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La città - La squadra - Gli eventi

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A Calaiò che oggi è un dirigente

del settore giovanile

della Salernitana e che da quest’anno si interessa

anche dello scouting per la prima squadra è quindi naturale

chiedere come sia cambiato oggi il lavoro in un

settore giovanile.

«È tutto un altro mondo. Non si possono paragonare i miei

tredici anni con quelli di un ragazzo di oggi. Noi eravamo molto

concentrati sul gioco del calcio anche perché non c’erano altre distrazioni,

altre opportunità. A volte manca anche nei ragazzi

d’oggi quella determinazione a voler raggiungere un risultato

mentre nel mondo del calcio occorrono la passione e la voglia di

fare sacrifici con annesse rinunzie. Non basta fare bene un

anno, va ricercata la continuità per arrivare in serie A. Penso

comunque che al sud tutte le società dovrebbero investire di più

nel settore giovanile. I talenti ci sono, vanno messi nelle giuste

condizioni partendo dal miglioramento delle strutture in modo

da poter offrire il convitto e quindi la tranquillità anche alle famiglie».

Lei ha esordito in serie A con il Torino, ci racconta un

po’ delle giovanili di quella società che all’epoca sfornava

tanti buoni giocatori?

«Il settore giovanile del Torino è sempre stato tra i più importanti

in Italia. Io sono cresciuto proprio all’inizio in una

scuola calcio a Palermo, la mia città, ma al sud le difficoltà si

moltiplicano soprattutto per la carenza di strutture e organizzazione

e quindi in quegli anni se avevi deciso di voler fare il

calciatore dovevi trasferirti al nord in una di quelle società che

hanno sempre creduto nell’importanza del settore giovanile. A

Torino ho vissuto da solo. È stata dura lasciare la famiglia

e la città nella quale sei nato ma è stato

anche molto formativo, ho percorso tutta

la trafila in sette anni, avevamo come

responsabile Gigi Gabetto, figlio dell’attaccante

del grande Torino, sino a

quando Mondonico, che purtroppo non c’è più, mi fece

esordire giovanissimo in serie A. Dopo quell’inizio la

società mi diede in prestito sino a quando divenne allenatore

Camolese, che era stato anche il mio allenatore

in Primavera, che mi volle in prima

squadra e quell’anno si è vinto il campionato di

serie B».

Torniamo a Napoli. Lei è siciliano, ha un moglie napoletana.

Che sensazione provava ogni volta che dal

sottopasso entrava al San Paolo?

«Per me ogni volta era un emozione bellissima anche se non

mi tremavano le gambe. Spesso non avevi neanche bisogno di fare

il riscaldamento perché i tifosi ti davano un’adrenalina più che

sufficiente. Entrare al San Paolo gremito di pubblico credo non

abbia rivali e per noi, ma penso per tutti i giocatori azzurri, era

una forza in più».

La sua storia in maglia azzurra si è svolta di fatto parallelamente

a quella di Reja. Le sue reti in C ed in B

significarono promozione. Che rapporto

si instaura tra l’allenatore e il suo bomber

in una stagione? Come fu

quello tra lei ed il mister friulano?

«Con Reja il mio rapporto è stato sempre

di amore-odio. Abbiamo vinto due

campionati e il mister mi ha fatto

sempre giocare ma era consuetudine

che mi sostituisse.

Certo è

vero che mi

schierava sempre

nella formazione titolare per cui c’era la gioia di

scendere in campo dall’inizio ma spesso prevaleva

lo sconforto per le reiterate sostituzioni. La cosa si

è ripetuta in serie A quando arrivò Lavezzi perché il mister

disse che insieme non potevamo giocare. Fosse stato per

me e credo anche per il presidente io non sarei mai andato via

da Napoli, sarei diventato una bandiera per la squadra azzurra.

32 domenica 30 agosto 2020

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