l’ingresso dei fondi di investimento. Le garanzie dei

Land avevano una scadenza e solo sino a quella data quelle

garanzie potevano essere fatte valere: ecco intervenire accordi

con i primi Fondi speculativi che acquisiscono a sconto il

credito (in genere anche 20/25% in meno rispetto al valore

effettivo del bene finanziato). Il ruolo di pontiere fra un valore

di flotte quantificato, a titolo di esempio, in 60 milioni e un

valore 100 del credito, che attraverso un’offerta al ribasso

di 40/45, ricolloca flotta sul mercato a scapito dell’armatore

finanziato, formalmente salva o attenua fortemente l’impatto

sul sistema creditizio.

Il processo di “smaltimento terapeutico” dei cosiddetti NPL in

Germania si concretizza in maniera ritardata, oltre che “assistita”

dalla garanzia dei Land, attraverso una formula “particolare”

35


che consente di tenere in bonis i crediti delle banche Tedesche,

esponendo queste ultime a minori rettifiche e, quindi, ad una

distorsione competitiva a loro vantaggio rispetto alle banche

di altri Paesi Comunitari. Lo stratagemma si basa sul concetto

del Long Term Value; il che significa che, mentre le banche

Italiane (o Comunitarie) valutavano il credito sulla base del

valore di mercato delle garanzie sottostanti (la nave), le banche

Tedesche, in accordo con la Vigilanza della Bundesbank (le

banche del Land all’epoca erano esentate dalla Vigilanza della

EBA-BCE), definiscono un criterio diverso basato sul suddetto

Long Term Value.

In pratica viene nominato un panel composto da brokers,

banche, società di audit, che definisce parametri (assumptions)

in base ai quali si costruiscono i cash-flow prospettici delle

singole navi che vengono scontati a un tasso determinato nelle

assumtions. In pratica: “dato il risultato, applicato in metodo”,

con questo stratagemma le banche tedesche per anni celano

la reale entità del “buco” sottovalutando gli NPL nello shipping

e dando luogo a minori accantonamenti.

Sia chiaro; il meccanismo di per sè è ineccepibile: l’ingresso dei

Fondi per acquisire crediti non performanti nasce proprio dal

fatto che la garanzia pubblica dei Land ha una durata limitata;

questa limitazione temporale rende quasi indispensabile, per

ottenere il rimborso garantito, cedere il credito a soggetti

finanziari a forte sconto entro una data prefissata.

Molti armatori italiani hanno contratto finanziamenti con

banche tedesche, banche specializzate rispetto alle quali le

banche italiane erano entrate in competizione sugli spread

e sulle condizioni dei finanziamenti pur di recuperare a ogni

costo quote di mercato.

Ed è proprio l’acquisizione da parte di Fondi stranieri di questi

crediti contratti con le banche tedesche il “cavallo di Troia” che

aguzza l’attenzione dei fondi per il mercato italiano.

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PERICOLO E OPPORTUNITÀ

In Paesi come l’Italia il sistema bancario o non è pronto a

reagire o è protetto a macchia di leopardo dallo Stato; non

esiste ancora una CDP che possa fungere da contraltare delle

principali banche tedesche E gli spazi vuoti in economia e in

finanza tendono naturalmente a riempirsi.

La catena del sistema tedesco prevede la seguente sequenza

genetica: KG -Banca specializzata nello Shipping-Land socio

e garante dei crediti- fusioni con Istituti nazionali- vendita a

sconto/saldi per incassare il differenziale dal garante.

Un’equazione che in teoria, ma anche in pratica, in Italia non

potrebbe funzionare; ma per i Fondi la scoperta di un mercato

ancora vergine non può non determinare un’attrazione

fomentata anche dalla scontistica, dalla facilità di liquidare

l’asset nave (in un mercato mondiale), alleati preziosi se la

grande liquidità in loro possesso non avesse fatto quadrare

queste operazioni.

I Fondi di investimento in effetti irrompono sul mercato

italiano senza trovare ostacoli sulla loro rotta chiudendo deal

con banche italiane costrette a liberarsi dei famosi crediti NPL

e fornendo una prospettiva futura a molti gruppi armatoriali. È

una scelta naturale, quasi senza alternative.

Ancora una volta dobbiamo sottolineare come sia facile a

posteriori affermare che l’armatore viene stretto tra la pressione

di questi Fondi e la scomparsa delle tradizionali banche

che in tutta fretta abbandonano il settore. La verità è che

l’impresa armatoriale si trova improvvisamente a non essere

più bancocentrica, e quindi affronta senza rete uno stand by

finanziario alla ricerca di strumenti adatti per creare un nuovo

ordine. Con il paradosso di scoprire solo a posteriori che una

risposta più rassicurante e flessibile sarebbe potuta arrivare per

tempo sino dalla fine degli anni 80, e per la precisione da quel

1987 che è data ufficiale di nascita dello SGA, lo strumento di

salvataggio del Banco di Napoli.

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Ma ancora una volta è facile esprimere giudizi a posteriori, anche

se fa specie che l’Italia, Paese che in molte occasioni ha saputo

individuare prima di altri formule vincenti anche nel rapporto

fra finanza e shipping, abbia sacrificato a personalismi e alla

scarsa compattezza del cluster la sua capacità di individuare

rotte nuove, lasciandone la primogenitura a Paesi come Grecia,

Olanda o Norvegia: nel Paese scandinavo è stata la stessa

associazione armatoriale a sponsorizzare la creazione di una

banca specializzata.

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CAPITOLO 4

E SE FOSSE STATO SGA?

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E se ci fosse stato un cavaliere bianco pronto a salvare?

Proviamo a costruire un quadro di ipotesi a posteriori allo

scopo di imparare dal passato.

È facile ragionare con il senno di poi e fare “gli splendidi”

applicando a fatti già avvenuti soluzioni non ancora pensate.

Possiamo certo interrogarci oggi ponendo quesiti relativi

all’acme della crisi dell’armamento italiano. Del tipo: e se ci

fosse stato lo SGA? Se fosse scesa in campo la Cassa Depositi e

Prestiti? Se qualcuno avesse capito?

E in alcuni Pesi la gravità della crisi è stata colta al suo primo

insorgere determinando l’intervento di forme di garanzia

pubblica, in grado di risolvere al tempo stesso i problemi delle

banche e di far ripartire gli armatori, come diremo più avanti.

A molti potrebbe apparire un esercizio sterile, una digressione

di valore puramente accademico, ma pensandoci bene, forse,

non è così. Proviamo quindi a delineare uno scenario diverso

partendo sempre dalla base di aziende che hanno investito nella

convinzione che il mercato fosse entrato in una fase espansiva di

una certa durata e che all’improvviso si sono trovati invece a far

fronte a un debito insostenibile e ingiustificato considerando i

valori calanti delle flotte e delle navi commissionate in modo,

che, sempre in ottica retrospettiva, appare talora incoerente

rispetto alle prospettive reali del mercato.

Prima considerazione ovvia: la presenza di un soggetto

pubblico o para-pubblico come SGA o CDP avrebbe consentito

di allungare i tempi di pagamento del debito e di preservare

quindi la sopravvivenza di gran parte della flotta. In altre parole,

il dilatamento dei tempi di pagamento attraverso la presenza

di un soggetto intermedio avrebbe consentito di sospenderlo,

raddoppiando il periodo rispetto al debito residuale.

Il caso SGA mai applicato allo shipping ha dimostrato che le

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E SE FOSSE STATO SGA?

parti in causa, dal soggetto bancario all’armatore, avrebbero

con un tale tipo di intervento, minimizzato le perdite che

invece poi sono stati costretti a subire. Sarebbe stata sufficiente

un po’ di attenzione e l’applicazione delle metodologie tipiche

della gestione di una crisi e il fattore tempo, attraverso una

possibilità di diluire i pagamenti, per generare un quadro

totalmente diverso, configurando in taluni casi operazioni winwin.

Ribadito il concetto che è facile vincere le scommesse

conoscendo già il risultato, l’interrogativo riguarda

ovviamente il ruolo che avrebbero potuto avere i Fondi. E

non si tratta di un esercizio sterile.

Un’operazione che per comodità si potrebbe chiamare SGA

style, rappresenta geneticamente il polo opposto rispetto al

comportamento e agli obiettivi standard dei Fondi. Si è fatto

un gran parlare di differenziazione fra Fondi speculativi e Fondi

conservativi. La verità è che alla resa dei conti i Fondi, specie

quando rischiano capitale effettivo e non carta, entrano sempre

e comunque in un’operazione per massimizzare il profitto a

favore dei loro investitori, i bondholders, comprimendo il più

possibile i tempi intercorrenti fra l’entrata e l’uscita dal campo.

È questa la loro ragione sociale per altro nota e mai mascherata.

Solo un intervento statale, sia pure temporaneo, avrebbe

fornito ai creditori uno scudo evitando di distruggere le flotte

e di annientare una quota consistente e storica dello shipping

italiano. Nessuna colpa dei Fondi, sia chiaro, che hanno

occupato spazi che erano in attesa di un player, ma certo

un’incapacità del sistema, a sua volta sottoposto a pressioni

precedenti, di guardare oltre l’orizzonte consueto.

In altre parole, queste considerazioni sarebbero inutili, se

si perdesse di vista la madre di tutte le battaglie: ovvero

il rapporto armatore-cantiere. Alcune grandi operazioni,

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oggetto anche di cessione da gruppi vicini al default ad altri

convinti di poter trasformare la crisi in opportunità di successo,

prevedono la concessione di credito superiore all’80% erogato

su ogni singola rata di pagamento fissata dal cantiere con

l’armatore. Con una formula standard di contratto che prevede

cinque rate, chiunque puó avviare una grande operazione per

la costruzione di navi versando solo il 20% del valore dell’intera

operazione.

Troppo facile per non innescare lo spirito di imitazione, che si

alimenta anche nell’orgoglio e in quello strano legame (unico

nel panorama industriale) che lega l’armatore alla “sua” nave.

Se poi per il pagamento della prima rata intervengono anche

altre forme di finanziamento che abbattono a un cip la quota

di equity, le premesse per il disastro sono scritte nella pietra.

Maestri, ma anche maestri a uscire dalle difficoltà, sono gli

armatori greci che non solo utilizzano a piene mani queste

formule, ma attraverso la quotazione in Borsa, negli Usa o

in Scandinavia, delle neo nate società abbattono il rischio,

ovviamente il loro, un po’ meno quello di altri soggetti coinvolti.

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CAPITOLO 5

DOTTOR SCHAUB C’È UN OTTIMO INVESTIMENTO

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Abbiamo iniziato questo percorso a ostacoli fra finanza,

shipping, crisi, overcapacity e ruolo della Cina ponendoci

reciprocamente domande, spesso conoscendone in

anticipo la risposta. Ora tentiamo di fare un passo

indietro ripercorrendo alcuni fenomeni chiave che hanno

condizionato in modo pressante l’evoluzione e poi circa il

70% degli investimenti del mercato marittimo mondiale.

Lo facciamo come se avessimo assistito di persona a questi

accadimenti… e forse in parte è stato proprio così.

È sufficiente una breve pausa fra un paziente e l’altro, una

rapida telefonata con il consulente finanziario...

L’operazione è talmente semplice che non richiede particolari

riflessioni: la tassazione sul reddito dei professionisti in

Germania è notevolmente progressiva, ma esistono alcuni

strumenti che consentono di abbattere il reddito e di rientrare

nelle fasce tassate ad aliquota inferiore.

KG che sta per Kommanditgesellschaft è l’equivalente della

nostra Società in accomandita, un soggetto che tassa il reddito

prodotto per trasparenza cioè il reddito viene imputato

direttamente ai soci, persone fisiche, che lo dichiarano

sommandolo a tutti gli altri redditi prodotti. Per le imprese

armatoriali tedesche (come quelle italiane) esiste la possibilità

di determinare il reddito in maniera analitica o sintetico

mediante l’opzione per la tonnage tax (quindi pagando un

reddito fisso predeterminato in funzione della stazza della

nave).

La differenza sostanziale fra il sistema tedesco e quello italiano

è l’entità dell’ammortamento del cespite nave nel sistema

analitico, l’ammortamento è sostanzialmente libero come

aliquota.

E in questo si sintetizzano i motivi del successo della KG nel

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DOTTOR SCHAUB C’È UN OTTIMO INVESTIMENTO

settore armatoriale: creo un gruppo di investitori che hanno

aliquote di imposta elevate in funzione del reddito prodotto,

questi diventano soci di una KG che investe negli asset nave,

inizio a scegliere il sistema di tassazione analitico bruciando

tutto l’ammortamento nave nell’arco di pochi anni.

In questi anni di perdite fiscali i soci della KG compensano le

perdite loro attribuite con gli altri redditi prodotti e certamente

ottengono un risparmio di imposta. Appena terminerà

l’ammortamento la KG opterà per il regime di tonnage tax e

il reddito diventerà forfettario e indipendente dall’ammontare

effettivo che sarà certamente maggiore.

Sistema legittimo e incentivante che consente di incanalare

investimenti sempre più consistenti nel settore.

Un sistema che fa guadagnare molto ai promotori dell’iniziativa

ed è win win per una platea molto diversificata di stakeholders.

Nel periodo d’oro circa il 70% degli investimenti in navi avviene

secondo questo schema.

Le banche tedesche specializzate nello shipping finanziano le

navi secondo schemi già prefissati, la KG noleggia a scafo nudo

la nave a un armatore conosciuto e affidabile e il gioco è fatto.

L’ armatore per parte sua può gestire e avere in armamento

un numero di navi di gran lunga superiore alle sue possibilità

finanziarie.

Ma forse a ben vedere la differenza è ancora più profonda:

l’attività armatoriale è per sua natura capital intensive e

necessita di forme finanziarie che non si possono esaurire nel

classico mutuo bancario. Specie se si vuole essere coerenti

con il riconoscimento allo shipping di un ruolo strategico per

l’economia dei singoli Stati.

E anche in questo caso la storia dovrebbe insegnare qualcosa.

In pieno ventennio fascista Galeazzo Ciano, fra il 1927 e il

1928, diede incarico a Alberto Beneduce (allora Presidente di

Crediop) di costituire un Ente ad hoc per il finanziamento delle

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imprese armatoriali e ciò diventò realtà nel 1929. L’Ente era

partecipato da banche, compagnie di assicurazione interessate

e la Cassa Depositi e Prestiti, quale maggior azionista. Nel

1940 le attività passarono all’Imi e a molti anni di distanza,

con l’assorbimento dell’Imi da parte di Banca Intesa questa

formula potenzialmente magica si dissolse, quando gli anni

a venire avrebbero dimostrato quanto un soggetto di questo

tipo sarebbe risultato di vitale importanza.

Che scena ti immagini?

Giusto. Mettiamola giù semplice, semplice, tornando in

Germania..

La telefonata del dottor Schaub con il suo consulente finanziario

Meyer non dura più di tre minuti. La firma del dottore è già

depositata in banca con l’autorizzazione a procedere e questa,

conclusa fra un trapano e una anestesia al molare inferiore

dell’arcata destra, è la quinta o la sesta delle operazioni di

investimento che il buon dottore ha realizzato, mettendo in

cassaforte un risparmio fiscale e un buon patrimonio.

Il metodo funziona per anni. Nascono quindi grandi

concentrazioni armatoriali nel settore delle bulkers, ma anche

e specialmente in quello delle navi portacontainer.

Strana cosa: in città come Amburgo o Brema spesso interi palazzi

(e lo scoprivi se avevi un appuntamento con un armatore) sono

equamente divisi fra gli uffici delle compagnie di navigazione e

gli studi dentistici. Un modo “incisivo”, si potrebbe affermare

ironicamente, per suggellare un patto, fra… fra l’ormeggio e

l’otturazione, fra il nolo e la carie.

Un fenomeno positivo, quindi?

Certo: lo sviluppo prepotente della flotta mondiale per

soddisfare una domanda in costante crescita non sarebbe

possibile senza strumenti finanziari e fiscali in grado di garantire

al capitale investito un ritorno e alle banche una garanzia più o

46


DOTTOR SCHAUB C’È UN OTTIMO INVESTIMENTO

meno reale sui crediti erogati.

Anche in Norvegia si fa largo un fenomeno del genere che

prende il nome di AS, con lo stesso meccanismo di vantaggio

fiscale.

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CAPITOLO 6

SE IL MECCANISMO SI INCEPPA?

49


Sembra tutto perfetto, se non un piccolo dettaglio: le

distorsioni del mercato (come negli anni a seguire la crisi di

Lehman Brothers avrebbe evidenziato in modo sin troppo

traumatico) tendono a provocare inevitabilmente altre

distorsioni, avvelenando il rapporto domanda-offerta,

alimentando le bolle e creando le premesse per una reazione

a catena dalle conseguenze imprevedibili.

È puramente casuale il riferimento alla scomparsa silenziosa di

tutte le banche dei Land tedeschi specializzate in finanziamenti

marittimi, ovvero una delle più gigantesche operazioni di

occultamento di junk bond e partecipazioni a valore zero,

attuata dalle banche primarie della Repubblica Federale

Tedesca; operazione che sfocerà nel collasso di gruppi storici

della marineria tedesca e che, attraverso l’overdose di nuove

costruzioni, causerà il tracollo nel mercato dei noli.

KG uguale demonio? Non credo proprio…

Certo che no. A ben vedere nella formula delle KG c’è ben poco

di nuovo: altro non è che una riproposizione in chiave moderna

e tax free dello schema dei caratisti, ovvero dei piccoli investitori

che acquistavano quote di navi (è sufficiente ricordare il

fenomeno iniziale di Monte di Procida) e contribuivano

alla creazione di piccole compagnie di navigazione. Il

vantaggio fiscale per redditi professionali tassati con aliquote

sempre crescenti abbinato a una tassazione forfettaria sul

tonnellaggio, ovvero una tonnage tax, per gli investimenti

nel settore armatoriale hanno fatto del meccanismo tedesco,

una poderosa macchina da guerra, che ha alimentato un

flusso costante di nuovi ordini ai cantieri, in un momento di

remunerazione più che soddisfacente dal mercato dei noli.

Ma di eterno nell’economia globale e ancor più nello shipping

non vi è nulla.

50


SE IL MECCANISMO SI INCEPPA?

Il tipico progetto KG fa perno su una società di scopo e di 5

parti contraenti. Gli investitori, come il dottor Schaub, variano

tra le 10 e le 800 persone fisiche, apportano tra il 30% ed il 40%

del capitale raccolto tramite gestori di fondi che contrattano

e gestiscono il prestito bancario, distribuiscono i dividendi e

riferiscono agli investitori.

La banca è di solito tedesca, e molto spesso ha una fortissima

connotazione settoriale, come HSH, NordLB, Commerzbank

(che incorporerà allo scoppio della crisi la Deutsche Schiffsbank

e la Dresdner Bank) o DVB. Ci sono poi il gestore e il gestore

tecnico della nave, che devono entrambi essere tedeschi

(quest’ultimo ha di solito solo una minima quota nella società).

Infine, il noleggiatore, che normalmente stipula un contratto

quinquennale.

Tutta la struttura si regge sulla tonnage tax che la Germania ha

introdotto dal 1999; tassa calcolata sulla stazza netta (NRT) e il

valore della nave, da corrispondersi a prescindere dal risultato

di bilancio.

Una formuletta semplice semplice che produce un risultato

boom specie nel settore delle navi portacontainer, e che

colloca la Germania in una posizione nel ranking mondiale

dello shipping che neppure la lega Hanseatica dei tempi d’oro

si era illusa di poter raggiungere.

Nel momento d’oro le KG attirano i capitali di 440.000

investitori privati che mettono risparmi e profitti professionali

in azioni o carati di ogni singola nave. Praticamente ogni

settimana è creata una nuova società di scopo che raccoglie

in pochi giorni gli investitori necessari. Il sistema è oliato, ma

il mercato per sua natura scivola via.

Nel 2007 gli investimenti totali in fondi armatoriali

raggiungono l’apice di 3,2 miliardi di euro. Il boom riguarda

prima le portacontainer, poi si allarga alle navi cisterna, alle

multipurpose e solo in grande ritardo paradossalmente proprio

51


sulla linea di confine fra il boom e la bolla, alle navi porta rinfuse

con armatori che scommettono in modo indiscriminato sulla

crescita del mercato cinese. Ma non è una never ending story.

La crisi finanziaria del 2008/2009, che impatta come uno

tsunami sul mercato dei noli, rompe il giocattolo.

Gruppi armatoriali storici portano i libri in tribunale, altri si

trasferiscono a Cipro, tentando di salvare il salvabile, ma per la

maggioranza il futuro equivale a un maelstrom, un vortice che

risucchia verso il fondo, navi, compagnie, banche e investitori.

Incluso il dottor Schaub.

I tempi d’oro degli investimenti in navi, di ordini tedeschi

ai cantieri specie cinesi che assommano a oltre il 26% del

portafoglio ordini mondiale, sono ormai definitivamente

scomparsi. In Germania gli investimenti nel capitale

d’armamento che avevano registrato una crescita record

a partire dal 1999, raggiungendo l’apogeo nel 2007, post

Lehman Brothers, nel 2012 sono sprofondati a 258 milioni di

euro (l’8% di cinque anni prima), di cui il 38% a sostegno di

fondi in difficoltà.

La Germania vive quindi la sua Weimar dello shipping?

Le banche tedesche, leader mondiali nello shipping, sono

sovraesposte verso l’armamento. Deutsche Schiffsbank, in

sintonia con il nome, è la maggiore finanziatrice di navi con un

portafoglio di 27,7 miliardi di dollari, seguita dalla norvegese

DNB con 25,7 miliardi e da HSH Nordbank con 25, mentre Bank

of China e China Exim, a titolo comparativo, occupano solo il

14° e 15° posto con ‘appena’ 11 miliardi.

Collaborare, dissimulare, nascondere l’entità della crisi. L’ordine

di servizio prevede una collaborazione con i Fondi soprattutto

a mezzo di “accordi di punto morto” (standstill agreement) con i

quali gli interessi sul prestito continuano a essere regolarmente

52


SE IL MECCANISMO SI INCEPPA?

pagati e i versamenti in conto capitale vengono effettuati in

base agli importi effettivamente guadagnati.

Le regole di Basilea 3 sono adattate e plasmate attraverso

soluzioni fantasiose, le “soluzioni garage”, per cui il gestore

originario viene mandato via, il naviglio viene “venduto” a una

nuova società e il nuovo proprietario/gestore ha la possibilità

di operare meglio le navi, dal punto di vista sia commerciale

che tecnico, supportato per di più da un pacchetto finanziario

completo. La vendita viene effettuata a un prezzo fuori

mercato, altamente inflazionato, che libera le banche da una

pesante svalutazione, mentre il credito risulta ‘performante’ in

bilancio e la perdita rimane “fuori bilancio”.

È un giochino pericoloso che, mentre il dottor Schaub attende

dal suo avvocato rassicurazioni che non arriveranno mai

sulla possibilità di recuperare un capitale scomparso, creerà

le premesse per un’altra tempesta perfetta trasformando

un’emergenza, che forse avrebbe richiesto interventi chirurgici

più radicali, in una malattia cronica.

E viene spontaneo chiedersi se questa formula fosse stata

applicata anche in Italia. Quali effetti avrebbe prodotto

modificando quelli che hanno dimostrato essere i loro

elementi di debolezza e i fattori che hanno indotto elementi di

debolezza sia nella struttura bancaria sia in quella armatoriale.

Ma alle KG, come è obbligatorio fare, dedichiamo un capitolo

a parte.

53


1

2

3 4


5

1- Convegno Confitarma - Norship - HSH Nord Bank per fondo di

investimento navale (5.11.2006); 2 - 3 - 4 - Delegazione Confitarma

in Cina - accordo con Shanghai Federation Industrial Econom

(21/23.01.2008); 5 - Incontro con delegazione giapponese - tavolo

di confronto sul rilancio della competitività (2006-01-31); 6 - Mare e

Finanza un matrimonio di interessi (10.05.2007)

6


56


CAPITOLO 7

UN CARATO DIFFICILE

57


In fondo in fondo, come già detto, le KG non sono altro che una

versione riveduta e corretta degli investimenti in carati. Quegli

investimenti che hanno sempre dello shipping una creatura

anomala, a cavallo fra industria e commercio, fra impresa e

famiglia.

Il carato è la quintessenza di questa anomalia e anche la madre

di tutte le contraddizioni. In Gran Bretagna i carati per legge e

per storia sono 64, in Italia sono 24. Rappresentano le quote di

proprietà in cui può essere frazionata l’intera proprietà della

nave.

Nei testi sacri dello shipping britannico le dissertazioni dotte

sulle origini di quella suddivisione in 64 quote, si sprecano.

Navigano dai Vichinghi all’Impero romano per approdare

all’Arca di Noè.

Il dato di fatto comune, quello che contraddistingue e connota

i carati, è comunque il concetto di proprietà condivisa e proprio

perché condivisa difficilmente alienabile pro quota.

Volendo essere malmostosi, si potrebbe affermare che già la

filosofia alla base della proprietà divisa in carati, profondamente

dissimile da quella che determina ad esempio i rapporti fra

condomini, rappresenti la pietra miliare di un’incompatibilità

che diventerà cronica fra shipping e normale finanza.

Il carato, dall’arabo qīrāt ‘è la ventiquattresima parte di un

denaro’; le origini del nome sarebbero greche: keration ‘carruba’,

è la pianta che fornisce il seme adoperato per pesare merci.

Carato è anche l’antico valore ponderale coniato come

moneta d’argento all’epoca di Costantino.

Poi diventa unità di misura del titolo dell’oro, equivalente alla

ventiquattresima parte di contenuto in oro puro. Quindi unità

di peso usata per le pietre preziose e le perle, equivalente a

58


UN CARATO DIFFICILE

quattro grani o a un quinto di grammo. Infine ognuna delle

24 quote in cui è divisa la proprietà di una nave mercantile,

secondo una tradizione internazionale, sino ad assumere nella

dizione più estesa le caratteristiche di sinonimo della quota di

proprietà di una società.

Per antica consuetudine ognuno dei 24 carati è, a sua volta,

frazionabile e indipendentemente dalla quota effettiva i

comproprietari sono detti caratisti.

Il carato navale è giuridicamente una creatura anomala

rispetto alla comune comproprietà: le deliberazioni relative

agli atti di utilizzazione, di innovazione e di disposizione della

nave richiedono maggioranze minori di quelle che occorrono

nella comunione ordinaria. Il singolo caratista ha, inoltre,

meno poteri del comune condomino: non può, in particolare,

chiedere lo scioglimento della comunione, salvo che non

sia dissenziente rispetto a deliberazioni per innovazioni o

riparazioni straordinarie (art. 260, comma 2o, c. nav.).

I caratisti possono, a maggioranza semplice, decidere la

trasformazione della comproprietà della nave, che è in quanto

tale comunione di solo godimento in società di armamento

assumendo così in proprio i rischi connessi alla diretta gestione:

pertanto i caratisti, anche se dissenzienti, devono assumere la

qualità di soci.

Solo i caratisti non dissenzienti rispondono verso i terzi delle

obbligazioni sociali; essi rispondono in proporzione ai rispettivi

carati e parziariamente. Tutti i caratisti nei rapporti interni

partecipano alle perdite in proporzione dei rispettivi carati; ma i

caratisti che non hanno consentito alla trasformazione possono

liberarsi dalla partecipazione alle perdite abbandonando la

loro quota di proprietà della nave.

I caratisti sono un po’ come i proprietari di una casa in

multiproprietà dove ciascun comproprietario investe la cosa

59


nella sua totalità e incontra un limite nell’uguale diritto degli

altri: la misura, però, in cui ciascuno è ammesso a godere

della cosa stessa è data dalla «quota», che indica altresì la

misura in cui ciascuno parteciperà alla divisione.

E non è un caso che per definire la norma sui carati e sui caratisti,

sia necessario richiamarsi a due Codici, talora collidenti fra

loro; da un lato, quello della navigazione negli articoli 258-263,

dall’altro quello Civile con le norme degli artt. 1100-1116 del

Codice civile, relativi alla comunione in generale.

Caratteristica fondamentale della comproprietà navale è

la limitazione a una singola nave: le stesse persone, cioè,

possono avere in comproprietà anche più navi, ma il regime

condominiale riguarderà sempre e soltanto le relazioni tra

dette persone e ogni singola nave. Tale suddivisione consente

un’immediata traduzione delle quote di proprietà in quote

numeriche e rende possibile un agevole riscontro delle

maggioranze e delle minoranze.

Le deliberazioni della maggioranza vincolano la minoranza «per

tutto quanto concerne l’interesse comune dei comproprietari»

e in tale formula vengono a essere compresi sia gli atti di

ordinaria che di straordinaria amministrazione. In particolare:

• per gli atti di ordinaria amministrazione: è sufficiente la

maggioranza di più di 12 carati (maggioranza semplice);

• per gli atti di straordinaria amministrazione (che importano

una spesa eccedente la metà del valore della nave) e per la

costituzione sull’intera nave di diritti reali diversi dalla proprietà

è necessaria la maggioranza qualificata di almeno l6 carati (art.

260); i dissenzienti possono chiedere, però, lo scioglimento

della comunione e gli altri caratisti possono evitare tale

scioglimento, solo offrendosi di acquistare a giusto prezzo le

quote dei dissenzienti medesimi;

• per l’ipoteca dell’intera nave: è necessaria pure la maggioranza

di 16 carati; si ricordi altresì, che ciascun comproprietario non

può ipotecare i suoi carati senza il consenso della maggioranza

60


UN CARATO DIFFICILE

(art. 263).

• per la vendita dell’intera nave: è richiesta l’unanimità dei

caratisti; tuttavia il Tribunale può autorizzare la vendita

della nave all’incanto su domanda di tanti proprietari che

rappresentino almeno la metà dei carati, dopo aver sentito

i dissenzienti; oppure - se ricorrano gravi e urgenti motivi

- l’autorizzazione può essere data anche su richiesta dei

comproprietari per almeno 1/4 dei carati, dopo aver sentito, in

contraddittorio i comproprietari dissenzienti (art. 264).

Questo breve capitolo sembrerà una digressione giuridica

fuori luogo in un testo non accademico. Ma è a nostro parere

utile per comprendere quanto complesso sia il rapporto fra

shipping e non shipping e in particolare fra finanza e shipping.

61


62


CAPITOLO 8

CINA, GUERRA E PACE

63


L’occasione è il varo della nave commissionata da un armatore

napoletano. Una delle tante di una serie che ha trasformato la

cittadella militare di Hudong, un’enclave richiusa su se stessa

dove vivono, a diretto contatto con lo scalo per il varo delle

navi, 40.000 persone fra tecnici, operai, famiglie, insegnanti

delle scuole presenti all’interno del cantiere. Anche se ormai la

produzione è convertita alle costruzioni mercantili con navi che

sembrano essere parti di un’ininterrotta catena di montaggio,

il compound resta comunque blindato, una “non trepassing

area” che conserva la sua originaria vocazione.

E con meticolosità militare tutto è organizzato nei minimi

dettagli, persino la presenza anomala di un prelato cattolico

che impartisce la benedizione alla nave, poco prima che gli

altoparlanti spargano nell’aria le note dell’Inno di Mameli.

Fuori della cittadella militare, Hudong è solo mercato: sete,

cashemire, stoffe. La prima visita da neofita si conclude con

una ricerca affannata di tessuti che presentino le altezze

preventivamente indicate dal sarto di Napoli; stoffe che

puntualmente dopo il ritorno a casa, un po’ per i rinvii del sarto

italiano i cui tempi tendono all’infinito, un po’ per quelli imposti

da chi il nuovo vestito dovrebbe indossare, le stoffe giacciono

per nove mesi in fondo all’armadio.

Nove mesi che sono esattamente il tempo che si rende

necessario per costruire la nave di cui in occasione del varo

avevo visto posare sullo scalo la prima ordinata. L’invito a quel

varo inevitabilmente, per analogia, riporta la mente proprio alle

stoffe giacenti presso il sarto amico a Napoli, che con una scusa

o un pretesto si è preso 9 mesi senza organizzare nemmeno la

prima prova del nuovo abito. I tempi di un nuovo viaggio in

Cina incombono: a Hudong due chiacchiere con il direttore

del cantiere che si offre di accompagnarti a comprare altre

stoffe e poi il consiglio decisivo: inutile comprare le stoffe, in 36

massimo 48 ore uno dei tanti sarti cinesi disponibili a qualsiasi

ora del giorno e della notte è in grado di riprodurre taglio, stile,

64


CINA, GUERRA E PACE

persino le asole del vestito made in Italy che indossi.

Una comprensibile diffidenza è il compagno di viaggio per

l’ingresso nella bottega del sarto: misure rapide, più al vestito

che indossi, che alle tue spalle o al tuo giro vita, la scelta della

stoffa e l’appuntamento dopo 8 ore per la prima prova, quindi

un arrivederci alla mattina successiva. L’abito è una riproduzione

perfetta di quello indossato e il costo di produzione, avvenuta

probabilmente nel corso della notte, è di 50 dollari.

Il ritorno a casa, a Napoli, questa volta ha un sapore diverso:

il racconto del miracolo sartoriale rimbalza nelle case di tutti

gli amici al punto che nel giro di poche settimane tutti sanno

che in Cina, vicino al cantiere, c’è un sarto che realizza in 48

ore vestiti da sartoria napoletana a 50 euro. Un metodo di

copiatura istantanea che funziona anche sugli abiti femminili

griffati. Ma guai a confessarlo alle amiche.

Un sistema perfetto che si riproduce alla perfezione in una

economia di mercato che non conosce il mercato.

I cinesi sono perfettamente consci che i primi anni saranno

finanziariamente disastrosi. Che l’esperienza fatta giorno dopo

giorno sulle spalle degli armatori si risolverà in navi non pagate,

o in altre non ritirate perché imperfette.

Ma è un rischio calcolato: come il sarto cinese ha copiato i

vestiti occidentali, alla stessa maniera i cantieri copiano le

navi, ma anche i processi organizzativi del cantiere, quelli che

consentono non tanto di abbassare i costi, ma di avvicinare i

livelli qualitativi della produzione dei cantieri occidentali.

Nello shipping mondiale questo giochino funziona? E quali

equilibri disintegra?

Come direbbe un conduttore di quiz televisivi, è una domanda

65


da un milione di dollari e comporta anche considerazioni di

tipo geo-politico.

Se sul fronte della domanda il ruolo giocato dalla Germania

e dalle sue KG è incontestabile, le strade che conducono la

Cina a diventare la prima potenza cantieristica mondiale e

ad alimentare in modo decisivo la bolla dello shipping sono

in parte imperscrutabili. Il mix fra motivazioni commerciali

egemoniche, sempre e comunque in odore di dumping, e

ambizioni di conquista geo-politica, per via militare, finanziaria

o di occupazione dei gangli vitali del commercio mondiale,

si mischiano e si ricompongono come in un caleidoscopio la

cui comprensione è limitata nello spazio e nel tempo a chi la

grande macchina cinese gestisce.

L’incrocio di interessi, storia, persino gestione delle comunità

locali è evidente e talora sconcertante nel settore cantieristico.

E ciò in un quadro magmatico, in continua evoluzione che

vede anche i cantieri militari, primi a entrare in scena, mutare

faccia e impostazione assomigliando sempre di più a strutture

cantieristiche di tipo occidentale.

Le differenti tipologie dei cantieri riflette un intrigo fra

interessi che nello schema della Repubblica popolare possono

convivere, mentre in qualsiasi Paese a economia di mercato

collasserebbero. I cantieri ex militari non sono neppure lontani

parenti dei consueti stabilimenti industriali; sono piazzeforti,

vere e proprie cittadelle fortificate. All’interno delle mura

vivono intere comunità chiuse, operai, tecnici, ingegneri con

le loro famiglie alle quali all’interno della cittadella è assicurato

tutto, dai generi di consumo, alle scuole per la formazione dei

bambini. La diversificazione dalle costruzioni militari a quelle

civili e mercantili equivale a un’apertura dei cancelli e quindi

a una ancorché parziale “liberalizzazione” di comunità isolate.

La seconda tipologia è invece prettamente industriale anche

66


CINA, GUERRA E PACE

se risponde a logiche di pianificazione di lungo periodo,

assistite da scelte dirigistiche e da finanza conseguente. In

questo caso non è il cantiere a porre sul mercato la sua capacità

produttiva esistente; è lo Stato attraverso le sue strutture

industriali a sollecitare una domanda globale e quindi un

ordine particolarmente esteso di navi tutte con le stesse

caratteristiche. Ciò riguarda in particolare il settore delle bulk

carrier. Venti o più navi commissionate a prezzi di liquidazione

resi possibili dal dumping sui costi, ma anche dalla ripetitività

del prodotto e rien ne va plus: il cantiere viene creato ex novo

su misura per quella particolare tipologia di nave.

A soffiare il vento nelle vele di queste operazioni è la grande

voglia delle banche europee, e in particolare italiane, di tornare

In gioco, di partecipare da protagonisti all’erogazione del

credito. Per gli armatori significa mettere in campo un’equity

minima beneficiando della disponibilità delle banche a

finanziare in anticipo le singole rate di pagamento del prezzo e

quindi puntando sull’utilizzo degli introiti futuri per completare

la quota di equity necessaria all’investimento.

Un sistema perfetto o quasi?

Il sistema è perfetto in quanto quasi speculare rispetto alle

KG tedesche: allo stesso modo e con le stesse modalità di

intervento sul mercato, attiva leve finanziarie che nel breve e

medio periodo alimentano la domanda, ne perdono il controllo

quando diventa una bolla e innescano quindi un meccanismo

autodistruttivo dei players che si trovano intrappolati nel

sistema. Ma esiste una fondamentale differenza: le KG,

in quanto strumento per altro efficientissimo di mercato,

rischiano di saltare in aria insieme con banche e investitori. I

cantieri cinesi no.

I cantieri navali cinesi non a caso nascono come cantieri militari

e appartengono originariamente tutti a enti pubblici. Un

67


raggruppamento del Nord fa riferimento all’ente denominato

CSIC ed è controllato da istituzioni territoriali mentre gli

stabilimenti del centro sud si compattano sotto le insegne

di CSSC (China State Shipbuilding Corporation) e dipendono

direttamente da Pechino.

Il primo cantiere che si apre ad armatori stranieri è Hudong

che già nel 1980/82 costruisce due navi da 25.000 dwt per

un armatore europeo. Nel novembre 1999 lo stesso Hudong

consegna la prima nave costruita per armatore italiano e

bandiera italiana: è la “Gianfranca d’Amato”.

Quello cantieristico è per la Cina uno sforzo analogo a

quello bellico; sono mobilitate enormi risorse finanziarie e

operative: oggi è costretta a confrontarsi con il mercato e a

diversificarsi su varie tipologie produttive inclusa quella dei

ferry e potenzialmente delle crociere; ma negli anni fra il 2007

e il 2010 la cantieristica cinese schianta ogni rivale, a partire

dalla Corea; sino al 2011 quando il crollo dei noli rimette tutto

in discussione…

La capacità produttiva cinese si era sviluppata di ben 13 volte

fra il 2002 e il 2012. E non è sorprendente se si considera che

l’attività cantieristica rappresentava uno dei fattori di forza

della Cina già nel 1500, le navi in legno made in China erano

conosciute per la loro robustezza.

Se l’era nuova per la cantieristica cinese è cominciata con il

Grande piano di Deng Xiaoping per la conversione dei cantieri

militari in stabilimenti per costruzioni mercantili e nella

trasformazione dei due mega gruppi in qualcosa di molto

simile alle Corporation quotate, di certo la decisione strategica

assunta nel 2002 cambia ogni visione prospettica:

“La Cina dovrà essere il Paese leader nelle costruzioni

navali”. Con oltre 275.000 addetti diretti e 125.000 operanti

68


CINA, GUERRA E PACE

in un indotto che sta progressivamente assicurando anche

l’indipendenza nella componentistica navale, la Cina

lancia una vera e propria Chineese way valida anche per

fronteggiare la crisi mondiale dello shipping”.

Pilastro portante di ogni Piano successivo saranno le misure

per sostenere a ogni costo la domanda, approfittando della

crisi per comprare competenze e annientare la concorrenza. Gli

strumenti finanziari e fiscali diventano essenziali e “drogano” il

mercato mondiale esattamente come le KG avevano in parte

fatto sul fronte della domanda.

Gli strumenti finanziari prevedono forme estreme di

detassazione per tutti cantieri che hanno effettuato

investimenti, il che equivale ad affermare il concetto di autodetassazione,

quindi sconti sui prezzi delle navi destinate

all’export, linee di credito preferenziali per le società di leasing

che ordinano navi per operatori nazionali o internazionali, con

un parallelo azzeramento delle tasse sui profitti conseguiti e

un utilizzo molto disinvolto dello Stock market.

Sui cantieri piovono fondi assicurati da Agenzie governative,

banche, programmi speciali di finanziamento delle industrie.

Mentre sono applicati dazi sulle navi di importazione (sino al

22% del loro valore), il governo centrale assicura contributi

attraverso vari istituti che finanziano anche formazione e

acquisizione di tecnologie all’estero.

Il sistema Cina nelle costruzioni navalI è un monolite e i suoi

ritmi si ripercuotono con un automatismo letale sui mercati

dei noli, sugli equilibri, o meglio, sugli squilibri fra domanda e

offerta di navi. I cantieri cinesi pompano aria in una gigantesca

bolla e quando la bolla scoppia a saltare sono tutti gli anelli

della catena produttiva capitalista, in primis le banche.

Non sono solo le navi costruite in serie a devastare qualsiasi

69


logica di mercato: fra una nave e l’altra commissionata da un

armatore occidentale viene inserita una nave made in China

per armatore cinese, ovvero per una compagnia di Stato. E

questa nave costa infinitamente meno di quelle già prodotte in

dumping per gli armatori occidentali. Il che significa che sulle

rotte di chi ha consegnato i suoi progetti in un cantiere cinese,

incrocerà negli anni a venire una nave gemella, che, priva

di costi di ammortamento e oneri finanziari, potrà giocare

ulteriormente al ribasso volando sulla cresta dell’onda.

70


CAPITOLO 9

IL MIRACOLO SGA

71


“Un banchiere è uno che vi presta l’ombrello quando c’è il

sole e lo rivuole indietro appena comincia a piovere”.

Questa frase di Mark Twain sarebbe doverosa come incipit

nella stesura del bilancio sociale di qualsiasi Istituto finanziario.

Diventa un obbligo affrontando il problema dei cosiddetti

crediti deteriorati, quelli che con una formula inglese vengono

più elegantemente definiti NPL, ovvero Non Performing Loans

oppure, in modo ancora più raffinato e volutamente criptico

NPE, ovvero Non Performing Exposures; in parole povere quei

prestiti che sono stati erogati spesso con eccessiva leggerezza

o fiducia, e che solo con molta difficoltà torneranno, forse, in

versione ridotta nella cassa della banca che li ha concessi, o

meglio, in quella della società che dalla banca li ha rilevati.

E se è vero che – come afferma un vecchio proverbio ebraico

- “una monetina falsa si scopre sempre quando si paga”, la

gestione degli NPL è diventata, in un mondo tanto globale

quanto esposto a cicli di crisi, una vera e propria professione.

Per l’Italia esiste anche una data di nascita: il 1996. Con la

Legge Amato-Carli viene avviato il primo massiccio processo

di ristrutturazione di una Banca italiana in difficoltà. Monte

dei Paschi, Carige, Banche del nord est, Banca Etruria, Banca

di Bari sono ancora in stato di grazia e di apparente buona

salute. Il Banco di Napoli, no. Nell’epicentro del terremoto che

trasformerà gli istituti di credito di diritto pubblico in Spa, la

Fondazione Banco di Napoli vede azzerate le sue azioni nel

capitale della Banca in virtù delle azioni di risanamento attuate

da una creatura del tutto nuova; si chiama SGA che sta per

Società Gestione Attività, quella che oggi verrebbe definita la

bad company alla quale il Banco di Napoli cede le sue attività

non remunerative: 36 posizioni per un ammontare totale di

12,4 miliardi di lire, sofferenze, crediti ristrutturati, insolvenze,

svalutati del 30% rispetto al loro valore nominale.

72


IL MIRACOLO SGA

SGA compra lo stock di crediti deteriorati grazie a un prestito

erogato dallo stesso Banco di Napoli (con un tasso tra il 7 e il

10%) che a sua volta è finanziato da Banca d’Italia, a un tasso

dell’1%. Successivamente, riceve anche le sofferenze e gli

incagli di Isveimer.

E non può non venire in mente una celebre frase spesso

utilizzata dall’armatore greco Aristotele Onassis:

“A un certo punto il denaro non ha significato. È il gioco che

conta”.

Tra il 1997 e il 2002, SGA segna perdite per 3,7 miliardi, 1,7

miliardi dei quali di interessi corrisposti a Banco di Napoli per

il finanziamento totalmente saldato in quei cinque anni, le

spese legali, i costi della struttura, ma soprattutto le ulteriori

svalutazioni operate sui crediti acquisiti.

Con l’acquisto di Banco di Napoli da parte di Sanpaolo IMI, SGA

confluisce anch’essa nel nuovo gruppo.

Ma SGA (che oggi è sempre presente sotto il nuovo nome

AMCO) compie il salto di qualità quando diventa il braccio

operativo del ministero del Tesoro con il compito istituzionale

di intervenire nei vari salvataggi che il Governo italiano, in

conformità alla disciplina europea, sta conducendo.

In altre parole SGA diventa la madre di tutte le bad companies;

serve per Mps così come per le Banche Venete; tutti i crediti

deteriorati, frutto di bad practices sulle quali va posata una

pietra tombale, finiscono dentro il forziere dei pagherò e degli

NPL di SGA che è autorizzata ad acquistare sul mercato “crediti,

partecipazioni e altre attività finanziarie”, trasformandosi in un

intermediario finanziario.

Mestiere che dimostra di saper fare recuperando quasi tutti

i crediti problematici presi in carico dal vecchio Banco (6,4

miliardi di euro rappresentati soprattutto da prestiti a imprese

73


meridionali) e realizzando una montagna di profitti. Il tutto

favorito anche dai ricchi ripianamenti effettuati dallo Stato nei

suoi primi anni di attività.

SGA non è più una bad bank. È un professionista dei crediti

inesigibili. Ma dato che salvo rare eccezioni le stamperie di

soldi non possono essere azionate con un semplice dito sul

pulsante e che qualcuno in queste complesse operazioni di

cessione di crediti inesigibili dalle banche resta comunque

con il cerino in mano rinunciando a gran parte di quanto

dovrebbe esigere da creditori verso i quali si è dimostrato

troppo compiacente e disponibile, SGA diventa anche una

gigantesca cassa di compensazione di salvataggio tardivo di

amministratori bancari non propriamente con qualche danno

collaterale a carico degli azionisti e talora dei correntisti delle

banche che attraverso la cessione a SGA sono state svuotate di

valore reale e di patrimonializzazione.

Quando era stata costituita (il 31 dicembre 1996), la durata

della SGA era stata prevista in cinque anni, durante i quali

avrebbe potuto recuperare un terzo o al massimo il 50% dei

crediti anomali, ma il risultato sul campo è di gran lunga più

soddisfacente al punto da spingere la Francia ad adottare un

modello anomalo con il crack del Credit Lyonnaise. Tutto vero, o

quasi: nei primi sei anni SGA ha perso 3,7 miliardi costringendo

Banca d’Italia a ripianare il suo bilancio.

SGA ha quindi funzionato e AMCO (nuovo nome di SGA) la

segue su una rotta vincente?

Una vecchia barzelletta un po’ spinta raccontava di due amici

al bar: il primo chiedeva al secondo: “ma, dimmi, com’è tua

moglie… nel talamo (versione raffinata)? La risposta dell’amico

sposato era: “C’è chi dice bene, c’è chi dice male”.

Forse quando si parla di strumenti finanziari emergenziali

74


IL MIRACOLO SGA

sarebbe il caso di usare lo stesso parametro: c’è chi dice

bene, c’è chi dice male. Di certo nella sua fase di collaudo

SGA ha sofferto di una serie di debolezze strutturali. Nata

per recuperare crediti deteriorati, e controllata in parte dal

Banco di Napoli e in parte dal Ministero del Tesoro, SGA ha

iniziato la sua attività districandosi fra alcune contraddizioni.

Formalmente incaricata di rilevare e gestire i crediti deteriorati

del Banco di Napoli, SGA sulla base di un contratto di servizio

ha affidato questa funzione allo stesso Banco di Napoli. In

compenso si è caricata di vecchie glorie, si direbbe giocatori

esperti, provenienti da varie banche o da uffici ministeriali e

arrivati a fine carriera.

Funzionari di altissimo livello e quindi qualitativamente giusti

per compiere le attività di recupero e sorveglianza sui crediti

rilevati da SGA; ma anche un po’ costosi per un nuovo soggetto

finanziario costretto a farsi ripianare più volte in fase di startup,

bilanci che non stavano in piedi.

Prima della crisi Lehman Brothers, i crediti ceduti dalla banca

a SGA stavano moderatamente in piedi perché dotati dei

cosiddetti collaterali, ovvero immobili spesso sopravvalutati a

garanzia.

Chiusa (fra ombre ma anche tante luci) la vicenda del Banco di

Napoli, SGA sarebbe stata in teoria destinata alla liquidazione.

Previa cessione della partecipazione di Intesa (diventata

proprietaria del Banco di Napoli) al Ministero del Tesoro, SGA

diventa invece uno strumento permanente di intervento nei

conti delle banche che hanno crediti problematici relativi a

operazioni baciate (clienti per acquisto titoli) o a liquidazioni

coatte amministrative.

SGA, che d’ora in avanti chiameremo AMCO, si fa carico degli

UTP, ovvero dei crediti Unlike to paid e si specalizza nell’acceso

al mercato degli NPL. UTP e NPL poco cambia: la banca ha

erogato con troppa disinvoltura crediti a soggetti che non

75


sarebbero stati in grado di ripagarli e, attraverso un prezzo a

forfait pagato da AMCO, tenta di salvare il salvabile.

Ma la svolta avviene proprio per gli NPL: il loro prezzo varia

sulla base dell’aspettativa di prezzo che si punta a ricavare

dalla loro gestione. E in questo si sintetizza la principale

differenza: strutture come AMCO (il cui acronimo sta per Asset

Management Company) non sono costrette ad accedere al

mercato dei capitali privati, come invece dovranno fare i Fondi

di investimento chiamati a retribuire alla svelta e con interessi

a due cifre i loro sottoscrittori. La remunerazione attesa per

AMCO è quella di un Btp e anche i tempi sono teoricamente

quelli di un titolo di Stato. E a tutti gli effetti AMCO si comporta

come lo Stato per il quale il fattore tempo diventa e diventerà

quella variabile che consente di far quadrare, prima o poi, e

quasi sempre, i conti.

Una considerazione da tenere a mente, perché proprio il

problema di flessibilità sui tempi di rientro si rivelerà essere

centrale per lo shipping.

Ma nella valutazione del ruolo di SGA e quindi AMCO vale

anche una seconda considerazione: tutti i parametri in

gioco cambiano se il costo del capitale è quello del capitale

pubblico. Un’eresia certo per chi è liberista sino alle estreme

conseguenze, ma anche uno strumento efficace per centrare

contemporaneamente una serie di obiettivi.

Le banche possono essere sollevate da crediti problematici a

prezzi decisamente più elevati rispetto a quelli che un mercato,

ancorché disposto a correre rischi più alti, potrebbe garantire.

I crediti vengono gestiti non in una logica esclusivamente

finanziaria, ma anche in un’ottica industriale che consenta

al soggetto finanziario e specialmente a quello operativo, il

debitore, di utilizzare il fattore tempo a beneficio di soluzioni

non traumatiche.

76


IL MIRACOLO SGA

Sul mercato si collocano, con un potere anche calmierante,

soggetti iper-specializzati e in grado quindi di cogliere

e comprendere le dinamiche di un settore particolare

dell’economia, quale è lo shipping, riuscendo in operazioni e

un dialogo improponibile per strutture bancarie generaliste e

per Fondi di investimento.

AMCO diventa in questo senso anche la chiave di lettura di una

presenza pubblica in settori strategici della vita economica del

Paese, quindi lo strumento nel quale teoricamente concentrare

tutti gli NPL, traguardando una ristrutturazione finanziaria

e un piano industriale all’interno dei quali potrebbe essere

previsto anche un ingresso indiretto dello Stato in settori

che svolgono attività strategiche. L’intervento dello Stato

dovrebbe essere in questo caso puramente finanziario, mentre

la gestione chiamata a soddisfare anche le aspettative di un

azionista pubblico, dovrebbe avere caratteristiche prettamente

industriali ed efficienti.

Dallo Stato finanza e regole, dal privato la capacita di gestione

con un impegno a rispettare le nuove regole di ingaggio.

77


78


CAPITOLO10

SGA-RRARE O NO?

79


E lo shipping? SGA è, secondo tutti i più fini palati del settore

o della finanza connessa, la boa attorno alla quale le barche

da regata virano secco di bordo. Nonostante il suo mercato

di riferimento sia complessivamente marginale rispetto

all’enorme massa degli NPL in circolazione, ovvero meno di 3

miliardi direttamente o indirettamente legati allo shipping, su

un totale di quasi 270 miliardi impegnati nei crediti non esigibili,

il mare si rivela per SGA un terreno fertile. Lo è in particolare

nel campo delle navi bulk e delle navi tanker esposte a una

svalutazione degli asset che provoca non pochi mal di pancia

sia alle compagnie di navigazione sia alle banche.

Molti considerano SGA alla stregua del cavallo di Troia che

avrebbe potuto aprire, in modo sostanzialmente differente

da quanto accaduto, le porte dello shipping ai Fondi di

investimento e quindi a una fase del tutto nuova nei rapporti

fra attività armatoriali e finanza.

Come afferma Clarksons, il valore della flotta italiana si

attesterebbe fra i 30 e i 35 miliardi, l’incidenza vale 34,5 miliardi

di dollari (contro 106,6 miliardi della Grecia per fare una

comparazione con il mercato principale) mentre sulla stazza

lorda all’Italia fa capo una capacità di stiva di 43 milioni di

tonnellate (contro 217,1 milioni della Grecia).

Gran parte delle cessioni di crediti deteriorati nel comparto

navale sono avvenute a pacchetti, i cui acquirenti sono stati

grandi fondi d’investimento più o meno specializzati?

Le cifre non sono definitive: tuttavia si è probabilmente nel

giusto se si afferma che Goldman Sachs, Deutsche Bank,

Pillarstone e Dea Capital hanno recitato inizialmente il ruolo di

protagonisti.

Lo schema è ripetitivo, come confermano le due principali

operazioni condotte in porto proprio da Pillarstone: acquisto

80


SGA-RRARE O NO?

attraverso KKR dei crediti bancari, quindi ingresso in forze nel

capitale di controllo della shipping company.

Oggetto di cessione è un intero portafoglio di crediti incagliati

per i quali le banche si sono rivelate più disposte e disponibili

anche ad accettare sconti sul valore nominale di tali crediti

in cambio dell’eliminazione dal bilancio di tutte o gran parte

delle posizioni non performanti nel settore dello shipping.

Rispetto ai Fondi, che giocano una partita tipicamente

finanziaria e che devono in poco tempo garantire una way

out ai loro sottoscrittori, possibilmente con gli interessi a due

cifre che hanno promesso, SGA/AMCO si pone una missione

totalmente differente. Anche se sulla sua attività incombono

i sospetti dell’Unione Europea (decisamente meno attenta

nel caso delle Banche dei Land tedeschi) per aiuti di Stato

mascherati, SGA/AMCO si cela dietro una serie di obblighi che

impone a chi beneficia del suo intervento: fra questi il divieto

di sfruttare rendite di posizione sino a quando il debito non è

completamente estinto, divieto che vale anche se la società

ristrutturata entra nell’area degli utili; ma anche il divieto

a distribuire dividendi così come l’obbligo a far vagliare

dall’azionista pubblico il piano di investimento.

Secondo i sostenitori di un mercato regolato, la presenza dello

Stato all’interno di società strategiche ha una sua logica se

valutata nella chiave dello sviluppo e della crescita dell’intero

sistema Paese. Ovviamente di parere diametralmente opposto

i liberisti che sostengono il primato del mercato e che

oggettivamente possono schierare come testimoni a favore

tutti i fallimenti della presenza pubblica in aziende private o

in settori, cosiddetti strategici, come per l’appunto quello dei

trasporti marittimi attraverso l’Iri, la sua controllata Finmare

e le compagnie operative nei settori dei containers e del

cabotaggio.

In linea teorica entrambe le parti hanno ragione e sempre in

linea teorica la presenza dello Stato e la sua stessa discesa in

81


campo sarebbe giustificata in un gioco delle parti in cui lo Stato

si impegna, e il settore per ottenere l’aiuto deve dimostrare di

sopravvivere in maniera più corretta rispetto il passato.

In questo caso lo Stato non dovrebbe gestire, bensì

accompagnare le imprese, secondo logiche di mercato.

L’interrogativo è relativo alla compatibilità fra una presenza di

Stato vigilante e imprese come quelle marittime che comunque

agiscono in un mercato fra i più liberi e deregolati, quello dei

trasporti marittimi.

È vero. Lo Stato, in contrapposizione con i Fondi, non è chiamato

a remunerare in modo tassativo nei tempi e nei modi i capitali

di chi investe in una società a corto di liquidità.

È forse proprio in questa contrapposizione fra uno Stato

(disposto a statalizzare in parte o comunque ad accompagnare

in modo meno traumatico un processo di risanamento) e un

Fondo, per sua caratteristica genetica obbligato a rendicontare

gli investimenti in tempi stretti e facendoli rendere il più

possibile, che si incentra il grande dibattito sul futuro dello

shipping.

82


CAPITOLO 11

FONDI O AFFONDI

83


Ma i Fondi di investimento nello shipping arrivano come

salvatori o affossatori?

La prima considerazione è banale ma non per questo non

importante: i Fondi di investimento sono una scelta obbligata.

Non a caso i primi a fare la loro comparsa nel settore delle

attività armatoriali, e non solo in quello, sono i Fondi creati

dalle stesse banche che si erano indebitate a dismisura con

investimenti fuori controllo nello sviluppo di flotte e compagnie

di navigazione che mai e poi mai avrebbero potuto garantire

un ritorno dell’investimento effettuato.

E non è un caso che la metamorfosi nel sistema di finanziamento

dello shipping maturi nel Paese, la Germania, che più e con più

disinvoltura ha convogliato investitori e capitali sulle onde del

mare. La madre di tutte le battaglie si combatte sui bilanci e

sui buchi di bilancio che si aprono nei conti di soggetti come

la Deutsch Schiffbank o la Dresdner Bank che hanno fatto

indigestione di hard debt, crediti che comunque resteranno

inesigibili.

Non è neppure un caso che la Germania, non così disponibile

a lavare in pubblico i suoi panni sporchi, metta in campo il

colosso Commerzbank e inventi la piattaforma Hanseatic, che

diventa per certi aspetti la mamma di tutti i Fondi facendosi

carico di tutto quello che non sarà ripagato… ma del quale è

meglio si sappia poco o niente.

E in Italia cosa accade?

Con ragionevole ritardo, accade qualcosa di simile. Mentre nel

mondo dello shipping si delineano anche ruoli proattivi di Fondi

come Kelso, Fortress, Blackrock che entrano in partecipazione

per accompagnare la quotazione in Borsa, acquisendo quote

e investendo quindi sulla componente equity, le maggiori

banche italiane, prime fra tutte Unicredit (oggi unico Istituto

84


FONDI O AFFONDI

italiano a figurare tra le prime 40 banche mondiali per

portafoglio di finanziamenti allo shipping, collocandosi al 32°

posto con un portafoglio di finanziamenti al settore stimato in

circa 2,5 miliardi di dollari) e Intesa San Paolo, che si trovano in

posizione analoga a quella di Commerzbank, non figliano una

piattaforma di primo impatto; si affidano al gruppo Pillarstone

e non solo per gestire gli NPL dello shipping, ma anche quelli

di altri e numerosi settori della vita economica del Paese entrati

in crisi di liquidità e di redditività.

Pillarstone, che ha tracciato il solco nel quale si inseriscono

poi soggetti come De Agostini o RBS, nello shipping, sotto

l’ala protettrice e talora incombente di KKR, acquisisce una

specializzazione spinta, in parte mutuando l’esperienza

tedesca di una Hanseatic arrivata a gestire una flotta di 1700

navi portacontainer in default. Pillarstone ha nel suo codice

genetico l’affiancamento dell’armatore, come accade nella

costruzione della piattaforma Premuda, pur traguardando

a risanamento avvenuto la way out più vantaggiosa spesso

frutto di una collocazione in Borsa.

Nettamente differenti sono le aspettative e i codici

comportamentali di altri Fondi che agiscono in chiave

esclusivamente speculativa, e che si trovano a gestire

l’imprevedibilità dei tempi che è tipica dello shipping, talora

non potendo contare sulle risorse professionali in grado di

affrontare un mercato così anomalo.

E ora?

Per tentare di comprendere e ipotizzare una rotta nuova è

indispensabile tornare al momento dello spartiacque, gli anni

2008 e 2009, fra ciò che le banche facevano e ciò che le banche

non sono più in condizione di fare. Solo così il ruolo dei Fondi

può essere compreso e specialmente selezionato, al di fuori di

una generalizzazione e talora anche di demonizzazioni assurde

che non consentono di capire.

85


Tanti mestieri che si svolgevano al di là degli sportelli bancari

sono diventati oggetti di specializzazione per i differenti Fondi

che sono approdati nello shipping, così come in altri comparti

della vita economica, attirati dalla gestione speculativa degli

NPL, ma che negli anni hanno diversificato non solo le modalità

di intervento ma la stessa loro ragione sociale. Dagli Npl alla

piattaforme di sconto fatture il passo è stato breve e accelerato

dalla crisi Lehman Brothers, ma negli anni la diversificazione

si è accentuata. Alla presenza di Fondi di tipo hedge, entrati

anche sul mare con la logica speculativa dell’usa e getta, si

sono sostituiti Fondi con visione più industriale che finanziaria.

Sono emersi ad esempio i Club deal o Fondi piccoli disposti

ad affiancare la gestione, attendendo risultati e tempi. Ciò

in un’ottica sostanzialmente diversa da quella che tende a

privilegiare liquidità e liquidabilità rapida.

Nei fatti il cammino dei Fondi in Italia si sta rivelando irto di

difficoltà, che non riguardano solo lo shipping ma la struttura

economica del Paese nel suo complesso. Basti ricordare che i

grandi Fondi internazionali prediligono grandi operazioni e in

Italia le aziende che si collocano sopra la fascia del miliardo si

contano sulla punta delle dita.

Ciò vale a maggior ragione per il settore shipping, dove

soggetti come Blue Ocean non trovano certo terreno fertile

per grandi investimenti, in un sistema Paese che chiede soldi

in prevalenza quando è già con l’acqua alla gola e non quando

esiste l’opportunità di investire per crescere. Il tutto con un

aggravante non marginale: una governance familiare che

malissimo si concilia con ritmi, metodologie e aspettative dei

grandi soggetti finanziari.

86


CAPITOLO 12

CAMBIARE… REGISTRO

87


Cambiare registro. Si fa presto a dire…

Per comprendere dove ci troviamo e collocare i rapporti fra

shipping e finanza in uno scenario corretto, è indispensabile

compiere un passo indietro di circa 22 anni.

In grande anticipo anche rispetto alle esperienze offshore

della finanza internazionale lo shipping europeo è costretto

a rispondere ai colpi che subisce giorno dopo giorno dalle

cosiddette flag of convenience, le bandiere ombra.

Con queste bandiere non c’è storia; la competizione è distorta,

scorretta, basata su equipaggi sotto pagati, su navi non dotate

dei requisiti di sicurezza, su tasse non pagate.

Per competere con queste bandiere si fanno largo tre approcci

diversi di strategia economica: il primo è pura protezione,

con gli Stati Uniti che si stringono attorno al loro Jones Act

del 1920: ma in tempi brevi si trovano a sperimentare che

l’autarchia marittima non funziona e che la flotta di bandiera

americana non risulta competitiva, causa costi di gestione

elevatissimi; le stesse imprese Usa preferiscono utilizzare altre

bandiere al punto che persino i carichi governativi e militari

vengono affidati a bandiere più convenienti.

La seconda via è quella giapponese: usate qualsiasi bandiera vi

venga comoda – è l’indicazione di Tokyo - a patto che i bilanci

consolidati delle aziende armatoriali si redigano e si consegnino

sotto la bandiera del Sol levante, pagando in Giappone tutte

le tasse che si devono pagare. Deregolamentazione, quindi,

su navi, condizioni di sicurezza, equipaggi e salari, ma non sul

fisco.

La terza soluzione è quella europea che si rivelerà lungimirante

e vincente perché muove dalla constatazione che qualsiasi

barriera avrebbe inciso negativamente sull’interscambio e in

particolare sulle esportazioni europee realizzando una sorta di

88


CAMBIARE... REGISTRO

Mose destinato a soffocare la laguna del commercio comunitario

per cui bisognava battere la concorrenza delle bandiere di

comodo riducendo tutti gli oneri e tasse che potevano pesare

sulla bandiera comunitaria. In sostanza la scelta comunitaria

fu di procedere con grande concretezza verso quella che in

materia contributiva e fiscale poteva essere una vera e propria

“Opzione-zero”: i singoli paesi comunitari erano autorizzati a

ridurre sino a zero le tasse e gli oneri previdenziali gravanti sul

personale imbarcato e ridurre altresì in maniera consistente le

tasse prodotte dal reddito proveniente dall’ utilizzo delle navi

comunitarie.

E su questa scelta ogni paese comunitario può approvare

queste agevolazioni in maniera tale che si possa consentire agli

armatori europei di combattere ad armi pari con le bandiere

ombra, garantendo però condizioni di sicurezza e di equità

sociale per i marittimi ben differenti.

La scelta europea è concreta. All’interno di un quadro di

defiscalizzazione, ognuno è libero di adattarsi al mercato e

di combattere la sua personale battaglia a chi dell’off-shore,

della protezione dietro all’anonimato ha fatto uno strumento

di distorsione del mercato. L’attenzione dell’Europa è rivolta

all’attività armatoriale come strumento per sviluppare il lavoro

a terra, considerando che ogni marittimo imbarcato innesca

un effetto moltiplicatore occupazionale a terra per il cluster

marittimo. E non è un caso che le linee guida europee, quelle

alla base della politica di settore, obblighino gli armatori a

formare allievi (e in Italia nasce l’Accademia mercantile di

Genova) per garantire continuità in attività che in Europa

rischiano di entrare in una spirale di estinzione.

Per uno strano paradosso della storia in questo precorrerà

i tempi del mercato finanziario: in molti aspetti, la scelta

dello shipping anticiperà di molti anni quelle che saranno le

opzioni adottate dal mondo finanziario e che registreranno

un’accelerazione solo dietro la spinta, talora anche strumentale,

89


della lotta al terrorismo e quindi ai capitali utilizzati nel mondo

per finanziare la destabilizzazione. Il PO Box dietro alle quali si

sono nascoste per decenni le società che non pagano tasse, per

lo shipping è diventato in anticipo il primo bersaglio contro il

quale lanciare l’arma vincente dei Registri Internazionali.

La scelta è per quegli anni lungimirante: liberare lo strumento,

ovvero la nave, per renderlo competitivo e per ridare

concorrenzialità assoluta alle bandiere europee.

Anche se è il caso di ribadire e sottolineare che l’armatore

è agevolato per i soli redditi provenienti dalle navi iscritte

nel Registro Internazionale, mentre non vengono concessi

benefici sulla distribuzione degli utili o sui redditi provenienti

da investimenti fatti in settori differenti dalla stessa società

armatoriale.

Per comprendere quanto questa scelta compiuta dall’Unione

europea abbia impattato sul mondo marittimo, ma anche

quanto non definitive potessero essere le sue conseguenze è

sufficiente rifarsi a una recentissima ricerca dell’International

Transport Forum che pone quelle decisioni in relazione anche

alle conseguenze della pandemia Covid19. Difronte all’impatto

negativo crescente sui traghetti, le crociere e anche il traffico

merci, almeno 13 paesi – segnala ITF - hanno implementato

il sostegno statale per il settore marittimo, in alcuni casi

compensando gli operatori per la perdita di entrate dovute

al fermo delle navi, ad esempio a causa della chiusura delle

frontiere, o, per la maggior parte attraverso la messa in opera

di pacchetti di supporto in grado di fornire liquidità sotto

forma di garanzie sui prestiti e “liquidità gratuita” da parte delle

banche statali. Gli aiuti di Stato al settore marittimo durante

la pandemia Covid-19 hanno mitigano gli impatti economici

negativi della crisi sul settore marittimo.

Un’altra pausa o una parentesi che non si chiude mai: di cosa

90


CAMBIARE... REGISTRO

ha davvero bisogno lo shipping per sopravvivere e svolgere

la sua funzione vitale al servizio dell’economia mondiale e

dell’interscambio internazionale?

Solo tentando di rispondere a questa domanda, è possibile

ricondurre a un comune denominatore interrogativi, quesiti

e anche fattori considerati correttamente centrali per uno

sviluppo coerente di questo mercato. Detto che tutt’oggi

allo shipping mondiale è mancato un riconoscimento del

ruolo al punto da essere integrato solo in alcuni settori (ad

esempio quello dei minerali di ferro o dei prodotti siderurgici,

o nei flussi di auto nuove) nelle dinamiche delle industrie

produttive, è forse opportuno elencare alcuni totem dello

shipping internazionale (dalle flag of convenience agli

equipaggi low cost, dal manning terziarizzato ai Registri

Internazionali marittimi) per comprendere quanto sia alto il

livello di compatibilità fra l’uno e l’altro e cercare di trovare

fattori comuni determinanti anche per analizzare e prevedere

l’evoluzione del dibattito sul futuro della flotta mondiale.

Alla base di gran parte delle innovazioni normative introdotte

nello shipping mondiale albergano denominatori comuni, che

si chiamano vantaggi fiscali e contributivi, abbattimento della

burocrazia e quindi condizioni più agili e di pronta reazione

nella gestione delle flotte; sfruttamento dei vantaggi della

globalizzazione anche attraverso utilizzo misto di equipaggi

con costi di gestione più bassi; terziarizzazione di funzioni per

consentire alle shipping companies di poter contare su costi

certi.

Tutti strumenti, quelli sommariamente sintetizzati, che hanno

prestato il fianco a dibattiti interminabili relativi alla loro

applicabilità e alla coerenza con ordinamenti nazionali, o –

come nel caso dei Registri Internazionali marittimi – continentali

europei e di un mercato solo apparentemente armonico, ma

concretamente condizionato da troppe distorsioni.

91


Ed è in questo scenario che si colloca il tentativo dell’Unione

europea di rilanciare una sua politica marittima, pur vivendo

un momento di debolezza economica e politica forse senza

precedenti. Ed è lo scenario in cui anche l’Italia impegnatasi

con Bruxelles a ottemperare alle nuove linee guida di politica

marittima, si trova a confrontarsi, da un lato, con la necessità

di ridare ossigeno e vitalità al suo Registro Internazionale,

modificandolo; dall’altro, a inventare nuove formule di

rapporto fra shipping e finanza.

Ancora una volta diventa indispensabile compiere un salto

indietro. Il caso del Registro Internazionale marittimo italiano

sembra essere emblematico. La motivazione della sua nascita

nel 1998, pur fra le complessità normative, è apparentemente

semplice. Arrestare la fuga di armatori e compagnie di

navigazione italiane verso bandiere di convenienza,

garantendo a questi armatori condizioni fiscali e normative di

grande vantaggio, competitive rispetto a quelle delle bandiere

ombra, mantenendo le loro navi sotto bandiera italiana e, a

breve, comunitaria.

Obiettivo “filosofico”: disporre di flotte che garantiscano alti

livelli di sicurezza, che possano essere sottoposte a controlli

puntuali da parte dello Stato di bandiera, ma che siano in grado

di competere per costi di gestione e per condizioni fiscali alle

flotte immatricolate in Paesi tradizionalmente ospitali per le

bandiere di convenienza.

Come spesso accade nello shipping, specie quando a essere

messe in discussione sono norme in grado di spostare

l’ago della competitività e agire direttamente sui livelli di

concorrenzialità, anche sul Registro Internazionale si innesca

un dibattito, inevitabile, sull’opportunità di mantenerne

immutata e invariabile la configurazione iniziale.

Il Registro Internazionale ha l’indubbio merito di frenare e

arginare l’esodo in massa dello shipping nazionale verso altre

92


CAMBIARE... REGISTRO

bandiere, anche europee, in grado di proporre e implementare

condizioni fiscali, previdenziali e normative di favore, ma

con gli anni mostra alcuni limiti insiti nel rapporto con una

pubblica amministrazione molto burocratizzata; sulla mancata

sburocratizzazione di tutte le regole (spesso antiquate e

superate); quelle regole che, una volta riviste e corrette,

avrebbero potuto consentire alla bandiera italiana di essere

competitiva con tutte le altre comunitarie, si stemperano, si

erodono a causa di prassi burocratiche che hanno un costo

eccessivo e non utile a nessuno, subendo anche i colpi di

un’impostazione ideologica tutt’oggi contrappositiva rispetto

alle reali liberalizzazioni.

In altre parole si ripropone ancora una volta il problema di fondo

che tormenta l’industria del mare: le soluzioni di ieri hanno

una scadenza e anche gli strumenti più efficaci richiedono

comunque una costante revisione nei contenuti e nelle

funzioni. O come direbbero gli esperti di una… manutenzione

programmata.

È il caso di ricordare come inizialmente la competenza su questi

Registri fosse incardinata saldamente nella D.G. Trasporti della

Ue per poi passare sotto la lente della D.G. Competition che

punta l’attenzione sulle verifiche costanti relative a possibili

forme di concorrenza sleale fra settori e quindi a una sempre

maggiore uniformità delle normative implementate dai vari

Stati. E come i vari Registri internazionali messi a punto in

Europa siano figli dell’idea iniziale di un Registro europeo,

Euros. Ciò servirebbe a comprendere meglio l’evoluzione

anche dell’idea di base del Registro Internazionale che sta

viaggiando da un’agevolazione oggettiva (la nave iscritta al

Registro) a un’agevolazione soggettiva (impresa europea che

usa naviglio di bandiera europea in maggioranza).

Cambiare Registro?

93


È venuto quindi il momento di citare la celebre frase del chimico

Antoine-Laurent Lavoisier: “Nulla si crea, nulla si distrugge,

tutto si trasforma”.

E alla luce di questa frase anche i giudizi su quello che

di buono è stato fatto, ma specialmente su quello che di

meglio si sarebbe potuto fare alla luce di quello che allora

non si conosceva, risulterebbero fortemente ridimensionati.

Neppure oggi è facile concordare sul fatto che lo shipping

moderno debba reggersi su almeno quattro gambe, fiscalità

di vantaggio, finanza innovativa, innovazione tecnologica e

alleanze strutturali fra mare e terra, ovvero fra industria del

trasporto marittimo e produzione/distribuzione.

Quando l’Italia accettò e lanciò a sua volta la sfida,

particolarmente complessa in un Paese fiscalmente manicheo

come è, di una fiscalità di vantaggio per una categoria

imprenditoriale, si trattò di una sorta di miracolo.

Pochi ricorderanno che una delegazione dell’Associazione

armatori giapponesi e del Ministero dei Trasporti sbarcò in

Italia per una visita ufficiale in Confitarma al fine di studiare nel

dettaglio l’istituto del Registro Internazionale italiano da loro

definito fra i migliori fra quelli costituiti in Europa.

Un Registro che conteneva una formula magica: aveva infatti

alla base una scelta precisa, quella di studiare tutti gli altri

registri e, arrivando buoni ultimi in Europa, ciò che aveva

avuto successo e funzionato bene dalle cause di inefficienza,

conservando quindi solo la parte positiva già sperimentata

sul campo e armonizzando tutte le cose positive , testate e

autorizzate a livello comunitario , così da sfociare in un istituto

il più moderno e il più utile possibile per lo sviluppo del settore.

La ricetta della nonna è per sua ratio la più semplice e la più

buona, perché usa ingredienti sani e spesso è tramandata da

esperienze altrui. Così è per il Registro Internazionale marittimo

in Italia. Al ministero delle Finanze c’è Vincenzo Visco, che per il

suo approccio rigido è soprannominato Ezio Fisco.

94


CAMBIARE... REGISTRO

Sull’idea del Registro Internazionale marittimo in connessione

con il rischio di scomparsa della flotta italiana (e quindi delle

entrate fiscali che ne derivano) il Ministro è pienamente

convinto che si si tratti di molto di più che una semplice

opzione, e proprio per questo conferisce una delega ampia a

Vieri Ceriani, il capo servizio della fiscalità della Banca d’Italia,

incaricato di confrontarsi con Confitarma per trovare la

quadratura del cerchio.

Il puzzle del Registro Internazionale marittimo si compone

miracolosamente con il contributo degli operatori del settore

e, come sempre accade, un po’ di fantasia nell’adattamento dei

vari istituti alle indicazioni comunitarie.

In questo sistema costruito con un’eccezionale capacità di

galleggiamento, la flotta italiana naviga con il vento in poppa,

proprio per questo successo la delegazione giapponese venne

in visita in Italia con lo scopo di comprendere le sottigliezze

normative che avevano consentito alla flotta tricolore di

registrare nel 2008 un boom senza precedenti.

I vantaggi nel breve e nel medio periodo surclassano di gran

lunga gli svantaggi e alimentano un sentimento diffuso di

invincibilità che provoca una sottovalutazione cronica: la

finanza.

Una formula magica?

Certo. Ma la normativa del Registro Internazionale per

lungo tempo – come detto - non è stata sottoposta a un

tagliando, una verifica, non è stata manutenzionata mentre

si concretizzavano cambiamenti importanti nel quadro di

riferimento internazionale e italiano; inoltre quelle rigidità

burocratiche e la difesa di posizioni di potere nell’apparato

che miracolosamente, ma proprio miracolosamente, si erano

allentate nel momento della approvazione del Registro

95


Internazionale si sono richiuse a riccio non appena sono state

proposte procedure semplificative e sburocratizzanti.

E allora quale è la rotta da seguire?

Oggi più che mai l’industria marittima internazionale e in

particolare quella italiana sono chiamate a seguire il vento, il

che significa adattare le norme alle necessità più importanti,

se il caso anche superando il taboo della bandiera nazionale.

Ciò significa anche superare le tradizionali e schematiche

divisioni fra compagnie armatrici, noleggiatori time charter

e compagnie di ship-management puntando quindi più al

risultato finale che alla norma statica.

In questo schema di lavoro, in cui gli obiettivi determinano

la norma, e non il contrario, esistono spazi per migliorare

le performances competitive, non solo attraverso fiscalità e

normative di vantaggio, ma anche attraverso terziarizzazioni e

concentrazioni di servizi in soggetti in grado di evitare inutili

duplicazioni degli stessi all’interno e fra le differenti compagnie

di navigazione.

Il Registro Internazionale ha bisogno con un supporto coeso

del mondo armatoriale di una revisione strutturale che lo

renda nuovamente efficace come lo era stato all’inizio.

Una nuova alba quindi?

Non ancora un alba, forse, ma un’aurora destinata a illuminare la

rotta sia dei grandi gruppi armatoriali, sia delle piccole e medie

compagnie di navigazione condannate a trovare in tempi

brevi chiavi di lettura del mercato e della gestione totalmente

differenti dal passato, pena la loro uscita definitiva dallo stesso;

ma anche a edificare nella pubblica amministrazione le basi

dialettiche e culturali per approcciare in modo differente e

più proattivo il fattore competitività, calcolando anche gli

96


CAMBIARE... REGISTRO

effetti premiali per il mercato del lavoro e per i territori in un

momento di pesante crisi economica, come è l’attuale, che

richiede menti aperte e volontà del fare.

È indispensabile essere consapevoli che qualsiasi intervento

per il ringiovanimento del Registro Internazionale risulterà

vano senza l’approvazione di un pacchetto sburocratizzazione

senza la cui applicazione immediata una fuga verso altre

bandiere comunitarie sarà inevitabile.

La bolla di settore ha ridotto notevolmente il numero delle

navi di bandiera italiana, qualche armatore ha cessato o si è

fortemente ridimensionato nell’occupazione a terra. Molte

figure professionali esperte sono rimaste senza lavoro. La

comunità da tempo mette sullo stesso piano quali soggetti

indispensabili allo sviluppo del settore gli armatori e le società

che prestano i servizi del management tecnico e commerciale.

A queste società è concedibile la stessa agevolazione fiscale

dell’armatore per la tassazione del reddito (tonnage tax) .

Tale politica in pratica significa che le norme e i regolamenti

attuativi debbono essere chiari e precisi e non come spesso è

accaduto che si sono date interpretazioni alle norme tendenti

a perdere i benefici fiscali concessi.

Quella sul Registro Internazionale è una legge sottoposta al

continuo monitoraggio della UE e ogni dieci anni è obbligatorio

notificare a Bruxelles la norma in vigore e i risultati raggiunti

con questa norma speciale”. L’Italia nel 2014 (al compimento

del decennio partito nel 2004) non ha notificato la normativa in

vigore, ha già avuto un richiamo e si è impegnata ad adeguarla

alle indicazioni comunitarie entro 7 mesi da giugno 2020.

Il principale adeguamento dovrebbe vertere sull’obbligo di

estendere tutti i benefici attualmente applicabili alla bandiera

italiana, sia quelli fiscali che previdenziali, anche a tutte le

97


bandiere comunitarie. Un diktat particolarmente significativo

considerando gli oneri burocratici che gravano sulla bandiera

italiana e che si contabilizzano nell’ ordine dei 100.000 dollari

all’anno per una nave tipo Panamax.

98


CAPITOLO 13

ROTTA VERSO UN FUTURO DIVERSO

99


Coccolata da questa normativa la flotta ha reimparato a

navigare, ma, con il vento fiscale e contributivo in poppa, non si

è accorta o ha sottovalutato la progressiva desertificazione del

credito, della finanza: l’Imi che era stata per decenni la naturale

controparte di chi cercava credito navale, si è rinsecchita

sino a sparire. E questa scomparsa è stata sottovalutata da

molti, mentre in altri Paesi europei lo sviluppo del Registro

Internazionale è stata accompagnato dalla crescita parallela

di soggetti finanziari in grado di sostenere l’espansione, e un

domani, la crisi del settore.

Un caso per tutti, il ruolo svolto dalla svizzera Viking, che

ha radunato capitali di altri istituti bancari, li ha posti a

disposizione di super-specialisti che non solo erano in grado

di valutare correttamente le richieste di credito in arrivo dal

settore, ma si erano trasformati addirittura in advisor, capaci di

predeterminare la correttezza di prezzi e condizioni contrattuali

diventando veri e propri alleati degli armatori. In alcuni settori

come quello delle navi tankers si sono affermati in queste

banche ad alta specializzazione team di super-esperti in grado

di valutare e quasi condizionare le scelte di investimento.

Il Registro Internazionale ha certo meriti immensi, da quello di

aver scovato e applicato i margini di un vantaggio competitivo

a quello di aver insegnato molto anche all’armamento italiano.

Molto, ma non tutto.

Non abbiamo la presunzione di concludere questa traversata

con un’autocelebrazione immeritata, ma solo con alcuni timidi

suggerimenti. La recente pandemia ha spinto nazioni e popoli,

sospinti e influenzati anche dai deliri quotidiani di virologi che

non avevano mai visto un virus, a copiare male le terapie di

secoli prima, ovvero chiudere la gente in casa aspettando che

il virus si stancasse di uccidere. Un’operazione di copiatura

fatta anche male visto che almeno durante le pestilenze

100


ROTTA VERSO UN FUTURO DIVERSO

gli appestati erano curati fuori le mura, mentre le moderne

metropoli dell’high tech li hanno collocati nei pronto soccorso

in centro città.

Il richiamo agli errori non è casuale, perché il mondo dello

shipping tende a seguire rotte note anche se disastrosamente

pericolose ed è propenso sempre e comunque a imitare chi

sbaglia.

Il Registro Internazionale marittimo made in Italy e la flotta

italiana si trovano ad affrontare una nuova sfida. Bruxelles nel

fissare le regole “per la proroga del regime italiano a favore del

registro internazionale” ha spostato la palla in un altro campo:

da quello della nave a quello dell’armatore.

È l’azienda armatoriale che deve tornare a essere competitiva,

non il suo strumento operativo. E allora bye-bye alle bandiere

di Stato, alle flotte di preminente interesse nazionale come un

tempo l’Iri definiva la “sua” Finmare. L’Italia, entro sette mesi dalla

firma vergata dal Presidente del Consiglio, nel giugno scorso,

deve fornire all’Unione europea le sue indicazioni operative

per il rinnovo delle norme agevolative non più legate alla sola

bandiera italiana, bensì a quella europea mettendo sullo stesso

piano tutte le bandiere comunitarie e accettando le premesse

di fatto di spostare la competizione fra le stesse bandiere sul

terreno della sburocratizzazione e dell’economicità.

Sembra quasi sia pronto a tornare di moda il vecchio sogno di

Euros, il Registro europeo, e chissà che ciò non possa accadere,

visto che nel documento Ue si parla di tassazione comune e di

un’impresa che deve essere liberata dai lacci per potere anche

nel mondo finanziario trovare nuove ragioni di esistere.

E qui si innescano nuovi pericoli?

Di certo si profilano fattori ad altissimo livello di rischio che

101


in Italia si sommano e si incrociano con malattie endemiche

del sistema Italia. È sufficiente al riguardo pensare al successo

iniziale del Registro Internazionale marittimo, ma anche

ai vincoli burocratici che giorno dopo giorno lo hanno

avviluppato nelle spire dell’inefficienza.

Nel momento in cui l’Unione europea eserciterà una sempre

più intensa pressione per costringere l’Italia a garantire a tutte

le bandiere comunitarie le stesse agevolazioni che assicura

alla bandiera italiana, il fattore burocrazia potrebbe diventare

letale.

Come uscire dall’impasse?

Semplicissimo: tornare a copiare. Analizzare punto per punto

le best practices degli altri Registri Internazionali, selezionarle

e realizzare una “super-bandiera” italiana sul mare che sia

in grado di attirare interesse e quindi utilizzatori da tutto lo

shipping mondiale.

Considerando che anche per l’industria armatoriale italiana

il tempo del “banche-centrismo” è ormai superato sarebbe

indispensabile la messa a punto di un quadro normativo e

quindi di una formula nuova che regoli i rapporti fra finanza

e shipping. In altre parole pensare a una KG made in Italy che

si basi su due leve. Quella fiscale e quella della garanzia sugli

investimenti.

È oggi anacronistico pensare che di questi benefici possa

valersi sono l’armatore; le stesse regole di ingaggio dovrebbero

essere valide anche per le società che garantiscono lo ship

management delle navi o la gestione tecnica, esercitando nei

fatti la funzione dell’armatore stesso. Oggi non accade e non

è un caso che il modello della tonnage tax si sia sviluppato in

modo compiuto più in Grecia che in Italia, o che parallelamente

le società di ship-management abbiano trovato terreno fertile

a Montecarlo, a Cipro o in Belgio.

102


ROTTA VERSO UN FUTURO DIVERSO

Ma quali sarebbero le conseguenze pratiche?

Mantenere e sviluppare in Italia un patrimonio di esperienze

e di know-how pratico, generando non solo occupazione ad

alta specializzazione, ma provocando un’effettiva rivalutazione

della risorsa mare quale elemento centrale della nostra

struttura economica.

Ma su cosa dovremmo focalizzare l’attenzione?

Su una considerazione di fondo dalla cui accettazione dipende

il tutto. Se il trasporto marittimo è un’attività strategica che

garantisce i flussi di interscambio e la sopravvivenza di sistemi

economici; ebbene, se è così, l’impresa armatoriale non può e

non deve essere considerata alla stregua di una normale unità

produttiva e non può quindi essere oggetto di speculazione

finanziaria.

Come per il Registro internazionale è vitale una revisione

globale frutto anche di un impegno coeso e univoco di tutto il

mondo marittimo italiano, anche per il rapporto fra shipping e

finanza è venuto il momento di riscrivere le regole di ingaggio.

Ciò significa che non è più accettabile né pensabile l’attuale

rapporto disomogeneo e distonico fra un soggetto come il

Fondo di investimento, che ha nel suo Dna regole precise di

rientro dell’investimento e di remunerazione del capitale e

un altro player, e il gruppo armatoriale, che invece risponde a

logiche e tempi non compatibili con quelli della speculazione

finanziaria.

Senza azioni positive, il risultato non può essere che la

distruzione e lo smembramento dell’impresa armatoriale,

ovvero di un’infrastruttura che avrebbe bisogno di rispondere

a una tempistica tipica di un piano industriale, non esauribile e

condizionabile solo dalle logiche prevalenti di tempi obbligati

e di altissimi valori di remunerazione del capitale.

103


Volendo ipotizzare un rapporto nuovo fra shipping e finanza la

chiave di lettura potrebbe essere fornita da mutui rimborsabili

attraverso un planning sui flussi di cassa, scordandosi piani

di ammortamento del debito rigidi incompatibili con le

dinamiche della globalizzazione.

Gli investimenti dovrebbero basarsi su un’equity più credibile

rispetto a quella esigua e marginale che ha caratterizzato le

bolle di questi anni, riservando allo Stato una funzione solo

nei casi di salvataggi strategici, con vincoli precisi su tempi e

scadenze.

Sogni? Forse no. I tempi sono maturi per rinegoziare i rapporti

di forze, persino attraverso una revisione moderna delle

formule della KG. La recente delibera di MPS che concede agli

azionisti di cambiare azioni della banca in azioni AMCO, con la

previsione di 7 miliardi che cambieranno bandiera, nonché la

prospettiva di benefici fiscali ad hoc per le banche che cedono

NPL, “urlano” che i cambiamenti sono possibili.

Le scelte “pubbliche” attuate dallo Stato per MPS e per AMCO

restringono se non cancellano definitivamente le possibilità

residue dei Fondi internazionali di rilevare NPL. Si apre quindi

una nuova fase che sarà probabilmente e auspicabilmente

quella delle aggregazioni e delle alleanze: si chiamino esse Club

deal, oppure integrazione fra soggetti industriali e armatoriali

con grandi Fondi internazionali.

104


CONCLUSIONI

Alla ricerca della pietra filosofale

Abbiamo azzardato una risposta a problemi vecchi e nuovi

di rapporto fra finanza e attività armatoriale. Ma siamo

sicuri che sia quella giusta?

Abbiamo parlato lungamente del Registro Internazionale, ma

anche di un mercato mondiale, che fra flag of convenience,

aiuti di Stato, presenza diretta degli Stati in alcune compagnie,

è quantomai “deviato”. Torniamo in Italia, un Paese che ormai da

tempo sta assistendo passivamente a una forte riduzione del

naviglio, alla cessazione o alla crisi di molte imprese armatoriali,

del rischio di dispersione del patrimonio di esperienza e knowhow

del personale di terra. Il tutto in un mondo che continua a

polarizzarsi a concentrarsi in pochi gruppi giganteschi e quindi

in grado di imporre ulteriormente la legge del più forte.

Come fare quindi?

Innazitutto bisogna intervenire ora con un pacchetto organico.

Esiste un preciso impegno con l’Unione europea e questo

impegno dovrà essere rispettato, varando entro gennaio 2021

una nuova legge. Il Covid potrà comportare ritardi ma non

dovrà diventare un alibi visto che numerose leggi sono state

approvate in questo periodo anche se nulla avevano a che fare

con la pandemia.

È quindi necessario approvare in Italia quanto già è stato

concesso e approvato all’estero a cominciare da una completa

equiparazione al fine dei benefici tra bandiera italiana e

comunitaria.

Le indicazioni dell’Unione europea non si prestano a equivoci

e ogni dibattito sul futuro del nostro Registro Internazionale

105


deve muovere obbligatoriamente da un esame razionale e

scientifico di quanto Bruxelles ha previsto per tutti i Paesi

europei.

Esistono quindi alcuni punti fermi: il beneficio della tonnage tax

va esteso al noleggiatore a tempo e a viaggio della nave armata

dall’ armatore italiano (cosi come richiesto dalla Comunità) e

questa norma dovrà rinviare a decreti attuativi il minor numero

di argomenti possibili per evitare qualsiasi complicazione nella

fase applicativa delle norme.

Come più volte sottolineato nessuno ha una formula magica

in tasca. Esiste comunque il buon senso e affiancare a questo

pacchetto un altro pacchetto di norme che possa prevedere

l’istituzione di una sezione autonoma di credito navale con

la presenza della CDP e delle principali banche e istituti

assicurativi e le prime di misure di sburocratizzazione della

bandiera italiana per non correre il rischio di una sua scomparsa

non solo sulle rotte internazionali, ma anche su quelle del

cabotaggio.

Per centrare questi risultati, di fronte a una politica disattenta e

forse tutt’oggi poco consapevole della strategicità del settore,

è forse indispensabile un fronte comune dell’armamento

e un’alleanza funzionale fra l’armamento stesso e le altre

categorie del Cluster Marittimo. Il tutto in tempi brevissimi per

farsi trovare pronti al post-crisi.

Il refurbishment del Registro Internazionale rappresenta quindi

un’occasione, specie se - come accaduto anni fa - si farà tesoro

dell’esperienza e degli errori di altri Paesi

Il passaggio dell’agevolazione dall’oggetto nave al soggetto

utilizzatore consentirà - come detto - di estendere i benefici

anche alle società di full management tecnico e commerciale.

E proprio intorno a questi soggetti si potranno realizzare

106


CONCLUSIONI

aggregazioni armatoriali in grado di reimpostare il rapporto

con la finanza.

Una strategia questa fondamentale per creare occupazione

in Italia e evitare la fuga all’estero di tutte le competenze di

manager, commerciali, operativi ma anche per agevolare la

transizione verso una parziale “terziarizzazione” del settore

armatoriale.

E allora sarà necessario oggi disporre di una grande capacità di

reazione, anticipando le mosse di soggetti finanziari interessati

ad aprire sezioni per il credito navale e anche per la logistica.

Parallelamente pensando a una KG all’Italiana (inizialmente

in Germania hanno portato un grande sviluppo) in un Paese

che si colloca da sempre sul podio per quantità di risparmio

privato.

Probabilmente altri avranno certezze più salde delle nostre

e saranno in grado di confrontarsi con capacità di reazione

immediata con i grandi fenomeni che ogni giorno ci presentano

davanti agli occhi un mondo diverso.

Non rientriamo, e lo ribadiamo, fra coloro che hanno certezze.

“So di non sapere”. E questo potrebbe rivelarsi un vantaggio.

Abbiamo riesaminato molti casi di successo, pochi, e di

insuccesso, tanti, e ci siamo accorti della pervicacia e della

ripetitività di alcuni errori.

Lo shipping, specie in Italia, ma anche in Europa si è preoccupato

più di fiscalità che di finanza pensando che riducendo le tasse

il mare sarebbe stato propizio. Ha cercato cioè risposte per un

assetto stabile e una sanificazione – termine oggi sin troppo

consueto – dei bilanci in misure di defiscalizzazione degli oneri

sociali, che, certo, hanno prodotto risultati importanti, ma non

hanno rafforzato la struttura aziendale dei principali player del

settore, gli armatori, confinandoli una volta di più in quella

bolla di “unicità” e di “non comparabilità ” che per tradizione

107


ha scisso il loro destino da quello delle tradizionali aziende

industriali.

E non casualmente i gruppi armatoriali, che maggiormente,

senza perdere la loro identità e i loro ritmi, hanno adeguato e

coordinato le loro abitudini con quelle di importanti comparti

industriali, hanno sofferto meno degli altri.

Non esistono dubbi sul fatto che il Registro Internazionale

marittimo abbia fornito all’armamento italiano quella che

all’epoca della sua istituzione era probabilmente l’unica ancora

di salvataggio possibile. E probabilmente in pochi hanno

dubbi oggi sulle potenzialità derivanti da un allargamento dei

benefici di questo Registro a tutte le bandiere comunitarie con

l’effetto di rimettere in gioco metodi, tempi e abitudini della

burocrazia nostrana e di innescare un confronto fra le varie

bandiere comunitarie, a parità di benefici fiscali e contributivi,

sulla capacità di garantire condizioni di grande snellezza

operativa. E forse proprio questa competizione consentirà

di sgretolare i castelli di sabbi della burocrazia costringendo

il Paese a confrontarsi con i reali problemi di efficientamento

della macchina statale.

Ma ora uno sforzo congiunto, serio e concreto dovrà essere

esercitato sul tema del rapporto fra shipping e finanza. Questo

è un capitolo tutto da scrivere, forse da progettare ex novo.

La scelta di puntare tutto su una fiscalità di vantaggio si è

scontrata in Italia in primis con i ritardi di questa scelta attuata

dopo che era già stata sperimentata, e talora anche rifondata,

in altre realtà dello shipping mondiale. Con la defiscalizzazione

anche il rapporto fra shipping e istituzioni si è deformato,

consentendo a queste ultime di spostare in avanti e ritardare

scelte altrettanto importanti in tema di sburocratizzazione e di

utilizzo di nuovi strumenti finanziari.

In altre parole questo approccio ha probabilmente prolungato

108


CONCLUSIONI

nel tempo anche lo scollamento e l’incomprensione fra

finanza e shipping, non consentendo di cogliere l’armonia che

potrebbe derivare da agevolazioni finanziarie a favore di chi

eroga il credito, e generando una reazione a catena virtuosa

fra investitori, banche e Stato chiamato a fornire alle banche

stesse garanzie di lungo periodo, tali da incidere direttamente

sullo spread.

Certo il Registro Internazionale resta un pilastro irrinunciabile.

Ma le fondamenta di questo pilastro possono scricchiolare

se le normative non favoriranno un incontro e una nuova

comprensione fra finanza e shipping fornendo a chi esaminerà

il business plan di compagnie di navigazione quel fattore

determinante che si chiama elasticità.

Elasticità nelle condizioni di erogazione del credito, elasticità

nei tempi di rientro, elasticità nell’analisi puntuale delle

motivazioni per cui un armatore potrà trovarsi in emergenza,

in quella fase ciclica in cui il mercato dei noli non consente di

rispettare i tempi di rientro.

Esiste una necessità di trasparenza nei ruoli, trasparenza

indispensabile per rilanciare il settore ed essere d’aiuto alle

società che gestiscono il trasporto marittimo.

Il termine “mercato” non può essere di per sé esaustivo per

affrontare tutte queste problematiche e neppure per stabilire

una separazione manichea fra intervento dello Stato e quello

dei Fondi Se è vero che in materia di NPL i prezzi e le condizioni

sono stati definiti da aste competitive, e quindi dal mercato, le

regole di ingaggio sono comunque flessibili e variabili. I Fondi

certo fanno, e non potrebbe essere altrimenti, il loro mestiere, e

nel farlo hanno ottenuto risultati eccellenti anche per le banche,

ma ora probabilmente il ciclo si sta avviando a conclusione

ed esiste una necessità cogente di un ripensamento globale

generando uno scenario in cui, facendo tesoro anche degli

insuccessi del passato, vengano costruite le condizioni per

una ripresa e un rilancio, che siano figli di una nuova cultura

finanziaria in grado di procedere in coordinamento e di fare

109


tesoro della expertise degli armatori.

Quello di cui oggi ha bisogno, probabilmente, questo settore

è una riscrittura globale delle regole di ingaggio. A partire

dall’equity che può testimoniare la reale capacità di un

armatore di affrontare un piano di sviluppo (l’esatto contrario

di quanto accaduto in Cina con investimenti speculativi spesso

a equity vicina allo zero); a seguire dalla definizione di un

rapporto fra finanza e shipping che consenta di approcciare

anche eventuali inadempienze su alcune rate di pagamento

del mutuo. Il tutto muovendo da una constatazione che deve

diventare patrimonio comune di finanza e shipping: forse

con la sola eccezione di alcune rotte nazionali protette. Lo

sviluppo dello shipping mondiale dipenderà da un’elasticità

nelle condizioni di finanziamento frutto della constatata

impossibilità per chiunque, persino per i colossi dello shipping,

di controllare il mercato.

È accaduto sul mercato immobiliare dove esempi come quello

Svizzero di erogazione di mutui con rimborso della quota

interesse e non della quota capitale hanno fatto scuola; ora

probabilmente questi esempi che parevano lontani e non

mutuabili in un settore del tutto anomalo come quello navale,

devono diventare il riferimento affrontando il tema delle

garanzie dello Stato, così come di quelle di grandi istituzioni

internazionali, quali la Banca Europea d’Investimento.

Ben sapendo sin da oggi che non sarà un processo facile

in un settore dove le specializzazioni sono carenti, dove

sopravvivono abitudini, usi e costumi ormai disgiunti dalla

realtà del mercato, ma con una forza intatta che la stessa

industria del mare non è mai stata in grado di sfruttare: senza

lo shipping l’economia mondiale non va da nessuna parte. Non

solo: solo lo shipping è in grado di rispondere con agilità e con

quella elasticità che oggi rivendica da altri, finanza e istituzioni,

in primis, ai cambiamenti epocali nell’assetto dei mercati, della

110


CONCLUSIONI

globalizzazione e dell’assetto geo-politico del mondo, che si

stanno consumando in tempi e spazi limitati polverizzando

tutte le certezze.

Non è un caso che stiano prendendo campo proprio in queste

settimane, caratterizzate ancora dalla presenza incombente

della pandemia, soluzioni innovative come quelle di un

Club Deal all’interno del quale l’investitore, affiancato da

analisti, possa decidere a quali investimenti prendere parte. E

altrettanto non casuale è il riferimento a un possibile ruolo di

Cassa Depositi e Prestiti anche nella promozione di un Fondo

europeo dedicato allo shipping.

Inoltre, non dimenticando la necessità cogente di una riforma

che sburocratizzi la bandiera italiana, sarebbe auspicabile

anche una riforma della legge fallimentare, che nel caso dello

shipping ha falcidiato un sacco di valore per tutti gli stakeholder

e ha convinto molti finanziatori potenziali a a tenersi lontani da

imprese italiane ancorché sane.

Interrogativi più che certezze riguardano anche IMO 2030 e

la tendenza alla riduzione delle emissioni che rappresenterà

la grande sfida a cui il settore dovrà farsi trovare preparato.

Su questo nuovo campo di battaglia servirà eccome un

paradigma chiaro del rapporto finanza-armatore, in assenza

del quale tenderà ad accentuarsi la marginalità competitiva

delle flotte con effetto domino sul numero dei finanziatori

disposti a investire.

Se flessibilità e aggregazione sono le parole d’ordine, forse

è il caso di concludere questa nostra confusa “Recherce” che

non può essere… du temp perdu, ma che deve traguardare

al futuro imparando dal presente e, come già attuato con

successo nella definizione del Registro Internazionale, deve

basarsi su un’eccezionale e unica capacità di copiare il meglio.

Cosa fare, dunque? Magari ripensare l’Imi prima maniera e

111


trasformarlo in un IMI 4.0. Creare un soggetto consulenziale

che racchiuda in sé diverse expertise e che possa facilitare

l’incontro fra finanza e shipping.

Con l’Italia che dovrà adeguarsi alle varie e differenti condizioni

poste da Bruxelles, il “re è nudo” verrebbe da dire. Di certo gli

schemi che hanno retto per decenni non saranno più efficaci.

Le stesse professioni e le imprese tendono a confondersi. Basti

pensare al ruolo che le piattaforme armatoriali hanno in parte

assunto, ai club deal oggetto di crescente attenzione, ma

anche e specialmente all’effetto global che avranno le nuove

misure dell’Unione europea, abbattendo da una parte molti

vincoli di bandiera, rilanciando dall’altra formule nuove di

organizzazione, nelle quali si muoveranno soggetti vecchi e

nuovi.

Sarà quindi essenziale valutare con grande attenzione ciò che

è accaduto o sta accadendo in altri mercati e in altri Paaesi, in

primis in Germania, e tentare di copiare formule che comunque

stanno centrando risultati positivi.

112


GLI AUTORI

NICOLA COCCIA

Il curriculum di Nicola Coccia parla di un grande amore per il mare,

inteso come vera e propria risorsa – economica, culturale – per il nostro

paese e, soprattutto, per la Campania e l’intero Mezzogiorno la cui forte

vocazione marittima è di antica tradizione. Parla anche di una professione

svolta con coerenza e con sempre maggiore specializzazione al servizio

dello shipping, acquisendo con il passare degli anni una funzione di

raccordo proprio fra attività armatoriali e finance. La sua intera attività

professionale e imprenditoriale è infatti improntata alla valorizzazione

dell’industria marittima italiana e ha trasmesso questi valori e questa

voglia di ricerca e studio ai figli che operano con lui.

Gli anni ‘80

• Contribuisce alla costituzione e allo sviluppo dell’ANPAM,

Associazione imprese armatoriali del Mezzogiorno, dando forza così

a un comparto che nell’area campana conta oltre 80 compagnie di

navigazione con circa 400 navi: la più altra concentrazione di piccole

imprese armatoriali in Europa.

113


• Stringe un solido e serio rapporto professionale con il gruppo MSC

di Ginevra e un legame personale con l’armatore Gianluigi Aponte

iventando suo rappresentante in Italia per i programmi di sviluppo

del suo gruppo che decide di entrare anche nel business delle

crociere.

Gli anni ‘80 e ‘90

• Nel 1989 Aponte rileva la Starlauro, ovvero quel che rimaneva della

storica Flotta Lauro da anni commissariata; nel 1995 acquisisce, dalla

liquidazione Rodriquez-Cameli, la società Aliscafi Snav e con essa le

attività collegate, come il Cantiere Navalsud.

• Nicola Coccia inizia la sua stretta collaborazione con il gruppo

Aponte nella sua politica di sviluppo in Campania: è anche a tale

collaborazione che si deve il recupero e il rilancio di due storiche

realtà dello shipping italiano (Snav e Starlauro) che sono rimaste

in Italia, a Napoli, salvaguardando e ampliando allo stesso tempo, i

livelli occupazionali.

• Le società acquisite raggiungono risultati più che positivi,

testimoniati dall’exploit di Msc Crociere e dell’ex Navalsud confluita

nella Nuova Meccanica Navale, azienda leader – per volume di affari

e numero di occupati – del settore delle riparazioni navali e della

manutenzione nel porto di Napoli.

• Nicola Coccia ricopre gli incarichi di Amministratore Unico di Snav e

di Presidente di Msc Crociere fino al 2007.

Nicola Coccia imprenditore

• Nel 1992/93 Coccia decide di entrare nell’industria armatoriale:

insieme ad alcuni partner dà vita ad una nuova compagnia di

navigazione, la “Gestioni Armatoriali SpA” in cui ricopre la carica di

Presidente e Amministratore Delegato.

• Attualmente la società possiede num. 3 unità “Tanker”.

Gli incarichi istituzionali

• Nei primi anni ’90 entra nel Consiglio di Confitarma, la Confederazione

Italiana degli Armatori.

• Nel luglio 1996 gli viene affidato l’incarico di seguire, in qualità di

114


Presidente della Commissione Finanza e Tributi, l’istituzione del

Registro Internazionale Italiano (entrato poi in vigore nel 1998), di

cui è stato l’ispiratore unitamente al regime di “tonnage tax”, la cui

introduzione segna la svolta per l’armamento tricolore, riportando

tutta la flotta con interessi economici nazionali sotto bandiera italiana

• Dal 1999 al 2004 è Vicepresidente di Confitarma.

• Nel 2005 viene eletto alla Presidenza Confitarma e il suo ruolo

sarà determinante su diversi fronti; grazie alla spiccata sensibilità

nei confronti della formazione, settore estremamente importante

ai fini della preparazione del personale navigante e per il futuro e

la sicurezza della flotta, contribuisce alla creazione dell’Accademia

Mercantile Italiana di Genova e della succursale di Torre del Greco.

• Nicola Coccia resta alla presidenza di Confitarma per 5 anni; in tale

periodo la flotta italiana registra un incremento eccezionale, pari al 30%.

• Nel 2008 è nominato Vice Presidente della Federazione del Mare,

organismo che raggruppa tutte le attività del cluster marittimo.

Le cariche sociali

Nel tempo, Nicola Coccia ha ricoperto molteplici cariche in diverse

società. Fra le altre:

• Nel 2004 diventa Presidente della TERMINAL NAPOLI S.p.A.,

società che gestisce il terminal croceristico all'interno della Stazione

Marittima del Porto di Napoli e che annovera nella compagine

societaria le principali compagnie croceristiche a livello mondiale.

• Sono proprio le compagnie crocieristiche a chiamare Nicola Coccia

alla presidenza, individuando in lui le capacità idonee a realizzare un

progetto di sviluppo che incrementasse il traffico croceristi nel porto

di Napoli (passato da 400 mila croceristi del 2004 a 1.300.000 del

2010), grazie anche alla destagionalizzazione del settore

• In questi anni il Terminal vive una radicale trasformazione: si dota di

un’importante area congressuale polifunzionale inaugurata nel 2006

in occasione del Seatrade, la Convention Internazionale tenutasi a

Napoli, oltre a contribuire alla crescita del traffico passeggeri.

• Nello stesso anno, all’interno della Stazione Marittima si è aperta una

Galleria Commerciale di 53 negozi e di elevato standard qualitativo.

Questo è certamente il primo passo verso la realizzazione del grande

progetto che vede l’utilizzo del waterfront anche per fini commerciali

e turistici.

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BRUNO DARDANI

Mare per tradizione familiare con un padre agente marittimo e

piccolo armatore e un fratello avvocato marittimista. Giornalista per

vocazione (per anni ha detenuto il primato di più giovane giornalista

professionista d’Italia), una passione diventata lavoro come inviato

speciale per il Medio Oriente e per Israele.

Inizia la sua carriera giornalistica collaborando quindicenne a riviste del

settore nautica, quindi assunto nel 1973 come praticante giornalista

al Nuovo Cittadino, quotidiano locale genovese. Successivamente

passa alla Gazzetta di Genova e al Corriere Mercantile.

Quindi la prima esperienza all’estero nel Principato di Monaco

all’antenna italiana di Radio Montecarlo, diventando una delle

voci giovani del radiogiornale RMC. Dopo una breve esperienza

nell’azienda di famiglia entra al Secolo XIX di Genova, come vice di

Benito Bragone alla pagina marittima.

Per 20 anni inviato del Sole24Ore

Nel 1984 è incaricato di creare la Pagina marittima del Sole 24Ore,

quindi è nominato inviato speciale con doppia competenza su

economia e finanza dei trasporti ed economia di Israele, dove rascorre

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circa due mesi all’anno.

Collabora con Angelo Ravano, fondatore del gruppo Contship anche

nella definizione dell’operazione Gioia Tauro.

Corrispondente del quotidiano marittimo inglese Lloyd’s List della

Lloyd’s of London Press. È collaboratore fisso di Lloyd’s Shipmanager

di Londra e del mensile svizzero Transport di Basilea.

Collabora alla stesura dei Libri blu del progetto porto di Genova di

Roberto D’Alessandro. È coautore di un rapporto di 56 pagine su

Genova logistica (in lingua inglese) allegato al quotidiano Lloyd’s List

e diffuso in tutto il mondo.

Negli anni 90 è capo-progetto per la realizzazione a Genova della

prima Expo conference sulla logistica, Tecnoport e successivamente

lo European Logistic Forum. Nel 1999 pubblica il libro-saggio

“Logistica: la sfida” edito da Il Sole 24Ore libri, collabora quindi con

Uniontrasporti nella stesura dei quaderni nazionali sulla logistica.

Pubblica sempre per la catena Sole 24Ore, un saggio sul Fisco federale.

Elabora per l’Agenzia del demanio dello studio sulla rivalutazione dei

valori demaniali attraverso gare per le concessioni balneari.

È premiato da Ucina “Pioniere della nautica” per essere stato l’unico

giornalista ad aver proiettato il comparto nautico nel grande mondo

dell’impresa e della finanza. Nominato chairman del Centro Studi

Italia in Movimento, collabora con Certet Bocconi alla definizione

dello studio sul gettito portuale.

Docente al master della Fondazione Mattei sulla logistica e lecturer

alle Facoltà di economia dei Trasporti di Genova, Milano (Bocconi e

Cattolica), Napoli (Federico II).

Finanza e Mercati e Libero Mercato

Dal 2006 dirige la rivista Montly Logistics ed è assunto con funzione

di inviato da Finanza e Mercati, creando, fra l’altro, la pagina della

nautica e favorendo la diffusione del giornale in tutto il settore

trasporti, logistica e infrastrutture, imponendolo come media partner

di riferimento. Quindi editorialista di Libero Mercato dirige con Oscar

Giannino il magazine CH.

Collaboratore di Ticino Management e di riviste internazionali,

responsabile per anni del Centro studi di Assoporti.

Corrispondente del quotidiano marittimo inglese Lloyd’s List della

Lloyd’s of London Press. È collaboratore fisso di Lloyd’s Shipmanager

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di Londra e del mensile svizzero Transport di Basilea.

Collabora al Centro studi Assaeroporti; project manager di eventi

comunicazionali internazionali, consulente di marketing e logistica.

Nel 2010 pubblica il libro “Eccellenze nello shipping, i magnifici sette”.

Nel 2011 pubblica “L’anfora dei venti” sul porto di Gioia Tauro.

Senior partner di BD communication e partner di Star Comunicazione

realizza e gestisce una ricerca e un e-book sugli incidenti nei porti

(www.portcrash.com)

Nel 2012 pubblica un primo studio sulla Blue Economy.

In collaborazione con accademici israeliani lancia il progetto High

Tech for peace.

Nel 2015 mette a punto il progetto su industria del lusso e

progettazione dell’evento annuale tutt’oggi vigente sul Forum del

lusso possibile, con un evento che si tiene ogni anno in Sardegna a

Porto Cervo.

Nel 2017 pubblica la biografia Romanzo su Otto Stum, industriale

tedesco leader degli acciai speciali.

Progetta e realizza un piano di diffusione della consapevolezza

di ruolo dell’industria cantieristica italiana in collaborazione con

Fincantieri.

Nel 2018 scrive una biografia sul gruppo Samer.

Consulente di Assarmatori e di Trasportounito sulla ristrutturazione

dell’autotrasporto.

Èconsulente di ASTAG Associazione svizzera dell’autotrasporto.

È fra i progettisti della Venezia Port Community e dell’evento per il

rilancio dello scalo lagunare.

Collabora allo studio per costituzione organismo internazionale su

risorse idriche mondiali e rischio crisi.

È fra gli estensori di uno studio sull’erosione delle coste in Italia e in

Mediterraneo.

Contribuisce all’ideazione di Un mare di Svizzera, evento annuale

sulla collaborazione logistica fra Italia e confederazione Elvetica.

Costituisce, insieme con Giulio Sapelli, BlueMonitorLab per lo studio

e la realizzazione di progetti finalizzati sulla blue economy.

È impegnato nella stesura di biografie su gruppi imprenditoriali

svizzeri.

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