Mare Al Traverso - Nicola Coccia e Bruno Dardani
Registro internazionale marittimo, un nuovo rapporto fra shipping e finanza, forse anche la necessità del cluster marittimo di fare fronte comune. Queste le premesse, oggi ancor più valide, che hanno spinto Nicola Coccia, già presidente di Confitarma, e Bruno Dardani, giornalista già inviato della pagina marittima del Sole24ore, a cercare di mettere insieme memoria e aspettative scrivendo un libro su passato, presente e futuro nel rapporto non sempre facile fra mondo armatoriale, banche e altri soggetti finanziari.
Registro internazionale marittimo, un nuovo rapporto fra shipping e finanza, forse anche la necessità del cluster marittimo di fare fronte comune. Queste le premesse, oggi ancor più valide, che hanno spinto Nicola Coccia, già presidente di Confitarma, e Bruno Dardani, giornalista già inviato della pagina marittima del Sole24ore, a cercare di mettere insieme memoria e aspettative scrivendo un libro su passato, presente e futuro nel rapporto non sempre facile fra mondo armatoriale, banche e altri soggetti finanziari.
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MARE AL TRAVERSO
Nicola Coccia - Bruno Dardani
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MARE AL TRAVERSO
Nicola Coccia - Bruno Dardani
Indice
007 Premessa
011 capitolo 1 - La storia non insegna
021 capitolo 2 - Shipping pandemia
033 capitolo 3 - Pericolo e opportunità
039 capitolo 4 - E se fosse stato SGA?
043 capitolo 5 - Dottor Schaub c’è un ottimo investimento
049 capitolo 6 - Se il meccanismo si inceppa?
057 capitolo 7 - Un carato difficile
063 capitolo 8 - Cina, guerra e pace
071 capitolo 9 - Il miracolo SGA
079 capitolo 10 - SGA-rrare o no?
083 capitolo 11 - Fondi o affondi
087 capitolo 12 - Cambiare… registro
099 capitolo 13 - Rotta verso un futuro diverso
105 Conclusioni
113 Gli autori
Premessa
Lockdown, per chi è abituato da sempre a dividere la sua vita fra
ufficio, viaggi, incontri e aerei, il tempo infinito, quello che non ha
confini, regole, procedure e scadenze, si trasforma facilmente in
un limbo. E in questa atmosfera ovattata il bisogno di contatti, di
relazioni, diventa quasi una necessità fisica, per ripristinare un ordine
del fare e anche un ordine del pensare.
Gli amici, i vecchi amici, specie quelli che in molti casi non si
contattano per mesi, perché comunque psicologicamente sono una
presenza, diventano un’esigenza primaria, un legame con la realtà
che l’isolamento tende ad annebbiare.
Ed è proprio così che nasce questo libro di riflessioni sparse su un
mondo condiviso: una telefonata, una voce nota, le ormai consuete
considerazioni sulla pandemia, la voglia di confronto con chi del
confronto ha fatto un mantra basato sulla conoscenza di dinamiche
talora complesse.
E poi spontanea, come i numeri composti sulla tastiera dello
smartphone, la voglia di riflettere e al tempo stesso di cercare difficili
quadrature del cerchio in un mondo, quello dello shipping, che è il
nostro terreno comune, ed è anche quello sul quale sono cresciuti
negli anni stima e rispetto reciproco.
Abituati da sempre a confrontarci e a tentare di capire alzando la
testa oltre la frontiera dell’ovvio, abbiamo anche scelto senza fatica il
titolo di questa nostra riflessione a quattro mani. Era troppo scontato
parlare di tempeste perfette, di burrasche e bonacce. Ripensando a
questi ultimi dieci anni, ma anche riflettendo sulla nostra ambizione
di fornire qualche indicazione positiva, quasi automaticamente ci è
venuto in mente quel mare che non è tempesta, ma che mette a
dura prova coraggio e determinazione e che funziona come una
sorta di selezione naturale: “mare al traverso”. “Mare al traverso.
Mer à travers”. È quando il mare percuote ne’ sianchi del bastimento
che naviga” …Dal Dizionario teorico-militare del 1847.
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Per la gente di mare è una delle condizioni che rendono meno
governabile la barca, la nave, il piroscafo, il bastimento…
Per chi, come noi, il mare al traverso lo ha preso più di una volta,
ma specialmente ha visto amici, conoscenti, anche grandi capitani,
lottare con le onde e il vento che violentano la murata, talora
dovendosi arrendere e non riuscendo a rimettere la prua al mare, i
ricordi, anche quelli amari, diventano un tesoro.
Per gran parte della nostra vita professionale siamo stati testimoni, e,
in parte, anche protagonisti di quanto è accaduto. Certo, da due punti
di osservazione profondamente differenti, ma, per motivi complessi,
comunque convergenti.
Molta acqua è passata sotto i ponti, in questo caso sotto le chiglie
delle navi. Abbiamo conosciuto capitani di lungo corso, capitani di
impresa, capitani coraggiosi. Attraverso loro abbiamo imparato a
riconoscere i significati che anche solo una ruga sotto gli occhi o sulla
fronte possono rivelare.
Ci siamo immersi, anche attraverso le Associazioni di categoria, nel
mare dei rapporti complicati fra imprese caratterizzate da una forte
personalizzazione. E forse non potrebbe essere diverso per un mondo
che trova le sue caratteristiche predominanti nella personalità dei
suoi capitani d’impresa, ma anche nel rapporto quasi possessivo con
la nave, rapporto che non trova riscontro o somiglianza in nessun altro
tipo di relazione fra imprenditore e mezzi di produzione (avete mai
visto un industriale chiamare con il proprio nome non l’azienda ma
lo stabilimento?). Abbiamo ripercorso le modalità sempre originali di
intuizioni cosi come di errori di valutazione, verificando quanto e con
quale rapidità le conseguenze impattassero sulle aziende.
Abbiamo anche assistito alle profonde trasformazioni che hanno
riguardato, da un lato, la struttura di un mercato che nel cuore
della globalizzazione ha rincorso i miti delle concentrazioni e del
gigantismo, riproducendone anche in modo quasi automatico
le derive negative in settori profondamente differenti; dall’altro i
rapporti fra armatori e finanziatori. Dalle ultime propaggini delle
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PREMESSA
società armatoriali di famiglia, alle KG tedesche meglio conosciute
come le società dei dentisti, alla crisi del tradizionale credito navale
di origine bancaria, sino all’avvento dei Fondi di investimento in
una situazione di generale sottocapitalizzazione delle imprese
armatoriali.
Abbiamo vissuto o direttamente sul ponte o dalla banchina del porto
quel mare al traverso che ormai da oltre 12 anni si infrange sul mondo
dello shipping: dalla grande crisi dei noli del 2008, alla scoperta che
questo mercato non è obbligatoriamente ciclico come si era pensato
per anni; abbiamo avuto conferma che le scelte definitive tali mai non
sono e che, ad esempio parlando del gigantismo navale, queste scelte
hanno sempre e comunque una scadenza; abbiamo specialmente
assistito a un fenomeno inarrestabile: quel fenomeno per cui finanza
e shipping sono e saranno ormai costretti a una coabitazione forzata,
“State insieme ma non troppo vicini: poiché le colonne del tempio
sono distanziate, e la quercia e il cipresso non crescono l’una
all’ombra dell’altro”.
Lo affermava lo scrittore e filosofo libanese Kahlil Gibran, profondo
conoscitore del genere umano. Ne parlava probabilmente con
riferimento alla vita di coppia, ma si attaglia perfettamente al
rapporto complesso, difficile, conflittuale, talora drogato, che è
intercorso specie negli ultimi due decenni fra il mondo dei trasporti
marittimi e quello di banche, investitori, fondi.
Abbiamo vissuto in questi mesi l’incubo delle “distanze sociali” che
del sociale sono l’esatto contrario. E ci siamo chiesti quanto questo
mondo stravolto da una globalizzazione senza controlli e garanzie
abbia bisogno di terreni comuni di riflessione, dove, come speriamo
accada fra noi, porre a comune denominatore le conoscenze
parallele di due, come noi, che hanno osservato e monitorato sotto
ogni aspetto, le dinamiche i questa cellula anomala dell’economia
mondiale che è lo shipping.
Su una scelta abbiamo concordato da subito: abbandonare
9
l’ambizione di produrre uno dei tanti testi scientifici anche per evitare
- come accaduto troppo spesso nel mondo dello shipping – di essere
clamorosamente sbugiardati dai fatti.
Il nostro punto di partenza è un altro, e forse è lontano parente della
teoria del caos. “L’avvenire è la porta, il passato ne è la chiave”.
Diceva Victor Hugo, noi due, con un gioco di domande e risposte
spesso implicite nel testo, tenteremo di guardare attraverso il buco
della serratura, consci di non poter insegnare se non il rispetto
dell’imprevedibilità. Ci siamo anche sforzati in modo irrazionale di
pescare in memorie lontane esempi e prodromi di ciò che sarebbe
accaduto, scoprendo che le rotte, a esempio, della globalizzazione
erano già state tracciate da secoli e che – come spesso accade
all’umanità – erano state accantonate nelle pagine di libri di storia
coperti da polvere e sempre più spesso non letti.
E quindi anche la struttura di questo breve libro, saggio, riflessione,
sarà ispirata allo stesso concetto: l’imprevedibilità, viaggiando su una
macchina, o meglio, su una nave del tempo alla ricerca di tesori e di
indicazioni che avrebbero potuto e forse potranno risultare utili per
un futuro oggi ancora più incerto.
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CAPITOLO 1
LA STORIA NON INSEGNA
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Una cosa è certa: le lancette dell’orologio della storia hanno
preso a muoversi in maniera frenetica maciullando una
dopo l’altra le certezze, trasformando i progetti in pericolosi
salti nel buio, riconfigurando come in un gigantesco videogioco
equilibri geo-politici che da decenni, forse da secoli,
parevano essere un punto di riferimento intoccabile. Il mazzo
di carte degli equilibri economici mondiali sta riservando
le incertezze di un gioco di puro azzardo. Altro che
globalizzazione guidata….
Ciò che non era accaduto per anni, spingendo anche i più
acuti analisti di geo-politica e di strutturazione del mercato, a
lavorare su mantra, su punti di riferimento fissi, si è verificato in
pochi mesi, nell’anno forse più complesso nella storia moderna
dell’umanità. Il bisesto 20 e 20 non sarà ricordato solo per
gli effetti, probabilmente tanto disastrosi quanto ancora in
parte incalcolati e incalcolabili, della pandemia, ma anche per
l’abbattimento di riferimenti quasi sacri e quindi per l’obbligo
di qui in avanti, di navigare a vista.
I recenti accordi di pace fra Israele e gli Emirati e l’innesco di
una reazione a catena che sta travolgendo il Medio Oriente
e coinvolgerà tutto il mondo sunnita, probabilmente
accentuando l’emarginazione di Turchia e di Iran, potrebbero
essere prodromi dell’emersione di un vero e proprio continente
economico e sociale, in grado di trarre le sue radici da una storia
millenaria e di costruire il suo futuro di grande potenza posta
a metà strada fra occidente ed Estremo Oriente, Cina in primis.
E la guerra fra Cina e Stati Uniti con un’Europa che per ora,
solo attraverso la Germania, sembra aver riscoperto l’India
come frontiera della globalizzazione, rappresenta solo l’inizio
di una storia tutta da scrivere con conseguenze epocali in
settori di frontiera come sono quelli dei traffici marittimi,
dell’interscambio globale di merci, della portualità.
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LA STORIA NON INSEGNA
In questi mesi, si era parlato con sempre maggiore insistenza
di globalizzazione di ritorno, di re-shoring, ovvero di un
ripensamento critico sulle conseguenze di una globalizzazione
indiscriminata e incontrollata, “responsabile” anche della
pandemia ma, a ben vedere, prima di affrontare queste
tematiche, oggi così attuali, sarebbe davvero necessario
guardarsi indietro, rileggere pagine di storia per comprendere
che le esperienze anche quelle negative, raramente
insegnano e, quasi mai, fissano regole comportamentali e
confini invalicabili entro i quali gli Stati, le Nazioni, anche le
Organizzazioni internazionali si muovano correttamente.
Di certo la diffusione del Coronavirus ha disseminato di paura le
comunità del pianeta. Ma se avrà insegnato davvero qualcosa,
lo diranno solo i fatti.
Lo sanno bene gli uomini di mare, per i quali il confine fra
il giusto e l’ingiusto è determinato dallo spirare e dalla
direzione dei venti. Uomini di mare che, certo possono
essere annoverati fra gli antesignani, quasi i pionieri, della
globalizzazione, ma che, forse, nella realtà del loro viaggio
hanno solo seguito la rotta in quel momento più conveniente
e meno pericolosa.
Lo shipping, più che in ogni altro settore economico, potrebbe
insegnare quanto instabili possano essere o diventare
anche in tempi rapidissimi le condizioni che determinano il
successo di operazioni internazionali, la riuscita di commerci,
l’affermazione di direttrici di scambio.
Ma proprio lo shipping nel terremoto in atto nell’economia
globale, fatica a sua volta a trovare le risposte, prime fra tutte
quelle relative a un rapporto con la finanza che, oggi come non
mai, è diventato la chiave strategica di lettura del futuro, e che,
oggi come non mai, richiede sia un’operazione verità: sia sulle
motivazioni degli insuccessi passati, sia sulla necessità ormai
cogente di cambiare gioco e forse anche giocatori.
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E proprio per queste motivazioni abbiamo voluto dedicare
alla globalizzazione, quasi due capitoli di riflessione. Si, di
riflessione critica finalizzata a comprendere il presente e a
immaginare il futuro salpando da una considerazione di fondo
solo apparentemente banale: chi va per mare può essere
testimone di quanto volatile possa anche essere la reputazione
di chi cavalca le onde. Ormai dimenticati i cartelli del “saremo
tutti più buoni” che caratterizzarono il primo lockdown in
Italia, incominciano a circolare analisi geopolitiche basate sui
fatti. Analisi che evidenziano come nella globalizzazione il re
sia diventato davvero nudo e come inevitabilmente il Post
Covid renderà inevitabile una riscrittura globale delle regole di
ingaggio della globalizzazione spingendo verso una “gestione
attiva” della stessa. Non sarà facile trovare punti di equilibrio
anche perché quello che puntava a coniugare, in un pianeta
profondamente asimmetrico, profitto e vantaggio economico/
finanziario, con la tutela degli interessi più fragili, non è stato
mai individuato. Se non, parzialmente, nello sforzo attuato
all’interno di una Unione europea allargata e motivata a ridurre
il gap con gli ultimi Paesi entrati a farne parte.
È in quest’ottica che abbiamo tentato di individuare il filo
conduttore, forse fragile, di episodi confinati nella storia,
per trarre qualche esempio che serva oggi ad affrontare con
grande concretezza, e forse con minore condizionamento
ideologico, i confini, i vantaggi e i mutamenti inevitabili della
globalizzazione di ritorno.
Ecco il primo esempio.
“Mio signore, è una sentenza molto dura. Per quanto mi
riguarda io sono la persona più innocente fra tutti loro, ma i
testimoni hanno giurato il falso contro di me”. C’è chi afferma
di aver sentito queste parole riecheggiare per decenni, nei
corridoi di Whitehall, la Camera dei Comuni, a Londra: a
secoli di distanza dalla sua ultima difesa accorata contro una
condanna a morte già decisa e già scritta, il fantasma del pirata
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LA STORIA NON INSEGNA
William Kidd sembra oggi assurgere a simbolo di tutte quelle
contraddizioni che il processo di internazionalizzazione dei
traffici, senza verifiche o senza controlli, stanno emergendo
prepotentemente”.
Ma cosa c’entra con noi il fantasma di William Kidd? Se non
riportarci alla mente vecchie canzoni sui pirati che fungevano
da sigla a telefilm nella Tv dei ragazzi, quando eravamo
bambini e quando la tv era una e una sola, e in bianconero?
Ti ricordi quel ritornello: “Quindici uomini, quindici uomini…
sulla cassa del morto”. Cantavano quei pirati da operetta.
Per noi William Kidd, certo meno conosciuto rispetto a Francis
Drake o ai corsari di Tortuga, è anche un simbolo ante litteram
di quanto avremo assistito in anni recenti; simbolo di una
globalizzazione che è politically incorrect chiamare con il
suo nome più antico e negativo: colonialismo. E vogliamo
provocare subito con una prima distinzione manichea di
comodo fra il colonialismo cattivo e una globalizzazione che
doveva (pre Coronavirus), essere comunque buona sino a
prova contraria; sino a scoprire che sulle sue rotte viaggia la
sotto-globalizzazione della povertà e dello sfruttamento, la
schiavitù 4.0, e in aggiunta, i virus.
Asteniamoci quindi dai giudizi morali sul passato. William Kidd
aveva la licenza a operare da pirata, quel certificato da corsa
(oggi si chiamerebbe concessione), che una volta accordato
può sempre e comunque trasformarsi in un mandato ufficiale
ad agire per conto di una Corona o di uno Stato o di Potere.
William Kidd, pirata inglese, è un simbolo poco noto ma
terribilmente attuale della globalizzazione di comodo: come
pirata transita dall’illegalità degli arrembaggi compiuti nelle
Indie occidentali spesso a danno di galeoni spagnoli, alla legalità
di un incarico “professionale” per conto della Compagnia delle
Indie orientali, e quindi indirettamente del governo inglese;
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per poi ripiombare nell’area grigia dei mari in cui la bandiera
della pirateria incombe come segnale di morte certa.
Socio di un Lord, reclutato dalla Corona per servire l’Inghilterra,
capitano dell’Adventure Galley, vero e proprio incubo per le
navi francesi che navigano al largo delle coste del Madagascar,
Kidd per anni è uno degli alfieri della Compagnia delle Indie
orientali. Strumento estremo di concorrenza sleale sulle rotte
dell’interscambio mondiale sino a diventare vittima di se
stesso, essere tradito dal Paese che gli aveva firmato la lettera
da corsa, quella che lo autorizzava ad attaccare navi nemiche
dell’Inghilterra; e oggi di Kidd si ricorda solo, in qualche elitario
libro di storia, l’ arringa di accorata auto-difesa contro il sistema.
Cosa c’entra con lo shipping e con la finanza?
C’entra eccome. Le sue parole al vento non avrebbero impedito
a chi lo aveva usato come messaggero della globalizzazione, di
decretarne la morte, l’immersione del suo corpo in un barile di
catrame e l’impiccagione del suo cadavere lungo una sponda
del Tamigi a monito dei tanti pirati che erano formalmente
autorizzati ad esserlo, ma finché faceva comodo.
È l’8 maggio del 1701. E Kidd è uno dei tanti chiamati a svolgere
il lavoro sporco per la neonata Compagnia delle Indie orientali
alla quale 37 anni prima, re Carlo II aveva accordato per decreto
il diritto di acquisire nuovi territori, battere moneta, comandare
truppe armate ed esercitare la giustizia sui propri territori. In
poche parole, il sogno per ogni multinazionale dei tempi nostri.
È la conferma che la globalizzazione buona, quella pro-poveri,
quella in aiuto, quella verde non esisteva? Perché ora esiste?
La globalizzazione segue sempre e comunque una rotta lungo
la quale le regole sono scritte in funzione di interessi o sono
difficili da codificare: se non fosse così come potrebbe una
nazione avvantaggiarsi a danno di altre o di intere comunità?
16
LA STORIA NON INSEGNA
E quegli interessi vincono sempre e comunque: la Compagnia
delle Indie orientali è il braccio commerciale, ma anche braccio
armato sulle rotte strategiche di quella globalizzazione che
era deprecata nei metodi e nei fini in modo ben più radicale di
quanto le leggere brezze di critica abbiamo sfiorato sino a oggi
la nostra globalizzazione senza controlli.
Per noi, quindi, rispondendo alla domanda iniziale, William
Kidd è solo un primo indizio?
Il secondo indizio è portato dal vento che soffia nelle vele
di un’altra potentissima corporation del trading globale,
la Compagnia olandese delle Indie orientali, Vereenigde
Geoctroyeerde Oostindische Compagnie, in breve VOC,
costituita nel 1602, sulla base di un’esclusiva garantita dal
governo olandese a svolgere i traffici da e per l’Asia.
È trascorso più di un secolo. La Compagnia olandese si è
impadronita degli avamposti commercialmente più strategici
su quella che oggi verrebbe definita una “via della seta” di
mare o – come piace dalle parti di Pechino – una Silk & Road
Initiative. Un successo dietro l’altro, ma fenomeni incontrollabili
o sottovalutati condurranno anche la Compagnia olandese
verso la cessazione dei traffici e quindi la liquidazione totale.
E cioè?
Cerchiamo di continuare sul filo di una storia che si potrebbe
trasporre pari pari in un trattato di geopolitica dei giorni nostri.
È il 9 ottobre del 1740: una coltre di umidità si solleva dalle
paludi di Batavia e si infiltra nel dedalo di capanne, nei vicoli
fangosi, dove insetti e mosche la fanno da padroni, come per
altro le ricorrenti epidemie testimoniano. È un formicaio che
brulica dalle prime luci dell’alba: i lavoratori cinesi, anche quelli
che hanno fatto fortuna, in questa terra di nessuno nell’isola
17
di Java, sembrano non fermarsi mai. Più di 10.000 vivono
nell’Ommenslanden, da dove raggiungono ogni giorno le
grandi piantagioni di canna da zucchero o i cantieri per la
costruzione della città nuova.
Il governo coloniale e la Compagnia olandese delle Indie
orientali, che ha avamposti commerciali nelle aree più
strategiche del sud est asiatico, sanno che ogni giorno che
passa, in quella fornace di caldo e umidità, un fuoco brucia sotto
il fango. La globalizzazione del lavoro nelle colonie olandesi è
fuori controllo. Gli scontri fra popolazione locale e immigrati
cinesi sono sempre più frequenti e anche le deportazioni di
massa di popolazione cinese verso Ceylon e il Sud Africa boero
non sono sufficienti a disinnescare l’ordigno attivato dalla
globalizzazione povera del lavoro.
Molti cinesi sono accusati apertamente di aver fatto i soldi e
messo insieme ricchezze nascoste schiavizzando gli indigeni.
Senza dubbio il fatto di essere approdati sull’isola con il
pedegree di artigiani specializzati li ha imposti come una
sorta di classe intermedia nei cantieri che stanno edificando
la capitale Batavia, l’odierna Djakarta. Non c’è negozio nella
città nuova che non parli cinese. Non c’è famiglia cinese che
ogni giorno non si allarghi con immigrati clandestini che si
stabiliscono in capanne fuori dalle mura della città.
Sono trascorsi pochi anni dalla grande epidemia di malaria
che ha falcidiato la popolazione e per gli indonesiani gli untori
si nascondono proprio in quella Chinatown ante litteram di
gente che non si mischia, non si amalgama… e si arricchisce
troppo in fretta.
Giambattista Vico parlava di corsi e ricorsi della storia.
Passeggiando con la mente nelle strade strette e fangose di
Batavia non pare neppure esserci il bisogno di scomodare il tuo
illustre conterraneo di Napoli: i protocolli – come affermerebbe
18
LA STORIA NON INSEGNA
volentieri una moderna società di consulenza – non cambiano,
si ripetono.
Ma nessuno impara.
Vero. Nel 1740 Batavia è in fiamme: si parla di un nuovo
provvedimento di deportazione di massa che non riguarda
certo i cinesi che possiedono i mulini per la macinazione dello
zucchero, o le distillerie dove si produce l’Arrak, l’acquavite
frutto delle fermentazione di riso e melassa che viene esportata
anche in Europa. Riguarda quella massa in movimento di
operai e piccoli commercianti cinesi che convivono con le
paure inclusa quella estrema: il sospetto che i deportati anziché
giungere a destinazione vengano buttati in mare non lontano
dalle coste di Giava e diventino pasto per gli squali.
Nel 1740, i prezzi mondiali dello zucchero crollano, si dimezzano
rispetto alle quotazioni del 1720. L’economia di Batavia entra in
crisi: povertà e fame diventano compagni di viaggio e semi di
brutalità. Gruppi di lavoratori cinesi di zucchero si ribellano: con
attrezzi agricoli trasformati in armi aggrediscono le guardie,
incendiano i mulini e trucidano 50 soldati olandesi.
La reazione della Corona non si fa attendere: 1800 soldati
accompagnati dagli schutteni della milizia borghese e da
undici battaglioni di coscritti respingono un attacco lanciato
da 10.000 cinesi.
È l’inizio della fine: le truppe affiancate dagli abitanti di Bali
entrano nella bidonville cinese. I cannoni sparano alzo zero
contro le case che prendono fuoco come torce, una dopo
l’altra. Chi si salva e tenta di fuggire viene trapassato con spade
e forconi. Donne incinte, bambini, tutti sgozzati con il machete;
nessuno viene risparmiato e la caccia casa per casa, barca per
barca, persino nelle corsie degli ospedali, procede per giorni e
giorni sino a quando la palude di Batavia è trasformata in un
enorme stagno di sangue.
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Poco più di 50 anni dopo la VOC, la Compagnia olandese delle
Indie Occidentali, con la madre patria Olanda occupata dalle
truppe rivoluzionarie francesi, ammainerà la sua bandiera
Orange.
Troppo semplice cercare parallelismi…
Può darsi, ma teniamo a mente questi due indizi, questi
due esempi. Ci serviranno. Da un lato il pirata William Kidd
strumento violento utilizzato e usato, sino a quando serve,
per imporre le regole di una grande corporation del trading e
dei traffici marittimi. Dall’altro, il crack di un mercato, nel caso
quello dello zucchero, in grado di innescare una reazione a
catena di magnitudo tale da sfociare in pandemia sociale.
Esempi utili per costruire la cornice del puzzle, la parte più
semplice, all’interno del quale cercare nella memoria di
entrambi i tasselli di una grande raffigurazione: la crisi dello
shipping.
20
CAPITOLO 2
SHIPPING E PANDEMIA
21
Tempi difficili?
Certo ogni generazione ha ripetuto questa frase in modo più
o meno motivato, cercando risposte, speranze, persino ricette
per navigare verso acque più calme.
L’emergenza, in cui questo strano anno 20 più 20 (due più due
fa quattro e nella lingua cinese la parola quattro, Pinyin, ha
una funesta assonanza con la parola morte) ha precipitato il
pianeta terra, sta senz’altro dimostrando un assioma: il mondo
cambia poco e con fatica.
L’ubriacatura di tecnologia avanzata nella quale ci siamo
cullati per anni si è dissolta con il Covid-19: l’epidemia è stata
affrontata a 500 anni di distanza dalla Peste di Milano e di
Venezia con l’unico banale rimedio di isolare intere comunità
e di trasformare gli ospedali in lazzaretti in versione moderna,
ma sempre incubatori di morte.
E sono in molti a interrogarsi su cosa accadrà quando “sul
ponte non sventolerà più la bandiera bianca” e quando la
caccia inevitabile alle responsabilità scatenerà la voglia di rese
dei conti.
Vuol dire che nulla cambia?
I due casi con i quali abbiamo iniziato questa nostro libro di
bordo sulle vicende recenti, attuali e future dello shipping (e
in particolare di quello italiano), quella della British East India
Company, nata nel 1707, e della Vereenigde Geoctroyeerde
Oostindische Compagnie, sono forse figli della stessa pulsione
verso l’internazionalizzazione che è la matrice irrinunciabile
dello shipping.
Un’internazionalizzazione che ha e conserva la caratteristica
di auto-gestirsi, diventando a più riprese incontrollabile come
accaduto quest’anno con l’epidemia del Coronavirus e che
22
SHIPPING E PANDEMIA
paradossalmente racchiude la magia di insegnare poco o nulla
alle generazioni che seguiranno.
Passeggiando per la prima volta lungo il grande terrapieno sul
mare realizzato a Gioia Tauro per servire uno dei tanti centri
siderurgici che non sarebbero mai stati costruiti, Angelo
Ravano, uno dei padri della moderna logistica, ebbe a dire che
“qualsiasi accadimento, operazione, innovazione, quando
si parla di traffici internazionali, trading, ha una scadenza,
ma più trascorrono gli anni e più le persone e le imprese lo
accreditano invece di una eternità che non esiste”. Si riferiva
nel caso specifico ai terminal per il transhipment delle merci,
ma le sue parole si applicano, quantomeno nello shipping, a
molti fenomeni di moda.
Se non si è in grado di comprendere in anticipo che la scelta
di oggi non sarà valida che per un limitato periodo di tempo
inseguendo a occhi bendati i mega trend, le infatuazioni
economiche e finanziarie, la conclusione logica e inevitabile
sarà sempre e comunque quella delle Compagnie delle Indie.
E a rendere tutto più complesso nello shipping continuerà a
essere lo spirito di imitazione che ha trovato e troverà terreno
fertile nella globalizzazione.
Molte esperienze avrebbero dovuto forgiare le coscienze,
ma non è stato e non è mai così; quando i profitti appaiono
facili, il livello di guardia si abbassa e anche la conoscenza
e la consapevolezza dei precedenti negativi non fornisce
trincee adeguate per ripararsi dal rischio in un settore abituato
comunque a ricondurre i default a cause ed eventi particolari, a
risacche destinate a impattare solo su talune spiagge.
E quindi la storia non si insegna?
Precedenti come quello delle VLCC e delle ULCC, le grandi navi
23
cisterna, che per lo shipping italiano sono riconducibili ai nomi
“Coraggio” e “Volere” di Achille Lauro, erano legati nel bene e
nel male a eventi geopolitici territorialmente circoscritti e ciò
impediva anche agli osservatori più acuti di comprendere
quanto estese fossero le foreste nelle quali si stavano già
muovendo le tigri di carta.
E invece già in quegli accadimenti, nella chiusura di Suez ad
esempio, si celavano i semi di una pandemia economica
e commerciale che si sarebbe abbattuta prima o poi
sull’interscambio mondiale, brutalizzando le aspettative di
mercati in passato sempre sani e in grado sempre e comunque
di riproporsi sui binari di business plan rigidi.
In questo quadro di errori ripetuti e di lezioni non imparate
esiste una data chiave?
Nelle analisi di molti attenti osservatori delle realtà umane
e delle scienze sociali, hanno iniziato a trasparire i dubbi
incentrati sul pericolo di una globalizzazione non gestita; una
globalizzazione che oggi ha creato una pandemia sentinella,
domani potrebbe generare piaghe che sembravano essere
confinate negli anni bui e lontani della storia dell’umanità.
Ma pochi hanno posto il Covid-19 in relazione con una
data che aveva provocato una reazione a catena fuori
controllo:,quella dell’11 dicembre 2001: l’adesione della
Cina al Wto, ovvero la madre di tutte le globalizzazioni, quel
passe-partout in grado di aprire ogni porta, rendere fluidi i
traffici, i commerci, la schiavitù e anche i virus.
Quella di Giulio Tremonti era stata una delle voci isolate a
denunciare i rischi di uno scivolo che avrebbe globalizzato
anche i pericoli, rendendo complici e co-vittime comunità
distanti migliaia di chilometri, esponendole all’impatto di
fenomeni, crisi, dissesti, che solo pochi anni prima, specie
24
SHIPPING E PANDEMIA
in Cina in virtù della “riservatezza” del regime, sarebbero
rimasti confinati, anche nei loro effetti letali, nei confini di
qualche remota regione al centro dell’Asia. Tremonti aveva
remato contro-corrente fronteggiando il coro dei fautori
di una globalizzazione a traino cinese che infiammava gli
entusiasmi dell’economia e della politica mondiale, capace
di accantonare le memorie e i valori di quella democrazia che
faticosamente resta l’unico grande patrimonio dell’Europa, ma
anche sottovalutando, come il Covid ha dimostrato, una vera e
propria messe di pericoli indotti.
Oggi l’altra faccia della medaglia ha palesato timidamente la
sua esistenza?
La globalizzazione non gestita, e anzi esaltata, ha assunto, senza
che nessuno lo evidenziasse o si facesse carico di denunciarlo,
le caratteristiche di una globalizzazione della povertà specie
nelle aree più fragili del pianeta.
Ora ha in parte svelato minacce, rischi e paure: c’è già chi parla
di una globalizzazione delle pandemie, delle pestilenze, del
dissesto sociale, in un contesto internazionale che tende a
premiare chi dispone degli strumenti per imporre le regole e che
riesce a conquistare il consenso nelle democrazie più deboli;
una globalizzazione in cui all’esaltazione dell’universalità,
fa seguito un meccanismo di adattamento e di obbedienza
passiva.
Ma torniamo allo shipping, sempre tenendo accesa la luce su
quel fatidico 11 dicembre del 2001.
Tutti i grandi fenomeni, dal gigantismo delle navi
portacontainer, a quello dei porti, a quello del turismo
e delle navi da crociera, sono per molti aspetti figli di un
processo di universalizzazione che nel settore armatoriale si
è tradotto in un continuo e costante adattamento e quindi
di accondiscendenza ai mercati. Lo shipping per sua natura è
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stato il precursore della globalizzazione come le Compagnie
delle Indie avevano preconizzato.
In un pianeta sottoposto allo stress di un boom demografico
incontrollabile, di una dilatazione dei consumi, e di uno
sfruttamento intensivo delle risorse indispensabili per la
sopravvivenza di intere comunità, le distanze geografiche
si sono trasformate in distanze economiche, da allungare o
accorciare virtualmente a seconda delle esigenze del mercato
globale. E il trasporto marittimo per primo, seguito poi dal
fenomeno di delocalizzazione industriale, e infine dalla
digitalizzazione globale, ha fornito gli strumenti perché ciò
avvenisse.
Proprio nel trasporto marittimo si è attivato un effetto
moltiplicatore senza precedenti: dagli anni 70 ad oggi il
trasporto per mare è letteralmente esploso dal punto di vista
dei quantitativi trasportati al punto che ciò che sino agli anni
settanta veniva trasportato in un anno oggi viene mosso in
una settimana.
Quali dovrebbero e avrebbero dovuto essere le chiavi di
lettura per non subire ma guidare questi processi?
Premesso che è facile essere profeti quando i fatti sono già
avvenuti, i numeri, quelli dei quali troppi si dimenticano o
hanno una naturale predisposizione a non confrontarsi, sono
disponibili, eccome.
- In un lasso di tempo minimo la popolazione del mondo è
raddoppiata già partendo da una base notevole di 3,5 miliardi .
- Nei fatti ad un mondo di 3,5 miliardi ne abbiamo affiancato
un secondo con altrettanti abitanti.
- A fronte di una maggioranza di comunità che consumavano
solo l’essenziale per sopravvivere, ora la diffusione di benessere
e consumi ha stravolto il quadro di riferimento.
- Sono pochi i prodotti finiti che hanno l’intero ciclo produttivo
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SHIPPING E PANDEMIA
in una nazione o in un continente.
- Distribuendo le varie fasi di lavorazioni fra più continenti la
stessa merce viaggia più volte intorno al mondo.
Un esempio pratico.
La produzione dei divani: gli chassis vengono realizzati in
Turchia, le pelli vengono dal Brasile, i divani sono assemblati
in Europa ed esportati in tutto il mondo, gli scarti di pelle
finiscono in Cina dove vengono lavorati per diventare gadgets
o altri oggetti in pelle.
Ma torniamo allo shipping.
Si, e lo facciamo restando in Cina, forse l’unico Paese in cui
,grazie a un fattore tempo che è considerato filosoficamente
una variabile indipendente nelle scelte, le decisioni strategiche
sono frutto di una politica dirigistica in grado di impattare
direttamente sugli assetti globali: Pechino è diventata la
fabbrica del mondo, e lo shipping lo sa bene, perché il
ridimensionamento e la crisi delle industrie cantieristiche
giapponesi e quindi coreane ha alla base una strategia di
conquista di mercato che si concretizza in tempi terribilmente
stretti.
Negli anni 2005/2006 la Cina decide, e ribadiamo, decide,
che dovrà diventare la più grande potenza cantieristica del
mondo. Si. Lo decide per una scelta strategica dirigista che
viene applicata nei minimi dettagli: le nuove costruzioni
vengono offerte a prezzi di bargain e non da cantieri esistenti,
ma da cantieri virtuali che vengono realizzati sulla base delle
commesse in serie di una certa tipologia di nave. È il caso delle
post-panamax la cui produzione in serie è rallentata solo dalla
indisponibilità in numero adeguato di motori marini prodotti
in Germania.
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Le esperienze personali sono più efficaci di qualsiasi discorso.
Sono stato testimone attivo del progetto di un gruppo di
armatori italiani interessati a costruire navi adatte al transito
attraverso il nuovo canale di Panama e protagonisti di una
trattativa con un importante cantiere cinese, potenzialmente
disposto a dedicare una parte delle sue infrastrutture solo
alla costruzione di questa nuova tipologia di navi. Giunto al
traguardo delle dieci e più navi in ordine, il gruppo cantieristico
cinese si offre, a fronte di questo livello di commesse, di
costruire in pochi mesi un cantiere nuovo di zecca da dedicare
esclusivamente a questa tipologia.
Come leggere oggi quell’esperienza vissuta di persona?
Nella finanza o nel mercato immobiliare diremmo senza
esitazioni che si tratta dei prodromi di una bolla che tende
oggi a fagocitare tutti in una sorta di limbo non cognitivo, che
alimenta un’errata visione collettiva: la domanda non avrà mai
fine e i profitti saranno costanti.
Persino il primo shock del post Olimpiadi di Pechino non
viene colto in tutta la sua potenza rivelatrice. Il fatto che la
Cina sia andata in overdose di prodotti e materiali prodotti per
infrastrutture che sono state già realizzate, e per altre che non
si faranno, è considerato da molti poco più di un incidente di
percorso.
Ciò oscura le menti: nessuno o molto pochi si accorgono che il
gioco si sta trasformando in una vera e propria roulette russa
e che il colpo nascosto nel tamburo della pistola si chiama
finanza: l’armatore tende a essere sempre bancocentrico, è
immaturo per la Borsa o per alleanze con fondi di investimento
,e i suoi sonni sono popolati, e non potrebbe essere altrimenti,
dal timore di dover lasciare il timone dell’impresa; per contro le
banche continuano a considerare positivamente il settore e la
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SHIPPING E PANDEMIA
gara che si è innescata fra gli Istituti per finanziare nuove navi è
la premessa naturale della bolla.
Ma è facile affermarlo oggi. In allora, il settore sembra
invincibile: noli alti, trasporti in incremento costante, una
più che comprensibile voglia di rivalsa delle banche italiane
rispetto a istituti bancari stranieri che avevano fatto il bello e
il cattivo tempo nella concessione dei crediti al settore; il tutto
corredato da un’insufficiente specializzazione e conoscenze
inadeguate alla dimensione della sfida e dimenticando il
vecchio motto : “Il Banchiere bravo è quello che ti sa negare un
finanziamento spiegandoti le ragioni“.
B&B, ovvero banche e brokers bussano di continuo alla
porta degli armatori con offerte imperdibili: equity minimo
per avviare nuove iniziative e siglare nuovi contratti. In quella
fugace età dell’oro è difficile anche per l’armatore chiudere le
orecchie al canto delle sirene: l’occasione è unica.
Anche i più prudenti, persino quelli che non avevano mai
ordinato una nave nuova, giocando prudentemente le loro
carte sul mercato delle second hand, credono al miracolo
che si stava compiendo sotto i loro occhi mettendosi in scia
con quello spirito di emulazione che è facile criticare solo a
posteriori.
Come detto, facile valutare i pericoli di una spirale se non si
sta scivolando a grande velocità al suo interno. E l’acme di
questo processo (simile per altro in tutti i fenomeni di bolla) si
manifesta nella disponibilità delle banche italiane a finanziare la
loro quota anche nei pagamenti iniziali per acconti accettando
che la quota dell’armatore venga effettivamente versata
non al momento della stipula, bensì durante la costruzione
grazie a utili prospettici che si sarebbero realizzati durante la
costruzione della nave.
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Il top si aggiunge, quando il mercato continua a salire e alcune
compagnie greche si quotano sui mercati finanziari specie
quello americano nei fatti scaricando sul mercato stesso
gli effetti di una bolla che da lì a qualche tempo in avanti
sarebbe scoppiata. E non marginale nella gestione di questo
apparentamento shipping-finanza è il ruolo dei figli di armatori
con formazione finanziaria in università internazionali, specie
inglesi e americane, e mentalmente pronti ad applicare ciò
che hanno imparato in un mercato le cui caratteristiche di
instabilità e imprevedibilità congenite erano invece ben
presenti nei pensieri dei loro genitori.
I budgets sono influenzati costantemente da un andamento
record dei noli, che annichiliscono le previsioni più
ottimisticamente positive di crescita, consolidando
l’impressione di un mercato invincibile: e ancora una volta è
opportuno e utile richiamare l’esperienza vissuta sul campo
con la licenza di non citare né il nome della banca né quello
dell’armatore.
Siamo a metà degli anni Ottanta. Un armatore ordina alcune
navi, il prezzo di commessa per le nuove costruzioni è in lire
e chiede il finanziamento sempre in lire a un Istituto bancario
italiano: a garanzia esiste già un contratto di noleggio in
dollari di lungo periodo. Si predispone il budget previsionale
e il giudizio sull’operazione che è giudicata interessante,
anche se non self-sustained: i soli noli non sono sufficienti a
sostenere l’intero budget. La banca insiste perché si realizzino
condizioni di auto-sufficienza nel senso che ogni nave debba
da sola autosostenersi nel budget finanziario. Alla luce di ciò
e considerando che tutte le uscite o quasi sono in lire e che
l’unica soluzione possibile passa attraverso un incremento dei
ricavi, la formula vincente è quella di una graduale svalutazione
della lira di almeno il 20% rispetto alla valuta USA dopo tre anni
dall’ inizio del contratto di noleggio; ecco che il budget torna in
perfetta quadratura: la pratica viene approvata e tutto va liscio
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SHIPPING E PANDEMIA
al punto che, dopo tre anni il direttore generale di quella banca
si complimenta dicendo che ero stato più bravo dei loro esperti
nel prevedere con esattezza la svalutazione della lira rispetto al
dollaro e interrogandomi su quale fosse la mia fonte segreta.
Questione di vision. La risposta, ci si rende conto oggi, è al
confine fra l’economia, la finanza e la filosofia. Il risultato è che
l’operazione mi frutta la fiducia incondizionata del direttore
della banca che chiederà di sfruttare la mia vision per altri
finanziamenti nello shipping. Potenza e aleatorietà dei budgets
previsionali.
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32
CAPITOLO 3
PERICOLO E OPPORTUNITÀ
33
Da un lato la Cina con la sua enorme capacità cantieristica e
con la disponibilità a offrire condizioni imperdibili; dall’altra
lo shipping internazionale che ha messo a punto alcune
formule vincenti, ma non eterne.
Per tentare di capire iniziamo dalla crisi e non dalla definizione
delle formule che appaiono vincenti. Poi riavvolgiamo la bobina.
Muovendo da una prima considerazione: la crisi dello shipping
come sempre accaduto nasce da una sovracapacità di stiva
che sfocia in una depressione dei noli. Non è necessariamente
utile cercare colpe o responsabilità: dagli anni Ottanta al 2008,
data da cui inizia un’inarrestabile crescita della disponibilità di
stiva, la globalizzazione ha spinto sull’acceleratore delle rotte
marittime alimentandosi anche attraverso l’adesione della
Cina al WTO, ma quando il tasso di crescita si è stabilizzato
su un andamento più lento e riflessivo, si è trasformato in un
cambiamento strutturale e permanente.
La parola crisi, scritta in cinese, è composta di due
caratteri. Uno rappresenta il pericolo e l’altro rappresenta
l’opportunità.
Lo affermava John Fitzgerald Kennedy.
La crisi del settore shipping precede quella della finanza nel
2008 (ed entrambe sono frutto dell’esplosione di una bolla
preesistente) e per mesi se non per anni nasconde sotto il
tappeto la sua gravità e anche la parziale inadeguatezza con
la quale viene affrontata da molti players anche istituzionali.
Sul ponte di comando ci sono le banche tedesche e il
governo tedesco. Il meccanismo delle KG, i fondi finanziati
da investitori privati invogliati da forme di vantaggio fiscale
e simpaticamente chiamate le “società dei dentisti”. La crisi
del mercato si riverbera sul valore degli investimenti e scatta
la tagliola per gli investitori e le banche. Tutto già scritto forse
anche se lo shipping tende a cristallizzare le formule che si
sono rivelate vincenti.
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PERICOLO E OPPORTUNITÀ
In Germania al contrario di quanto accadrà in Italia, le crisi non
finiscono sulle prime pagine dei giornali: KG e non performing
loan, azzerano il capitale delle banche nate e cresciute proprio
per finanziare lo shipping e spesso controllate a maggioranza
dai Land.
Mentre in Italia grandi istituti viaggiano verso il default alla
luce del sole, la partecipazione dei Land (versione tedesca
delle Regioni a statuto autonomo) nel capitale delle piccole
banche di shipping consente alle banche nazionali tedesche
di assorbire le banche finanziatrici dello shipping con una
garanzia pubblica (quella dei Land) sui crediti in portafoglio
cioè detto più semplicemente con la possibilità di archiviare le
pratiche nei sottoscala evitando default pubblici.
Ma anche le garanzie dei Land hanno una scadenza e
proprio nel lasso di tempo fra un default che in un mercato
sano sarebbe risultato inevitabile e il subentro di un grande
Istituto garantito dalle amministrazioni regionali, si consumerà
il secondo fenomeno epocale nel rapporto fra shipping e
finanza: l’ingresso dei fondi di investimento. Le garanzie dei
Land avevano una scadenza e solo sino a quella data quelle
garanzie potevano essere fatte valere: ecco intervenire accordi
con i primi Fondi speculativi che acquisiscono a sconto il
credito (in genere anche 20/25% in meno rispetto al valore
effettivo del bene finanziato). Il ruolo di pontiere fra un valore
di flotte quantificato, a titolo di esempio, in 60 milioni e un
valore 100 del credito, che attraverso un’offerta al ribasso
di 40/45, ricolloca flotta sul mercato a scapito dell’armatore
finanziato, formalmente salva o attenua fortemente l’impatto
sul sistema creditizio.
Il processo di “smaltimento terapeutico” dei cosiddetti NPL in
Germania si concretizza in maniera ritardata, oltre che “assistita”
dalla garanzia dei Land, attraverso una formula “particolare”
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che consente di tenere in bonis i crediti delle banche Tedesche,
esponendo queste ultime a minori rettifiche e, quindi, ad una
distorsione competitiva a loro vantaggio rispetto alle banche
di altri Paesi Comunitari. Lo stratagemma si basa sul concetto
del Long Term Value; il che significa che, mentre le banche
Italiane (o Comunitarie) valutavano il credito sulla base del
valore di mercato delle garanzie sottostanti (la nave), le banche
Tedesche, in accordo con la Vigilanza della Bundesbank (le
banche del Land all’epoca erano esentate dalla Vigilanza della
EBA-BCE), definiscono un criterio diverso basato sul suddetto
Long Term Value.
In pratica viene nominato un panel composto da brokers,
banche, società di audit, che definisce parametri (assumptions)
in base ai quali si costruiscono i cash-flow prospettici delle
singole navi che vengono scontati a un tasso determinato nelle
assumtions. In pratica: “dato il risultato, applicato in metodo”,
con questo stratagemma le banche tedesche per anni celano
la reale entità del “buco” sottovalutando gli NPL nello shipping
e dando luogo a minori accantonamenti.
Sia chiaro; il meccanismo di per sè è ineccepibile: l’ingresso dei
Fondi per acquisire crediti non performanti nasce proprio dal
fatto che la garanzia pubblica dei Land ha una durata limitata;
questa limitazione temporale rende quasi indispensabile, per
ottenere il rimborso garantito, cedere il credito a soggetti
finanziari a forte sconto entro una data prefissata.
Molti armatori italiani hanno contratto finanziamenti con
banche tedesche, banche specializzate rispetto alle quali le
banche italiane erano entrate in competizione sugli spread
e sulle condizioni dei finanziamenti pur di recuperare a ogni
costo quote di mercato.
Ed è proprio l’acquisizione da parte di Fondi stranieri di questi
crediti contratti con le banche tedesche il “cavallo di Troia” che
aguzza l’attenzione dei fondi per il mercato italiano.
36
PERICOLO E OPPORTUNITÀ
In Paesi come l’Italia il sistema bancario o non è pronto a
reagire o è protetto a macchia di leopardo dallo Stato; non
esiste ancora una CDP che possa fungere da contraltare delle
principali banche tedesche E gli spazi vuoti in economia e in
finanza tendono naturalmente a riempirsi.
La catena del sistema tedesco prevede la seguente sequenza
genetica: KG -Banca specializzata nello Shipping-Land socio
e garante dei crediti- fusioni con Istituti nazionali- vendita a
sconto/saldi per incassare il differenziale dal garante.
Un’equazione che in teoria, ma anche in pratica, in Italia non
potrebbe funzionare; ma per i Fondi la scoperta di un mercato
ancora vergine non può non determinare un’attrazione
fomentata anche dalla scontistica, dalla facilità di liquidare
l’asset nave (in un mercato mondiale), alleati preziosi se la
grande liquidità in loro possesso non avesse fatto quadrare
queste operazioni.
I Fondi di investimento in effetti irrompono sul mercato
italiano senza trovare ostacoli sulla loro rotta chiudendo deal
con banche italiane costrette a liberarsi dei famosi crediti NPL
e fornendo una prospettiva futura a molti gruppi armatoriali. È
una scelta naturale, quasi senza alternative.
Ancora una volta dobbiamo sottolineare come sia facile a
posteriori affermare che l’armatore viene stretto tra la pressione
di questi Fondi e la scomparsa delle tradizionali banche
che in tutta fretta abbandonano il settore. La verità è che
l’impresa armatoriale si trova improvvisamente a non essere
più bancocentrica, e quindi affronta senza rete uno stand by
finanziario alla ricerca di strumenti adatti per creare un nuovo
ordine. Con il paradosso di scoprire solo a posteriori che una
risposta più rassicurante e flessibile sarebbe potuta arrivare per
tempo sino dalla fine degli anni 80, e per la precisione da quel
1987 che è data ufficiale di nascita dello SGA, lo strumento di
salvataggio del Banco di Napoli.
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Ma ancora una volta è facile esprimere giudizi a posteriori, anche
se fa specie che l’Italia, Paese che in molte occasioni ha saputo
individuare prima di altri formule vincenti anche nel rapporto
fra finanza e shipping, abbia sacrificato a personalismi e alla
scarsa compattezza del cluster la sua capacità di individuare
rotte nuove, lasciandone la primogenitura a Paesi come Grecia,
Olanda o Norvegia: nel Paese scandinavo è stata la stessa
associazione armatoriale a sponsorizzare la creazione di una
banca specializzata.
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CAPITOLO 4
E SE FOSSE STATO SGA?
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E se ci fosse stato un cavaliere bianco pronto a salvare?
Proviamo a costruire un quadro di ipotesi a posteriori allo
scopo di imparare dal passato.
È facile ragionare con il senno di poi e fare “gli splendidi”
applicando a fatti già avvenuti soluzioni non ancora pensate.
Possiamo certo interrogarci oggi ponendo quesiti relativi
all’acme della crisi dell’armamento italiano. Del tipo: e se ci
fosse stato lo SGA? Se fosse scesa in campo la Cassa Depositi e
Prestiti? Se qualcuno avesse capito?
E in alcuni Pesi la gravità della crisi è stata colta al suo primo
insorgere determinando l’intervento di forme di garanzia
pubblica, in grado di risolvere al tempo stesso i problemi delle
banche e di far ripartire gli armatori, come diremo più avanti.
A molti potrebbe apparire un esercizio sterile, una digressione
di valore puramente accademico, ma pensandoci bene, forse,
non è così. Proviamo quindi a delineare uno scenario diverso
partendo sempre dalla base di aziende che hanno investito nella
convinzione che il mercato fosse entrato in una fase espansiva di
una certa durata e che all’improvviso si sono trovati invece a far
fronte a un debito insostenibile e ingiustificato considerando i
valori calanti delle flotte e delle navi commissionate in modo,
che, sempre in ottica retrospettiva, appare talora incoerente
rispetto alle prospettive reali del mercato.
Prima considerazione ovvia: la presenza di un soggetto
pubblico o para-pubblico come SGA o CDP avrebbe consentito
di allungare i tempi di pagamento del debito e di preservare
quindi la sopravvivenza di gran parte della flotta. In altre parole,
il dilatamento dei tempi di pagamento attraverso la presenza
di un soggetto intermedio avrebbe consentito di sospenderlo,
raddoppiando il periodo rispetto al debito residuale.
Il caso SGA mai applicato allo shipping ha dimostrato che le
40
E SE FOSSE STATO SGA?
parti in causa, dal soggetto bancario all’armatore, avrebbero
con un tale tipo di intervento, minimizzato le perdite che
invece poi sono stati costretti a subire. Sarebbe stata sufficiente
un po’ di attenzione e l’applicazione delle metodologie tipiche
della gestione di una crisi e il fattore tempo, attraverso una
possibilità di diluire i pagamenti, per generare un quadro
totalmente diverso, configurando in taluni casi operazioni winwin.
Ribadito il concetto che è facile vincere le scommesse
conoscendo già il risultato, l’interrogativo riguarda
ovviamente il ruolo che avrebbero potuto avere i Fondi. E
non si tratta di un esercizio sterile.
Un’operazione che per comodità si potrebbe chiamare SGA
style, rappresenta geneticamente il polo opposto rispetto al
comportamento e agli obiettivi standard dei Fondi. Si è fatto
un gran parlare di differenziazione fra Fondi speculativi e Fondi
conservativi. La verità è che alla resa dei conti i Fondi, specie
quando rischiano capitale effettivo e non carta, entrano sempre
e comunque in un’operazione per massimizzare il profitto a
favore dei loro investitori, i bondholders, comprimendo il più
possibile i tempi intercorrenti fra l’entrata e l’uscita dal campo.
È questa la loro ragione sociale per altro nota e mai mascherata.
Solo un intervento statale, sia pure temporaneo, avrebbe
fornito ai creditori uno scudo evitando di distruggere le flotte
e di annientare una quota consistente e storica dello shipping
italiano. Nessuna colpa dei Fondi, sia chiaro, che hanno
occupato spazi che erano in attesa di un player, ma certo
un’incapacità del sistema, a sua volta sottoposto a pressioni
precedenti, di guardare oltre l’orizzonte consueto.
In altre parole, queste considerazioni sarebbero inutili, se
si perdesse di vista la madre di tutte le battaglie: ovvero
il rapporto armatore-cantiere. Alcune grandi operazioni,
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oggetto anche di cessione da gruppi vicini al default ad altri
convinti di poter trasformare la crisi in opportunità di successo,
prevedono la concessione di credito superiore all’80% erogato
su ogni singola rata di pagamento fissata dal cantiere con
l’armatore. Con una formula standard di contratto che prevede
cinque rate, chiunque puó avviare una grande operazione per
la costruzione di navi versando solo il 20% del valore dell’intera
operazione.
Troppo facile per non innescare lo spirito di imitazione, che si
alimenta anche nell’orgoglio e in quello strano legame (unico
nel panorama industriale) che lega l’armatore alla “sua” nave.
Se poi per il pagamento della prima rata intervengono anche
altre forme di finanziamento che abbattono a un cip la quota
di equity, le premesse per il disastro sono scritte nella pietra.
Maestri, ma anche maestri a uscire dalle difficoltà, sono gli
armatori greci che non solo utilizzano a piene mani queste
formule, ma attraverso la quotazione in Borsa, negli Usa o
in Scandinavia, delle neo nate società abbattono il rischio,
ovviamente il loro, un po’ meno quello di altri soggetti coinvolti.
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CAPITOLO 5
DOTTOR SCHAUB C’È UN OTTIMO INVESTIMENTO
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Abbiamo iniziato questo percorso a ostacoli fra finanza,
shipping, crisi, overcapacity e ruolo della Cina ponendoci
reciprocamente domande, spesso conoscendone in
anticipo la risposta. Ora tentiamo di fare un passo
indietro ripercorrendo alcuni fenomeni chiave che hanno
condizionato in modo pressante l’evoluzione e poi circa il
70% degli investimenti del mercato marittimo mondiale.
Lo facciamo come se avessimo assistito di persona a questi
accadimenti… e forse in parte è stato proprio così.
È sufficiente una breve pausa fra un paziente e l’altro, una
rapida telefonata con il consulente finanziario...
L’operazione è talmente semplice che non richiede particolari
riflessioni: la tassazione sul reddito dei professionisti in
Germania è notevolmente progressiva, ma esistono alcuni
strumenti che consentono di abbattere il reddito e di rientrare
nelle fasce tassate ad aliquota inferiore.
KG che sta per Kommanditgesellschaft è l’equivalente della
nostra Società in accomandita, un soggetto che tassa il reddito
prodotto per trasparenza cioè il reddito viene imputato
direttamente ai soci, persone fisiche, che lo dichiarano
sommandolo a tutti gli altri redditi prodotti. Per le imprese
armatoriali tedesche (come quelle italiane) esiste la possibilità
di determinare il reddito in maniera analitica o sintetico
mediante l’opzione per la tonnage tax (quindi pagando un
reddito fisso predeterminato in funzione della stazza della
nave).
La differenza sostanziale fra il sistema tedesco e quello italiano
è l’entità dell’ammortamento del cespite nave nel sistema
analitico, l’ammortamento è sostanzialmente libero come
aliquota.
E in questo si sintetizzano i motivi del successo della KG nel
44
DOTTOR SCHAUB C’È UN OTTIMO INVESTIMENTO
settore armatoriale: creo un gruppo di investitori che hanno
aliquote di imposta elevate in funzione del reddito prodotto,
questi diventano soci di una KG che investe negli asset nave,
inizio a scegliere il sistema di tassazione analitico bruciando
tutto l’ammortamento nave nell’arco di pochi anni.
In questi anni di perdite fiscali i soci della KG compensano le
perdite loro attribuite con gli altri redditi prodotti e certamente
ottengono un risparmio di imposta. Appena terminerà
l’ammortamento la KG opterà per il regime di tonnage tax e
il reddito diventerà forfettario e indipendente dall’ammontare
effettivo che sarà certamente maggiore.
Sistema legittimo e incentivante che consente di incanalare
investimenti sempre più consistenti nel settore.
Un sistema che fa guadagnare molto ai promotori dell’iniziativa
ed è win win per una platea molto diversificata di stakeholders.
Nel periodo d’oro circa il 70% degli investimenti in navi avviene
secondo questo schema.
Le banche tedesche specializzate nello shipping finanziano le
navi secondo schemi già prefissati, la KG noleggia a scafo nudo
la nave a un armatore conosciuto e affidabile e il gioco è fatto.
L’ armatore per parte sua può gestire e avere in armamento
un numero di navi di gran lunga superiore alle sue possibilità
finanziarie.
Ma forse a ben vedere la differenza è ancora più profonda:
l’attività armatoriale è per sua natura capital intensive e
necessita di forme finanziarie che non si possono esaurire nel
classico mutuo bancario. Specie se si vuole essere coerenti
con il riconoscimento allo shipping di un ruolo strategico per
l’economia dei singoli Stati.
E anche in questo caso la storia dovrebbe insegnare qualcosa.
In pieno ventennio fascista Galeazzo Ciano, fra il 1927 e il
1928, diede incarico a Alberto Beneduce (allora Presidente di
Crediop) di costituire un Ente ad hoc per il finanziamento delle
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imprese armatoriali e ciò diventò realtà nel 1929. L’Ente era
partecipato da banche, compagnie di assicurazione interessate
e la Cassa Depositi e Prestiti, quale maggior azionista. Nel
1940 le attività passarono all’Imi e a molti anni di distanza,
con l’assorbimento dell’Imi da parte di Banca Intesa questa
formula potenzialmente magica si dissolse, quando gli anni
a venire avrebbero dimostrato quanto un soggetto di questo
tipo sarebbe risultato di vitale importanza.
Che scena ti immagini?
Giusto. Mettiamola giù semplice, semplice, tornando in
Germania..
La telefonata del dottor Schaub con il suo consulente finanziario
Meyer non dura più di tre minuti. La firma del dottore è già
depositata in banca con l’autorizzazione a procedere e questa,
conclusa fra un trapano e una anestesia al molare inferiore
dell’arcata destra, è la quinta o la sesta delle operazioni di
investimento che il buon dottore ha realizzato, mettendo in
cassaforte un risparmio fiscale e un buon patrimonio.
Il metodo funziona per anni. Nascono quindi grandi
concentrazioni armatoriali nel settore delle bulkers, ma anche
e specialmente in quello delle navi portacontainer.
Strana cosa: in città come Amburgo o Brema spesso interi palazzi
(e lo scoprivi se avevi un appuntamento con un armatore) sono
equamente divisi fra gli uffici delle compagnie di navigazione e
gli studi dentistici. Un modo “incisivo”, si potrebbe affermare
ironicamente, per suggellare un patto, fra… fra l’ormeggio e
l’otturazione, fra il nolo e la carie.
Un fenomeno positivo, quindi?
Certo: lo sviluppo prepotente della flotta mondiale per
soddisfare una domanda in costante crescita non sarebbe
possibile senza strumenti finanziari e fiscali in grado di garantire
al capitale investito un ritorno e alle banche una garanzia più o
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DOTTOR SCHAUB C’È UN OTTIMO INVESTIMENTO
meno reale sui crediti erogati.
Anche in Norvegia si fa largo un fenomeno del genere che
prende il nome di AS, con lo stesso meccanismo di vantaggio
fiscale.
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CAPITOLO 6
SE IL MECCANISMO SI INCEPPA?
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Sembra tutto perfetto, se non un piccolo dettaglio: le
distorsioni del mercato (come negli anni a seguire la crisi di
Lehman Brothers avrebbe evidenziato in modo sin troppo
traumatico) tendono a provocare inevitabilmente altre
distorsioni, avvelenando il rapporto domanda-offerta,
alimentando le bolle e creando le premesse per una reazione
a catena dalle conseguenze imprevedibili.
È puramente casuale il riferimento alla scomparsa silenziosa di
tutte le banche dei Land tedeschi specializzate in finanziamenti
marittimi, ovvero una delle più gigantesche operazioni di
occultamento di junk bond e partecipazioni a valore zero,
attuata dalle banche primarie della Repubblica Federale
Tedesca; operazione che sfocerà nel collasso di gruppi storici
della marineria tedesca e che, attraverso l’overdose di nuove
costruzioni, causerà il tracollo nel mercato dei noli.
KG uguale demonio? Non credo proprio…
Certo che no. A ben vedere nella formula delle KG c’è ben poco
di nuovo: altro non è che una riproposizione in chiave moderna
e tax free dello schema dei caratisti, ovvero dei piccoli investitori
che acquistavano quote di navi (è sufficiente ricordare il
fenomeno iniziale di Monte di Procida) e contribuivano
alla creazione di piccole compagnie di navigazione. Il
vantaggio fiscale per redditi professionali tassati con aliquote
sempre crescenti abbinato a una tassazione forfettaria sul
tonnellaggio, ovvero una tonnage tax, per gli investimenti
nel settore armatoriale hanno fatto del meccanismo tedesco,
una poderosa macchina da guerra, che ha alimentato un
flusso costante di nuovi ordini ai cantieri, in un momento di
remunerazione più che soddisfacente dal mercato dei noli.
Ma di eterno nell’economia globale e ancor più nello shipping
non vi è nulla.
50
SE IL MECCANISMO SI INCEPPA?
Il tipico progetto KG fa perno su una società di scopo e di 5
parti contraenti. Gli investitori, come il dottor Schaub, variano
tra le 10 e le 800 persone fisiche, apportano tra il 30% ed il 40%
del capitale raccolto tramite gestori di fondi che contrattano
e gestiscono il prestito bancario, distribuiscono i dividendi e
riferiscono agli investitori.
La banca è di solito tedesca, e molto spesso ha una fortissima
connotazione settoriale, come HSH, NordLB, Commerzbank
(che incorporerà allo scoppio della crisi la Deutsche Schiffsbank
e la Dresdner Bank) o DVB. Ci sono poi il gestore e il gestore
tecnico della nave, che devono entrambi essere tedeschi
(quest’ultimo ha di solito solo una minima quota nella società).
Infine, il noleggiatore, che normalmente stipula un contratto
quinquennale.
Tutta la struttura si regge sulla tonnage tax che la Germania ha
introdotto dal 1999; tassa calcolata sulla stazza netta (NRT) e il
valore della nave, da corrispondersi a prescindere dal risultato
di bilancio.
Una formuletta semplice semplice che produce un risultato
boom specie nel settore delle navi portacontainer, e che
colloca la Germania in una posizione nel ranking mondiale
dello shipping che neppure la lega Hanseatica dei tempi d’oro
si era illusa di poter raggiungere.
Nel momento d’oro le KG attirano i capitali di 440.000
investitori privati che mettono risparmi e profitti professionali
in azioni o carati di ogni singola nave. Praticamente ogni
settimana è creata una nuova società di scopo che raccoglie
in pochi giorni gli investitori necessari. Il sistema è oliato, ma
il mercato per sua natura scivola via.
Nel 2007 gli investimenti totali in fondi armatoriali
raggiungono l’apice di 3,2 miliardi di euro. Il boom riguarda
prima le portacontainer, poi si allarga alle navi cisterna, alle
multipurpose e solo in grande ritardo paradossalmente proprio
51
sulla linea di confine fra il boom e la bolla, alle navi porta rinfuse
con armatori che scommettono in modo indiscriminato sulla
crescita del mercato cinese. Ma non è una never ending story.
La crisi finanziaria del 2008/2009, che impatta come uno
tsunami sul mercato dei noli, rompe il giocattolo.
Gruppi armatoriali storici portano i libri in tribunale, altri si
trasferiscono a Cipro, tentando di salvare il salvabile, ma per la
maggioranza il futuro equivale a un maelstrom, un vortice che
risucchia verso il fondo, navi, compagnie, banche e investitori.
Incluso il dottor Schaub.
I tempi d’oro degli investimenti in navi, di ordini tedeschi
ai cantieri specie cinesi che assommano a oltre il 26% del
portafoglio ordini mondiale, sono ormai definitivamente
scomparsi. In Germania gli investimenti nel capitale
d’armamento che avevano registrato una crescita record
a partire dal 1999, raggiungendo l’apogeo nel 2007, post
Lehman Brothers, nel 2012 sono sprofondati a 258 milioni di
euro (l’8% di cinque anni prima), di cui il 38% a sostegno di
fondi in difficoltà.
La Germania vive quindi la sua Weimar dello shipping?
Le banche tedesche, leader mondiali nello shipping, sono
sovraesposte verso l’armamento. Deutsche Schiffsbank, in
sintonia con il nome, è la maggiore finanziatrice di navi con un
portafoglio di 27,7 miliardi di dollari, seguita dalla norvegese
DNB con 25,7 miliardi e da HSH Nordbank con 25, mentre Bank
of China e China Exim, a titolo comparativo, occupano solo il
14° e 15° posto con ‘appena’ 11 miliardi.
Collaborare, dissimulare, nascondere l’entità della crisi. L’ordine
di servizio prevede una collaborazione con i Fondi soprattutto
a mezzo di “accordi di punto morto” (standstill agreement) con i
quali gli interessi sul prestito continuano a essere regolarmente
52
SE IL MECCANISMO SI INCEPPA?
pagati e i versamenti in conto capitale vengono effettuati in
base agli importi effettivamente guadagnati.
Le regole di Basilea 3 sono adattate e plasmate attraverso
soluzioni fantasiose, le “soluzioni garage”, per cui il gestore
originario viene mandato via, il naviglio viene “venduto” a una
nuova società e il nuovo proprietario/gestore ha la possibilità
di operare meglio le navi, dal punto di vista sia commerciale
che tecnico, supportato per di più da un pacchetto finanziario
completo. La vendita viene effettuata a un prezzo fuori
mercato, altamente inflazionato, che libera le banche da una
pesante svalutazione, mentre il credito risulta ‘performante’ in
bilancio e la perdita rimane “fuori bilancio”.
È un giochino pericoloso che, mentre il dottor Schaub attende
dal suo avvocato rassicurazioni che non arriveranno mai
sulla possibilità di recuperare un capitale scomparso, creerà
le premesse per un’altra tempesta perfetta trasformando
un’emergenza, che forse avrebbe richiesto interventi chirurgici
più radicali, in una malattia cronica.
E viene spontaneo chiedersi se questa formula fosse stata
applicata anche in Italia. Quali effetti avrebbe prodotto
modificando quelli che hanno dimostrato essere i loro
elementi di debolezza e i fattori che hanno indotto elementi di
debolezza sia nella struttura bancaria sia in quella armatoriale.
Ma alle KG, come è obbligatorio fare, dedichiamo un capitolo
a parte.
53
1
2
3 4
5
1- Convegno Confitarma - Norship - HSH Nord Bank per fondo di
investimento navale (5.11.2006); 2 - 3 - 4 - Delegazione Confitarma
in Cina - accordo con Shanghai Federation Industrial Econom
(21/23.01.2008); 5 - Incontro con delegazione giapponese - tavolo
di confronto sul rilancio della competitività (2006-01-31); 6 - Mare e
Finanza un matrimonio di interessi (10.05.2007)
6
56
CAPITOLO 7
UN CARATO DIFFICILE
57
In fondo in fondo, come già detto, le KG non sono altro che una
versione riveduta e corretta degli investimenti in carati. Quegli
investimenti che hanno sempre dello shipping una creatura
anomala, a cavallo fra industria e commercio, fra impresa e
famiglia.
Il carato è la quintessenza di questa anomalia e anche la madre
di tutte le contraddizioni. In Gran Bretagna i carati per legge e
per storia sono 64, in Italia sono 24. Rappresentano le quote di
proprietà in cui può essere frazionata l’intera proprietà della
nave.
Nei testi sacri dello shipping britannico le dissertazioni dotte
sulle origini di quella suddivisione in 64 quote, si sprecano.
Navigano dai Vichinghi all’Impero romano per approdare
all’Arca di Noè.
Il dato di fatto comune, quello che contraddistingue e connota
i carati, è comunque il concetto di proprietà condivisa e proprio
perché condivisa difficilmente alienabile pro quota.
Volendo essere malmostosi, si potrebbe affermare che già la
filosofia alla base della proprietà divisa in carati, profondamente
dissimile da quella che determina ad esempio i rapporti fra
condomini, rappresenti la pietra miliare di un’incompatibilità
che diventerà cronica fra shipping e normale finanza.
Il carato, dall’arabo qīrāt ‘è la ventiquattresima parte di un
denaro’; le origini del nome sarebbero greche: keration ‘carruba’,
è la pianta che fornisce il seme adoperato per pesare merci.
Carato è anche l’antico valore ponderale coniato come
moneta d’argento all’epoca di Costantino.
Poi diventa unità di misura del titolo dell’oro, equivalente alla
ventiquattresima parte di contenuto in oro puro. Quindi unità
di peso usata per le pietre preziose e le perle, equivalente a
58
UN CARATO DIFFICILE
quattro grani o a un quinto di grammo. Infine ognuna delle
24 quote in cui è divisa la proprietà di una nave mercantile,
secondo una tradizione internazionale, sino ad assumere nella
dizione più estesa le caratteristiche di sinonimo della quota di
proprietà di una società.
Per antica consuetudine ognuno dei 24 carati è, a sua volta,
frazionabile e indipendentemente dalla quota effettiva i
comproprietari sono detti caratisti.
Il carato navale è giuridicamente una creatura anomala
rispetto alla comune comproprietà: le deliberazioni relative
agli atti di utilizzazione, di innovazione e di disposizione della
nave richiedono maggioranze minori di quelle che occorrono
nella comunione ordinaria. Il singolo caratista ha, inoltre,
meno poteri del comune condomino: non può, in particolare,
chiedere lo scioglimento della comunione, salvo che non
sia dissenziente rispetto a deliberazioni per innovazioni o
riparazioni straordinarie (art. 260, comma 2o, c. nav.).
I caratisti possono, a maggioranza semplice, decidere la
trasformazione della comproprietà della nave, che è in quanto
tale comunione di solo godimento in società di armamento
assumendo così in proprio i rischi connessi alla diretta gestione:
pertanto i caratisti, anche se dissenzienti, devono assumere la
qualità di soci.
Solo i caratisti non dissenzienti rispondono verso i terzi delle
obbligazioni sociali; essi rispondono in proporzione ai rispettivi
carati e parziariamente. Tutti i caratisti nei rapporti interni
partecipano alle perdite in proporzione dei rispettivi carati; ma i
caratisti che non hanno consentito alla trasformazione possono
liberarsi dalla partecipazione alle perdite abbandonando la
loro quota di proprietà della nave.
I caratisti sono un po’ come i proprietari di una casa in
multiproprietà dove ciascun comproprietario investe la cosa
59
nella sua totalità e incontra un limite nell’uguale diritto degli
altri: la misura, però, in cui ciascuno è ammesso a godere
della cosa stessa è data dalla «quota», che indica altresì la
misura in cui ciascuno parteciperà alla divisione.
E non è un caso che per definire la norma sui carati e sui caratisti,
sia necessario richiamarsi a due Codici, talora collidenti fra
loro; da un lato, quello della navigazione negli articoli 258-263,
dall’altro quello Civile con le norme degli artt. 1100-1116 del
Codice civile, relativi alla comunione in generale.
Caratteristica fondamentale della comproprietà navale è
la limitazione a una singola nave: le stesse persone, cioè,
possono avere in comproprietà anche più navi, ma il regime
condominiale riguarderà sempre e soltanto le relazioni tra
dette persone e ogni singola nave. Tale suddivisione consente
un’immediata traduzione delle quote di proprietà in quote
numeriche e rende possibile un agevole riscontro delle
maggioranze e delle minoranze.
Le deliberazioni della maggioranza vincolano la minoranza «per
tutto quanto concerne l’interesse comune dei comproprietari»
e in tale formula vengono a essere compresi sia gli atti di
ordinaria che di straordinaria amministrazione. In particolare:
• per gli atti di ordinaria amministrazione: è sufficiente la
maggioranza di più di 12 carati (maggioranza semplice);
• per gli atti di straordinaria amministrazione (che importano
una spesa eccedente la metà del valore della nave) e per la
costituzione sull’intera nave di diritti reali diversi dalla proprietà
è necessaria la maggioranza qualificata di almeno l6 carati (art.
260); i dissenzienti possono chiedere, però, lo scioglimento
della comunione e gli altri caratisti possono evitare tale
scioglimento, solo offrendosi di acquistare a giusto prezzo le
quote dei dissenzienti medesimi;
• per l’ipoteca dell’intera nave: è necessaria pure la maggioranza
di 16 carati; si ricordi altresì, che ciascun comproprietario non
può ipotecare i suoi carati senza il consenso della maggioranza
60
UN CARATO DIFFICILE
(art. 263).
• per la vendita dell’intera nave: è richiesta l’unanimità dei
caratisti; tuttavia il Tribunale può autorizzare la vendita
della nave all’incanto su domanda di tanti proprietari che
rappresentino almeno la metà dei carati, dopo aver sentito
i dissenzienti; oppure - se ricorrano gravi e urgenti motivi
- l’autorizzazione può essere data anche su richiesta dei
comproprietari per almeno 1/4 dei carati, dopo aver sentito, in
contraddittorio i comproprietari dissenzienti (art. 264).
Questo breve capitolo sembrerà una digressione giuridica
fuori luogo in un testo non accademico. Ma è a nostro parere
utile per comprendere quanto complesso sia il rapporto fra
shipping e non shipping e in particolare fra finanza e shipping.
61
62
CAPITOLO 8
CINA, GUERRA E PACE
63
L’occasione è il varo della nave commissionata da un armatore
napoletano. Una delle tante di una serie che ha trasformato la
cittadella militare di Hudong, un’enclave richiusa su se stessa
dove vivono, a diretto contatto con lo scalo per il varo delle
navi, 40.000 persone fra tecnici, operai, famiglie, insegnanti
delle scuole presenti all’interno del cantiere. Anche se ormai la
produzione è convertita alle costruzioni mercantili con navi che
sembrano essere parti di un’ininterrotta catena di montaggio,
il compound resta comunque blindato, una “non trepassing
area” che conserva la sua originaria vocazione.
E con meticolosità militare tutto è organizzato nei minimi
dettagli, persino la presenza anomala di un prelato cattolico
che impartisce la benedizione alla nave, poco prima che gli
altoparlanti spargano nell’aria le note dell’Inno di Mameli.
Fuori della cittadella militare, Hudong è solo mercato: sete,
cashemire, stoffe. La prima visita da neofita si conclude con
una ricerca affannata di tessuti che presentino le altezze
preventivamente indicate dal sarto di Napoli; stoffe che
puntualmente dopo il ritorno a casa, un po’ per i rinvii del sarto
italiano i cui tempi tendono all’infinito, un po’ per quelli imposti
da chi il nuovo vestito dovrebbe indossare, le stoffe giacciono
per nove mesi in fondo all’armadio.
Nove mesi che sono esattamente il tempo che si rende
necessario per costruire la nave di cui in occasione del varo
avevo visto posare sullo scalo la prima ordinata. L’invito a quel
varo inevitabilmente, per analogia, riporta la mente proprio alle
stoffe giacenti presso il sarto amico a Napoli, che con una scusa
o un pretesto si è preso 9 mesi senza organizzare nemmeno la
prima prova del nuovo abito. I tempi di un nuovo viaggio in
Cina incombono: a Hudong due chiacchiere con il direttore
del cantiere che si offre di accompagnarti a comprare altre
stoffe e poi il consiglio decisivo: inutile comprare le stoffe, in 36
massimo 48 ore uno dei tanti sarti cinesi disponibili a qualsiasi
ora del giorno e della notte è in grado di riprodurre taglio, stile,
64
CINA, GUERRA E PACE
persino le asole del vestito made in Italy che indossi.
Una comprensibile diffidenza è il compagno di viaggio per
l’ingresso nella bottega del sarto: misure rapide, più al vestito
che indossi, che alle tue spalle o al tuo giro vita, la scelta della
stoffa e l’appuntamento dopo 8 ore per la prima prova, quindi
un arrivederci alla mattina successiva. L’abito è una riproduzione
perfetta di quello indossato e il costo di produzione, avvenuta
probabilmente nel corso della notte, è di 50 dollari.
Il ritorno a casa, a Napoli, questa volta ha un sapore diverso:
il racconto del miracolo sartoriale rimbalza nelle case di tutti
gli amici al punto che nel giro di poche settimane tutti sanno
che in Cina, vicino al cantiere, c’è un sarto che realizza in 48
ore vestiti da sartoria napoletana a 50 euro. Un metodo di
copiatura istantanea che funziona anche sugli abiti femminili
griffati. Ma guai a confessarlo alle amiche.
Un sistema perfetto che si riproduce alla perfezione in una
economia di mercato che non conosce il mercato.
I cinesi sono perfettamente consci che i primi anni saranno
finanziariamente disastrosi. Che l’esperienza fatta giorno dopo
giorno sulle spalle degli armatori si risolverà in navi non pagate,
o in altre non ritirate perché imperfette.
Ma è un rischio calcolato: come il sarto cinese ha copiato i
vestiti occidentali, alla stessa maniera i cantieri copiano le
navi, ma anche i processi organizzativi del cantiere, quelli che
consentono non tanto di abbassare i costi, ma di avvicinare i
livelli qualitativi della produzione dei cantieri occidentali.
Nello shipping mondiale questo giochino funziona? E quali
equilibri disintegra?
Come direbbe un conduttore di quiz televisivi, è una domanda
65
da un milione di dollari e comporta anche considerazioni di
tipo geo-politico.
Se sul fronte della domanda il ruolo giocato dalla Germania
e dalle sue KG è incontestabile, le strade che conducono la
Cina a diventare la prima potenza cantieristica mondiale e
ad alimentare in modo decisivo la bolla dello shipping sono
in parte imperscrutabili. Il mix fra motivazioni commerciali
egemoniche, sempre e comunque in odore di dumping, e
ambizioni di conquista geo-politica, per via militare, finanziaria
o di occupazione dei gangli vitali del commercio mondiale,
si mischiano e si ricompongono come in un caleidoscopio la
cui comprensione è limitata nello spazio e nel tempo a chi la
grande macchina cinese gestisce.
L’incrocio di interessi, storia, persino gestione delle comunità
locali è evidente e talora sconcertante nel settore cantieristico.
E ciò in un quadro magmatico, in continua evoluzione che
vede anche i cantieri militari, primi a entrare in scena, mutare
faccia e impostazione assomigliando sempre di più a strutture
cantieristiche di tipo occidentale.
Le differenti tipologie dei cantieri riflette un intrigo fra
interessi che nello schema della Repubblica popolare possono
convivere, mentre in qualsiasi Paese a economia di mercato
collasserebbero. I cantieri ex militari non sono neppure lontani
parenti dei consueti stabilimenti industriali; sono piazzeforti,
vere e proprie cittadelle fortificate. All’interno delle mura
vivono intere comunità chiuse, operai, tecnici, ingegneri con
le loro famiglie alle quali all’interno della cittadella è assicurato
tutto, dai generi di consumo, alle scuole per la formazione dei
bambini. La diversificazione dalle costruzioni militari a quelle
civili e mercantili equivale a un’apertura dei cancelli e quindi
a una ancorché parziale “liberalizzazione” di comunità isolate.
La seconda tipologia è invece prettamente industriale anche
66
CINA, GUERRA E PACE
se risponde a logiche di pianificazione di lungo periodo,
assistite da scelte dirigistiche e da finanza conseguente. In
questo caso non è il cantiere a porre sul mercato la sua capacità
produttiva esistente; è lo Stato attraverso le sue strutture
industriali a sollecitare una domanda globale e quindi un
ordine particolarmente esteso di navi tutte con le stesse
caratteristiche. Ciò riguarda in particolare il settore delle bulk
carrier. Venti o più navi commissionate a prezzi di liquidazione
resi possibili dal dumping sui costi, ma anche dalla ripetitività
del prodotto e rien ne va plus: il cantiere viene creato ex novo
su misura per quella particolare tipologia di nave.
A soffiare il vento nelle vele di queste operazioni è la grande
voglia delle banche europee, e in particolare italiane, di tornare
In gioco, di partecipare da protagonisti all’erogazione del
credito. Per gli armatori significa mettere in campo un’equity
minima beneficiando della disponibilità delle banche a
finanziare in anticipo le singole rate di pagamento del prezzo e
quindi puntando sull’utilizzo degli introiti futuri per completare
la quota di equity necessaria all’investimento.
Un sistema perfetto o quasi?
Il sistema è perfetto in quanto quasi speculare rispetto alle
KG tedesche: allo stesso modo e con le stesse modalità di
intervento sul mercato, attiva leve finanziarie che nel breve e
medio periodo alimentano la domanda, ne perdono il controllo
quando diventa una bolla e innescano quindi un meccanismo
autodistruttivo dei players che si trovano intrappolati nel
sistema. Ma esiste una fondamentale differenza: le KG,
in quanto strumento per altro efficientissimo di mercato,
rischiano di saltare in aria insieme con banche e investitori. I
cantieri cinesi no.
I cantieri navali cinesi non a caso nascono come cantieri militari
e appartengono originariamente tutti a enti pubblici. Un
67
raggruppamento del Nord fa riferimento all’ente denominato
CSIC ed è controllato da istituzioni territoriali mentre gli
stabilimenti del centro sud si compattano sotto le insegne
di CSSC (China State Shipbuilding Corporation) e dipendono
direttamente da Pechino.
Il primo cantiere che si apre ad armatori stranieri è Hudong
che già nel 1980/82 costruisce due navi da 25.000 dwt per
un armatore europeo. Nel novembre 1999 lo stesso Hudong
consegna la prima nave costruita per armatore italiano e
bandiera italiana: è la “Gianfranca d’Amato”.
Quello cantieristico è per la Cina uno sforzo analogo a
quello bellico; sono mobilitate enormi risorse finanziarie e
operative: oggi è costretta a confrontarsi con il mercato e a
diversificarsi su varie tipologie produttive inclusa quella dei
ferry e potenzialmente delle crociere; ma negli anni fra il 2007
e il 2010 la cantieristica cinese schianta ogni rivale, a partire
dalla Corea; sino al 2011 quando il crollo dei noli rimette tutto
in discussione…
La capacità produttiva cinese si era sviluppata di ben 13 volte
fra il 2002 e il 2012. E non è sorprendente se si considera che
l’attività cantieristica rappresentava uno dei fattori di forza
della Cina già nel 1500, le navi in legno made in China erano
conosciute per la loro robustezza.
Se l’era nuova per la cantieristica cinese è cominciata con il
Grande piano di Deng Xiaoping per la conversione dei cantieri
militari in stabilimenti per costruzioni mercantili e nella
trasformazione dei due mega gruppi in qualcosa di molto
simile alle Corporation quotate, di certo la decisione strategica
assunta nel 2002 cambia ogni visione prospettica:
“La Cina dovrà essere il Paese leader nelle costruzioni
navali”. Con oltre 275.000 addetti diretti e 125.000 operanti
68
CINA, GUERRA E PACE
in un indotto che sta progressivamente assicurando anche
l’indipendenza nella componentistica navale, la Cina
lancia una vera e propria Chineese way valida anche per
fronteggiare la crisi mondiale dello shipping”.
Pilastro portante di ogni Piano successivo saranno le misure
per sostenere a ogni costo la domanda, approfittando della
crisi per comprare competenze e annientare la concorrenza. Gli
strumenti finanziari e fiscali diventano essenziali e “drogano” il
mercato mondiale esattamente come le KG avevano in parte
fatto sul fronte della domanda.
Gli strumenti finanziari prevedono forme estreme di
detassazione per tutti cantieri che hanno effettuato
investimenti, il che equivale ad affermare il concetto di autodetassazione,
quindi sconti sui prezzi delle navi destinate
all’export, linee di credito preferenziali per le società di leasing
che ordinano navi per operatori nazionali o internazionali, con
un parallelo azzeramento delle tasse sui profitti conseguiti e
un utilizzo molto disinvolto dello Stock market.
Sui cantieri piovono fondi assicurati da Agenzie governative,
banche, programmi speciali di finanziamento delle industrie.
Mentre sono applicati dazi sulle navi di importazione (sino al
22% del loro valore), il governo centrale assicura contributi
attraverso vari istituti che finanziano anche formazione e
acquisizione di tecnologie all’estero.
Il sistema Cina nelle costruzioni navalI è un monolite e i suoi
ritmi si ripercuotono con un automatismo letale sui mercati
dei noli, sugli equilibri, o meglio, sugli squilibri fra domanda e
offerta di navi. I cantieri cinesi pompano aria in una gigantesca
bolla e quando la bolla scoppia a saltare sono tutti gli anelli
della catena produttiva capitalista, in primis le banche.
Non sono solo le navi costruite in serie a devastare qualsiasi
69
logica di mercato: fra una nave e l’altra commissionata da un
armatore occidentale viene inserita una nave made in China
per armatore cinese, ovvero per una compagnia di Stato. E
questa nave costa infinitamente meno di quelle già prodotte in
dumping per gli armatori occidentali. Il che significa che sulle
rotte di chi ha consegnato i suoi progetti in un cantiere cinese,
incrocerà negli anni a venire una nave gemella, che, priva
di costi di ammortamento e oneri finanziari, potrà giocare
ulteriormente al ribasso volando sulla cresta dell’onda.
70
CAPITOLO 9
IL MIRACOLO SGA
71
“Un banchiere è uno che vi presta l’ombrello quando c’è il
sole e lo rivuole indietro appena comincia a piovere”.
Questa frase di Mark Twain sarebbe doverosa come incipit
nella stesura del bilancio sociale di qualsiasi Istituto finanziario.
Diventa un obbligo affrontando il problema dei cosiddetti
crediti deteriorati, quelli che con una formula inglese vengono
più elegantemente definiti NPL, ovvero Non Performing Loans
oppure, in modo ancora più raffinato e volutamente criptico
NPE, ovvero Non Performing Exposures; in parole povere quei
prestiti che sono stati erogati spesso con eccessiva leggerezza
o fiducia, e che solo con molta difficoltà torneranno, forse, in
versione ridotta nella cassa della banca che li ha concessi, o
meglio, in quella della società che dalla banca li ha rilevati.
E se è vero che – come afferma un vecchio proverbio ebraico
- “una monetina falsa si scopre sempre quando si paga”, la
gestione degli NPL è diventata, in un mondo tanto globale
quanto esposto a cicli di crisi, una vera e propria professione.
Per l’Italia esiste anche una data di nascita: il 1996. Con la
Legge Amato-Carli viene avviato il primo massiccio processo
di ristrutturazione di una Banca italiana in difficoltà. Monte
dei Paschi, Carige, Banche del nord est, Banca Etruria, Banca
di Bari sono ancora in stato di grazia e di apparente buona
salute. Il Banco di Napoli, no. Nell’epicentro del terremoto che
trasformerà gli istituti di credito di diritto pubblico in Spa, la
Fondazione Banco di Napoli vede azzerate le sue azioni nel
capitale della Banca in virtù delle azioni di risanamento attuate
da una creatura del tutto nuova; si chiama SGA che sta per
Società Gestione Attività, quella che oggi verrebbe definita la
bad company alla quale il Banco di Napoli cede le sue attività
non remunerative: 36 posizioni per un ammontare totale di
12,4 miliardi di lire, sofferenze, crediti ristrutturati, insolvenze,
svalutati del 30% rispetto al loro valore nominale.
72
IL MIRACOLO SGA
SGA compra lo stock di crediti deteriorati grazie a un prestito
erogato dallo stesso Banco di Napoli (con un tasso tra il 7 e il
10%) che a sua volta è finanziato da Banca d’Italia, a un tasso
dell’1%. Successivamente, riceve anche le sofferenze e gli
incagli di Isveimer.
E non può non venire in mente una celebre frase spesso
utilizzata dall’armatore greco Aristotele Onassis:
“A un certo punto il denaro non ha significato. È il gioco che
conta”.
Tra il 1997 e il 2002, SGA segna perdite per 3,7 miliardi, 1,7
miliardi dei quali di interessi corrisposti a Banco di Napoli per
il finanziamento totalmente saldato in quei cinque anni, le
spese legali, i costi della struttura, ma soprattutto le ulteriori
svalutazioni operate sui crediti acquisiti.
Con l’acquisto di Banco di Napoli da parte di Sanpaolo IMI, SGA
confluisce anch’essa nel nuovo gruppo.
Ma SGA (che oggi è sempre presente sotto il nuovo nome
AMCO) compie il salto di qualità quando diventa il braccio
operativo del ministero del Tesoro con il compito istituzionale
di intervenire nei vari salvataggi che il Governo italiano, in
conformità alla disciplina europea, sta conducendo.
In altre parole SGA diventa la madre di tutte le bad companies;
serve per Mps così come per le Banche Venete; tutti i crediti
deteriorati, frutto di bad practices sulle quali va posata una
pietra tombale, finiscono dentro il forziere dei pagherò e degli
NPL di SGA che è autorizzata ad acquistare sul mercato “crediti,
partecipazioni e altre attività finanziarie”, trasformandosi in un
intermediario finanziario.
Mestiere che dimostra di saper fare recuperando quasi tutti
i crediti problematici presi in carico dal vecchio Banco (6,4
miliardi di euro rappresentati soprattutto da prestiti a imprese
73
meridionali) e realizzando una montagna di profitti. Il tutto
favorito anche dai ricchi ripianamenti effettuati dallo Stato nei
suoi primi anni di attività.
SGA non è più una bad bank. È un professionista dei crediti
inesigibili. Ma dato che salvo rare eccezioni le stamperie di
soldi non possono essere azionate con un semplice dito sul
pulsante e che qualcuno in queste complesse operazioni di
cessione di crediti inesigibili dalle banche resta comunque
con il cerino in mano rinunciando a gran parte di quanto
dovrebbe esigere da creditori verso i quali si è dimostrato
troppo compiacente e disponibile, SGA diventa anche una
gigantesca cassa di compensazione di salvataggio tardivo di
amministratori bancari non propriamente con qualche danno
collaterale a carico degli azionisti e talora dei correntisti delle
banche che attraverso la cessione a SGA sono state svuotate di
valore reale e di patrimonializzazione.
Quando era stata costituita (il 31 dicembre 1996), la durata
della SGA era stata prevista in cinque anni, durante i quali
avrebbe potuto recuperare un terzo o al massimo il 50% dei
crediti anomali, ma il risultato sul campo è di gran lunga più
soddisfacente al punto da spingere la Francia ad adottare un
modello anomalo con il crack del Credit Lyonnaise. Tutto vero, o
quasi: nei primi sei anni SGA ha perso 3,7 miliardi costringendo
Banca d’Italia a ripianare il suo bilancio.
SGA ha quindi funzionato e AMCO (nuovo nome di SGA) la
segue su una rotta vincente?
Una vecchia barzelletta un po’ spinta raccontava di due amici
al bar: il primo chiedeva al secondo: “ma, dimmi, com’è tua
moglie… nel talamo (versione raffinata)? La risposta dell’amico
sposato era: “C’è chi dice bene, c’è chi dice male”.
Forse quando si parla di strumenti finanziari emergenziali
74
IL MIRACOLO SGA
sarebbe il caso di usare lo stesso parametro: c’è chi dice
bene, c’è chi dice male. Di certo nella sua fase di collaudo
SGA ha sofferto di una serie di debolezze strutturali. Nata
per recuperare crediti deteriorati, e controllata in parte dal
Banco di Napoli e in parte dal Ministero del Tesoro, SGA ha
iniziato la sua attività districandosi fra alcune contraddizioni.
Formalmente incaricata di rilevare e gestire i crediti deteriorati
del Banco di Napoli, SGA sulla base di un contratto di servizio
ha affidato questa funzione allo stesso Banco di Napoli. In
compenso si è caricata di vecchie glorie, si direbbe giocatori
esperti, provenienti da varie banche o da uffici ministeriali e
arrivati a fine carriera.
Funzionari di altissimo livello e quindi qualitativamente giusti
per compiere le attività di recupero e sorveglianza sui crediti
rilevati da SGA; ma anche un po’ costosi per un nuovo soggetto
finanziario costretto a farsi ripianare più volte in fase di startup,
bilanci che non stavano in piedi.
Prima della crisi Lehman Brothers, i crediti ceduti dalla banca
a SGA stavano moderatamente in piedi perché dotati dei
cosiddetti collaterali, ovvero immobili spesso sopravvalutati a
garanzia.
Chiusa (fra ombre ma anche tante luci) la vicenda del Banco di
Napoli, SGA sarebbe stata in teoria destinata alla liquidazione.
Previa cessione della partecipazione di Intesa (diventata
proprietaria del Banco di Napoli) al Ministero del Tesoro, SGA
diventa invece uno strumento permanente di intervento nei
conti delle banche che hanno crediti problematici relativi a
operazioni baciate (clienti per acquisto titoli) o a liquidazioni
coatte amministrative.
SGA, che d’ora in avanti chiameremo AMCO, si fa carico degli
UTP, ovvero dei crediti Unlike to paid e si specalizza nell’acceso
al mercato degli NPL. UTP e NPL poco cambia: la banca ha
erogato con troppa disinvoltura crediti a soggetti che non
75
sarebbero stati in grado di ripagarli e, attraverso un prezzo a
forfait pagato da AMCO, tenta di salvare il salvabile.
Ma la svolta avviene proprio per gli NPL: il loro prezzo varia
sulla base dell’aspettativa di prezzo che si punta a ricavare
dalla loro gestione. E in questo si sintetizza la principale
differenza: strutture come AMCO (il cui acronimo sta per Asset
Management Company) non sono costrette ad accedere al
mercato dei capitali privati, come invece dovranno fare i Fondi
di investimento chiamati a retribuire alla svelta e con interessi
a due cifre i loro sottoscrittori. La remunerazione attesa per
AMCO è quella di un Btp e anche i tempi sono teoricamente
quelli di un titolo di Stato. E a tutti gli effetti AMCO si comporta
come lo Stato per il quale il fattore tempo diventa e diventerà
quella variabile che consente di far quadrare, prima o poi, e
quasi sempre, i conti.
Una considerazione da tenere a mente, perché proprio il
problema di flessibilità sui tempi di rientro si rivelerà essere
centrale per lo shipping.
Ma nella valutazione del ruolo di SGA e quindi AMCO vale
anche una seconda considerazione: tutti i parametri in
gioco cambiano se il costo del capitale è quello del capitale
pubblico. Un’eresia certo per chi è liberista sino alle estreme
conseguenze, ma anche uno strumento efficace per centrare
contemporaneamente una serie di obiettivi.
Le banche possono essere sollevate da crediti problematici a
prezzi decisamente più elevati rispetto a quelli che un mercato,
ancorché disposto a correre rischi più alti, potrebbe garantire.
I crediti vengono gestiti non in una logica esclusivamente
finanziaria, ma anche in un’ottica industriale che consenta
al soggetto finanziario e specialmente a quello operativo, il
debitore, di utilizzare il fattore tempo a beneficio di soluzioni
non traumatiche.
76
IL MIRACOLO SGA
Sul mercato si collocano, con un potere anche calmierante,
soggetti iper-specializzati e in grado quindi di cogliere
e comprendere le dinamiche di un settore particolare
dell’economia, quale è lo shipping, riuscendo in operazioni e
un dialogo improponibile per strutture bancarie generaliste e
per Fondi di investimento.
AMCO diventa in questo senso anche la chiave di lettura di una
presenza pubblica in settori strategici della vita economica del
Paese, quindi lo strumento nel quale teoricamente concentrare
tutti gli NPL, traguardando una ristrutturazione finanziaria
e un piano industriale all’interno dei quali potrebbe essere
previsto anche un ingresso indiretto dello Stato in settori
che svolgono attività strategiche. L’intervento dello Stato
dovrebbe essere in questo caso puramente finanziario, mentre
la gestione chiamata a soddisfare anche le aspettative di un
azionista pubblico, dovrebbe avere caratteristiche prettamente
industriali ed efficienti.
Dallo Stato finanza e regole, dal privato la capacita di gestione
con un impegno a rispettare le nuove regole di ingaggio.
77
78
CAPITOLO10
SGA-RRARE O NO?
79
E lo shipping? SGA è, secondo tutti i più fini palati del settore
o della finanza connessa, la boa attorno alla quale le barche
da regata virano secco di bordo. Nonostante il suo mercato
di riferimento sia complessivamente marginale rispetto
all’enorme massa degli NPL in circolazione, ovvero meno di 3
miliardi direttamente o indirettamente legati allo shipping, su
un totale di quasi 270 miliardi impegnati nei crediti non esigibili,
il mare si rivela per SGA un terreno fertile. Lo è in particolare
nel campo delle navi bulk e delle navi tanker esposte a una
svalutazione degli asset che provoca non pochi mal di pancia
sia alle compagnie di navigazione sia alle banche.
Molti considerano SGA alla stregua del cavallo di Troia che
avrebbe potuto aprire, in modo sostanzialmente differente
da quanto accaduto, le porte dello shipping ai Fondi di
investimento e quindi a una fase del tutto nuova nei rapporti
fra attività armatoriali e finanza.
Come afferma Clarksons, il valore della flotta italiana si
attesterebbe fra i 30 e i 35 miliardi, l’incidenza vale 34,5 miliardi
di dollari (contro 106,6 miliardi della Grecia per fare una
comparazione con il mercato principale) mentre sulla stazza
lorda all’Italia fa capo una capacità di stiva di 43 milioni di
tonnellate (contro 217,1 milioni della Grecia).
Gran parte delle cessioni di crediti deteriorati nel comparto
navale sono avvenute a pacchetti, i cui acquirenti sono stati
grandi fondi d’investimento più o meno specializzati?
Le cifre non sono definitive: tuttavia si è probabilmente nel
giusto se si afferma che Goldman Sachs, Deutsche Bank,
Pillarstone e Dea Capital hanno recitato inizialmente il ruolo di
protagonisti.
Lo schema è ripetitivo, come confermano le due principali
operazioni condotte in porto proprio da Pillarstone: acquisto
80
SGA-RRARE O NO?
attraverso KKR dei crediti bancari, quindi ingresso in forze nel
capitale di controllo della shipping company.
Oggetto di cessione è un intero portafoglio di crediti incagliati
per i quali le banche si sono rivelate più disposte e disponibili
anche ad accettare sconti sul valore nominale di tali crediti
in cambio dell’eliminazione dal bilancio di tutte o gran parte
delle posizioni non performanti nel settore dello shipping.
Rispetto ai Fondi, che giocano una partita tipicamente
finanziaria e che devono in poco tempo garantire una way
out ai loro sottoscrittori, possibilmente con gli interessi a due
cifre che hanno promesso, SGA/AMCO si pone una missione
totalmente differente. Anche se sulla sua attività incombono
i sospetti dell’Unione Europea (decisamente meno attenta
nel caso delle Banche dei Land tedeschi) per aiuti di Stato
mascherati, SGA/AMCO si cela dietro una serie di obblighi che
impone a chi beneficia del suo intervento: fra questi il divieto
di sfruttare rendite di posizione sino a quando il debito non è
completamente estinto, divieto che vale anche se la società
ristrutturata entra nell’area degli utili; ma anche il divieto
a distribuire dividendi così come l’obbligo a far vagliare
dall’azionista pubblico il piano di investimento.
Secondo i sostenitori di un mercato regolato, la presenza dello
Stato all’interno di società strategiche ha una sua logica se
valutata nella chiave dello sviluppo e della crescita dell’intero
sistema Paese. Ovviamente di parere diametralmente opposto
i liberisti che sostengono il primato del mercato e che
oggettivamente possono schierare come testimoni a favore
tutti i fallimenti della presenza pubblica in aziende private o
in settori, cosiddetti strategici, come per l’appunto quello dei
trasporti marittimi attraverso l’Iri, la sua controllata Finmare
e le compagnie operative nei settori dei containers e del
cabotaggio.
In linea teorica entrambe le parti hanno ragione e sempre in
linea teorica la presenza dello Stato e la sua stessa discesa in
81
campo sarebbe giustificata in un gioco delle parti in cui lo Stato
si impegna, e il settore per ottenere l’aiuto deve dimostrare di
sopravvivere in maniera più corretta rispetto il passato.
In questo caso lo Stato non dovrebbe gestire, bensì
accompagnare le imprese, secondo logiche di mercato.
L’interrogativo è relativo alla compatibilità fra una presenza di
Stato vigilante e imprese come quelle marittime che comunque
agiscono in un mercato fra i più liberi e deregolati, quello dei
trasporti marittimi.
È vero. Lo Stato, in contrapposizione con i Fondi, non è chiamato
a remunerare in modo tassativo nei tempi e nei modi i capitali
di chi investe in una società a corto di liquidità.
È forse proprio in questa contrapposizione fra uno Stato
(disposto a statalizzare in parte o comunque ad accompagnare
in modo meno traumatico un processo di risanamento) e un
Fondo, per sua caratteristica genetica obbligato a rendicontare
gli investimenti in tempi stretti e facendoli rendere il più
possibile, che si incentra il grande dibattito sul futuro dello
shipping.
82
CAPITOLO 11
FONDI O AFFONDI
83
Ma i Fondi di investimento nello shipping arrivano come
salvatori o affossatori?
La prima considerazione è banale ma non per questo non
importante: i Fondi di investimento sono una scelta obbligata.
Non a caso i primi a fare la loro comparsa nel settore delle
attività armatoriali, e non solo in quello, sono i Fondi creati
dalle stesse banche che si erano indebitate a dismisura con
investimenti fuori controllo nello sviluppo di flotte e compagnie
di navigazione che mai e poi mai avrebbero potuto garantire
un ritorno dell’investimento effettuato.
E non è un caso che la metamorfosi nel sistema di finanziamento
dello shipping maturi nel Paese, la Germania, che più e con più
disinvoltura ha convogliato investitori e capitali sulle onde del
mare. La madre di tutte le battaglie si combatte sui bilanci e
sui buchi di bilancio che si aprono nei conti di soggetti come
la Deutsch Schiffbank o la Dresdner Bank che hanno fatto
indigestione di hard debt, crediti che comunque resteranno
inesigibili.
Non è neppure un caso che la Germania, non così disponibile
a lavare in pubblico i suoi panni sporchi, metta in campo il
colosso Commerzbank e inventi la piattaforma Hanseatic, che
diventa per certi aspetti la mamma di tutti i Fondi facendosi
carico di tutto quello che non sarà ripagato… ma del quale è
meglio si sappia poco o niente.
E in Italia cosa accade?
Con ragionevole ritardo, accade qualcosa di simile. Mentre nel
mondo dello shipping si delineano anche ruoli proattivi di Fondi
come Kelso, Fortress, Blackrock che entrano in partecipazione
per accompagnare la quotazione in Borsa, acquisendo quote
e investendo quindi sulla componente equity, le maggiori
banche italiane, prime fra tutte Unicredit (oggi unico Istituto
84
FONDI O AFFONDI
italiano a figurare tra le prime 40 banche mondiali per
portafoglio di finanziamenti allo shipping, collocandosi al 32°
posto con un portafoglio di finanziamenti al settore stimato in
circa 2,5 miliardi di dollari) e Intesa San Paolo, che si trovano in
posizione analoga a quella di Commerzbank, non figliano una
piattaforma di primo impatto; si affidano al gruppo Pillarstone
e non solo per gestire gli NPL dello shipping, ma anche quelli
di altri e numerosi settori della vita economica del Paese entrati
in crisi di liquidità e di redditività.
Pillarstone, che ha tracciato il solco nel quale si inseriscono
poi soggetti come De Agostini o RBS, nello shipping, sotto
l’ala protettrice e talora incombente di KKR, acquisisce una
specializzazione spinta, in parte mutuando l’esperienza
tedesca di una Hanseatic arrivata a gestire una flotta di 1700
navi portacontainer in default. Pillarstone ha nel suo codice
genetico l’affiancamento dell’armatore, come accade nella
costruzione della piattaforma Premuda, pur traguardando
a risanamento avvenuto la way out più vantaggiosa spesso
frutto di una collocazione in Borsa.
Nettamente differenti sono le aspettative e i codici
comportamentali di altri Fondi che agiscono in chiave
esclusivamente speculativa, e che si trovano a gestire
l’imprevedibilità dei tempi che è tipica dello shipping, talora
non potendo contare sulle risorse professionali in grado di
affrontare un mercato così anomalo.
E ora?
Per tentare di comprendere e ipotizzare una rotta nuova è
indispensabile tornare al momento dello spartiacque, gli anni
2008 e 2009, fra ciò che le banche facevano e ciò che le banche
non sono più in condizione di fare. Solo così il ruolo dei Fondi
può essere compreso e specialmente selezionato, al di fuori di
una generalizzazione e talora anche di demonizzazioni assurde
che non consentono di capire.
85
Tanti mestieri che si svolgevano al di là degli sportelli bancari
sono diventati oggetti di specializzazione per i differenti Fondi
che sono approdati nello shipping, così come in altri comparti
della vita economica, attirati dalla gestione speculativa degli
NPL, ma che negli anni hanno diversificato non solo le modalità
di intervento ma la stessa loro ragione sociale. Dagli Npl alla
piattaforme di sconto fatture il passo è stato breve e accelerato
dalla crisi Lehman Brothers, ma negli anni la diversificazione
si è accentuata. Alla presenza di Fondi di tipo hedge, entrati
anche sul mare con la logica speculativa dell’usa e getta, si
sono sostituiti Fondi con visione più industriale che finanziaria.
Sono emersi ad esempio i Club deal o Fondi piccoli disposti
ad affiancare la gestione, attendendo risultati e tempi. Ciò
in un’ottica sostanzialmente diversa da quella che tende a
privilegiare liquidità e liquidabilità rapida.
Nei fatti il cammino dei Fondi in Italia si sta rivelando irto di
difficoltà, che non riguardano solo lo shipping ma la struttura
economica del Paese nel suo complesso. Basti ricordare che i
grandi Fondi internazionali prediligono grandi operazioni e in
Italia le aziende che si collocano sopra la fascia del miliardo si
contano sulla punta delle dita.
Ciò vale a maggior ragione per il settore shipping, dove
soggetti come Blue Ocean non trovano certo terreno fertile
per grandi investimenti, in un sistema Paese che chiede soldi
in prevalenza quando è già con l’acqua alla gola e non quando
esiste l’opportunità di investire per crescere. Il tutto con un
aggravante non marginale: una governance familiare che
malissimo si concilia con ritmi, metodologie e aspettative dei
grandi soggetti finanziari.
86
CAPITOLO 12
CAMBIARE… REGISTRO
87
Cambiare registro. Si fa presto a dire…
Per comprendere dove ci troviamo e collocare i rapporti fra
shipping e finanza in uno scenario corretto, è indispensabile
compiere un passo indietro di circa 22 anni.
In grande anticipo anche rispetto alle esperienze offshore
della finanza internazionale lo shipping europeo è costretto
a rispondere ai colpi che subisce giorno dopo giorno dalle
cosiddette flag of convenience, le bandiere ombra.
Con queste bandiere non c’è storia; la competizione è distorta,
scorretta, basata su equipaggi sotto pagati, su navi non dotate
dei requisiti di sicurezza, su tasse non pagate.
Per competere con queste bandiere si fanno largo tre approcci
diversi di strategia economica: il primo è pura protezione,
con gli Stati Uniti che si stringono attorno al loro Jones Act
del 1920: ma in tempi brevi si trovano a sperimentare che
l’autarchia marittima non funziona e che la flotta di bandiera
americana non risulta competitiva, causa costi di gestione
elevatissimi; le stesse imprese Usa preferiscono utilizzare altre
bandiere al punto che persino i carichi governativi e militari
vengono affidati a bandiere più convenienti.
La seconda via è quella giapponese: usate qualsiasi bandiera vi
venga comoda – è l’indicazione di Tokyo - a patto che i bilanci
consolidati delle aziende armatoriali si redigano e si consegnino
sotto la bandiera del Sol levante, pagando in Giappone tutte
le tasse che si devono pagare. Deregolamentazione, quindi,
su navi, condizioni di sicurezza, equipaggi e salari, ma non sul
fisco.
La terza soluzione è quella europea che si rivelerà lungimirante
e vincente perché muove dalla constatazione che qualsiasi
barriera avrebbe inciso negativamente sull’interscambio e in
particolare sulle esportazioni europee realizzando una sorta di
88
CAMBIARE... REGISTRO
Mose destinato a soffocare la laguna del commercio comunitario
per cui bisognava battere la concorrenza delle bandiere di
comodo riducendo tutti gli oneri e tasse che potevano pesare
sulla bandiera comunitaria. In sostanza la scelta comunitaria
fu di procedere con grande concretezza verso quella che in
materia contributiva e fiscale poteva essere una vera e propria
“Opzione-zero”: i singoli paesi comunitari erano autorizzati a
ridurre sino a zero le tasse e gli oneri previdenziali gravanti sul
personale imbarcato e ridurre altresì in maniera consistente le
tasse prodotte dal reddito proveniente dall’ utilizzo delle navi
comunitarie.
E su questa scelta ogni paese comunitario può approvare
queste agevolazioni in maniera tale che si possa consentire agli
armatori europei di combattere ad armi pari con le bandiere
ombra, garantendo però condizioni di sicurezza e di equità
sociale per i marittimi ben differenti.
La scelta europea è concreta. All’interno di un quadro di
defiscalizzazione, ognuno è libero di adattarsi al mercato e
di combattere la sua personale battaglia a chi dell’off-shore,
della protezione dietro all’anonimato ha fatto uno strumento
di distorsione del mercato. L’attenzione dell’Europa è rivolta
all’attività armatoriale come strumento per sviluppare il lavoro
a terra, considerando che ogni marittimo imbarcato innesca
un effetto moltiplicatore occupazionale a terra per il cluster
marittimo. E non è un caso che le linee guida europee, quelle
alla base della politica di settore, obblighino gli armatori a
formare allievi (e in Italia nasce l’Accademia mercantile di
Genova) per garantire continuità in attività che in Europa
rischiano di entrare in una spirale di estinzione.
Per uno strano paradosso della storia in questo precorrerà
i tempi del mercato finanziario: in molti aspetti, la scelta
dello shipping anticiperà di molti anni quelle che saranno le
opzioni adottate dal mondo finanziario e che registreranno
un’accelerazione solo dietro la spinta, talora anche strumentale,
89
della lotta al terrorismo e quindi ai capitali utilizzati nel mondo
per finanziare la destabilizzazione. Il PO Box dietro alle quali si
sono nascoste per decenni le società che non pagano tasse, per
lo shipping è diventato in anticipo il primo bersaglio contro il
quale lanciare l’arma vincente dei Registri Internazionali.
La scelta è per quegli anni lungimirante: liberare lo strumento,
ovvero la nave, per renderlo competitivo e per ridare
concorrenzialità assoluta alle bandiere europee.
Anche se è il caso di ribadire e sottolineare che l’armatore
è agevolato per i soli redditi provenienti dalle navi iscritte
nel Registro Internazionale, mentre non vengono concessi
benefici sulla distribuzione degli utili o sui redditi provenienti
da investimenti fatti in settori differenti dalla stessa società
armatoriale.
Per comprendere quanto questa scelta compiuta dall’Unione
europea abbia impattato sul mondo marittimo, ma anche
quanto non definitive potessero essere le sue conseguenze è
sufficiente rifarsi a una recentissima ricerca dell’International
Transport Forum che pone quelle decisioni in relazione anche
alle conseguenze della pandemia Covid19. Difronte all’impatto
negativo crescente sui traghetti, le crociere e anche il traffico
merci, almeno 13 paesi – segnala ITF - hanno implementato
il sostegno statale per il settore marittimo, in alcuni casi
compensando gli operatori per la perdita di entrate dovute
al fermo delle navi, ad esempio a causa della chiusura delle
frontiere, o, per la maggior parte attraverso la messa in opera
di pacchetti di supporto in grado di fornire liquidità sotto
forma di garanzie sui prestiti e “liquidità gratuita” da parte delle
banche statali. Gli aiuti di Stato al settore marittimo durante
la pandemia Covid-19 hanno mitigano gli impatti economici
negativi della crisi sul settore marittimo.
Un’altra pausa o una parentesi che non si chiude mai: di cosa
90
CAMBIARE... REGISTRO
ha davvero bisogno lo shipping per sopravvivere e svolgere
la sua funzione vitale al servizio dell’economia mondiale e
dell’interscambio internazionale?
Solo tentando di rispondere a questa domanda, è possibile
ricondurre a un comune denominatore interrogativi, quesiti
e anche fattori considerati correttamente centrali per uno
sviluppo coerente di questo mercato. Detto che tutt’oggi
allo shipping mondiale è mancato un riconoscimento del
ruolo al punto da essere integrato solo in alcuni settori (ad
esempio quello dei minerali di ferro o dei prodotti siderurgici,
o nei flussi di auto nuove) nelle dinamiche delle industrie
produttive, è forse opportuno elencare alcuni totem dello
shipping internazionale (dalle flag of convenience agli
equipaggi low cost, dal manning terziarizzato ai Registri
Internazionali marittimi) per comprendere quanto sia alto il
livello di compatibilità fra l’uno e l’altro e cercare di trovare
fattori comuni determinanti anche per analizzare e prevedere
l’evoluzione del dibattito sul futuro della flotta mondiale.
Alla base di gran parte delle innovazioni normative introdotte
nello shipping mondiale albergano denominatori comuni, che
si chiamano vantaggi fiscali e contributivi, abbattimento della
burocrazia e quindi condizioni più agili e di pronta reazione
nella gestione delle flotte; sfruttamento dei vantaggi della
globalizzazione anche attraverso utilizzo misto di equipaggi
con costi di gestione più bassi; terziarizzazione di funzioni per
consentire alle shipping companies di poter contare su costi
certi.
Tutti strumenti, quelli sommariamente sintetizzati, che hanno
prestato il fianco a dibattiti interminabili relativi alla loro
applicabilità e alla coerenza con ordinamenti nazionali, o –
come nel caso dei Registri Internazionali marittimi – continentali
europei e di un mercato solo apparentemente armonico, ma
concretamente condizionato da troppe distorsioni.
91
Ed è in questo scenario che si colloca il tentativo dell’Unione
europea di rilanciare una sua politica marittima, pur vivendo
un momento di debolezza economica e politica forse senza
precedenti. Ed è lo scenario in cui anche l’Italia impegnatasi
con Bruxelles a ottemperare alle nuove linee guida di politica
marittima, si trova a confrontarsi, da un lato, con la necessità
di ridare ossigeno e vitalità al suo Registro Internazionale,
modificandolo; dall’altro, a inventare nuove formule di
rapporto fra shipping e finanza.
Ancora una volta diventa indispensabile compiere un salto
indietro. Il caso del Registro Internazionale marittimo italiano
sembra essere emblematico. La motivazione della sua nascita
nel 1998, pur fra le complessità normative, è apparentemente
semplice. Arrestare la fuga di armatori e compagnie di
navigazione italiane verso bandiere di convenienza,
garantendo a questi armatori condizioni fiscali e normative di
grande vantaggio, competitive rispetto a quelle delle bandiere
ombra, mantenendo le loro navi sotto bandiera italiana e, a
breve, comunitaria.
Obiettivo “filosofico”: disporre di flotte che garantiscano alti
livelli di sicurezza, che possano essere sottoposte a controlli
puntuali da parte dello Stato di bandiera, ma che siano in grado
di competere per costi di gestione e per condizioni fiscali alle
flotte immatricolate in Paesi tradizionalmente ospitali per le
bandiere di convenienza.
Come spesso accade nello shipping, specie quando a essere
messe in discussione sono norme in grado di spostare
l’ago della competitività e agire direttamente sui livelli di
concorrenzialità, anche sul Registro Internazionale si innesca
un dibattito, inevitabile, sull’opportunità di mantenerne
immutata e invariabile la configurazione iniziale.
Il Registro Internazionale ha l’indubbio merito di frenare e
arginare l’esodo in massa dello shipping nazionale verso altre
92
CAMBIARE... REGISTRO
bandiere, anche europee, in grado di proporre e implementare
condizioni fiscali, previdenziali e normative di favore, ma
con gli anni mostra alcuni limiti insiti nel rapporto con una
pubblica amministrazione molto burocratizzata; sulla mancata
sburocratizzazione di tutte le regole (spesso antiquate e
superate); quelle regole che, una volta riviste e corrette,
avrebbero potuto consentire alla bandiera italiana di essere
competitiva con tutte le altre comunitarie, si stemperano, si
erodono a causa di prassi burocratiche che hanno un costo
eccessivo e non utile a nessuno, subendo anche i colpi di
un’impostazione ideologica tutt’oggi contrappositiva rispetto
alle reali liberalizzazioni.
In altre parole si ripropone ancora una volta il problema di fondo
che tormenta l’industria del mare: le soluzioni di ieri hanno
una scadenza e anche gli strumenti più efficaci richiedono
comunque una costante revisione nei contenuti e nelle
funzioni. O come direbbero gli esperti di una… manutenzione
programmata.
È il caso di ricordare come inizialmente la competenza su questi
Registri fosse incardinata saldamente nella D.G. Trasporti della
Ue per poi passare sotto la lente della D.G. Competition che
punta l’attenzione sulle verifiche costanti relative a possibili
forme di concorrenza sleale fra settori e quindi a una sempre
maggiore uniformità delle normative implementate dai vari
Stati. E come i vari Registri internazionali messi a punto in
Europa siano figli dell’idea iniziale di un Registro europeo,
Euros. Ciò servirebbe a comprendere meglio l’evoluzione
anche dell’idea di base del Registro Internazionale che sta
viaggiando da un’agevolazione oggettiva (la nave iscritta al
Registro) a un’agevolazione soggettiva (impresa europea che
usa naviglio di bandiera europea in maggioranza).
Cambiare Registro?
93
È venuto quindi il momento di citare la celebre frase del chimico
Antoine-Laurent Lavoisier: “Nulla si crea, nulla si distrugge,
tutto si trasforma”.
E alla luce di questa frase anche i giudizi su quello che
di buono è stato fatto, ma specialmente su quello che di
meglio si sarebbe potuto fare alla luce di quello che allora
non si conosceva, risulterebbero fortemente ridimensionati.
Neppure oggi è facile concordare sul fatto che lo shipping
moderno debba reggersi su almeno quattro gambe, fiscalità
di vantaggio, finanza innovativa, innovazione tecnologica e
alleanze strutturali fra mare e terra, ovvero fra industria del
trasporto marittimo e produzione/distribuzione.
Quando l’Italia accettò e lanciò a sua volta la sfida,
particolarmente complessa in un Paese fiscalmente manicheo
come è, di una fiscalità di vantaggio per una categoria
imprenditoriale, si trattò di una sorta di miracolo.
Pochi ricorderanno che una delegazione dell’Associazione
armatori giapponesi e del Ministero dei Trasporti sbarcò in
Italia per una visita ufficiale in Confitarma al fine di studiare nel
dettaglio l’istituto del Registro Internazionale italiano da loro
definito fra i migliori fra quelli costituiti in Europa.
Un Registro che conteneva una formula magica: aveva infatti
alla base una scelta precisa, quella di studiare tutti gli altri
registri e, arrivando buoni ultimi in Europa, ciò che aveva
avuto successo e funzionato bene dalle cause di inefficienza,
conservando quindi solo la parte positiva già sperimentata
sul campo e armonizzando tutte le cose positive , testate e
autorizzate a livello comunitario , così da sfociare in un istituto
il più moderno e il più utile possibile per lo sviluppo del settore.
La ricetta della nonna è per sua ratio la più semplice e la più
buona, perché usa ingredienti sani e spesso è tramandata da
esperienze altrui. Così è per il Registro Internazionale marittimo
in Italia. Al ministero delle Finanze c’è Vincenzo Visco, che per il
suo approccio rigido è soprannominato Ezio Fisco.
94
CAMBIARE... REGISTRO
Sull’idea del Registro Internazionale marittimo in connessione
con il rischio di scomparsa della flotta italiana (e quindi delle
entrate fiscali che ne derivano) il Ministro è pienamente
convinto che si si tratti di molto di più che una semplice
opzione, e proprio per questo conferisce una delega ampia a
Vieri Ceriani, il capo servizio della fiscalità della Banca d’Italia,
incaricato di confrontarsi con Confitarma per trovare la
quadratura del cerchio.
Il puzzle del Registro Internazionale marittimo si compone
miracolosamente con il contributo degli operatori del settore
e, come sempre accade, un po’ di fantasia nell’adattamento dei
vari istituti alle indicazioni comunitarie.
In questo sistema costruito con un’eccezionale capacità di
galleggiamento, la flotta italiana naviga con il vento in poppa,
proprio per questo successo la delegazione giapponese venne
in visita in Italia con lo scopo di comprendere le sottigliezze
normative che avevano consentito alla flotta tricolore di
registrare nel 2008 un boom senza precedenti.
I vantaggi nel breve e nel medio periodo surclassano di gran
lunga gli svantaggi e alimentano un sentimento diffuso di
invincibilità che provoca una sottovalutazione cronica: la
finanza.
Una formula magica?
Certo. Ma la normativa del Registro Internazionale per
lungo tempo – come detto - non è stata sottoposta a un
tagliando, una verifica, non è stata manutenzionata mentre
si concretizzavano cambiamenti importanti nel quadro di
riferimento internazionale e italiano; inoltre quelle rigidità
burocratiche e la difesa di posizioni di potere nell’apparato
che miracolosamente, ma proprio miracolosamente, si erano
allentate nel momento della approvazione del Registro
95
Internazionale si sono richiuse a riccio non appena sono state
proposte procedure semplificative e sburocratizzanti.
E allora quale è la rotta da seguire?
Oggi più che mai l’industria marittima internazionale e in
particolare quella italiana sono chiamate a seguire il vento, il
che significa adattare le norme alle necessità più importanti,
se il caso anche superando il taboo della bandiera nazionale.
Ciò significa anche superare le tradizionali e schematiche
divisioni fra compagnie armatrici, noleggiatori time charter
e compagnie di ship-management puntando quindi più al
risultato finale che alla norma statica.
In questo schema di lavoro, in cui gli obiettivi determinano
la norma, e non il contrario, esistono spazi per migliorare
le performances competitive, non solo attraverso fiscalità e
normative di vantaggio, ma anche attraverso terziarizzazioni e
concentrazioni di servizi in soggetti in grado di evitare inutili
duplicazioni degli stessi all’interno e fra le differenti compagnie
di navigazione.
Il Registro Internazionale ha bisogno con un supporto coeso
del mondo armatoriale di una revisione strutturale che lo
renda nuovamente efficace come lo era stato all’inizio.
Una nuova alba quindi?
Non ancora un alba, forse, ma un’aurora destinata a illuminare la
rotta sia dei grandi gruppi armatoriali, sia delle piccole e medie
compagnie di navigazione condannate a trovare in tempi
brevi chiavi di lettura del mercato e della gestione totalmente
differenti dal passato, pena la loro uscita definitiva dallo stesso;
ma anche a edificare nella pubblica amministrazione le basi
dialettiche e culturali per approcciare in modo differente e
più proattivo il fattore competitività, calcolando anche gli
96
CAMBIARE... REGISTRO
effetti premiali per il mercato del lavoro e per i territori in un
momento di pesante crisi economica, come è l’attuale, che
richiede menti aperte e volontà del fare.
È indispensabile essere consapevoli che qualsiasi intervento
per il ringiovanimento del Registro Internazionale risulterà
vano senza l’approvazione di un pacchetto sburocratizzazione
senza la cui applicazione immediata una fuga verso altre
bandiere comunitarie sarà inevitabile.
La bolla di settore ha ridotto notevolmente il numero delle
navi di bandiera italiana, qualche armatore ha cessato o si è
fortemente ridimensionato nell’occupazione a terra. Molte
figure professionali esperte sono rimaste senza lavoro. La
comunità da tempo mette sullo stesso piano quali soggetti
indispensabili allo sviluppo del settore gli armatori e le società
che prestano i servizi del management tecnico e commerciale.
A queste società è concedibile la stessa agevolazione fiscale
dell’armatore per la tassazione del reddito (tonnage tax) .
Tale politica in pratica significa che le norme e i regolamenti
attuativi debbono essere chiari e precisi e non come spesso è
accaduto che si sono date interpretazioni alle norme tendenti
a perdere i benefici fiscali concessi.
Quella sul Registro Internazionale è una legge sottoposta al
continuo monitoraggio della UE e ogni dieci anni è obbligatorio
notificare a Bruxelles la norma in vigore e i risultati raggiunti
con questa norma speciale”. L’Italia nel 2014 (al compimento
del decennio partito nel 2004) non ha notificato la normativa in
vigore, ha già avuto un richiamo e si è impegnata ad adeguarla
alle indicazioni comunitarie entro 7 mesi da giugno 2020.
Il principale adeguamento dovrebbe vertere sull’obbligo di
estendere tutti i benefici attualmente applicabili alla bandiera
italiana, sia quelli fiscali che previdenziali, anche a tutte le
97
bandiere comunitarie. Un diktat particolarmente significativo
considerando gli oneri burocratici che gravano sulla bandiera
italiana e che si contabilizzano nell’ ordine dei 100.000 dollari
all’anno per una nave tipo Panamax.
98
CAPITOLO 13
ROTTA VERSO UN FUTURO DIVERSO
99
Coccolata da questa normativa la flotta ha reimparato a
navigare, ma, con il vento fiscale e contributivo in poppa, non si
è accorta o ha sottovalutato la progressiva desertificazione del
credito, della finanza: l’Imi che era stata per decenni la naturale
controparte di chi cercava credito navale, si è rinsecchita
sino a sparire. E questa scomparsa è stata sottovalutata da
molti, mentre in altri Paesi europei lo sviluppo del Registro
Internazionale è stata accompagnato dalla crescita parallela
di soggetti finanziari in grado di sostenere l’espansione, e un
domani, la crisi del settore.
Un caso per tutti, il ruolo svolto dalla svizzera Viking, che
ha radunato capitali di altri istituti bancari, li ha posti a
disposizione di super-specialisti che non solo erano in grado
di valutare correttamente le richieste di credito in arrivo dal
settore, ma si erano trasformati addirittura in advisor, capaci di
predeterminare la correttezza di prezzi e condizioni contrattuali
diventando veri e propri alleati degli armatori. In alcuni settori
come quello delle navi tankers si sono affermati in queste
banche ad alta specializzazione team di super-esperti in grado
di valutare e quasi condizionare le scelte di investimento.
Il Registro Internazionale ha certo meriti immensi, da quello di
aver scovato e applicato i margini di un vantaggio competitivo
a quello di aver insegnato molto anche all’armamento italiano.
Molto, ma non tutto.
Non abbiamo la presunzione di concludere questa traversata
con un’autocelebrazione immeritata, ma solo con alcuni timidi
suggerimenti. La recente pandemia ha spinto nazioni e popoli,
sospinti e influenzati anche dai deliri quotidiani di virologi che
non avevano mai visto un virus, a copiare male le terapie di
secoli prima, ovvero chiudere la gente in casa aspettando che
il virus si stancasse di uccidere. Un’operazione di copiatura
fatta anche male visto che almeno durante le pestilenze
100
ROTTA VERSO UN FUTURO DIVERSO
gli appestati erano curati fuori le mura, mentre le moderne
metropoli dell’high tech li hanno collocati nei pronto soccorso
in centro città.
Il richiamo agli errori non è casuale, perché il mondo dello
shipping tende a seguire rotte note anche se disastrosamente
pericolose ed è propenso sempre e comunque a imitare chi
sbaglia.
Il Registro Internazionale marittimo made in Italy e la flotta
italiana si trovano ad affrontare una nuova sfida. Bruxelles nel
fissare le regole “per la proroga del regime italiano a favore del
registro internazionale” ha spostato la palla in un altro campo:
da quello della nave a quello dell’armatore.
È l’azienda armatoriale che deve tornare a essere competitiva,
non il suo strumento operativo. E allora bye-bye alle bandiere
di Stato, alle flotte di preminente interesse nazionale come un
tempo l’Iri definiva la “sua” Finmare. L’Italia, entro sette mesi dalla
firma vergata dal Presidente del Consiglio, nel giugno scorso,
deve fornire all’Unione europea le sue indicazioni operative
per il rinnovo delle norme agevolative non più legate alla sola
bandiera italiana, bensì a quella europea mettendo sullo stesso
piano tutte le bandiere comunitarie e accettando le premesse
di fatto di spostare la competizione fra le stesse bandiere sul
terreno della sburocratizzazione e dell’economicità.
Sembra quasi sia pronto a tornare di moda il vecchio sogno di
Euros, il Registro europeo, e chissà che ciò non possa accadere,
visto che nel documento Ue si parla di tassazione comune e di
un’impresa che deve essere liberata dai lacci per potere anche
nel mondo finanziario trovare nuove ragioni di esistere.
E qui si innescano nuovi pericoli?
Di certo si profilano fattori ad altissimo livello di rischio che
101
in Italia si sommano e si incrociano con malattie endemiche
del sistema Italia. È sufficiente al riguardo pensare al successo
iniziale del Registro Internazionale marittimo, ma anche
ai vincoli burocratici che giorno dopo giorno lo hanno
avviluppato nelle spire dell’inefficienza.
Nel momento in cui l’Unione europea eserciterà una sempre
più intensa pressione per costringere l’Italia a garantire a tutte
le bandiere comunitarie le stesse agevolazioni che assicura
alla bandiera italiana, il fattore burocrazia potrebbe diventare
letale.
Come uscire dall’impasse?
Semplicissimo: tornare a copiare. Analizzare punto per punto
le best practices degli altri Registri Internazionali, selezionarle
e realizzare una “super-bandiera” italiana sul mare che sia
in grado di attirare interesse e quindi utilizzatori da tutto lo
shipping mondiale.
Considerando che anche per l’industria armatoriale italiana
il tempo del “banche-centrismo” è ormai superato sarebbe
indispensabile la messa a punto di un quadro normativo e
quindi di una formula nuova che regoli i rapporti fra finanza
e shipping. In altre parole pensare a una KG made in Italy che
si basi su due leve. Quella fiscale e quella della garanzia sugli
investimenti.
È oggi anacronistico pensare che di questi benefici possa
valersi sono l’armatore; le stesse regole di ingaggio dovrebbero
essere valide anche per le società che garantiscono lo ship
management delle navi o la gestione tecnica, esercitando nei
fatti la funzione dell’armatore stesso. Oggi non accade e non
è un caso che il modello della tonnage tax si sia sviluppato in
modo compiuto più in Grecia che in Italia, o che parallelamente
le società di ship-management abbiano trovato terreno fertile
a Montecarlo, a Cipro o in Belgio.
102
ROTTA VERSO UN FUTURO DIVERSO
Ma quali sarebbero le conseguenze pratiche?
Mantenere e sviluppare in Italia un patrimonio di esperienze
e di know-how pratico, generando non solo occupazione ad
alta specializzazione, ma provocando un’effettiva rivalutazione
della risorsa mare quale elemento centrale della nostra
struttura economica.
Ma su cosa dovremmo focalizzare l’attenzione?
Su una considerazione di fondo dalla cui accettazione dipende
il tutto. Se il trasporto marittimo è un’attività strategica che
garantisce i flussi di interscambio e la sopravvivenza di sistemi
economici; ebbene, se è così, l’impresa armatoriale non può e
non deve essere considerata alla stregua di una normale unità
produttiva e non può quindi essere oggetto di speculazione
finanziaria.
Come per il Registro internazionale è vitale una revisione
globale frutto anche di un impegno coeso e univoco di tutto il
mondo marittimo italiano, anche per il rapporto fra shipping e
finanza è venuto il momento di riscrivere le regole di ingaggio.
Ciò significa che non è più accettabile né pensabile l’attuale
rapporto disomogeneo e distonico fra un soggetto come il
Fondo di investimento, che ha nel suo Dna regole precise di
rientro dell’investimento e di remunerazione del capitale e
un altro player, e il gruppo armatoriale, che invece risponde a
logiche e tempi non compatibili con quelli della speculazione
finanziaria.
Senza azioni positive, il risultato non può essere che la
distruzione e lo smembramento dell’impresa armatoriale,
ovvero di un’infrastruttura che avrebbe bisogno di rispondere
a una tempistica tipica di un piano industriale, non esauribile e
condizionabile solo dalle logiche prevalenti di tempi obbligati
e di altissimi valori di remunerazione del capitale.
103
Volendo ipotizzare un rapporto nuovo fra shipping e finanza la
chiave di lettura potrebbe essere fornita da mutui rimborsabili
attraverso un planning sui flussi di cassa, scordandosi piani
di ammortamento del debito rigidi incompatibili con le
dinamiche della globalizzazione.
Gli investimenti dovrebbero basarsi su un’equity più credibile
rispetto a quella esigua e marginale che ha caratterizzato le
bolle di questi anni, riservando allo Stato una funzione solo
nei casi di salvataggi strategici, con vincoli precisi su tempi e
scadenze.
Sogni? Forse no. I tempi sono maturi per rinegoziare i rapporti
di forze, persino attraverso una revisione moderna delle
formule della KG. La recente delibera di MPS che concede agli
azionisti di cambiare azioni della banca in azioni AMCO, con la
previsione di 7 miliardi che cambieranno bandiera, nonché la
prospettiva di benefici fiscali ad hoc per le banche che cedono
NPL, “urlano” che i cambiamenti sono possibili.
Le scelte “pubbliche” attuate dallo Stato per MPS e per AMCO
restringono se non cancellano definitivamente le possibilità
residue dei Fondi internazionali di rilevare NPL. Si apre quindi
una nuova fase che sarà probabilmente e auspicabilmente
quella delle aggregazioni e delle alleanze: si chiamino esse Club
deal, oppure integrazione fra soggetti industriali e armatoriali
con grandi Fondi internazionali.
104
CONCLUSIONI
Alla ricerca della pietra filosofale
Abbiamo azzardato una risposta a problemi vecchi e nuovi
di rapporto fra finanza e attività armatoriale. Ma siamo
sicuri che sia quella giusta?
Abbiamo parlato lungamente del Registro Internazionale, ma
anche di un mercato mondiale, che fra flag of convenience,
aiuti di Stato, presenza diretta degli Stati in alcune compagnie,
è quantomai “deviato”. Torniamo in Italia, un Paese che ormai da
tempo sta assistendo passivamente a una forte riduzione del
naviglio, alla cessazione o alla crisi di molte imprese armatoriali,
del rischio di dispersione del patrimonio di esperienza e knowhow
del personale di terra. Il tutto in un mondo che continua a
polarizzarsi a concentrarsi in pochi gruppi giganteschi e quindi
in grado di imporre ulteriormente la legge del più forte.
Come fare quindi?
Innazitutto bisogna intervenire ora con un pacchetto organico.
Esiste un preciso impegno con l’Unione europea e questo
impegno dovrà essere rispettato, varando entro gennaio 2021
una nuova legge. Il Covid potrà comportare ritardi ma non
dovrà diventare un alibi visto che numerose leggi sono state
approvate in questo periodo anche se nulla avevano a che fare
con la pandemia.
È quindi necessario approvare in Italia quanto già è stato
concesso e approvato all’estero a cominciare da una completa
equiparazione al fine dei benefici tra bandiera italiana e
comunitaria.
Le indicazioni dell’Unione europea non si prestano a equivoci
e ogni dibattito sul futuro del nostro Registro Internazionale
105
deve muovere obbligatoriamente da un esame razionale e
scientifico di quanto Bruxelles ha previsto per tutti i Paesi
europei.
Esistono quindi alcuni punti fermi: il beneficio della tonnage tax
va esteso al noleggiatore a tempo e a viaggio della nave armata
dall’ armatore italiano (cosi come richiesto dalla Comunità) e
questa norma dovrà rinviare a decreti attuativi il minor numero
di argomenti possibili per evitare qualsiasi complicazione nella
fase applicativa delle norme.
Come più volte sottolineato nessuno ha una formula magica
in tasca. Esiste comunque il buon senso e affiancare a questo
pacchetto un altro pacchetto di norme che possa prevedere
l’istituzione di una sezione autonoma di credito navale con
la presenza della CDP e delle principali banche e istituti
assicurativi e le prime di misure di sburocratizzazione della
bandiera italiana per non correre il rischio di una sua scomparsa
non solo sulle rotte internazionali, ma anche su quelle del
cabotaggio.
Per centrare questi risultati, di fronte a una politica disattenta e
forse tutt’oggi poco consapevole della strategicità del settore,
è forse indispensabile un fronte comune dell’armamento
e un’alleanza funzionale fra l’armamento stesso e le altre
categorie del Cluster Marittimo. Il tutto in tempi brevissimi per
farsi trovare pronti al post-crisi.
Il refurbishment del Registro Internazionale rappresenta quindi
un’occasione, specie se - come accaduto anni fa - si farà tesoro
dell’esperienza e degli errori di altri Paesi
Il passaggio dell’agevolazione dall’oggetto nave al soggetto
utilizzatore consentirà - come detto - di estendere i benefici
anche alle società di full management tecnico e commerciale.
E proprio intorno a questi soggetti si potranno realizzare
106
CONCLUSIONI
aggregazioni armatoriali in grado di reimpostare il rapporto
con la finanza.
Una strategia questa fondamentale per creare occupazione
in Italia e evitare la fuga all’estero di tutte le competenze di
manager, commerciali, operativi ma anche per agevolare la
transizione verso una parziale “terziarizzazione” del settore
armatoriale.
E allora sarà necessario oggi disporre di una grande capacità di
reazione, anticipando le mosse di soggetti finanziari interessati
ad aprire sezioni per il credito navale e anche per la logistica.
Parallelamente pensando a una KG all’Italiana (inizialmente
in Germania hanno portato un grande sviluppo) in un Paese
che si colloca da sempre sul podio per quantità di risparmio
privato.
Probabilmente altri avranno certezze più salde delle nostre
e saranno in grado di confrontarsi con capacità di reazione
immediata con i grandi fenomeni che ogni giorno ci presentano
davanti agli occhi un mondo diverso.
Non rientriamo, e lo ribadiamo, fra coloro che hanno certezze.
“So di non sapere”. E questo potrebbe rivelarsi un vantaggio.
Abbiamo riesaminato molti casi di successo, pochi, e di
insuccesso, tanti, e ci siamo accorti della pervicacia e della
ripetitività di alcuni errori.
Lo shipping, specie in Italia, ma anche in Europa si è preoccupato
più di fiscalità che di finanza pensando che riducendo le tasse
il mare sarebbe stato propizio. Ha cercato cioè risposte per un
assetto stabile e una sanificazione – termine oggi sin troppo
consueto – dei bilanci in misure di defiscalizzazione degli oneri
sociali, che, certo, hanno prodotto risultati importanti, ma non
hanno rafforzato la struttura aziendale dei principali player del
settore, gli armatori, confinandoli una volta di più in quella
bolla di “unicità” e di “non comparabilità ” che per tradizione
107
ha scisso il loro destino da quello delle tradizionali aziende
industriali.
E non casualmente i gruppi armatoriali, che maggiormente,
senza perdere la loro identità e i loro ritmi, hanno adeguato e
coordinato le loro abitudini con quelle di importanti comparti
industriali, hanno sofferto meno degli altri.
Non esistono dubbi sul fatto che il Registro Internazionale
marittimo abbia fornito all’armamento italiano quella che
all’epoca della sua istituzione era probabilmente l’unica ancora
di salvataggio possibile. E probabilmente in pochi hanno
dubbi oggi sulle potenzialità derivanti da un allargamento dei
benefici di questo Registro a tutte le bandiere comunitarie con
l’effetto di rimettere in gioco metodi, tempi e abitudini della
burocrazia nostrana e di innescare un confronto fra le varie
bandiere comunitarie, a parità di benefici fiscali e contributivi,
sulla capacità di garantire condizioni di grande snellezza
operativa. E forse proprio questa competizione consentirà
di sgretolare i castelli di sabbi della burocrazia costringendo
il Paese a confrontarsi con i reali problemi di efficientamento
della macchina statale.
Ma ora uno sforzo congiunto, serio e concreto dovrà essere
esercitato sul tema del rapporto fra shipping e finanza. Questo
è un capitolo tutto da scrivere, forse da progettare ex novo.
La scelta di puntare tutto su una fiscalità di vantaggio si è
scontrata in Italia in primis con i ritardi di questa scelta attuata
dopo che era già stata sperimentata, e talora anche rifondata,
in altre realtà dello shipping mondiale. Con la defiscalizzazione
anche il rapporto fra shipping e istituzioni si è deformato,
consentendo a queste ultime di spostare in avanti e ritardare
scelte altrettanto importanti in tema di sburocratizzazione e di
utilizzo di nuovi strumenti finanziari.
In altre parole questo approccio ha probabilmente prolungato
108
CONCLUSIONI
nel tempo anche lo scollamento e l’incomprensione fra
finanza e shipping, non consentendo di cogliere l’armonia che
potrebbe derivare da agevolazioni finanziarie a favore di chi
eroga il credito, e generando una reazione a catena virtuosa
fra investitori, banche e Stato chiamato a fornire alle banche
stesse garanzie di lungo periodo, tali da incidere direttamente
sullo spread.
Certo il Registro Internazionale resta un pilastro irrinunciabile.
Ma le fondamenta di questo pilastro possono scricchiolare
se le normative non favoriranno un incontro e una nuova
comprensione fra finanza e shipping fornendo a chi esaminerà
il business plan di compagnie di navigazione quel fattore
determinante che si chiama elasticità.
Elasticità nelle condizioni di erogazione del credito, elasticità
nei tempi di rientro, elasticità nell’analisi puntuale delle
motivazioni per cui un armatore potrà trovarsi in emergenza,
in quella fase ciclica in cui il mercato dei noli non consente di
rispettare i tempi di rientro.
Esiste una necessità di trasparenza nei ruoli, trasparenza
indispensabile per rilanciare il settore ed essere d’aiuto alle
società che gestiscono il trasporto marittimo.
Il termine “mercato” non può essere di per sé esaustivo per
affrontare tutte queste problematiche e neppure per stabilire
una separazione manichea fra intervento dello Stato e quello
dei Fondi Se è vero che in materia di NPL i prezzi e le condizioni
sono stati definiti da aste competitive, e quindi dal mercato, le
regole di ingaggio sono comunque flessibili e variabili. I Fondi
certo fanno, e non potrebbe essere altrimenti, il loro mestiere, e
nel farlo hanno ottenuto risultati eccellenti anche per le banche,
ma ora probabilmente il ciclo si sta avviando a conclusione
ed esiste una necessità cogente di un ripensamento globale
generando uno scenario in cui, facendo tesoro anche degli
insuccessi del passato, vengano costruite le condizioni per
una ripresa e un rilancio, che siano figli di una nuova cultura
finanziaria in grado di procedere in coordinamento e di fare
109
tesoro della expertise degli armatori.
Quello di cui oggi ha bisogno, probabilmente, questo settore
è una riscrittura globale delle regole di ingaggio. A partire
dall’equity che può testimoniare la reale capacità di un
armatore di affrontare un piano di sviluppo (l’esatto contrario
di quanto accaduto in Cina con investimenti speculativi spesso
a equity vicina allo zero); a seguire dalla definizione di un
rapporto fra finanza e shipping che consenta di approcciare
anche eventuali inadempienze su alcune rate di pagamento
del mutuo. Il tutto muovendo da una constatazione che deve
diventare patrimonio comune di finanza e shipping: forse
con la sola eccezione di alcune rotte nazionali protette. Lo
sviluppo dello shipping mondiale dipenderà da un’elasticità
nelle condizioni di finanziamento frutto della constatata
impossibilità per chiunque, persino per i colossi dello shipping,
di controllare il mercato.
È accaduto sul mercato immobiliare dove esempi come quello
Svizzero di erogazione di mutui con rimborso della quota
interesse e non della quota capitale hanno fatto scuola; ora
probabilmente questi esempi che parevano lontani e non
mutuabili in un settore del tutto anomalo come quello navale,
devono diventare il riferimento affrontando il tema delle
garanzie dello Stato, così come di quelle di grandi istituzioni
internazionali, quali la Banca Europea d’Investimento.
Ben sapendo sin da oggi che non sarà un processo facile
in un settore dove le specializzazioni sono carenti, dove
sopravvivono abitudini, usi e costumi ormai disgiunti dalla
realtà del mercato, ma con una forza intatta che la stessa
industria del mare non è mai stata in grado di sfruttare: senza
lo shipping l’economia mondiale non va da nessuna parte. Non
solo: solo lo shipping è in grado di rispondere con agilità e con
quella elasticità che oggi rivendica da altri, finanza e istituzioni,
in primis, ai cambiamenti epocali nell’assetto dei mercati, della
110
CONCLUSIONI
globalizzazione e dell’assetto geo-politico del mondo, che si
stanno consumando in tempi e spazi limitati polverizzando
tutte le certezze.
Non è un caso che stiano prendendo campo proprio in queste
settimane, caratterizzate ancora dalla presenza incombente
della pandemia, soluzioni innovative come quelle di un
Club Deal all’interno del quale l’investitore, affiancato da
analisti, possa decidere a quali investimenti prendere parte. E
altrettanto non casuale è il riferimento a un possibile ruolo di
Cassa Depositi e Prestiti anche nella promozione di un Fondo
europeo dedicato allo shipping.
Inoltre, non dimenticando la necessità cogente di una riforma
che sburocratizzi la bandiera italiana, sarebbe auspicabile
anche una riforma della legge fallimentare, che nel caso dello
shipping ha falcidiato un sacco di valore per tutti gli stakeholder
e ha convinto molti finanziatori potenziali a a tenersi lontani da
imprese italiane ancorché sane.
Interrogativi più che certezze riguardano anche IMO 2030 e
la tendenza alla riduzione delle emissioni che rappresenterà
la grande sfida a cui il settore dovrà farsi trovare preparato.
Su questo nuovo campo di battaglia servirà eccome un
paradigma chiaro del rapporto finanza-armatore, in assenza
del quale tenderà ad accentuarsi la marginalità competitiva
delle flotte con effetto domino sul numero dei finanziatori
disposti a investire.
Se flessibilità e aggregazione sono le parole d’ordine, forse
è il caso di concludere questa nostra confusa “Recherce” che
non può essere… du temp perdu, ma che deve traguardare
al futuro imparando dal presente e, come già attuato con
successo nella definizione del Registro Internazionale, deve
basarsi su un’eccezionale e unica capacità di copiare il meglio.
Cosa fare, dunque? Magari ripensare l’Imi prima maniera e
111
trasformarlo in un IMI 4.0. Creare un soggetto consulenziale
che racchiuda in sé diverse expertise e che possa facilitare
l’incontro fra finanza e shipping.
Con l’Italia che dovrà adeguarsi alle varie e differenti condizioni
poste da Bruxelles, il “re è nudo” verrebbe da dire. Di certo gli
schemi che hanno retto per decenni non saranno più efficaci.
Le stesse professioni e le imprese tendono a confondersi. Basti
pensare al ruolo che le piattaforme armatoriali hanno in parte
assunto, ai club deal oggetto di crescente attenzione, ma
anche e specialmente all’effetto global che avranno le nuove
misure dell’Unione europea, abbattendo da una parte molti
vincoli di bandiera, rilanciando dall’altra formule nuove di
organizzazione, nelle quali si muoveranno soggetti vecchi e
nuovi.
Sarà quindi essenziale valutare con grande attenzione ciò che
è accaduto o sta accadendo in altri mercati e in altri Paaesi, in
primis in Germania, e tentare di copiare formule che comunque
stanno centrando risultati positivi.
112
GLI AUTORI
NICOLA COCCIA
Il curriculum di Nicola Coccia parla di un grande amore per il mare,
inteso come vera e propria risorsa – economica, culturale – per il nostro
paese e, soprattutto, per la Campania e l’intero Mezzogiorno la cui forte
vocazione marittima è di antica tradizione. Parla anche di una professione
svolta con coerenza e con sempre maggiore specializzazione al servizio
dello shipping, acquisendo con il passare degli anni una funzione di
raccordo proprio fra attività armatoriali e finance. La sua intera attività
professionale e imprenditoriale è infatti improntata alla valorizzazione
dell’industria marittima italiana e ha trasmesso questi valori e questa
voglia di ricerca e studio ai figli che operano con lui.
Gli anni ‘80
• Contribuisce alla costituzione e allo sviluppo dell’ANPAM,
Associazione imprese armatoriali del Mezzogiorno, dando forza così
a un comparto che nell’area campana conta oltre 80 compagnie di
navigazione con circa 400 navi: la più altra concentrazione di piccole
imprese armatoriali in Europa.
113
• Stringe un solido e serio rapporto professionale con il gruppo MSC
di Ginevra e un legame personale con l’armatore Gianluigi Aponte
iventando suo rappresentante in Italia per i programmi di sviluppo
del suo gruppo che decide di entrare anche nel business delle
crociere.
Gli anni ‘80 e ‘90
• Nel 1989 Aponte rileva la Starlauro, ovvero quel che rimaneva della
storica Flotta Lauro da anni commissariata; nel 1995 acquisisce, dalla
liquidazione Rodriquez-Cameli, la società Aliscafi Snav e con essa le
attività collegate, come il Cantiere Navalsud.
• Nicola Coccia inizia la sua stretta collaborazione con il gruppo
Aponte nella sua politica di sviluppo in Campania: è anche a tale
collaborazione che si deve il recupero e il rilancio di due storiche
realtà dello shipping italiano (Snav e Starlauro) che sono rimaste
in Italia, a Napoli, salvaguardando e ampliando allo stesso tempo, i
livelli occupazionali.
• Le società acquisite raggiungono risultati più che positivi,
testimoniati dall’exploit di Msc Crociere e dell’ex Navalsud confluita
nella Nuova Meccanica Navale, azienda leader – per volume di affari
e numero di occupati – del settore delle riparazioni navali e della
manutenzione nel porto di Napoli.
• Nicola Coccia ricopre gli incarichi di Amministratore Unico di Snav e
di Presidente di Msc Crociere fino al 2007.
Nicola Coccia imprenditore
• Nel 1992/93 Coccia decide di entrare nell’industria armatoriale:
insieme ad alcuni partner dà vita ad una nuova compagnia di
navigazione, la “Gestioni Armatoriali SpA” in cui ricopre la carica di
Presidente e Amministratore Delegato.
• Attualmente la società possiede num. 3 unità “Tanker”.
Gli incarichi istituzionali
• Nei primi anni ’90 entra nel Consiglio di Confitarma, la Confederazione
Italiana degli Armatori.
• Nel luglio 1996 gli viene affidato l’incarico di seguire, in qualità di
114
Presidente della Commissione Finanza e Tributi, l’istituzione del
Registro Internazionale Italiano (entrato poi in vigore nel 1998), di
cui è stato l’ispiratore unitamente al regime di “tonnage tax”, la cui
introduzione segna la svolta per l’armamento tricolore, riportando
tutta la flotta con interessi economici nazionali sotto bandiera italiana
• Dal 1999 al 2004 è Vicepresidente di Confitarma.
• Nel 2005 viene eletto alla Presidenza Confitarma e il suo ruolo
sarà determinante su diversi fronti; grazie alla spiccata sensibilità
nei confronti della formazione, settore estremamente importante
ai fini della preparazione del personale navigante e per il futuro e
la sicurezza della flotta, contribuisce alla creazione dell’Accademia
Mercantile Italiana di Genova e della succursale di Torre del Greco.
• Nicola Coccia resta alla presidenza di Confitarma per 5 anni; in tale
periodo la flotta italiana registra un incremento eccezionale, pari al 30%.
• Nel 2008 è nominato Vice Presidente della Federazione del Mare,
organismo che raggruppa tutte le attività del cluster marittimo.
Le cariche sociali
Nel tempo, Nicola Coccia ha ricoperto molteplici cariche in diverse
società. Fra le altre:
• Nel 2004 diventa Presidente della TERMINAL NAPOLI S.p.A.,
società che gestisce il terminal croceristico all'interno della Stazione
Marittima del Porto di Napoli e che annovera nella compagine
societaria le principali compagnie croceristiche a livello mondiale.
• Sono proprio le compagnie crocieristiche a chiamare Nicola Coccia
alla presidenza, individuando in lui le capacità idonee a realizzare un
progetto di sviluppo che incrementasse il traffico croceristi nel porto
di Napoli (passato da 400 mila croceristi del 2004 a 1.300.000 del
2010), grazie anche alla destagionalizzazione del settore
• In questi anni il Terminal vive una radicale trasformazione: si dota di
un’importante area congressuale polifunzionale inaugurata nel 2006
in occasione del Seatrade, la Convention Internazionale tenutasi a
Napoli, oltre a contribuire alla crescita del traffico passeggeri.
• Nello stesso anno, all’interno della Stazione Marittima si è aperta una
Galleria Commerciale di 53 negozi e di elevato standard qualitativo.
Questo è certamente il primo passo verso la realizzazione del grande
progetto che vede l’utilizzo del waterfront anche per fini commerciali
e turistici.
115
BRUNO DARDANI
Mare per tradizione familiare con un padre agente marittimo e
piccolo armatore e un fratello avvocato marittimista. Giornalista per
vocazione (per anni ha detenuto il primato di più giovane giornalista
professionista d’Italia), una passione diventata lavoro come inviato
speciale per il Medio Oriente e per Israele.
Inizia la sua carriera giornalistica collaborando quindicenne a riviste del
settore nautica, quindi assunto nel 1973 come praticante giornalista
al Nuovo Cittadino, quotidiano locale genovese. Successivamente
passa alla Gazzetta di Genova e al Corriere Mercantile.
Quindi la prima esperienza all’estero nel Principato di Monaco
all’antenna italiana di Radio Montecarlo, diventando una delle
voci giovani del radiogiornale RMC. Dopo una breve esperienza
nell’azienda di famiglia entra al Secolo XIX di Genova, come vice di
Benito Bragone alla pagina marittima.
Per 20 anni inviato del Sole24Ore
Nel 1984 è incaricato di creare la Pagina marittima del Sole 24Ore,
quindi è nominato inviato speciale con doppia competenza su
economia e finanza dei trasporti ed economia di Israele, dove rascorre
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circa due mesi all’anno.
Collabora con Angelo Ravano, fondatore del gruppo Contship anche
nella definizione dell’operazione Gioia Tauro.
Corrispondente del quotidiano marittimo inglese Lloyd’s List della
Lloyd’s of London Press. È collaboratore fisso di Lloyd’s Shipmanager
di Londra e del mensile svizzero Transport di Basilea.
Collabora alla stesura dei Libri blu del progetto porto di Genova di
Roberto D’Alessandro. È coautore di un rapporto di 56 pagine su
Genova logistica (in lingua inglese) allegato al quotidiano Lloyd’s List
e diffuso in tutto il mondo.
Negli anni 90 è capo-progetto per la realizzazione a Genova della
prima Expo conference sulla logistica, Tecnoport e successivamente
lo European Logistic Forum. Nel 1999 pubblica il libro-saggio
“Logistica: la sfida” edito da Il Sole 24Ore libri, collabora quindi con
Uniontrasporti nella stesura dei quaderni nazionali sulla logistica.
Pubblica sempre per la catena Sole 24Ore, un saggio sul Fisco federale.
Elabora per l’Agenzia del demanio dello studio sulla rivalutazione dei
valori demaniali attraverso gare per le concessioni balneari.
È premiato da Ucina “Pioniere della nautica” per essere stato l’unico
giornalista ad aver proiettato il comparto nautico nel grande mondo
dell’impresa e della finanza. Nominato chairman del Centro Studi
Italia in Movimento, collabora con Certet Bocconi alla definizione
dello studio sul gettito portuale.
Docente al master della Fondazione Mattei sulla logistica e lecturer
alle Facoltà di economia dei Trasporti di Genova, Milano (Bocconi e
Cattolica), Napoli (Federico II).
Finanza e Mercati e Libero Mercato
Dal 2006 dirige la rivista Montly Logistics ed è assunto con funzione
di inviato da Finanza e Mercati, creando, fra l’altro, la pagina della
nautica e favorendo la diffusione del giornale in tutto il settore
trasporti, logistica e infrastrutture, imponendolo come media partner
di riferimento. Quindi editorialista di Libero Mercato dirige con Oscar
Giannino il magazine CH.
Collaboratore di Ticino Management e di riviste internazionali,
responsabile per anni del Centro studi di Assoporti.
Corrispondente del quotidiano marittimo inglese Lloyd’s List della
Lloyd’s of London Press. È collaboratore fisso di Lloyd’s Shipmanager
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di Londra e del mensile svizzero Transport di Basilea.
Collabora al Centro studi Assaeroporti; project manager di eventi
comunicazionali internazionali, consulente di marketing e logistica.
Nel 2010 pubblica il libro “Eccellenze nello shipping, i magnifici sette”.
Nel 2011 pubblica “L’anfora dei venti” sul porto di Gioia Tauro.
Senior partner di BD communication e partner di Star Comunicazione
realizza e gestisce una ricerca e un e-book sugli incidenti nei porti
(www.portcrash.com)
Nel 2012 pubblica un primo studio sulla Blue Economy.
In collaborazione con accademici israeliani lancia il progetto High
Tech for peace.
Nel 2015 mette a punto il progetto su industria del lusso e
progettazione dell’evento annuale tutt’oggi vigente sul Forum del
lusso possibile, con un evento che si tiene ogni anno in Sardegna a
Porto Cervo.
Nel 2017 pubblica la biografia Romanzo su Otto Stum, industriale
tedesco leader degli acciai speciali.
Progetta e realizza un piano di diffusione della consapevolezza
di ruolo dell’industria cantieristica italiana in collaborazione con
Fincantieri.
Nel 2018 scrive una biografia sul gruppo Samer.
Consulente di Assarmatori e di Trasportounito sulla ristrutturazione
dell’autotrasporto.
Èconsulente di ASTAG Associazione svizzera dell’autotrasporto.
È fra i progettisti della Venezia Port Community e dell’evento per il
rilancio dello scalo lagunare.
Collabora allo studio per costituzione organismo internazionale su
risorse idriche mondiali e rischio crisi.
È fra gli estensori di uno studio sull’erosione delle coste in Italia e in
Mediterraneo.
Contribuisce all’ideazione di Un mare di Svizzera, evento annuale
sulla collaborazione logistica fra Italia e confederazione Elvetica.
Costituisce, insieme con Giulio Sapelli, BlueMonitorLab per lo studio
e la realizzazione di progetti finalizzati sulla blue economy.
È impegnato nella stesura di biografie su gruppi imprenditoriali
svizzeri.
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