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La città - La squadra - Gli eventi

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La Città – La Squadra – Gli Eventi

Numero 29 del 30 agosto 2020

DE LAURENTIIS

RILANCIA

LA SFIDA

PIPPO INZAGHI

L’ex campione del mondo

in serie A con il suo Benevento dei record



FRAMMENTI D’AZZURRO

La stagione

del rinnovamento

I

di Giovanni Gaudiano

l ritiro precampionato del Napoli sta per concludersi.

La nuova sede così vicina alla città ha favorito, nonostante

il periodo, un afflusso copioso ed un ricambio

continuo da parte dei tifosi partenopei.

I temi sui quali discutere a questo punto sarebbero: che campionato

vedremo, quanti spettatori potranno occupare le gradinate

degli stadi, come verrà gestita la quarantena se il contagio

dovesse ripresentarsi in una forma aggressiva e

come saranno gestiti i viaggi per le nazionali e per la ripresa

delle competizioni europee ed i relativi ritorni in sede dei convocati.

La voglia di scrivere di queste cose però è poca. I contorni

di tutto quello che è accaduto sono ancora nebulosi e spesso

appaiono inspiegabili.

Lo sport, ed il calcio in particolare, è sempre stato un’occasione

per coinvolgere le masse, per alimentare passioni durature,

antagonismi ed a volte anche sfegatati campanilismi

ma il nostro sport nazionale è stato sempre e soprattutto voglia

di competere, di misurarsi.

Pur sapendo di dover fare i conti con qualcosa di imprevisto,

un incubo che pare non voglia ritornare nell’oblio, è necessario

voltare pagina e dedicarsi a sviluppare discorsi sul

gioco, sui confronti, sul dopo partita infuocato e polemico,

quello che costituisce molto spesso il sale di questo meraviglioso

gioco.

Parlando del Napoli di Aurelio De Laurentiis, sembra che

la stagione che sta per iniziare dovrebbe segnare l’inizio di

un nuovo ciclo.

La scelta del tecnico anche se a campionato in corso, le parole

del presidente hanno lasciato intendere nei mesi scor-

domenica 30 agosto 2020

3


si che si sarebbe puntato ad una riprogrammazione, ad uno

svecchiamento.

Qualche scricchiolio però trapela dalle segrete stanze. Il contratto

non ancora rinnovato all’allenatore, la cui volontà peraltro

sembra tentennare di fronte alle abituali clausole che

la società inserisce nei contratti, non è un segnale positivo,

non garantisce la continuità della conduzione e soprattutto

non lascia intendere che si tratti davvero dell’inizio di un

nuovo ciclo.

De Laurentiis sembra tranquillo, forse anche perché la presa

di posizione di Gattuso lo mette in condizione di limitare

gli investimenti previsti e spendere di meno. Ci permettiamo

di dire che sarebbe un clamoroso errore avviare il motore

con il freno a mano tirato, sarebbe l’ennesima dimostrazione

di una politica poco competitiva in campo e solo

molto redditizia in amministrazione.

È augurabile che quanto prima venga fatta chiarezza e nel

frattempo noi ci dedichiamo a parlare dell’attacco del Napoli.

Di quello che è stato, dei giocatori che lo hanno composto

e di quelli che dovranno riportarlo a livelli accettabili.

Non è un caso che nella stagione da poco conclusa gli azzurri

abbiano realizzato in campionato solo 61 reti con una flessione

che negli ultimi anni è apparsa inesorabile. Si è passati infatti

dagli 80 gol del 2014-15 ed al record dell’anno seguente di

94 segnature ai 77 del 2017-18 ed ai 74 del 2018-19. Solo nel

2013-2014 si era segnato di meno con 54 reti e con la zona

Champions fallita sia pur solo all’ultima partita.

La statistica in questo caso aiuta a comprendere e se analizzassimo

quella dei gol subiti, lo faremo quando sarà chiara

la rosa della nuova difesa azzurra, sarebbe ancora più evidente

come il rendimento del Napoli abbia subito un’erosione

dovuta forse alla stanchezza di alcuni uomini, ad un modulo

non più applicabile e soprattutto a qualche investimento non

del tutto riuscito.

Senza voler cercare il solito colpevole, giusto per parlare, è

necessario prendere coscienza invece di come una stagione

sia finita. Di come un tipo di gioco gradito e adeguato ad una

certa rosa forse debba andare in soffitta per evitare di replicare

qualcosa di superato. Il Napoli che ha preso Osimhen deve

programmare un gioco che ne possa valorizzare le qualità.

Un tipo di gioco dove la profondità, la velocità ed il sostegno

ad una punta forte fisicamente, rapida, predatore inesorabile

in area di rigore, capace quindi di creare spazi al limite

ai tiratori dalla media distanza (Mertens, Fabian Ruiz,

Zielinski, Politano) siano fondamentali nello schema d’attacco.

Se questo rinnovamento sarà disatteso, l’annata potrebbe svilupparsi

negativamente con una serie di conseguenze che ci

si augura non abbiano a verificarsi. Se la società invece si muoverà

sul mercato come pare e se arriveranno un certo tipo

di giocatori funzionali ad un gioco di tipo più europeo, come

quello che si è avuto modo di vedere nelle finali europee organizzate

in Portogallo e in Germania, l’allenatore sarà chiamato

a favorire questa scelta senza soffermarsi su beghe di

spogliatoio. Potrà dimostrare facilmente di avere iniziato un

tale percorso partendo proprio dalla posizione del portiere,

si dice di solito che si inizia a contare proprio dal numero

1, sul quale c’è poco da discutere, viste le carenze tecniche

mostrate in varie occasioni da Ospina opposte ad una classe,

ad una innata capacità di un ragazzo come Alex Meret,

sul quale scommettono da tempo gente come Zoff e Iezzo,

due portieri che appartengono alla incancellabile storia del

Napoli.

4 domenica 30 agosto 2020


DOOA.it



IN QUESTO NUMERO

Numero 29 del 30/08/2020

Emanuele Calaiò ci parla dell’attaccante e del suo Napoli

ph. Agenzia Mosca

Il presidente De Laurentiis

rilancia la sfida con il suo Napoli

Foto Mosca

In copertina

Pippo Inzaghi riparte in serie A

con il suo Benevento dei record

ph Mario Taddeo – Sport photo agency per Ottopagine

Il NapolI

08 Copertina

De laurentiis e gli allenatori

di Giovanni Gaudiano

15 la nuova stagione

Nasce il Napoli di Gattuso

di Giovanni Gaudiano

18 lente di ingrandimento

l’attaccante secondo Gianni Brera

di Lorenzo Gaudiano

21 la maglia numero 9

Dalle pampas a lagos

Con un Salto … nello Rio della plata

di Bruno Marchionibus

27

I più amati

I tre “caballeros”

lavezzi – Cavani – Mertens

di Marco Boscia

31 l’uomo delle promozioni

Emanuele Calaiò

di Giovanni Gaudiano

34 l’approfondimento

Gli attaccanti tra gol e plusvalenze

di Francesco Marchionibus

36 l’attaccante visto dalle donne

adriana De Maio e il suo racconto

di Marina Topa

Il BENEvENto

39 appunti in giallorosso

Questa volta sarà diverso

di Lorenzo Gaudiano

41 Il ritiro in austria

Dal Sannio alle… lpi

di Gigi Amati

45 Copertina 2

Storie di calcio

pippo Inzaghi

di Giovanni Gaudiano

49 profili

Kamil Glik

Il cuore oltre l’ostacolo

di Lorenzo Gaudiano

52 l’approfondimento 2

lo stile vigorito per il Benevento

di Francesco Marchionibus

lE StoRIE

54 Marcello Sannino

Dalla libreria alla macchina da presa

di Lorenzo Gaudiano

la CIttà

59 la Funicolare vesuviana

Una storia, un sogno, una sfida

di Domenico Sepe

62 I luoghi di Napoli

San pietro a Majella

di Paola Parisi

tEMpI MoDERNI

65 amore vuol dire gelosia?

di Ciro Chiaro

n. 29 del 30 agosto 2020

Aut. Tribunale di Napoli

n. 50 del 8/11/2018

RIVISTA A DISTRIBUZIONE GRATUITA

CON IL QUOTIDIANO “ROMA”

Direttore Responsabile

Giovanni Gaudiano

Coordinatore Editoriale

Lorenzo Gaudiano

Redazione

Marco Boscia

Bruno Marchionibus

Grafica e Impaginazione

Mario de Filippis

Le foto della sezione

sportiva sono

Dell’agenzia Mosca

Sonia Mosca

e Gianluca Mosca

Pubblicità, Marketing

e Stampa a cura della

Pubbli and Managment srl

Via G. D’Annunzio 4

San Nicola La Strada (Ce)

Tel. 0823 330633

Posta elettronica:

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Consulenza Amministrativa

Studio Marchionibus

Hanno collaborato

a questo numero

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Francesco Marchionibus

Gianluca Mosca

Paola Parisi

Domenico Sepe

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agli eventi ed alla città

“Napoli” sarà nuovamente in edicola con il quotidiano “Roma” in occasione della prima giornata del campionato di serie A


COPERTINA

l numero di per sé a Napoli non porterebbe bene ma per una volta,

I

attivando tutti gli scongiuri del caso, si inizierà la stagione guardando

con decisione in avanti, sicuri di aver già pagato ampiamente

in questi anni eventuali debiti con la fortuna.

Quella che sta per iniziare sarà la diciassettesima stagione con Aurelio De

Laurentiis alla guida della società azzurra. Il suo Napoli sta per diventare

maggiorenne. Una vita, quindi, una storia piena di speranze, di emozioni, di

uomini di qualità arrivati per riportare il Napoli laddove merita di stare.

DE LAURENTIIS

E GLI ALLENATORI

DEL SUO NAPOLI

Dal gran signore Reja all’aggressivo

Gattuso passando per il toscanaccio

Mazzarri, l’internazionale Benitez,

la scommessa Sarri ed il parafulmine

Ancelotti. Senza dimenticare

le meteore Ventura e Donadoni.

Una storia fatta di cicli e di programmi

ambiziosi a volte sfiorati da rilanciare

dopo un’annata confusa con una rosa

forse arrivata al capolinea

di Giovanni Gaudiano

Una storia con molti alti, pochi bassi, con qualche titolo

conquistato per arricchire la bacheca azzurra. Un’avventura

cominciata a Paestum tra i templi greci, luogo

naturalmente deputato per la filosofia di cui è permeato

il popolo napoletano, capace di assorbire anche un fallimento

e l’onta di dover ricominciare dalla Serie C con pochi

palloni ed una squadra raccogliticcia fatta in pochi

giorni.

Al presidente spesso in questi anni è piaciuto ricordare

come ha rilevato il Napoli in quell’estate infuocata del

2004. La situazione, c’è poco da dire, era quella ma forse

in un momento di estrema lealtà qualcuno dei presenti,

nelle varie occasioni, avrebbe potuto ricordare a Adl

cosa Napoli ed il Napoli hanno rappresentato per lui, per

tutta la sua famiglia e per la sua attività di oculato e capace

imprenditore.

L’equilibrio di De Laurentiis nella gestione della società

è noto, ci sono i dati ufficiali che lo confermano ad ogni

presentazione di bilancio. Anche il quotidiano nazionale

più specializzato in economia non può che confermare

8 domenica 30 agosto 2020



sempre questo successo che dura da sedici anni. Proprio

per questo sarebbe il caso che De Laurentiis riconosca

una volta tanto anche i meriti della città e degli appassionati,

al di là di quelle posizioni controverse che di

tanto in tanto fanno capolino.

Nella conferenza stampa del 13 luglio, con la quale il

patron del Napoli ha presentato il ritiro di Castel di

Sangro è stato bello sentire che c’è qualcosa che Aurelio

De Laurentiis ignora o non conosce. Non per un

malcelato e misero senso di rivalsa nei confronti di un

uomo colto, le cui qualità non spetta a noi enumerare,

ma per avvalorare un concetto: si guarda molto spesso

troppo lontano mentre la soluzione è più vicina di

quanto tutti possiamo immaginare.

È stato piacevole e soddisfacente sentire dire al presidente

che a meno di due ore di auto da Napoli esiste

qualcosa all’altezza, se non meglio, di quanto possano

offrire le peraltro splendide valli alpine.

Il ritiro a Castel di Sangro della squadra azzurra, che

comunque dalla stagione ventura rimarrà accoppiandosi

a quello di Dimaro, è stato un modo per rinnovare

l’aria attorno al Napoli. La scelta potrebbe rappresentare

idealmente l’avvio di una ragionata rifondazione

che a questo punto sembra impossibile da postergare

ancora. Nella rosa ci sono quelli che sono stati dei

punti di riferimento in questi anni ma il loro ciclo si può

dire si sia concluso all’indomani della partenza di Hamsik

e poi di Albiol.

Ci sembra giusto a questo punto avviare un breve

amarcord per ripercorrere, proprio attraverso le parole

del presidente, i passaggi che hanno contraddistinto le

varie fasi della sua gestione al Napoli che va detto ha

avuto una precisa connotazione: una continuità mai

raggiunta anche nel momento più luminoso di un sia

pur glorioso passato.

Ci tocca quindi partire da quel gran signore che è

stato ed è Edy Reja per riavvolgere il nastro e provare

a raccontare le fasi dell’era De Laurentiis, partendo

dalle parole del presidente.

«Sono sempre in contatto con Reja, costantemente. L’ho

sentito per anni, sin da dopo che insieme siamo tornati in Serie

A. Gli chiedo spesso di venire a Napoli per aiutarmi e lui

si rifiuta. Ho con lui buoni rapporti».

10 domenica 30 agosto 2020


Il secondo ciclo lo si può far coincidere con l’arrivo

di Walter Mazzarri alla guida del Napoli. All’atto

del “divorzio”, voluto dal tecnico toscano, che pensava

andando a Milano, sponda Inter, di consolidare

quanto di buono costruito al Napoli, il presidente

nell’estate del 2013, dopo l’ingaggio di Benitez, dichiarò…

«Rimango innamorato delle persone che hanno collaborato

a un progetto importante. Mazzarri è un toscano, la sua

ironia è normale. Io sono per l'internazionalizzazione, per

me è più giusto un allenatore come Benitez, con cui ci siamo

subito trovati d'accordo su tutto. In casa mia comunque i divorzi

non esistono. Ho dato un'ultima opportunità a Mazzarri

ma lui non l'ha accettata, ritenendo di aver concluso il

suo lavoro a Napoli. Quindi ho deciso di andare avanti senza

tentennamenti».

Il tecnico di San Vincenzo è stato importante nella

crescita della squadra ma nessuno può negare, oggi a distanza

di tempo, che l’affetto dei napoletani e la possibilità

offertagli dalla società ed i risultati che è stato capace

di conseguire con gli azzurri non si siano ripetuti

da nessun’altra parte, mostrando per intero tutti i suoi

limiti gestionali.

Si tratta di un estratto di alcune dichiarazioni rilasciate

nel settembre del 2018 dal presidente sul tecnico,

capace in meno di tre anni di riportare il Napoli

in Serie A e fanno eco a quanto dichiarato dal

tecnico friulano nel maggio del 2016…

«Aurelio De Laurentiis è un signore. Ora sa anche di calcio,

ma appena prese la società no, per questo siamo quasi arrivati

alle mani, ma da gentiluomini ci siamo subito spiegati

e il giorno che sono andato via dal Napoli mi ha detto: “Per

lei qua la porta sarà sempre aperta”. Non sono frasi di circostanza

ci sentiamo ancora spesso».

Questo il primo ciclo che si concluse con la partecipazione

del Napoli alla coppa Intertoto, l’eliminazione da

parte del Benfica nella finale e una stagione che, dopo

un avvio incoraggiante, subì una brusca frenata con

l’avvicendamento in panchina e l’arrivo di Roberto Donadoni.

Per la successione a Mazzarri, De Laurentiis, come

dichiarato, decise di internazionalizzare il Napoli e

convinse durante la finale di Champions di quell’anno

Rafa Benitez a venire a Napoli. Il suo racconto

si riferisce alla fine della prima stagione

dello spagnolo a Napoli.

«A Londra incontrai Benitez, col quale facemmo subito

“scopa”. Ci trovammo in accordo su tutto ed iniziammo un

percorso importante. Fin dal principio mi convinse che la

squadra dovesse cambiare modulo; poi ha voluto vedere quali

giocatori erano in grado di adattarsi meglio ai nuovi schemi.

Infine, dopo il mercato estivo, abbiamo fatto mosse importanti

nel mercato di gennaio».

Rafa Benitez con stile e signorilità dopo la decisione

di andare a Madrid dichiarò…

«I progetti si possono costruire anche senza essere necessariamente

i più facoltosi e noi a Napoli qualcosa di nostro

abbiamo dimostrato. È stata rifatta una squadra, attraverso

la cessione di Cavani e con investimenti mirati. Abbiamo fatto

quello che si poteva: non è un difetto avere una disponibilità

economica inferiore ad altri club. Ma De Laurentiis è stato

bravo a portare il Napoli ad essere stabilmente tra le grandi.

Se c’è anche qualcosa di mio nella squadra allestita, e penso

ci sia, ne sono orgoglioso. Poi è arrivato un momento in cui

le strade dovevano dividersi, avevamo visioni diverse sulla

gestione, sulla politica societaria. Ma l’abbiamo fatto con rispetto

assoluto, l’uno dell’altro».

domenica 30 agosto 2020

11


E poi dopo la separazione…

«Mi fece incazzare con la scusa volgare dei soldi, mi costrinse

a cambiare e aveva ancora due anni di contratto. Ricordo

che a febbraio mi invitò a pranzo in Toscana, a due

passi da casa sua, organizzò la moglie, parlammo di tante

cose ma non accennò a chiusure, a separazioni, mi portò fino

al giorno che precedette l’ultima partita creando disturbo e

incertezza alla società».

Maurizio Sarri forse è stato il più irriconoscente dei tecnici

arrivati a Napoli nell’era De Laurentiis. Forse

aveva pensato che il ciclo della squadra fosse arrivato al

termine e quindi pensò che per “arricchirsi”, come lui

stesso ebbe a dichiarare, sarebbe stato meglio emigrare.

C’è chi a Napoli di tanto in tanto lo vorrebbe

nuovamente alla guida della squadra, pensiamo che sarebbe

sconveniente al di là di ogni possibile risultato.

Siamo così giunti al finale di questa breve rivisitazione

della fondamentale gestione tecnica del presidente

Aurelio De Laurentiis, ovvero la scommessa

Sarri, la scelta successiva di un parafulmine come

Ancelotti e l’arrivo a stagione quasi del tutto compromessa

di Gattuso, quello che oggi sembra essere

deputato alla concretizzazione del nuovo ciclo. Partiamo

da alcune delle parole riservate dal presidente

al tecnico toscano…

«È diventato il deus ex machina, ma anche nel calcio vale

la regola del cinema dove per fare un buon film sono necessari

un ottimo regista e un ottimo produttore, sono i genitori

dell’opera dell’ingegno. Naturale che l’imprenditore dia delle

indicazioni e che gli sia riconosciuta una parte del merito nel

successo, non solo la colpa nella sconfitta. Chi ha preso Cavani?

Il sottoscritto. E Mazzarri? Il sottoscritto. E Benitez?

Sempre il sottoscritto. E Higuain? E Sarri? Quando lo

scelsi tappezzarono la città di striscioni contro di me».

La parentesi di Ancelotti andrà probabilmente valutata

nel tempo o quando i due protagonisti si

decideranno a dire la verità sull’accaduto. Di sicuro

il tecnico emiliano sin dal suo arrivo ha cercato di

far capire che erano necessari dei cambiamenti sostanziali

ma forse al presidente serviva solo prendere

tempo e poi un tecnico meno decorato per rilanciare

il suo Napoli. Ecco le parole di De

Laurentiis all’indomani dell’esonero…

«Scelsi la sua serenità, la tranquillità, la sua piacevole vicinanza.

Mio padre era un filosofo, un uomo dolcissimo.

Come Carlo. Ma prendendo lui, non so se feci la cosa più giusta

per il Napoli. Dopo la prima stagione, potendo ricorrere

alla clausola rescissoria contenuta nel contratto, avrei dovuto

dirgli: “Carlo, per me non sei fatto per il tipo di calcio che vogliono

a Napoli, conserviamo la grande amicizia, il calcio

a Napoli è un’altra cosa. Ti ho fatto conoscere una città che

adesso ami spassionatamente e che ti ha sorpreso, meglio finirla

qui”».

Nelle dichiarazioni di De Laurentiis è presente solo una

mezza verità. In varie occasioni il tecnico di Reggiolo

si è accusato di un errore che avrebbe commesso senza

però mai volerne parlare chiarendolo. È lecito pensare

che anche lui pensasse che sarebbe stato meglio andar

via alla fine del primo anno ma è altrettanto giusto considerare

che nell’estate del 2019 i presupposti tra l’allenatore

e la società erano ben diversi e lontani dalle dichiarazioni

rese dal presidente.

Siamo giunti al termine di questa carrellata e va

quindi ricordato il racconto che De Laurentiis ha

fatto di recente parlando dell’ingaggio di Rino Gattuso…

«Ci eravamo rivisti al compleanno di Ancelotti, da

Mammà, a Capri. Una tavolata di quaranta metri, Carlo

12 domenica 30 agosto 2020


aveva invitato il mondo, amici, ex compagni, sembrava un

matrimonio, io e Carlo ai lati. Rino era seduto vicino a lui.

Me l’ero immaginato diverso, ho scoperto un grande conversatore,

molto presente a se stesso e in grado di affrontare

tutti i temi possibili. Ci siamo intrattenuti a parlare per le tre

ore della serata. Dopo il disguido del ritiro-non-ritiro gli ho

telefonato e gli ho detto: “Rino, stai calmo, non prendere nessuna

decisione se ti chiama qualcuno, stai fermo”. La sera

della partita di Champions, dove peraltro abbiamo vinto, ho

invitato Carlo a cena per spiegargli che avevo deciso di cambiare,

anche per conservare la grande amicizia tra noi… Napoli

è la parte migliore della mia vita. Io amo due sole città,

i miei due posti, non esiste un altrove, Napoli e Los Angeles.

Per stare vicino alla squadra ho appena deciso di affittare

una villa di Capri e di trasferirvi gli uffici della Filmauro,

del cinema e del calcio».

Ed ancora…

«La squadra aveva dimenticato il 4-3-3 sarriano, a

Rino ho chiesto la riverginazione di quel modulo, anticipandogli

che lo scotto da pagare sarebbero state tre, quattro

sconfitte di fila. Ne ha perse di meno. Carlo, come mio padre,

era l’ambasciatore, io e Rino siamo molto simili, due

guerrieri, due che non le mandano a dire, due condottieri».

Il racconto, la storia, quella ricostruita attraverso le dichiarazioni

di De Laurentiis è terminata. Inizierà un

nuovo ciclo? Sarà proprio Gattuso il condottiero auspicato

da Aurelio De Laurentiis a portarlo avanti?

Avrà le qualità per gestire una squadra, una società

dove l’organizzazione è molto diversa dal suo Milan,

quello in cui giocava? E poi il presidente saprà ricostruire

la squadra giusta per mirare ad una serie di

obiettivi ragionevoli ma soprattutto finalmente raggiungibili?

Staremo a vedere!

Nel frattempo abbiamo ritenuto di dedicare per la prima

volta la nostra copertina al presidente per riconoscenza,

per evidenziare il proficuo lavoro fatto in questi anni ma

soprattutto per spronarlo a realizzare l’obiettivo che la

città aspetta da un po’ di tempo.

Lui è l’uomo giusto perché proviene dal mondo dei sogni,

quello fatto di celluloide. Il grande sogno americano,

paese che De Laurentiis ha eletto come sua seconda

patria, ha fondato la sua realizzazione grazie

anche al mondo cinematografico.

Napoli aspetta, non è importante chi siederà quel

giorno sulla panchina mentre sarebbe giusto che Aurelio

De Laurentiis completi l’opera raggiungendo

l’obiettivo massimo che lo legherebbe, al di là delle polemiche,

per sempre a questa città nonostante la sua evidente

inflessione romanesca.

domenica 30 agosto 2020

13



LA NUOVA STAGIONE

Nasce il Napoli di Gattuso

Bagno di folla a Castel di Sangro nonostante le limitazioni.

Una rosa importante a disposizione di Gattuso con Osimhen

e Mertens che iniziano le prove generali e Meret che non si tocca

di Giovanni Gaudiano

foto Agenzia Mosca

Il quartier generale del Napoli

a Castel di Sangro è come

sempre blindato.

Questa volta è comprensibile. Il virus

subdolo che attanaglia il

mondo e la cui provenienza resta

nebulosa non permette alcun abbassamento

di guardia. In altre occasioni,

vedasi Dimaro, forse è apparso

eccessivo.

Diciamocela tutta, quella fasciatura

dell’Albergo Rosatti sembrava

una cosa da lager nazista per quelli

che stavano dentro, non certo per

i curiosi che restavano fuori o

per quelli che dovevano magari

parlare per cose di rilievo

con gli albergatori e la

dirigenza del Napoli che si

sono sentiti dire dalla vigilanza

di andare via senza neanche

ascoltare quale fosse la

richiesta. Acqua passata ma il

problema si ripresenterà, ne siamo

sicuri.

Il presidente ha colto una grande

occasione scegliendo Castel di Sangro

e il risultato è stato subito evidente

sin dal primo giorno quando

la squadra è arrivata da Napoli.

In campo una folla di giocatori agli

ordini di Rino Gattuso che portano

a svolgere una considera-

domenica 30 agosto 2020

15


zione. La rosa non è ancora definita

del tutto, è bene ricordare che

il calciomercato inizia il 1 settembre,

ma il Napoli non ha mai avuto

una quantità di giocatori simile.

Certo non rimarranno tutti ma

quelli che andranno via porteranno

entrate di cassa e faranno del Napoli

una società ancora più benestante.

Nelle foto che accompagnano queste

brevi considerazioni c’è qualcosa

dei primi momenti del ritiro

del Napoli.

È stato bello vedere naturalmente

Mertens trotterellare vicino ad

Osimhen. Certo è accaduto perché

parlano entrambi il francese ma a

noi piace pensare che il nuovo Napoli,

quello che abbiamo definito

del rinnovamento, partirà da loro,

due interpreti di un calcio moderno

come quello visto a Lisbona.

Di un calcio verticale senza quei

tocchi laterali ed all’indietro che,

diciamolo ancora una volta lealmente,

non si dovrebbe vedere più.

È stato bello anche vedere Osimhen

con Koulibaly. La reazione è

duplice: da una parte parla il cuore

e quindi sarebbe bello vederli giocare

insieme; dall’altra un’offerta

irrinunziabile sarebbe inopportuno

sottovalutarla.

Il prossimo anno il Napoli compirà

95 anni. È un vecchietto arzillo

che come tutti i napoletani si

sarà rinsecchito un pochino nel

tempo ma non muore. De Laurentiis

rilancia la sfida, Napoli farà la

sua parte come sempre. Gattuso

adesso non avrà scampo e giustificazione

ma non bisognerebbe neanche

commettere l’errore di criticarlo

per consuetudine. A

proposito: Rino scegli Meret, non

puoi fare differentemente, il

mondo ha bisogno dei giovani meritevoli.

16 domenica 30 agosto 2020



LENTE DI INGRANDIMENTO

Attaccanti

L’attaccante

secondo

Gianni Brera

Goal è termine inglese e significa scopo,

fine, meta di arrivo. Goal è divenuto

universale come il calcio e non ha mai

trovato surrogati in alcuna lingua, neppure

in Italia, al tempo dei furori xenofobi

(a parole): si è tentato di eliminare

il termine goal, non il calcio, e si è adottato

rete in sostituzione. Qualche volta,

per necessità di scrittura, capita anche

al cronista di servirsi dell’Ersatz (= sostituzione,

ndr.), ma lo fa con impaccio,

perché “segnare una rete” è piuttosto

arduo.

Per evitare la grafia inglese, è giusto invece

che si usi gol, alla più semplice,

come viene pronunciato. I sudamericani,

che non hanno tradizioni troppo

arcigne da rispettare in materia di lingua,

scrivono addirittura fútbol, e dal

sostantivo gol sono fantasiosamente

giunti al verbo golear, che mi sembra

bellissimo, talché non ho esitato a

usarlo con la logica estensione al nuovo

sostantivo goleador.

Il fine agonistico del gioco è la vittoria e

per vincere è necessario goleare più dell’avversario.

Impedire di goleare è più

agevole, ovviamente, e proprio per questo

una squadra sensata si preoccupa

prima di attuare il programma più facile,

ponendosi come assioma il safety first

degli inglesi (la sicurezza innanzi tutto).

(Gianni Brera da

“Il mestiere del Calciatore”

Baldini&Castoldi 1994)

I

di Lorenzo Gaudiano

Il mondo del calcio e i suoi

paradossi, per i quali non

esiste una risposta univoca,

dove tutte le considerazioni possono

rivelarsi giuste o sbagliate.

Uno di questi, meglio segnare un

gol in più dell’avversario oppure

pensare prima a non subirli?

Gianni Brera con i suoi articoli ed

i suoi libri ha sempre aperto la

mente dei lettori. La sua capacità di

raccontare il calcio con perizia tecnica,

cultura e fantasia ha consegnato

ai posteri un’immagine di

questo sport che trascende quello

che succede sul terreno di gioco.

18 domenica 30 agosto 2020


Il grande maestro del giornalismo sportivo ci accompagna

nel nostro approfondimento sull’attaccante e su quelli che

hanno vestito la maglia azzurra nell’era De Laurentiis. Uno

sguardo al suo lessico, ai suoi neologismi per comprendere

come il calcio non sia cambiato molto ed alla fine

sia molto più semplice di quanto si possa pensare

Gigi Riva per il quale Brera s’inventò il famoso epiteto “Rombo di tuono”

Un po’ come quando nel corso della

sua carriera cominciarono a fiorire

i suoi famosi neologismi che oggi

sono entrati a far parte del bagaglio

culturale di cronisti ed appassionati

sportivi passando per l’inserimento

in tutti i dizionari della lingua

italiana.

Tra questi c’era il termine “goleador”,

raccontato nel passo da noi

riportato, che può aiutarci a trovare

una risposta al quesito citato

sopra. Il goal è un obiettivo, un requisito

necessario per vincere le

partite. È l’obiettivo di tutta la

squadra ma solitamente a chi spetta

questo arduo compito? Naturalmente

all’attaccante, perché a lui

spettano i gol e se non li fa sono dolori,

soprattutto nel caso in cui nessun

altro schierato in un ruolo diverso

riesca a metterci una pezza.

Rispetto a qualche anno fa oggi non

tutti gli attaccanti si occupano principalmente

di segnare e non vengono

valutati per i gol che realizzano,

perché il calcio con i suoi

sistemi, le sue filosofie di gioco e le

sue metodologie di lavoro si è evoluto.

C’è chi partecipa alla costruzione

delle azioni giocando lontano

dall’area di rigore perché magari

ha una visione della porta meno

sviluppata, chi corre troppo per la

squadra e finisce per arrivare davanti

al portiere poco lucido, chi

non viene servito a dovere dai propri

compagni. Tante cose che alla

fine hanno finito per complicare sia

un concetto riassumibile come abbiamo

visto con un termine, sia in

forma più estesa uno sport che

prima sembrava più semplice, più

bello e soprattutto più romantico

da raccontare.

Quindi la vera domanda da porre e

a cui bisognerebbe trovare una risposta

è questa: non era forse più

facile prima?

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LA MAGLIA NUMERO 9

Dalle Pampas a Lagos

con un Salto…

nel Rio della Plata

Storia ragionata degli attaccanti e dei moduli tattici adottati dai

tecnici scelti da De Laurentiis cha ha messo a disposizione di

Gattuso la nuova coppia formata da Dies Mertens – Victor Osimhen,

il nigeriano che i tifosi napoletani si augurano realizzi in maglia

azzurra tanti gol e la profezia presente nel suo … nome

di Bruno Marchionibus

Sosa-Calaiò

Il duo per la Serie A

Era settembre del 2004 quando il mago dei cinepanettoni

Aurelio De Laurentiis e l’esperto Pierpaolo Marino

con soli 15 giorni a disposizione costruirono una squadra

dalla polvere del fallimento che sarebbe ripartita

dalla Serie C1.

Per riuscire nell’intento c’era bisogno di un nome di categoria

superiore, di un giocatore che desse al pubblico

la sensazione di giocare in un’altra categoria: il

prescelto, consenziente, fu Roberto “El Pampa” Sosa,

centravanti d’area con un passato in Serie A che divenne

il primo tesserato della nuova società (il neonato Napoli

Soccer, un nome orribile solo a pronunciarlo) e il punto

di riferimento nei cuori dei tifosi.

L’argentino ci mise un po’ a carburare nei mesi di gestione

Ventura, complice un fastidioso infortunio muscolare,

ma con Reja divenne l’arma in più dell’attacco

azzurro. In categorie come la C e la B dove non si va per

il sottile e le partite più che esibizioni di stile sono vere

e proprie battaglie, infatti, la fisicità del Pampa rappresentò

un’importante chiave tattica quando, in tanti finali

di match, la palla lunga per la testa del bomber si

domenica 30 agosto 2020

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rivelò decisiva, tanto da parlare di “zona Sosa” in riferimento

ai minuti di recupero spesso vincenti per il Napoli.

Al suo fianco a gennaio dal mercato di riparazione arrivò

Emanuele Calaiò, giocatore più tecnico che ben si

affiancò al sudamericano. Se nei primi mesi in Campania,

infatti, l’Arciere e il Pampa sembrava si disputassero

la maglia numero 9 nel 4-3-3 di Reja, al secondo

anno di C1 il passaggio al 4-4-2 consentì ai due di far

spesso coppia e ai partenopei di dominare il torneo.

Nella stagione successiva, il tecnico friulano si affidò ancora

al tandem argentino-siculo per riportare gli azzurri

in Serie A; nel 2006-07, infatti, la campagna acquisti

di Marino aveva portato all’ombra del Vesuvio

Bucchi e De Zerbi, top player della categoria, e a furor

di popolo il Napoli aveva iniziato la stagione con sulla

carta un 4-3-3 iperoffensivo. Gli azzurri non partirono

bene e la clamorosa sconfitta con l’Albinoleffe indusse

l’equilibrato ed esperto Reja a stravolgere tutto e a impostare

il suo undici scegliendo un 3-5-2 ben più concreto.

Out i nuovi acquisti, fiducia al tandem Sosa-Calaiò.

Quella scelta tanto criticata da alcuni fu la fortuna

del Napoli, che dominò il campionato con i suoi attaccanti

protagonisti assoluti.

Il Pocho infiamma Napoli

Quagliarella toccata e fuga

Il ritorno in massima serie segnò, nel 2007, l’arrivo a

Napoli del primo vero idolo dell’era ADL, un fresco

campione d’Argentina con la faccia da scugnizzo e una

velocità fuori dalla norma. Faceva l’elettricista in patria

prima di diventare un calciatore il Pocho Lavezzi,

che ben presto, dopo lo scetticismo iniziale, seppe

dare ai tifosi ed agli addetti ai lavori la reale misura di

quanto il Napoli stesse tornando ad alti livelli; era da

tempo che al San Paolo non si ammirava un giocatore

di questo tipo. A far coppia col Pocho, nelle prime stagioni

a Napoli, furono prima Zalayeta, non velocissimo

ma estremamente tecnico, e poi El Tanque Denis, che

portò in azzurro con la sua forza la tipica garra sudamericana.

Si continuerà, in quegli anni, sulla scia del

3-5-2 con Reja prima e Donadoni poi, fino ad arrivare

a Mazzarri, che con quel sistema tattico riporterà il

22 domenica 30 agosto 2020


Matador e Pipita

Spazio ai top player

El Matador si rivela da subito l’uomo ideale nello

scacchiere di Mazzarri; è un atleta, l’intesa con Hamsik

e Lavezzi è tanto perfetta che in breve si arriva a

parlare dei “tre tenori”, e la grinta che Edi mette in

campo è la stessa che ben rappresenta l’allenatore livornese

e tutta la sua banda. Tutti gli schemi offensivi

della squadra sono strutturati per sfruttare la fame insaziabile

del bomber di Salto, tanto che ci si chiederà

se il Napoli sia diventato Cavani-dipendente; difficile

non esserlo, d’altra parte, quando un attaccante è in

grado di realizzare 104 reti in 3 stagioni tra Italia ed

Europa.

Nel 2013, con l’addio di Mazzarri e dello stesso uruguagio,

a Napoli si compie una rivoluzione. In panchina

arriva Benitez, tecnico dal palmarés internazionale,

che con sé porta dal Real Madrid Albiol,

Callejon e soprattutto Gonzalo Higuain. El Pipita è un

giocatore completamente diverso da Cavani. Ha meno

garra rispetto a Edinson, ma è tecnicamente sublime

e perfetto per dialogare con i tanti uomini di fantasia

che il 4-2-3-1 di Benitez, ben più propositivo del 3-5-

Napoli prima in Champions e poi ad alzare nuovamente

un trofeo, la Coppa Italia del 2012.

Zalayeta e Denis fanno per intero la loro parte, sono

ottimi giocatori, ma nell’estate 2009 la sensazione è

che ci sia bisogno di qualcuno che possa permettere

ai partenopei di compiere il salto di qualità definitivo.

Il nome giusto si trova nell’agenda di Marino: è

quello di Fabio Quagliarella, l’uomo che rende possibili

i gol impossibili e che da tifoso della maglia azzurra

da sempre vorrebbe vestirla. La stagione, dall’avvento

di Mazzarri in poi, sarà buona e si

concluderà con la qualificazione ai preliminari di EL;

lo stabiese, però, sarà condizionato pesantemente dai

problemi personali di cui solo anni dopo si verrà a conoscenza,

e lascerà controvoglia il Napoli dopo una

sola annata. A sostituirlo sarà il giocatore che trasformerà

a suon di gol il Napoli da buona squadra a

squadra di vertice. È un fenomeno, solo che in quel

momento ancora nessuno lo sa, forse neanche lui: il

suo nome è Edinson Cavani.

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gare. La svolta, però, arriva dopo la partita di Empoli,

quando i senatori convincono l’allenatore a puntare sul

4-3-3, schema che meglio si sposa con i giocatori a disposizione.

Sarri si lascia convincere, sente che fuori

dallo spogliatoio l’aria sta diventando mefitica e nasce

così una macchina da gol capace di divertire e far

emozionare tifosi napoletani e non per tre anni di fila.

I ragazzi giocano a memoria, ed Higuain diventa per

il suo mister ciò che Cavani era stato per Mazzarri, il

terminale offensivo perfetto di ogni trama di gioco.

Gonzalo concluderà quella stagione con 36 gol in

campionato, record assoluto di sempre appena eguagliato

da Immobile, ma si renderà anche protagonista

di lì a poco del gran tradimento, consumato qualche

anno dopo anche dal mister di Figline: il passaggio ai

rivali di sempre della Juve.

Il Napoli a quel punto individua in Arek Milik l’erede

di Gonzalo e l’uomo che coi suoi gol deve portare il

gruppo di Sarri a confermare la straordinaria annata

appena disputata. Inizierà bene, il polacco, che con la

sua tecnica ben si colloca negli schemi sarriani, ma due

infortuni consecutivi al ginocchio ne condizioneranno

e non di poco le prestazioni. Sarà a quel punto l’uomo

che non ti aspetti che non solo non farà rimpiangere

Cavani e Higuain, ma che diventerà il primo marcatore

all-time della storia azzurra: Dries “Ciro” Mertens.

2 mazzarriano, prevede in campo. Le due stagioni di

Higuain agli ordini dello spagnolo saranno, come

quelle di tutta la squadra, vincitrice di due Coppe ma

anche protagonista di tanti momenti altalenanti, in

chiaroscuro. Forse il modulo adottato da Rafa non è

l’ideale per tutti gli elementi della rosa, fatto sta che

il 2014/15 si chiude nel peggiore dei modi per il Napoli

e per l’argentino, che contro la Lazio sbaglia un

penalty che fa perdere agli azzurri la qualificazione

Champions. Sarà proprio quell’errore, tuttavia, a dare

al Pipa la voglia di rivalsa che gli consentirà, dodici

mesi più tardi, di entrare nella storia del calcio italiano

dalla porta principale.

Da Gonzalo a Dries

Il tradimento, i gol e i record

Quando a Napoli sbarca Maurizio Sarri nessuno o

quasi scommetterebbe sugli azzurri e sul Pipita. L’inizio

di torneo sembra dare ragione a chi parla di ridimensionamento,

col 4-3-1-2 del toscano che non decolla

e la squadra che raccoglie soltanto 2 punti in 3

Mertens-Osimhen

Una nuova coppia vincente?

Negli ultimi due anni di Sarri il belga, fino a quel momento

utilizzato prevalentemente come esterno di sinistra

in alternativa ad Insigne, è il terminale di un attacco

da sogno, e guidato da lui il Napoli sfiora

concretamente un terzo tricolore che avrebbe certamente

meritato. Mertens continua a rendere anche

quando, con l’avvento di Ancelotti, si passa al 4-4-2,

amato dall’allenatore ma osteggiato dai giocatori; sarà

anche questo disguido tattico uno dei motivi alla base

di un rapporto mai decollato tra tecnico, squadra e società,

che porterà nel dicembre 2019 all’addio all’emiliano,

arrivato poco più di un anno prima in

pompa magna, e all’ingaggio di Gattuso. Il mister calabrese

torna subito al 4-3-3 convincendo ADL a rinnovare

il contratto di Dries, ancora centralissimo nel

progetto azzurro e perfettamente integrato tanto con

la squadra che con la città. Nel frattempo dal continente

africano passando da Lille arriva il nigeriano

Osimhen, l’acquisto più costoso della storia azzurra,

24 domenica 30 agosto 2020


l’uomo con cui “Ciro” dovrebbe condividere una maglia

da titolare nella prossima stagione. La giovane

punta però ha sicuramente qualità diverse dal belga,

più fisicità e più potenza, ed è chiaro che la soluzione

potrebbe essere un’altra: cambiare modulo e utilizzarli

insieme. Nella storia che abbiamo cercato di raccontare

rivivendo momenti belli e inaspettate cadute appare

evidente che se gli allenatori abbiano avuto, come

ovvio, il loro peso nel rendimento della squadra il

Napoli abbia raggiunto le migliori prestazioni quando

con intelligenza e con umiltà si sia deciso di adattare

il modulo ai giocatori a disposizione, tenendo in debito

conto le caratteristiche di tutti i componenti della

rosa. Le risorse che consentiranno un rinnovamento

non mancano, neanche le qualità tecniche e quindi

conteranno le scelte coraggiose che il tecnico saprà

adottare mettendo da parte sentimenti personali o timori

reverenziali per riportare sin da subito il Napoli

al vertice.

A proposito il richiamo del servizio si riferisce ai bei

tempi nei quali era usuale vedere la punta centrale indossare

sempre la maglia numero 9.

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I PIÙ AMATI

I tre caballeros

Lavezzi, Cavani e Mertens. Il percorso

in azzurro dei 3 attaccanti sino ad oggi

più amati dell’era De Laurentiis che

hanno scritto pagine importanti della

storia del club partenopeo e di cui un

domani migliaia di appassionati potranno

raccontarne le prodezze, i dribbling

ed i gol alle generazioni future

di Marco Boscia

I

tifosi del Napoli si sono legati spesso in maniera

viscerale ai calciatori che hanno indossato la

maglia azzurra, arrivando a perdonare loro anche

il minimo errore perché, come recita il testo di una

nota canzone, “un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo

e dalla fantasia”. Difatti, per i tifosi azzurri

il calcio ha sempre avuto un significato autentico

che permette alle persone di conoscersi e di vivere assieme

momenti talvolta indimenticabili. Quel calcio

fatto di emozioni, passione, entusiasmo, gioie e sofferenze.

Sarà per questo che i sostenitori partenopei, nell’era

De Laurentiis, si sono affezionati maggiormente a

tre attaccanti, Ezequiel “Pocho” Lavezzi, Edinson “Matador”

Cavani e Dries “Ciro” Mertens che, pur essendo

“stranieri”, sono riusciti a legare indissolubilmente il

loro nome al Napoli sia per quel senso d’appartenenza

e quel rapporto creato con la gente e con la città che per

le loro gesta calcistiche.

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Il legame con Napoli dei tre attaccanti

Lavezzi

“Napoli è una città

che mi ha dato tanto

e dove mi sono trovato

sempre bene. La

partita più importante

che ho giocato

col Napoli è stata la

finale di Tim Cup,

quando abbiamo

vinto contro la Juve.

Ci ha dato la Coppa Italia, la possibilità di vincere in una città come

Napoli dove non si vinceva da tantissimo tempo. Ho vissuto cose importanti

in quei cinque anni ma questa è quella che mi è rimasta di

più”

Cavani

“Quelli vissuti con la

maglia azzurra sono

stati momenti molto

speciali, credo sia

stato il periodo in cui

tutte le cose sono

cambiate veramente

per me e il merito,

come sempre dico,

non è solo mio ma anche di Mazzarri che mi ha voluto là in primis, dei

miei compagni che ho avuto là e della gente che mi ha fatto sentire un

mito. Poi anche del lavoro che ho fatto per fare cose importanti”

Mertens

“Il trasferimento dal

PSV in Italia fu un

grande passo per me.

Per fare bene sapevo

che dovevo adattarmi,

imparare la lingua,

vedere come la

gente vive ed è quello

che ho fatto. Questo

ha reso tutto più semplice.

A Napoli la gente respira calcio, dai giovani alle nonne: è pazzesco.

In Italia ci si sveglia, si prende il caffè e si parla di calcio. I tifosi

mi chiamano ‘Ciro’, penso che questa cosa sia nata perché vivo come

loro. Vado molto in città, adoro il cibo, il mare e tutte le isole che ci

sono qui”

La velocità

e la fantasia del “Pocho”

“Olè olè olè olè Diego Diego”

era il coro che accompagnava le prodezze

in campo del grande ed indimenticato

Diego Armando Maradona,

che fu convertito, molti anni più

tardi, per un altro argentino, in

“Olè olè olè olè Pocho Pocho”.

Ezequiel Lavezzi è stato l'unico calciatore

in grado di ricordare le gesta,

inarrivabili, del divino Diego. Arrivato

a Napoli nel 2007 con due so-

Lavezzi e il suo soprannome

Quando ero bambino avevo

un cane che si chiamava Pocholo.

Quando se ne andò,

mio fratello ed il suo migliore

amico cominciarono a chiamarmi

con quel nome perché

rompevo le scatole proprio

come lui. Da quel momento

la gente della mia città, Villa

Gobernador Gálvez, cominciò

a chiamarmi Pocholo, finché

in Nazionale Under-20 incontrai

un vecchio compagno

della mia stessa città che, conoscendo

il mio soprannome,

cominciò a chiamarmi Pocholo

davanti a tutti i compagni.

I ragazzi dello spogliatoio

abbreviarono Pocholo in

Pocho e da quel momento

questo è il mio nome, il mio

marchio

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prannomi, “El loco” (il pazzo) ed

“El pocho” (per molti il fulmine), è

stato genio e sregolatezza di una

squadra che ha saputo fare del collettivo

la propria forza. El pocho,

chiamato così soltanto nella sua parentesi

azzurra, ne era la stella. Lo

vedevi partire, correre, scattare in

velocità, arrancare, ma poi riuscire

quasi sempre ad inventare la giocata.

Ci mise pochissimo a fare breccia

nel cuore dei napoletani conquistando,

già alla seconda partita

ufficiale in maglia azzurra, con la

tripletta al Pisa in Coppa Italia, la fiducia

della gente che per 5 anni ha

poi saputo far gioire e divertire. Le

sue lacrime, che hanno preceduto

un addio annunciato da tempo, a

Roma nel 2012 dopo la conquista

della Coppa Italia in finale contro la

Juventus, furono testimoni di un

amore che non tramonterà mai.

La forza atletica ed il senso

del gol del “Matador”

104 gol in 3 anni. Basterebbe questo

per far capire cosa ha rappresentato

Cavani per il Napoli. Ma

“El Matador” ha fatto molto di più.

Acquistato dal Palermo nel 2010,

dove giocava esterno d’attacco, per

sostituire il rimpianto Quagliarella,

arrivò alle pendici del Vesuvio da

autentica scommessa. Cavani a Napoli

seppe diventare un centravanti

inarrestabile e con una propensione

al sacrificio fuori dal

comune. Grazie ad uno strapotere

Cavani ed i 104 gol

C’è stata una combinazione

di fattori che mi hanno aiutato

ad esplodere come calciatore.

La fiducia credo sia

fondamentale, non solo per

quanto riguarda il calcio, ma

nella vita in generale.

Quando hai fiducia nella

gente che ti circonda, hai più

forza per lavorare bene. A

Napoli ho fatto 104 gol proprio

per questo e se un

giorno dovessi tornare, darei

ancora il massimo

fisico più unico che raro, è stato in

grado di occupare ogni zona del

campo, recuperare palloni, dribblare

gli avversari e trasformarsi poi, in

area di rigore, in un “killer” spietato.

A suon di doppiette e triplette, infatti,

ha saputo far innamorare la

gente di Napoli. Il suo percorso in

azzurro, però, si è concluso troppo

presto e, forse, sul più bello, quando

avrebbe potuto superare Maradona

per record di gol. Al suo ritorno al

San Paolo, l’11 agosto 2014,

da avversario, in amichevole contro

il Psg, venne sommerso dai

fischi del suo vecchio pubblico. Furono

fischi d'amore, di chi si sentì

tradito e di chi non lo ha mai dimenticato.

La visione di gioco

ed il record di “Ciro”

Ultimo, ma non per ultimo,

Dries Mertens. Il belga che ancora

oggi fa sognare migliaia di tifosi

e che forse, più dei suoi colleghi,

ha saputo compenetrarsi in

una città che lo ha persino ribattezzato

col nome di “Ciro”. Arrivato

a Napoli nell’estate del 2013

da esterno sinistro d’attacco, nella

stagione 2016-2017, sotto gli ordini

di Maurizio Sarri, complici le

cessioni di Gonzalo Higuain e l’infortunio

del suo sostituto Arkadiusz

Milik, iniziò a giocare anche

da prima punta, con risultati straordinari

in termini realizzativi.

Nel corso degli anni ha saputo

Mertens ed il record

All'inizio non ci pensavo, perché

giocavo con Hamsik e

pensavo anche a fornirgli

tanti assist. Poi quando mi

sono avvicinato ho iniziato a

pensare ai gol di Maradona e

poi a quelli di Marek.

Quando ho battuto il record

è stato incredibile, non mi

sarei mai aspettato di diventare

il capocannoniere del

Napoli di tutti i tempi

farsi apprezzare per la sua duttilità,

la sua propensione al sacrificio,

la sua visione di gioco e soprattutto

per il suo supporto alle

esigenze della squadra. Dopo essere

diventato quest’anno il miglior

marcatore azzurro di tutti i

tempi, superando prima Maradona

e poi Hamsik, pochi mesi fa è

riuscito a trovare l’accordo con il

presidente De Laurentiis per prolungare

ancora la sua permanenza

in azzurro e, anche con l'arrivo

di Petagna ed Osimhen, c'è da giurare

che “Ciro” continuerà a recitare

ancora il ruolo di attore protagonista

del prossimo Napoli.

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L’UOMO DELLE PROMOZIONI

Emanuele Calaiò

“Furbizia, freddezza

e velocità di pensiero”

C

he mestiere quello dell’attaccante. L’indice

di gradimento è dettato dalle reti

che realizzi e se sbagli un rigore o fallisci

un’occasione da rete e la squadra non vince o

addirittura perde si parlerà di quello che è

successo per l’intera settimana.

L’attaccante come il portiere è sempre

sotto la lente di ingrandimento, la sua

prestazione oggi viene vivisezionata

soprattutto dai media e con sguardo

più benevolo dai tifosi che non hanno

memoria corta.

Ci sono però delle eccezioni che alimentano

la speranza che il gioco del

calcio non sia solo vincere, primeggiare, segnare

nel caso dell’attaccante.

Emanuele Calaiò appartiene a questa categoria

di fortunati.

Una sorte, per così dire, che lui ha saputo

alimentare facendo scelte coraggiose e

non tirandosi mai indietro come

mostrano i 49 rigori tirati con

L’attaccante palermitano che ha

riportato a suon di gol il Napoli in

serie A parla delle qualità necessarie

a chi vuole giocare in attacco

e si augura che Osimhen si integri

da subito con il gruppo per

sfondare nel campionato italiano

Servizio di Giovanni Gaudiano

41 centri e le 197 reti segnate nelle 604 presenze distribuite

tra Serie A, B e C..

Era in serie B con il Pescara Emanuele, aveva segnato

8 reti in 22 partite quando scelse di venire

a Napoli a gennaio, la piazza era importante

ma si trattava comunque di affrontare una

bella scommessa, venendo a giocare in

C1, per un giovane in crescita che appena

diciasettenne aveva esordito e segnato in

serie A con il Torino.

Quale fu la ragione che la indusse a vestire

la maglia azzurra?

«Era attraente l’idea di giocare dove era

passato Maradona. Certo Napoli è una piazza

difficile sia per l’importanza dei media che per

la tifoseria sempre presente. Per un giovane rappresenta

comunque la possibilità di crescere sia sotto il

profilo caratteriale che dal punto di vista professionale.

Accettai la scommessa anche perché riportare

il Napoli in serie A sarebbe stato in quel

momento importante per tutti».

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A Calaiò che oggi è un dirigente

del settore giovanile

della Salernitana e che da quest’anno si interessa

anche dello scouting per la prima squadra è quindi naturale

chiedere come sia cambiato oggi il lavoro in un

settore giovanile.

«È tutto un altro mondo. Non si possono paragonare i miei

tredici anni con quelli di un ragazzo di oggi. Noi eravamo molto

concentrati sul gioco del calcio anche perché non c’erano altre distrazioni,

altre opportunità. A volte manca anche nei ragazzi

d’oggi quella determinazione a voler raggiungere un risultato

mentre nel mondo del calcio occorrono la passione e la voglia di

fare sacrifici con annesse rinunzie. Non basta fare bene un

anno, va ricercata la continuità per arrivare in serie A. Penso

comunque che al sud tutte le società dovrebbero investire di più

nel settore giovanile. I talenti ci sono, vanno messi nelle giuste

condizioni partendo dal miglioramento delle strutture in modo

da poter offrire il convitto e quindi la tranquillità anche alle famiglie».

Lei ha esordito in serie A con il Torino, ci racconta un

po’ delle giovanili di quella società che all’epoca sfornava

tanti buoni giocatori?

«Il settore giovanile del Torino è sempre stato tra i più importanti

in Italia. Io sono cresciuto proprio all’inizio in una

scuola calcio a Palermo, la mia città, ma al sud le difficoltà si

moltiplicano soprattutto per la carenza di strutture e organizzazione

e quindi in quegli anni se avevi deciso di voler fare il

calciatore dovevi trasferirti al nord in una di quelle società che

hanno sempre creduto nell’importanza del settore giovanile. A

Torino ho vissuto da solo. È stata dura lasciare la famiglia

e la città nella quale sei nato ma è stato

anche molto formativo, ho percorso tutta

la trafila in sette anni, avevamo come

responsabile Gigi Gabetto, figlio dell’attaccante

del grande Torino, sino a

quando Mondonico, che purtroppo non c’è più, mi fece

esordire giovanissimo in serie A. Dopo quell’inizio la

società mi diede in prestito sino a quando divenne allenatore

Camolese, che era stato anche il mio allenatore

in Primavera, che mi volle in prima

squadra e quell’anno si è vinto il campionato di

serie B».

Torniamo a Napoli. Lei è siciliano, ha un moglie napoletana.

Che sensazione provava ogni volta che dal

sottopasso entrava al San Paolo?

«Per me ogni volta era un emozione bellissima anche se non

mi tremavano le gambe. Spesso non avevi neanche bisogno di fare

il riscaldamento perché i tifosi ti davano un’adrenalina più che

sufficiente. Entrare al San Paolo gremito di pubblico credo non

abbia rivali e per noi, ma penso per tutti i giocatori azzurri, era

una forza in più».

La sua storia in maglia azzurra si è svolta di fatto parallelamente

a quella di Reja. Le sue reti in C ed in B

significarono promozione. Che rapporto

si instaura tra l’allenatore e il suo bomber

in una stagione? Come fu

quello tra lei ed il mister friulano?

«Con Reja il mio rapporto è stato sempre

di amore-odio. Abbiamo vinto due

campionati e il mister mi ha fatto

sempre giocare ma era consuetudine

che mi sostituisse.

Certo è

vero che mi

schierava sempre

nella formazione titolare per cui c’era la gioia di

scendere in campo dall’inizio ma spesso prevaleva

lo sconforto per le reiterate sostituzioni. La cosa si

è ripetuta in serie A quando arrivò Lavezzi perché il mister

disse che insieme non potevamo giocare. Fosse stato per

me e credo anche per il presidente io non sarei mai andato via

da Napoli, sarei diventato una bandiera per la squadra azzurra.

32 domenica 30 agosto 2020


Poi giocando poco ed essendo ancora giovane fui costretto ad andare

via».

È cambiato il “mestiere” dell’attaccante in questi ultimi

anni?

«Non ci sono più le punte di una volta, quelle statiche che restavano

soprattutto in area di rigore. Oggi l’attaccante è tenuto

a coprire una zona di campo maggiore, deve lottare dando fastidio

alla difesa quando imposta l’azione e deve aiutare il centrocampo

nella costruzione dell’azione. Inoltre molti allenatori

hanno preferito nel tempo utilizzare giocatori tecnici nel ruolo

di punta, faccio un esempio per tutti: Mertens. Si decide di farlo

per non dare punti di riferimento alla difesa avversaria e mettere

a frutto per la propria squadra le capacità tecniche di questi

giocatori. Diciamo che è un po’ tramontato il concetto della

boa in attacco e di conseguenza il tipo di gioco che si costruiva

attorno alla classica prima punta».

In un suo scritto Gianni Brera parlando dell’attaccante

disse: “L’attimo del gol è magico e va colto con

destrezza pari alla velocità e al coraggio”. La definizione

è completa o bisognerebbe aggiungere qualcosa?

«All’attaccante non possono mancare qualità come la furbizia,

la freddezza e la velocità di pensiero. Nelle partite bloccate

queste doti possono fare la differenza e dare la vittoria alla propria

squadra».

Il cammino che ha fatto il Napoli dopo il suo periodo

poteva essere più vincente?

«Penso che l’anno giusto sarebbe stato quello dei 91 punti con

Sarri. È anomalo raggiungere quel punteggio e non vincere lo

scudetto ma di fronte il Napoli si è trovato comunque una squadra

che ha portato a termine una stagione eccezionale. Credo però

di poter dire che il Napoli stia crescendo anno dopo anno. Ha i

bilanci in ordine, cosa non facile nel calcio contemporaneo, e ritengo

che il presidente riuscirà a raggiungere il traguardo che si

è prefissato».

Che coppia sarà quella formata da Mertens con Osimhen?

«La domanda che ci poniamo tutti sul giovane attaccante

preso dal Napoli è se saprà adattarsi rapidamente al nostro

campionato ed integrarsi nel gruppo con i nuovi compagni.

Certo magari sarebbe stato preferibile scegliere un attaccante

di maggiore esperienza, già consolidato nella sua vena

realizzativa. Capisco però che il mercato impostato da sempre

dal presidente De Laurentiis sia basato sulla ricerca dei

talenti che negli anni creano valore e plusvalenze importanti.

Detto questo, l’augurio è che Osimhen possa fare benissimo

sin da subito».

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L’APPROFONDIMENTO

di Francesco Marchionibus

Gli attaccanti

dell’era De Laurentiis

tra gol e plusvalenze

Le punte della storia recente del Napoli oltre alle reti avversarie

molto spesso hanno “gonfiato” anche il portafogli del club azzurro

L’

arrivo di Victor Osimhen e Andrea Petagna ha arricchito

ulteriormente la lunga serie di attaccanti

acquistati dal Napoli di De Laurentiis dal ritorno

in Serie A ad oggi.

In questi anni nei ruoli di attacco il Napoli ha schierato giovani

promesse poi consacratesi come campioni proprio in

maglia azzurra, autentici fuoriclasse, buoni giocatori che

però non hanno mai fatto il salto di qualità e purtroppo anche

calciatori (per fortuna pochi) che non si sono mostrati

all’altezza.

Tutti gli attaccanti azzurri però hanno avuto una caratteristica

in comune: il Napoli da un punto di vista economico

non ci ha (quasi) mai rimesso, ed anzi in molte occasioni ha

realizzato notevoli guadagni.

Gli investimenti effettuati infatti, anche quando non si

sono rivelati vantaggiosi in rapporto al rendimento sportivo,

si sono però tradotti in operazioni economiche favorevoli,

alimentando i bilanci del club con importanti plusvalenze.

In questo senso il Napoli ha sempre avuto una strategia ben

precisa.

Va premesso che le plusvalenze, di cui così tanto si parla nel

calcio di oggi, non sono date dalla semplice differenza tra

il prezzo di vendita e il costo di acquisto di un giocatore.

Il costo del calciatore, infatti, viene “spalmato” per tutta la

durata del suo contratto, con quote di ammortamento che

anno dopo anno riducono il suo valore di bilancio, e la plusvalenza

è proprio la differenza tra il valore di vendita del

calciatore e il valore al netto degli ammortamenti che risulta

in bilancio al momento della vendita.

Per fare un esempio, se acquisto un giocatore per 10 milioni

con un contratto di cinque anni e lo ammortizzo per 2 mln

all’anno, dopo tre anni il calciatore avrà un valore residuo

a bilancio di 4 ml e se lo cederò per gli stessi 10 milioni otterrò

una plusvalenza di 6 mln.

Il Napoli però non ammortizza i propri giocatori con quote

costanti, ma “a scalare”, prevedendo cioè percentuali di ammortamento

decrescenti: per i contratti di durata quin-

34 domenica 30 agosto 2020


quennale le quote sono 40 – 30 – 20 – 7 e 3%, per i contratti

quadriennali 40 – 30 – 20 e 10%, per i triennali 50 – 30 e

20% e per gli accordi biennali 60 e 40%.

Con questa tecnica di ammortamento già dopo i primi

due/tre anni di contratto il valore di bilancio dei giocatori

risulta molto ridotto, se non quasi azzerato, consentendo

al club di realizzare grosse plusvalenze. È chiaro che per

gestire gli ammortamenti in questo modo c’è bisogno di bilanci

solidi, capaci di “sopportare” le quote elevate di costo

dei primi anni, ma da questo punto di vista il Napoli non

ha alcun problema.

E allora torniamo alla gestione tecnico/economica degli attaccanti,

che è stata sempre improntata alla ottimizzazione

delle plusvalenze.

Le prime operazioni che vengono in mente sono ovviamente

quelle legate ai big: Lavezzi, Cavani e il “traditore”

Higuain, tutti giocatori che prima di essere ceduti (su loro

espressa richiesta ma con l’interessato consenso della società)

hanno avuto un rendimento altissimo, diventando

veri e propri idoli dei tifosi e segnando anche, nel caso del

Matador e del Pipita, valanghe di gol.

Grande rendimento in campo, e grandi plusvalenze al momento

dei saluti: Higuain per 86,5 milioni, Cavani per 64,4

e il Pocho per circa 29.

Ma anche altri attaccanti della recente storia azzurra, seppur

meno determinanti in campo, hanno assicurato importanti

plusvalenze, come Gabbiadini con 13,2 mln e Zapata

con 19,7 mln. Ed ora pare essere arrivato il turno di

Milik.

Assolutamente non determinanti invece, visto che il campo

non lo hanno visto mai, sono stati Inglese e Vinicius, che

però hanno portato al club plusvalenze per oltre 30 milioni.

L’eccezione alla regola è Mertens che, acquistato nel 2013

per soli 9,5 mln, pur vedendo negli anni moltiplicare il proprio

valore e rappresentando quindi una potenziale grossa

plusvalenza, chiuderà per motivi tecnici e “sentimentali” la

sua carriera a Napoli.

Certo in questi anni non sono mancate operazioni sbagliate,

Con adl l’a.d. andrea Chiavelli e il d.s. Cristiano Giuntoli

come per Vargas, Pavoletti e probabilmente Lozano, ma in

questo caso i danni economici sono stati limitati proprio

dall’utilizzo della tecnica degli ammortamenti

accelerati.

Aldilà dell’aspetto economico sono

state invece sicuramente premature

le cessioni di Quagliarella e Zapata.

E se per l’attaccante stabiese

si è trattato di una scelta

obbligata per le note vicende

extra calcistiche che lo hanno

coinvolto, cedere il colombiano

in nome della plusvalenza

è stato un grosso errore,

visto che nelle stagioni

successive Duvan è letteralmente

esploso alimentando a

suon di gol più di un rimpianto

per il contributo che

avrebbe potuto ancora dare alla

causa azzurra.

Al netto di questi passaggi negativi

va però detto che complessivamente

la società azzurra ha gestito

il mercato dei suoi attaccanti

riuscendo quasi sempre a coniugare

la necessità di acquisire e poi

mantenere in rosa giocatori di livello

con l’esigenza di venderli

bene e al momento giusto.

In questa ottica anche gli investimenti

più importanti, come quello effettuato quest’anno

per Osimhen, appaiono in realtà meno onerosi e

meno rischiosi di quello che sembrano.

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L’ATTACCANTE VISTO DALLE DONNE

Adriana De Maio

“Cavani dava l’anima e il cuore”

Il racconto della giornalista riservato ad Altafini

come viaggio nella memoria storica della

passione della sua famiglia e delle atmosfere

di quel tempo. L’attesa per Victor Osimhen

e l’amore incondizionato per il “Matador” Cavani

A

di Marina Topa

driana De Maio è una delle 20 autrici dei 20 racconti

che compongono “Interrompo dal San

Paolo” (Giammarino Edizioni). Pietro Nardiello,

curatore del libro, ha avuto un’idea davvero innovativa:

scritti solo da donne, i racconti ruotano attorno

al mondo del calcio, da sempre esclusivo universo

maschile, il loro collante è l’amore per la squadra Azzurra

e ne viene fuori una testimonianza dell’evoluzione

della società. Oggi le donne sono libere di manifestare

idee ed emozioni senza timore di ledere le propria femminilità.

Finalmente possono lavorare con professionalità

in ogni campo, sicuramente lottando ancora contro

pregiudizi ma la strada fatta è maggiore di quella da

percorrere e questo libro, con gradevole leggerezza, stimola

la grinta necessaria per proseguire a far capire che

oltre alle gambe c’è di più...

Complimenti per la tua storia, mi ha emozionata

molto perché mi ha fatto fare un tuffo nel passato

… mi sembrava di leggere aneddoti dei tempi della

mia infanzia che non corrispondono a quelli della

tua! Presumo quindi che raccontassi emozioni che

ti sono state trasmesse in modo coinvolgente da una

donna più grande (anche perché si parla del mitico

Altafini). È così? Quanto c’è di autobiografico nel

tuo racconto?

«La mia è una famiglia di grandi tifosi, per cui ho ricostruito

l’ambientazione attraverso i racconti ascoltati,

praticamente da sempre da papà e da nonno e poi mi sono

documentata molto, anche leggendo i racconti delle mie

colleghe. Ho scelto Altafini, tra i calciatori di cui nessuna

delle altre colleghe aveva già parlato, per una pura coincidenza:

il goal che fece al San Paolo il 31 dicembre! Io sono

nata davvero il 1° gennaio e da qui mi è venuta l’ispirazione

di farlo vivere ad Isabella, la protagonista del racconto,

come regalo di compleanno. Poi approfondendo la storia

di Altafini mi è venuto naturale tutto il resto. Avrei

potuto scegliere anche un calciatore più recente su cui dire

36 domenica 30 agosto 2020


ed io, per stare con loro, mi sedevo in punta al divano. Poco

alla volta iniziai a capirne e ogni tanto facevo un commento.

I miei cugini mi chiamavano Adriana Tosatti! Così mi inserii

tra loro ed ottenni che mi portassero al centro Paradiso;

per fortuna era già l’epoca in cui, anche se donna, potéi

avere le maglie di Cruz e Aglietti... Ho sempre desiderato fare

la giornalista: ho fatto radio, tv, l’inviata per il Napoli, ho

scritto per riviste e giornali, ho condotto il tg di Tele Club

Italia (il mio sogno di sempre) e il programma "Club Napoli

All News"… ho fatto tutte le esperienze che desideravo

perciò mi reputo fortunata; ho incontrato persone che stimo

e ringrazio perché mi hanno dato fiducia e permesso di crescere

professionalmente. Tante donne oggi si occupano di calcio

con grande professionalità ma purtroppo persistono dei retaggi

culturali; in quanto donna ho avuto proposte di lavoro

con ruoli che mi avrebbero “fatto fare carriera” ma ho sempre

rifiutato … mi propongo solo per quello che ho da dire».

tantissimo ma ho visto quella coincidenza come un’indicazione

da seguire per mettermi alla prova su qualcosa di

nuovo».

Con quale spirito hai partecipato alla realizzazione

di questo libro scritto da “40 mani femminili” su un

argomento da sempre maschile?

«L’idea di questo libro è stata geniale. Ho incontrato

donne fantastiche e si è creata una bella squadra affiatata anche

se non ci conoscevamo tutte e se proveniamo a diversi ambienti

lavorativi. In comune però abbiamo tutte l’amore per

la maglia azzurra e per la scrittura; il confronto tra lo stile

narrativo e le esperienze di ognuna è stato arricchente. Comunque

anch’io ricordo quando con mamma e nonna ascoltavamo

la partita alla radio e l’immaginazione mi entusiasmava!

Le voci dei radiocronisti stimolavano delle emozioni

stupende e ho apprezzato molto la loro grande professionalità

nel coinvolgimento che procuravano; all’epoca erano ancora

tutti uomini invece ora sono molte le donne professioniste

nel settore».

Isabella, la bambina del racconto, voleva vivere il

calcio come i suoi fratelli uomini, ma i tempi non

erano ancora maturi perché potesse farlo. Cosa significa

per te esser riuscita ad occuparti di calcio

come giornalista e, con “Interrompo dal San paolo”,

anche come testimone di un cambiamento epocale…

«La mia è una delle prime famiglie che si sia abbonata

alle nuove forme di pay-tv per cui casa mia diventava uno

stadio: in occasione delle partite ci riunivamo con i parenti

Aspetti esaltanti e limiti, a tuo giudizio, dell’era De

Laurentiis…

«Di certo dobbiamo tanto a De Laurentiis, ha mantenuto

uno standard di crescita costante. Ho vissuto il Napoli della

Serie C per cui per me tutto “il dopo” è stato bello ma capisco

che i tifosi più anziani, quelli che hanno visto Maradona,

si aspettassero qualcosa in più, e forse poteva esserci, ma

dobbiamo ricordare che De Laurentiis è un imprenditore,

quindi un calcolatore che sa il fatto suo, e non è certo una

colpa. Però è stato anche fortunato perché in modo del tutto

casuale si è ritrovato in casa un Cavani, un Mertens...».

Nel cuore di Isabella c’era Altafini, chi è l’attaccante

dell’era De Laurentiis, che occupa il cuore di

Adriana e perché?

«Senza dubbio Cavani! Il suo Napoli non era forte come

quello di oggi ma lui era capace di segnare gol pazzeschi ...

stava in attacco, in difesa, aveva una dinamica dell’azione

unica, dava l’anima e il cuore. Higuain tecnicamente era migliore

ma non mi esaltava come lui! Nel mio calcio è lui il

mio amore! Ammiro anche Mertens, ma Cavani è un’altra

cosa però parlare di lui nel racconto non mi avrebbe messo

alla prova così come è stato con Altafini!»

Cosa pensi di Osimhen e cosa ti aspetti dal suo inserimento

in squadra?

«È molto giovane, spero non sia un Lozano 2! Credo abbia

ottime potenzialità ma dipende anche da come si inserirà

nel gruppo e in questo c’entra Gattuso che, dopo Ancelotti, è

un grande motivatore, l’ho sempre stimato per il carattere e,

anche se in panchina, è il dodicesimo giocatore in campo».

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APPUNTI IN GIALLOROSSO

Benevento

Questa volta sarà diverso

I

l ritiro a Seefeld in Austria si è concluso, l’esordio

in campionato si fa sempre più vicino e l’attesa

nella città di Benevento cresce sempre di più.

La squadra giallorossa è alla sua seconda avventura

nella massima serie. L’obiettivo è fare tesoro di tutti gli

errori commessi due anni fa per evitare che possano ripetersi

anche in quest’occasione e avviare un ciclo importante

nell’Olimpo del calcio italiano. Non rientrerà

tra le classiche divinità greche ma non dimentichiamo

che la “Strega” ha pur sempre poteri magici e che quindi

ha tutto il necessario per misurarsi con le squadre italiane

più blasonate del nostro Paese.

Accostamento mitologico-folcloristico a parte, il Benevento

merita la Serie A per tutta una serie di fattori. Per

prima cosa è giusto sottolineare la grande organizzazione

societaria data al club dal presidente Oreste Vigorito,

che nella sua attività imprenditoriale ha sempre

avuto il pregio di guardare avanti, pensare in grande, valorizzare

ciò che ha per le mani. La ricerca e la fiducia

verso i giovani per i ruoli dirigenziali e societari, lo staff

tecnico e i giocatori sono un valido esempio di una programmazione

acuta e lungimirante oltre che la dimostrazione

della seria volontà di costruire una realtà importante

che possa puntare sempre più in alto con il

passare degli anni. Ci credevano in pochi nell’energia eolica,

oggi le energie rinnovabili rappresentano il presente

di Lorenzo Gaudiano

Le foto del servizio sono di Mario Taddeo

Sport Photo Agency per Ottopagine.it

e soprattutto il futuro. E chi ci dice che per il Benevento

non potrebbe essere lo stesso?

Ciò sarà possibile con investimenti oculati e di prospettiva.

Il ds Foggia si è mosso bene. Anche in questa sessione

di calciomercato i primi movimenti sono stati quelli

giusti, finalizzati al rafforzamento di una rosa che ha dominato

il campionato cadetto.

Tutto questo è sicuramente fondamentale ma alla fine a

determinare le sorti del club sarà il campo. Lo scorso

anno Pippo Inzaghi ha fatto un ottimo lavoro, costruendo

grazie a giocatori di buon livello e fortemente determinati

una squadra difficile da battere, superiore a tutte le

altre contendenti, nonostante non ci fossero i favori del

pronostico per la promozione diretta. In Serie A però la

musica sarà diversa, le difficoltà saranno maggiori. Dopo

l’esperienza al Milan dove tutti i suoi successori hanno

fatto fatica, i pochi mesi al Bologna in cui qualcosa non

è andata per il verso giusto, ecco la sfida già vinta con il

Benevento.

La città sannita ha una tifoseria calorosa che non farà

mancare il sostegno alla squadra. Si spera che il nemico

invisibile venga sconfitto al più presto e che gli spalti del

Vigorito e di tutti gli stadi tornino ad essere pieni per coprire

le urla degli allenatori a bordo campo.

Bentornato in A Benevento, la nostra testata ti augura

buona fortuna.

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NOTIZIE DAL TIROLO

Un ritiro sull’altopiano

Verde, boschi e la ricerca della tranquillità a Seefeld

nonostante ci abbia messo lo zampino il coronavirus. Inzaghi

ha adattato la preparazione agli avvenimenti per presentare

il suo Benevento pronto ai nastri di partenza della Serie A

di Gigi Amati

Le foto del servizio sono di Mario Taddeo

Sport Photo Agency per Ottopagine.it

Il sorriso tra i monti

Le caprette non fanno ciao e di

Heidi non c’è traccia, ma lassù a

Seefeld il Benevento in ritiro ha visto

comunque un mondo fantastico,

e non solo geograficamente: dai

1180 metri dell’altopiano sul fiume

Inn, infatti, non solo si dominava

una delle più belle vallate del Tirolo

austriaco, ma si stagliavano anche, a

nord, la stagione dei record in Serie

B, e a sud, invece, la seconda avventura

oramai prossima in Serie A.

L’atmosfera è stata carica di orgoglio

ed entusiasmo per quel che sarà

di qui a poco: un’atmosfera che il

presidente Vigorito e i suoi più diretti

collaboratori hanno costruito

con cura lo scorso anno e stanno

riproponendo anche in questa fase

iniziale della nuova stagione, grazie

anche alla lungimiranza di un imprenditore

che sa quali corde toccare

e soprattutto sa come si gestisce

un’impresa, un gruppo, una

collettività di menti e corpi.

Imprevisti e non problemi

Il magico cortocircuito passato-presente-futuro

è stato così vissuto dai

giallorossi con entusiasmo e crescente

consapevolezza dei propri

mezzi, malgrado qualche intoppo.

L’atmosfera da inizio dell’anno scolastico,

tra abbronzature, strani tagli

di capelli, scherzi, sfottò, sorrisi

ed entusiasmo da stato nascente, ha

avuto infatti comunque la sua zona

d’ombra, ché la vita non concede

mai relax e serenità senza chiedere

nulla in cambio. I casi di positività al

Covid-19 hanno riguardato anche

la società giallorossa, che però pure

in questo caso ha dimostrato lucidità

decisionale e un ottimo funzionamento

della catena di comando:

subito le quarantene fiduciarie dei

soggetti coinvolti, poi una diversa

scansione del lavoro a gruppi separati

e dunque una nuova tipologia di

preparazione messa a punto da Inzaghi

nell’allestimento della macchina

per i circuiti di categoria superiore.

Il contrattempo non ha infatti

spaventato l’allenatore e condottiero

senza macchia e senza

paura, al quale anche quest’anno

sono affidati i destini e le fortune del

Benevento; e lui, non per niente super

Pippo per tutti, è uno tosto, uno

dedito al lavoro venticinque ore su

ventiquattro, uno che alla Serie A dà

già del tu e che dalla Serie A riceve

rispetto e grande considerazione.

Pippo e il derby con Simone

Il tecnico, che si prepara anche al

sentito derby di famiglia con il fratello

Simone, in ritiro ha salutato e

coccolato i “vecchi” ed ha accolto i

nuovi, a partire da Kamil Glik, il

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polacco che il diesse Foggia, con

grande lungimiranza e giocando

d’anticipo, ha convinto a rientrare in

Italia dopo gli anni al Monaco, un

principe dunque delle aree di rigore

che offrirà spessore e solidità non

solo al reparto specifico, ma anche a

tutta la rosa, dall’alto di esperienza

e personalità che sono come il lievito

per una truppa che prepara

l’impatto con le onde della categoria

superiore.

Seefeld

e la calda accoglienza

I poco meno di 4000 abitanti di Seefeld,

distretto di Innsbruck-Land,

hanno visto correre, sudare e faticare

uno strano serpente variopinto

e multietnico di calciatori, un tipo di

sportivo non proprio consueto per i

loro occhi. Seefeld è infatti una rinomata

località sciistica specializzata

nello sci nordico, attrezzata anche

di trampolino olimpico e

scenario di rassegne olimpiche,

tappe della Coppa del Mondo di sci

di fondo e di combinata nordica:

dunque ci vive gente abituata al

freddo e al silenzioso fruscio degli

sci sulla neve, in inverno, e in estate,

solita vedere tranquilli turisti sciamare

su prati verdi di un verde da

pubblicità e in boschi carichi di fascino.

Eppure la gente di Seefeld ha

accolto subito bene quei marcantoni

in braghe corte e scarpette che

hanno per un po’ popolato il loro altipiano,

e la serena e affettuosa accoglienza

ha regalato giorni proficui

di lavoro alla comitiva giallorossa.

Il Benevento pronto

alla scalata in serie A

Il ritiro austriaco aveva in effetti

proprio quello scopo: riprendere la

corsa da dove si era fermata, con lo

42 domenica 30 agosto 2020


stesso entusiasmo e la stessa determinazione

che hanno consentito al

Benevento di Inzaghi di dominare

l’ultima Serie B a suon di record e

trionfi. L’elenco è lungo e gonfia

non solo il petto dei tifosi della

Strega, ma anche le vele della squadra

che sta salpando senza dimenticare

un dominio evidenziato dalle

statistiche della stagione oramai in

archivio.

Adesso dunque non c’è altro da fare

che iniziare la scalata: l’equipaggiamento

è di prim’ordine; il patron

Vigorito dispone e vigila; il diesse

Foggia telefona, parla, incontra e

scandaglia sempre ogni tipo di mercato;

Inzaghi è già carico come una

molla, anche per lui del resto la Serie

A rappresenta una sfida importante

e delicata, c’è da cancellare il

ricordo della sfortunata parentesi

bolognese; la squadra sa che ha fatto

tanto eppure non ha fatto niente,

perché la scalata comincia ora, ben

presto la dolce pianura erbosa diventerà

prima timida salita quindi

qualche impennata e infine parete

verticale vera e propria. L’insegnamento

indiretto della gente di Seefeld

sarà di aiuto prezioso: lavoro,

determinazione, nessuna paura contro

le intemperie e gli imprevisti

del clima: questo il bagaglio giusto

per affrontare la nuova avventura.

Tutti sono sicuri che andrà bene,

che il Benevento affronterà i marosi

della A con la stessa, grande forza

con la quale hanno solcato quelli

della B.

E la speranza è naturalmente quella

di rivedersi il prossimo anno: stesso

entusiasmo, stesso orgoglio, stessa

gente, stessa atmosfera. E se tutto

sarà andato come deve e come si

spera, continueranno a non esserci

caprette che fanno ciao, però magari

un salto a vedere la Strega,

Heidi stavolta lo farà.

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COPERTINA 2

Pippo Inzaghi

“Non pensavo

di fare l’allenatore”

Il gol nel proprio dna, la voglia

di confrontarsi sempre con i più

forti, una carriera inimitabile sino

a diventare campione del mondo

e poi il suo Benevento dei record,

una storia ancora tutta da scrivere

di Giovanni Gaudiano

Foto Agenzia Mosca

F

a l’allenatore da otto anni ma

vedendolo giocare con i suoi

ragazzi, durante le sedute di

allenamento, sembra ancora pronto

a scendere in campo anche se contemporaneamente

sembra seduto in

panchina da molto più tempo.

Pippo Inzaghi ha iniziato presto in

campo come in panchina, ha fatto lo

stesso percorso partendo dalle giovanili,

formandosi in quella palestra

fondamentale per la capacità di

gestire i rapporti nello spogliatoio,

da bordo campo e per comprendere

proprio attraverso i giovani la vera

essenza del gioco del calcio.

Certo avere iniziato al Milan, aver

vinto il Torneo di Viareggio e aver

disputato una buona Youth League

e quindi trovarsi ad allenare la

prima squadra, quasi a furor di popolo,

alla fine non lo ha avvantaggiato.

Pippo non ha fatto piega e

dopo l’annata alla guida del suo

amato Milan è ripartito dalla serie

C, altra importante palestra per

chi pensa di voler fare l’allenatore,

quasi a volersi scusare di aver corso

troppo.

La sua storia è quella di un ragazzo

come ce ne sono tanti con il pallino

del gioco del calcio, trasmesso al

suo fratello minore, Simone, ed alimentato

per entrambi da una famiglia

dove il papà ex giocatore ha visto

forse i suoi sogni pedatori

realizzati dai suoi due figli.

Oggi Pippo Inzaghi dopo la promozione

ottenuta con il Benevento

a suon di record si può dire abbia

completato la sua formazione da allenatore

e come quando era giocatore

si può star certi che riuscirà a

raggiungere i risultati che si è prefissato.

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D’altronde già il suo primo allenatore,

Giancarlo Cella, nelle giovanili

del Piacenza aveva previsto per lui

ed anche per Simone un futuro

pieno di soddisfazioni da giocatori

come poi si è verificato.

Cella, parlando di Pippo, ha più

volte detto che era sempre avanti

nel tempo, era più maturo della sua

età. Durante un’intervista Inzaghi

intervenne su quest’argomento.

«Cominciai a giocare nel San Nicolò

prima di arrivare all’età necessaria:

si erano accorti che i gol li facevo,

così mi invecchiarono di dodici mesi,

camuffando il mio cartellino e attribuendomi

otto anni anziché sette».

La circostanza è stata confermata

anche dal suo allenatore nella categoria

esordienti Paolo Montanari

che in un’intervista ribadì questa

caratteristica propria del giovane

calciatore.

«Conosco bene Filippo, uno che giocava

contro ragazzini di due anni più

vecchi di lui, ma segnava gol a grappoli.

Già allora si vedeva che il gol per

lui era tutto, era l'istinto, l'unica molla

che lo spingeva».

Ed allora per avvalorare questa tesi

e per cercare di entrare un poco nei

processi mentali di un attaccante

mentre gioca ed in particolare di

quelli di Inzaghi, vale la pensa riproporre

il suo personale racconto

dello splendido gol rifilato alla Repubblica

Ceca ai mondiali del 2006.

«Nell’azione del gol ho pensato solo

a far finta di darla a Barone sulla destra,

cercare di scartare Cech, ma era un

rischio perché è alto quasi due metri e

non dovevo allungarmi troppo. In quei

momenti, però, se pensi troppo diventa

tutto molto difficile».

Dal racconto si evincono quelle che

sono state le caratteristiche del giocatore

Inzaghi: astuzia, rapida valutazione

ed esecuzione.

A queste qualità in campo Pippo

univa una capacità unica: quella di

saper scattare sul filo del fuorigioco

intuendo il momento preciso del

lancio del compagno.

Dell’Inzaghi giocatore ovviamente

si è scritto molto, la sua lunga e

prodigiosa carriera con 316 reti distribuite

tra serie A, serie B, serie C,

Nazionale Under 21 e Nazionale

maggiore e soprattutto nelle competizioni

europee e mondiali per

club, basta a qualificarlo come uno

degli attaccanti più importanti della

storia del calcio italiano.

Ora però prima di passare a parlare

di qualche momento della sua carriera

da allenatore, è giusto riproporre

uno stralcio della lettera che

Inzaghi scrisse ai tifosi del Milan

dopo aver giocato l’ultima partita da

giocatore prima di appendere le

classiche scarpette al chiodo.

«La prima e unica cosa che voglio

che voi sappiate per sempre è questa: ho

giocato e vinto per Noi. Giocare e vincere

senza condividere le emozioni è

nulla, invece io e voi, noi, abbiamo fatto

tutto insieme. Abbiamo sperato, ab-

46 domenica 30 agosto 2020


biamo sofferto, abbiamo esultato, abbiamo

gioito. E abbiamo alzato le coppe

e gli scudetti insieme ai nostri cuori.

Siamo sempre stati sulla stessa lunghezza

d’onda. E questo non ce lo toglierà

mai nessuno».

Le parole dicono tutto quello che si

è sempre visto in campo come quel

suo modo di esultare dopo aver segnato

un gol in cui volendo ognuno

ci si può ritrovare.

Parlando dell’allenatore Inzaghi, è

proprio Pippo che ci spiega con le

sue parole come e quando decise di

passare dal campo alla panchina.

«Fino all'ultimo secondo non ho

mai pensato di poter fare l'allenatore.

Pensavo di restare nel mondo del calcio,

ma neanche a 40 anni accettavo l'idea

di smettere. Poi ho capito che giocare

con una maglia che non fosse quella del

Milan sarebbe stato troppo difficile. A

quel punto Galliani, mio fratello Simone

e il mio procuratore mi hanno

convinto che fare l’allenatore fosse la

strada giusta e devo dire che hanno

avuto ragione. È un ruolo difficilissimo

ma bellissimo, allenare è una malattia

contagiosa. Ti dà grandi soddisfazioni

e stimoli, ma devi mettere in

preventivo che avrai alti e bassi. Allenatori

che hanno vinto la Champions

sono stati esonerati sei o sette volte, ma

alla fine quello che conta è essere ancora

sul campo verde».

Il legame con il campo per il tecnico

del Benevento appare indissolubile.

Oggi Inzaghi a 47 anni si può dire

che sia a suo agio soprattutto

quando può camminare sull’erba,

diciamo che lo fa dal primo momento

nel quale da bambino ha trovato

il suo equilibrio in piedi.

Eccolo parlare del suo Benevento,

durante il campionato, quando non

sapeva ancora che la sua squadra

avrebbe battuto record e vinto con

tanto anticipo il campionato. Spiegare

ai suoi giocatori come è fatto il

mondo del calcio a certi livelli e

mettere a loro disposizione la sua

lunga e vincente esperienza di

campo.

«Sono felice. Ai miei giocatori dico

che dobbiamo ribellarci alla sconfitta

perché, per come lavoriamo, dobbiamo

vincere. Dopo sette giornate abbiamo subito

solo tre gol e non siamo mai stati in

svantaggio, ma a determinare la miglior

difesa non sono solo i difensori, è

l'intera squadra che deve lavorare in fase

di non possesso: se si riesce a trovare un

buon equilibrio di solito i campionati si

vincono, è stato così quando allenavo il

Venezia e l'anno dopo, da neopromossa,

per poco non salivamo addirittura in A.

Cerco di insegnare ai miei giocatori che

al primo stop ci salteranno addosso tutti,

non possiamo permetterci di abbassare

l'asticella. L'attacco segna poco? Coda,

Armenteros, Sau e Insigne hanno fatto

un lavoro stupendo, sono stati fondamentali

sotto altri aspetti: non mi interessa

avere il capocannoniere del campionato,

qui non si ragiona con l'io ma

con il noi. Coda è molto sereno, farà

tanti gol. Anch'io sono stato dei mesi

senza segnare, ma poi basta una partita

per sbloccarsi e farne altri venti».

E se si parla di gol, chi meglio di un

grande attaccante come Pippo Inzaghi

può supportare uno dei suoi

giocatori?

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PROFILI

Kamil Glik

Il cuore oltre l’ostacolo

Il difficile inizio del difensore

polacco e la caparbietà che lo hanno

aiutato ad emergere. L’incontro con

Ventura a Bari e l’approdo al Torino.

Ora dopo l’esperienza al Principato

di Monaco il ritorno in Italia

al neopromosso Benevento grazie ad

un’intuizione del ds. Pasquale Foggia

di Lorenzo Gaudiano

D

ietro ad un uomo che su un

terreno di gioco insegue e dà

un calcio al pallone c’è sempre

una storia. Anche il difensore polacco

Kamil Glik, pronto per una nuova avventura

in Serie A con il Benevento

neopromosso a distanza di quattro

anni dall’ultima presenza con la maglia

del Torino, ne ha una.

Per raccontarla, bisogna tornare al

febbraio 1988. In Germania c’era ancora

il Muro di Berlino abbattuto un

anno dopo, in Polonia invece il regime

comunista. La Seconda Guerra Mondiale

era ormai lontana e il dominio

nazista soltanto un bruttissimo ricordo,

anche se in giro per l’Europa

Orientale qualche influenza culturale

nel corso degli anni purtroppo era sopravvissuta.

Jacek e Grazyna Glik diedero

alla luce Kamil in un paesino

della Slesia, Jastrzebie-Zdrój, di quasi

centomila abitanti. Il nome tradotto significa

“Terme dei falchi”. Infatti verso

domenica 30 agosto 2020

49


la fine degli anni cinquanta dell’Ottocento

furono scoperte delle sorgenti

termali che resero il luogo famoso in

tutta Europa. La rinomanza oggi è

venuta meno ma a mandare avanti

l’economia del paese ci hanno sempre

pensato i giacimenti di carbone. In un

quartiere di case popolari che si

chiama Osiedle Przyjazn, in italiano

“complesso Amicizia”, ci sono 22 edifici

e 532 appartamenti costruiti tra gli

anni sessanta ed ottanta. Uno di questi

è la casa della famiglia Glik, dove il

futuro calciatore ha mosso i primi

passi e ha cominciato ad appassionarsi

al gioco del calcio, prima con il pallone

tra i piedi e in seguito il telecomando

tra le mani seduto sul divano.

In realtà sarebbe potuta anche non

cominciare mai la carriera calcistica

del polacco. Ad un anno e mezzo sepsi

e meningite hanno messo seriamente

in pericolo la sua vita. Poche speranze

da parte dei medici, la sofferenza, la

paura di una famiglia intera e una storia

destinata alla conclusione ancor

prima di iniziare.

Il destino però ha fatto sentire la sua

voce. Il piccolo Glik fortunatamente

guarì e in tenera età già diede dimostrazione

di quella forza che in campo

oggi costituisce una delle sue principali

qualità.

Il padre e il Bayern

nel cuore

Col passare degli anni la passione per

il calcio cresce sempre di più, la sua

squadra preferita è il Bayern Monaco.

Kamil infatti ha la doppia cittadinanza

perché il nonno nacque in Alta Slesia

quando questa faceva ancora parte

della nazione tedesca. Il padre lavorava

in Germania e al suo ritorno per

il bambino c’era sempre un regalino:

la maggior parte delle volte gadget

oppure magliette del club bavarese.

In campo devi dare tutto,

giocare duro e leale.

Insomma, non devi stare lì

“a fare il figo ma lottare

Nonostante questo, il suo senso di appartenenza

alla Polonia è fortissimo e

non è stato mai in discussione. Così

come il rapporto con suo padre, che

purtroppo ha sempre avuto seri problemi

di alcolismo. Un giorno infatti

portò Kamil con sé a pescare. Naturalmente

il bottino fu cospicuo non

soltanto per la pazienza e la grande

perizia tecnica ma soprattutto grazie

ad un piccolo aiutino. Nel mezzo del

lago dove una mattina si erano recati

il padre Jacek fece esplodere della dinamite

rubata dalla miniera in cui lavorava.

Tutti i pesci salirono a galla,

la pesca fu facile ma il pescato non arrivò

a casa, perché fu venduto in cambio

di soldi spesi a loro volta per

ubriacarsi.

Lezioni di vita no di certo, ma momenti

indimenticabili che hanno insegnato

sicuramente qualcosa al giovane

Glik.

Andata in Europa,

ritorno in Polonia

La famiglia Glik iscrisse in piena infanzia

il figlio ad una scuola calcio locale,

il MOSiR Jastrzebie Zdrój. A

quattordici anni il passaggio al WSP

Wodzislaw Slaski a pochi chilometri da

casa, a diciassette il prestito al Silesia

Lubomia, sempre in Slesia. Un anno

dopo Kamil si trasferì in Spagna,

all’Horadada, squadra della comunità

Valenciana militante nel quarto campionato

spagnolo. Sicuramente non il

più blasonato dei palcoscenici, che gli

ha offerto però l’opportunità di approdare

al Real Madrid C, seconda squadra

giovanile delle “merengues” da

qualche anno soppressa. Un ambiente

sicuramente formativo, dove mettersi

in evidenza è molto complicato. La ca-

Hanno detto di lui

“Glik è un leader che ci darà l'esperienza

necessaria per la Serie A. Averlo preso dimostra

che progetto abbiamo in testa, ovvero cercare

giocatori che abbiano tanta fame e voglia di

costruire con la nostra società un percorso lungo”

Pasquale Foggia

ds del Benevento

50 domenica 30 agosto 2020


parbietà per tenere duro al polacco

non è mai mancata ma nonostante ciò

non è molto contento. La tentazione di

ritornare in patria, di avvicinarsi alla

propria famiglia, di intraprendere una

avventura sicuramente più avvincente

è forte. Così come se ne è andato, torna

in Polonia, al Piast Gliwice. Il padre

però muore per un infarto a 42 anni,

Glik è distrutto. Il calcio lo ha aiutato

a superare il momento peggiore della

sua vita, a continuare il suo percorso di

crescita. Dopo due anni Kamil riuscì ad

affermarsi come difensore solido e

grintoso, diventando il primo calciatore

di quel club ad indossare la maglia

della nazionale.

Maestro Ventura

Così si aprirono le porte di un altro

paese per Glik: l’Italia. La sensazione

allora era che il viaggio sarebbe stato

diverso rispetto a quello in terra spagnola

di qualche anno prima. Esordio

in Europa League e nessuna presenza

in Serie A, forse un altro buco nell’acqua.

L’anno successivo il prestito

al Bari e la fiducia di Gian Piero Ventura,

allora allenatore dei pugliesi, lo

hanno aiutato finalmente ad emergere.

Il mister non esitò a portarlo

con sé al Torino dove il polacco con il

passare delle stagioni è diventato anche

capitano. Cinque anni dopo l’addio

al campionato che lo ha consacrato,

destinazione Monaco, con cui è

arrivato anche l’esordio in Champions

League.

Un’unione di ritorni

Il Benevento che torna in massima serie

a due anni di distanza dalla prima

storica partecipazione, Kamil Glik che

ritorna a giocare nel campionato italiano.

Un’unione di ritorni, per scrivere

una nuova storia che si spera

Sono veramente contento

di essere qui. Ho già

avuto modo di

passeggiare per la città: è

piccola e calorosa. Si

percepisce chiaramente

l’amore che i tifosi

provano per questa

squadra. Speriamo che

possano tornare al più

presto allo stadio perché

saranno per noi un valore

aggiunto

possa essere bella per entrambi. La

squadra giallorossa aveva bisogno di

un difensore d’esperienza, il polacco di

una nuova sfida e soprattutto di una

piazza che con i suoi incantesimi saprà

senza dubbio dargli tanto amore, infondergli

immenso calore, chissà forse

più del capoluogo piemontese.

In campo è un duro: un custode difficile

da superare in difesa; un grande

pericolo in attacco con la sua fisicità e

la sua abilità nel colpo di testa. Qualche

anno fa ha dichiarato che al termine

del carriera calcistica gli piacerebbe

mettersi alla prova negli sport

di combattimento. Glik ha ancora 32

anni, in Italia con la moglie Marta e le

due figlie si è trovato sempre bene e

tutti si augurano che quel momento

sia ancora ancora molto lontano.

Dalla sua storia e dal suo valore sul

terreno di gioco, quasi sicuramente

lo è.

“Glik non vedeva l'ora di tornare in Italia, i suoi figli

parlano benissimo questa lingua. Non si batterà

per vetrine internazionali ma è un lottatore nato,

uno che non molla mai”

Zbigniew Boniek

presidente della Federcalcio polacca

“Ogni allenamento è un mezzo per migliorarsi, e

questo gli permette poi di essere competitivo anche

mentalmente. Il fatto che adesso creda molto di più

in se stesso anche nelle palle inattive, il fatto che

abbia messo a segno tanti gol vuol dire che ormai

legge completamente la situazione e sa andare a

colpire al momento giusto. Se oggi è diventato un

difensore importante, credo che ci siano grandi meriti

da parte sua perché ha dimostrato nel tempo di

avere una forte volontà e grande disponibilità nel

voler crescere”

Gian Piero Ventura

suo allenatore al Bari e al Torino

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L’APPROFONDIMENTO 2

Lo stile Vigorito

per il Benevento

Un imprenditore moderno per una società in crescita con

una struttura consolidata e dal marchio di fabbrica originale

di Francesco Marchionibus

Le foto del presidente Vigorito sono dell’agenzia Mosca

D

opo la splendida cavalcata della scorsa stagione

quello che si presenta ai nastri di partenza della

prossima serie A è un Benevento ambizioso e

consapevole delle proprie possibilità.

Prima ancora che la squadra, già valida e ulteriormente

rinforzata nel mercato in corso, a suscitare l’entusiasmo

dei tifosi e l’ottimismo di tutto l’ambiente riguardo al

prossimo campionato e, più in generale, al futuro dei sanniti,

è il cammino che la società giallorossa ha compiuto

negli ultimi anni grazie alla

famiglia Vigorito.

Il Presidente Oreste è giunto

alla guida del Benevento insieme

al fratello Ciro nel

marzo 2006 e nel giro di dieci

anni è riuscito nell’impresa di

condurre il club, che mai

nella sua storia aveva raggiunto

la serie B, dalla C2 alla

A.

L’obiettivo dei Vigorito era

questo sin dall’inizio, e la solidità

del loro progetto è testimoniata proprio dal rapido

ritorno in Serie A dopo la retrocessione del 2018.

D’altra parte i fratelli Vigorito non hanno fatto altro che

trasferire nella gestione del Benevento la passione, le capacità

e l’impegno che hanno caratterizzato le loro attività

imprenditoriali.

Oreste Vigorito, avvocato laureato anche in lettere e filosofia,

ha avuto quasi trent’anni fa l’intuizione di puntare

sul settore delle energie rinnovabili e nel 1993 ha

fondato la IVPC (Italian Vento Power Corporation), una

società con la quale ha sviluppato parchi eolici distribuiti

su sette regioni italiane, che rappresenta un’azienda leader

del settore.

Grazie all’energia eolica Vigorito è diventato uno dei più

noti imprenditori campani, ma le sue attività hanno via

via interessato anche altri settori, da quello alberghiero

a quello del web, dall’elettronica

all’editoria.

La sua holding, la Maluni Srl,

che raggruppa tutte le

aziende del gruppo, ha chiuso

il bilancio 2018 con oltre 132

milioni di fatturato e un patrimonio

netto di 79,5 milioni.

Una grande solidità economica,

che in questi anni ha

consentito al Presidente di

investire nel Benevento favorendone

la continua crescita.

Ma per crescere non sempre sono sufficienti le possibilità

economiche, ci vogliono anche le idee. E quando

Oreste e Ciro Vigorito, giornalista e imprenditore nell’eolico

insieme al fratello, hanno assunto la guida del Benevento,

hanno subito organizzato la società con criteri

di efficienza e modernità (basti pensare che già dalla C2

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Il centro di avellola destinato al Settore Giovanile del Benevento

I fratelli oreste e Ciro vigorito qualche anno fa

il club ha avuto in organico ben 80 dipendenti) prendendo

spunto anche dall’esperienza di altre società, famose

proprio per i loro modelli organizzativi (non a

caso si parla del Benevento, anche da parte dello stesso

presidente, come di una potenziale “Atalanta del Sud”).

La dirigenza sannita ha curato in maniera particolare due

aspetti che possono fare la differenza: le strutture e il settore

giovanile.

Recentemente il Benevento ha acquistato e completamente

ristrutturato l’ex centro federale di Avellola, mettendo

a disposizione delle formazioni giovanili un impianto

all’avanguardia che va ad aggiungersi agli altri tre

campi da gioco già disponibili.

Il settore giovanile rappresenta poi il fiore all’occhiello

del Benevento e risulta particolarmente caro al presidente

Vigorito.

È infatti proprio al settore giovanile che si è dedicato con

particolare entusiasmo il fratello Ciro, scomparso nel

2010, a cui tutta la città è rimasta profondamente legata

tanto da intitolargli lo stadio di Benevento, ed è dal settore

giovanile presieduto da Ciro Vigorito che nella stagione

2008 – 2009 è giunto il risultato finora più importante

per la società sannita: il titolo di Campione

d’Italia della formazione Berretti.

Il sogno di Ciro Vigorito di costruire un settore giovanile

di alto livello è stato portato avanti dal fratello Oreste,

che su di esso continua a investire tanto. E i risultati

si vedono: tutte le squadre giovanili giallorosse si sono

qualificate agli ultimi play-off delle varie categorie e

quattro giovani della primavera (Sanogo, Di Serio autore

anche di un gol, Pastina e Rillo) in questa stagione hanno

fatto il loro esordio in Serie B.

D’altra parte il presidente Vigorito nei giovani crede

molto a tutti i livelli, come testimoniato dalla fiducia accordata,

e ampiamente ripagata, nel ds Foggia e nell’allenatore

Inzaghi, e come confermato in una recente intervista

al nostro giornale: “ritengo che il calcio

appartenga molto ai giovani, un po’ come la vita … è giusto

stare in mezzo ai giovani. È una sorta di bagno di gioventù

che ti arricchisce, ti rivitalizza e che ti dà la spinta

per impegnarti in tante cose”

Ed è proprio questo modo di intendere non solo il calcio,

ma la vita, che rappresenta la migliore garanzia per il futuro

del Benevento.

domenica 30 agosto 2020

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LE STORIE

Marcello Sannino

Dagli scaffali della libreria

alla macchina da presa

La passione per il cinema dai primi anni di università diventata

poi la sua professione, passando per l’attività libraria.

Il regista di Portici dopo documentari e cortometraggi è in sala

dal 27 agosto con il suo primo film “Rosa pietra stella”

di Lorenzo Gaudiano

L

e passioni sono infinite. Ognuno nasce con una

diversa, la coltiva e cerca di portarla avanti per

il resto della propria vita. C’è chi riesce a trasformarla

sin da subito nella propria professione e chi

con qualche sforzo riesce comunque a dedicarvi il proprio

tempo perché non può farne proprio a meno. Alla

fine, in un modo o nell’altro, riesce quasi sempre ad

avere il sopravvento, alimentando i dubbi sul percorso

intrapreso e spingendo ad importanti riflessioni riguardo

alla propria vita.

La passione in questione è il cinema, il protagonista di

questa storia è Marcello Sannino, che ha maturato sin

54 domenica 30 agosto 2020


Tra lei ed il cinema però si

intromise la libreria Nutrimenti.

«A ventiquattro anni aprii questa libreria

a Portici perché non avevo ancora

la forza, ed il coraggio soprattutto,

di dedicarmi all’attività

cinematografica. A quel tempo mi sembrava

ancora una cosa più grande di

me. Nonostante questo, il mio rapporto

con il cinema non si è mai interrotto. Cercavo

di rimanere nell’ambito organizzando proprio all’interno

della libreria degli incontri o delle presentazioni di libri

cinematografici, partecipavo spesso a dei cortometraggi

come attore, sceneggiatore. Alla fine però arrivai alla conclusione

che fosse inutile continuare a rimandare questo matrimonio,

ero consapevole che l’editoria non fosse la mia

strada».

dall’università quest’interesse, portato avanti poi insieme

alla professione di libraio. I due campi non si

escludono l’uno con l’altro, infatti per diversi anni il regista

originario di Portici ha provato a farli convivere.

Ad un certo punto però il cinema voleva il primo posto

e alla fine l’ha ottenuto.

Da qui la metamorfosi della sua passione in lavoro.

Cosa ne è stato della libreria?

«A trent’anni decisi di cederla per comprare una piccola camera

e dedicarmi ai miei primi lavori. Ho iniziato come assistente

operatore per la Rai, esperienza che ha perfezionato

la mia tecnica di ripresa ed arricchito la mia conoscenza cinematografica.

Nel 2003, dopo aver curato le riprese di

Dall’università ad oggi un po’ di tempo è passato,

la passione per i film si è trasformata nella sua

professione. Qual è stato il fattore scatenante, la

scintilla che ha favorito il suo avvicinamento al

mondo del cinema?

«Avevo diciannove anni quando cominciai a vedere con frequenza

dei film insieme ad un paio di amici. L’incontro con

un cinema differente e più impegnativo è avvenuto proprio

durante i primi anni di università, al Cinema Astra infatti

proiettavano delle pellicole non particolarmente note. Una di

queste, che purtroppo non mi è capitato più di rivedere, fu “La

vita appesa ad un filo”, un film del 1991 diretto dal regista

cinese Chen Kaige. Una storia semplice, molto umana, di un

suonatore di saxian, strumento musicale cinese ad una corda,

che mi ha colpito molto ed al tempo stesso avvicinato al

mondo cinematografico. Ricordo le estati in cui ormai non si

andava più in vacanza con i genitori, dove le alternative

erano due: fare un viaggio all’estero oppure approfittare

della casa libera. Ecco, quello era il periodo in cui divoravo

con grande voracità un grandissimo numero di film».

spettacoli teatrali, matrimoni, comunioni etc., mi si presentò

l’occasione di girare un documentario che raccontava un laboratorio

teatrale su Étienne Decroux, l’inventore del mimo

corporeo».

Il suo passato da libraio e il suo presente da regista

si sono poi incontrati di nuovo ne “L’ultima

Treves”.

«Nel 2004 decisi di lavorare ad un documentario incentrato

sulla libreria Treves di via Toledo, prossima alla chiusura.

A quel tempo ne era il direttore

Rosario Wurzburger, che già da

tempo conoscevo e che mi aveva

fornito consigli utili per la mia attività

di libraio. Essendo presente

in libreria per alcuni mesi, misi insieme

circa venti ore di ripresa. A

quel punto contattai Angelo Curti,

produttore della compagnia Teatri

Uniti, per sottoporgli il mio lavoro.

la locandina di porta Capuana e quella del

documentario dedicato a Gerardo Marotta

Lo apprezzò e mi sostenne, invitandomi

a raccogliere altro materiale.

Fu ultimato dopo due anni».

Da quel momento non si è più fermato.

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Ricordo le estati in

cui ormai non si andava

più in vacanza

con i genitori, dove

le alternative erano

due: fare un viaggio

all’estero oppure approfittare

della casa

libera. Ecco, quello

era il periodo in cui

divoravo con grande

voracità un grandissimo

numero di film

Alla base di ogni

opera c’è sempre

una scelta ben precisa,

una finzione,

intesa come messinscena,

realizzata naturalmente

cercando di essere

onesti nei confronti

della materia trattata

Mi interessava raccontare

la tenerezza

che accomuna queste

vite: una vita che

è inconsapevolmente

clandestina

come quella di Carmela

con quello che

le sta attorno. È l’inversione

di una lotta

di classe, bensì una

lotta all’interno della

stessa classe

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«Dopo essermi imbattuto nella palestra NapoliBoxe di Lino

Silvestri, realizzai un documentario, “Corde”, incentrato

sulla storia di Ciro Pariso, che ha ricevuto diversi premi al

Torino Film Festival. Con “L’ultima Treves” inoltre ero entrato

in contatto con Gerardo Marotta, Presidente dell’Istituto

Italiano per gli Studi Filosofici, a cui dedicai il documentario

“La seconda natura”. Questo lavoro era finalizzato

alla riflessione sull’anima duplice della nostra città dove

l’aristocrazia ipercolta da una parte, il popolo sofferente

dall’altra costituiscono due mondi che cercano di incontrarsi.

Poi partecipai a “Napoli 24”, un insieme di cortometraggi

firmati da 23 autori esordienti coronati dalla presenza di

Paolo Sorrentino. Realizzai per questo progetto un lavoro su

Porta Capuana, un luogo caleidoscopico che avevo grande desiderio

di raccontare».

Poi arriva il lungometraggio “Rosa pietra stella”,

scritto insieme ai registi napoletani Guido Lombardi

e Giorgio Caruso e prodotto da Antonella

Di Nocera, Gaetano Di Vaio e Pierfrancesco

Aiello. Ma prima di parlare di quest’ultimo lavoro

prossimo alla proiezione, una curiosità:

cosa significa per un regista passare da un documentario

ad un film?

«Fanno entrambi parte dell’universo cinematografico, magari

cambia il modo in cui il lavoro viene immaginato dal

Il regista con ludovica Nasti

Marcello Sannino con Ivana lotito

regista. Alla base di ogni opera c’è sempre una scelta ben precisa,

una finzione, intesa come messinscena, realizzata naturalmente

cercando di essere onesti nei confronti della materia

trattata».

Veniamo al film, partendo proprio dal titolo.

«Presentai la sceneggiatura ad uno dei produttori, Gaetano

Di Vaio. Leggendola, esclamò che Carmela, la protagonista,

gli ricordava alcuni versi della canzone di Sergio Bruni (Ma

tuu staje lla' tu rosa, preta e stella, Carmela, ndr). Successivamente

incontrai proprio l’autore della canzone, Salvatore

Palomba, il quale mi spiegò che dietro ai quei versi c’era l’intenzione

di descrivere una donna gentile come una rosa,

dura come una pietra e luminosa e bella come una stella. Quest’assonanza

mi piacque molto, pensai ad altri nomi per chi

non conosceva la canzone ma nessuno era bello come questo».

Il film è tratto da una storia vera?

«In realtà è il carattere della protagonista a richiamare una

mia conoscenza. La storia è ispirata ad un libro, “Avventure

della ragazza cattiva” di Mario Vargas Llosa, che racconta

le vicende di una donna che cerca di complicarsi la vita. Proprio

come Carmela, protagonista del film, uno spirito indomito

che non accetta le poche possibilità offerte dalla realtà

in cui è nata e vissuta e cerca altrove la propria strada muovendosi

a cavallo tra il lecito e l’illecito. È il racconto di come

ci si trova ad essere clandestini senza sapere di esserlo».

Il film, che è stato accolto con successo al Giffoni Film

Festival, è in sala dal 27 agosto e la curiosità di andare

a vederlo di certo non mancherà. Marcello Sannino tra

gli scaffali della sua libreria ha vissuto a contatto con

un mondo di storie, oggi con la sua camera cerca di raccontarle

realizzando sempre con grande impegno e sacrificio

prodotti di qualità. Anche in quest’occasione

certamente il regista non deluderà il pubblico.

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LA CITTÀ

La Funicolare Vesuviana

una storia, un sogno ed una sfida

Il primo impianto fu inaugurato 140 anni fa. Oggi rappresenta il ricordo

di un passato nostalgico e potrebbe diventare se si desse vita

ad un progetto giacente da tempo una sfida per il futuro del Golfo

di Napoli riaccendendo quell’antico romanticismo di fin de siècle

che stregò tante persone e rese Napoli famosa in tutto il mondo

di Domenico Sepe

Un viaggio sul dorso del gigante

L’immagine del Vesuvio è legata indissolubilmente a

quella di Napoli in un abbraccio tanto letale quanto suggestivo.

Non è raro associare l’immagine della città partenopea

a quella del suo imponente vicino, entrambe

sono legate dalla storia e dalla geografia in un connubio

che ha reso celebre il Golfo di Napoli. Basta osservare una

qualsiasi foto o cartolina e si potrà notare come, accanto

a Napoli, non può mai mancare il Vesuvio.

Già in passato la visita al Vesuvio era una tappa obbligata

per chiunque soggiornasse nei pressi del Golfo di Napoli.

Allo stesso tempo si rendeva omaggio al gigante addormentato

e si coglieva la possibilità di osservare un panorama

senza eguali. Il percorso, a piedi, per raggiungere il

Vesuvio, prima della Funicolare, risultava impervio, lungo

e faticoso, ma costituiva l'unica via d'accesso alla sommità

Tirate co la fune, ditto

'nfatto,'ncielo se va.

Se va comm' a lu

viento a l'intrasatto,

gue', saglie sa'!

Funiculi Funiculà

del vulcano e all'Osservatorio Vesuviano. Nei fatti rappresentava

una piccola scalata da farsi con un equipaggiamento

adatto e con guide esperte. Visto l’ormai crescente

flusso di visitatori del vulcano, l’ingegnere

ungherese Oblieght ebbe l’idea di costruire una funicolare

sul Vesuvio, in modo da sfruttare l’indotto turistico dei visitatori

del vulcano.

Dopo l’approvazione del progetto, la Funiculare del Vesuvio

venne inaugurata nel 1880, ma il suo ideatore fu

presto costretto a cederla per via delle pressanti difficoltà

finanziarie della neonata società. Prima fu presa in gestione

da imprenditori francesi e, infine, dagli inglesi

della Thomas Cook and Son.

Sotto la gestione inglese, nel 1904, vennero rinnovate le

carrozze della funicolare, chiamate Vesuvio ed Etna, e fu

impostato il binario unico. Il miglioramento dei collegamenti

con Napoli portò ad un considerevole aumento degli

utilizzatori. La gestione inglese però fu osteggiata con

pesanti richieste estorsive da parte delle guide locali, che

arrivarono a tagliare i cavi della Funicolare e, perfino, ad

incendiare una stazione, sino al raggiungimento di un ac-

domenica 30 agosto 2020

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cordo sulle tariffe tra la Cook’s e le guide locali.

Le difficoltà per la giovane linea non finirono qui. Infatti

nel 1906 una potente eruzione del Vesuvio distrusse varie

macchine e le Stazioni Superiore e Inferiore insieme

con le varie attrezzature ed altri macchinari.

La funicolare venne prontamente ricostruita nel 1909 per

poi avere un’altra interruzione nel 1911 a seguito di una

frana. Il servizio, poi, riprese agli inizi del 1912 e proseguì

sino all’eruzione del Vesuvio del 1944, in piena Seconda

Guerra Mondiale. Tali furono i danni della lava da

impedire, ancora una volta, il servizio.

La Cook's decise, quindi, di non investire ulteriori capitali

per la ricostruzione, e, nel dicembre 1945, cedette gli

impianti alla Circumvesuviana, che nel 1947 completò la

ricostruzione delle tratte distrutte dalla lava e rimise in

funzione gli impianti.

Nel 1948 si decise di costruire una strada asfaltata fino

alla Stazione Inferiore della Funicolare, e di sostituire

quest'ultima con una Seggiovia. Nel 1955 la strada asfaltata

venne completata fino a quota 1000: ciò che rimaneva

in funzione, ovvero il tratto di Ferrovia Elettrica Eremo-

Vesuvio, venne quindi chiuso e tre anni dopo smantellato;

il sipario sulla Funicolare Vesuviana si chiuse definitivamente.

Un jingle musicale per la nuova Funicolare

Dopo la cerimonia di inaugurazione della Funicolare nel

1880 venne l’idea di pubblicizzare il nuovo mezzo di trasporto

con una canzone per via dell’iniziale insuccesso

commerciale. Il compito fu affidato al

giornalista Giuseppe

Turco ed al maestro

Luigi Denza.

Dalla loro collaborazione

nacque Funiculì

funiculà, un

brano che descriveva

ai napoletani e soprattutto

ai turisti i

vantaggi offerti dal

nuovo mezzo di trasporto,

che permetteva

di salire senza fatica, ammirando

il panorama sottostante.

Un autentico

jingle musicale.

La canzone ebbe un successo

strepitoso in tutta Italia

e da idea pubblicitaria divenne

un monumento della canzone napoletana classica.

Tale fu il successo che in un anno la Casa Editrice Ricordi

pubblicò e vendette più di un milione di copie, cosa mai

accaduta fino ad allora.

Trasportati sulle note di Funiculì funiculà, il Vesuvio, la

sua Funicolare ed il Golfo di Napoli raggiunsero una fama

mondiale. La melodia era canticchiata dai migranti italiani

mentre i dischi su cui era incisa venivano fatti suonare

nelle case e nelle sale da ballo di tutto il mondo.

Un’occasione mancata?

Dopo la chiusura definitiva della Funicolare, ormai sostituita

dalla strada asfaltata e dal trasporto su gomma,

si sono susseguite varie proposte per il ripristino dello

storico servizio. Nel 1988 si arrivò quasi al ripristino della

Funicolare Vesuviana, infatti l'architetto Nicola Pagliara,

già conosciuto per altri progetti simili, si aggiudicò la gara

per la progettazione e la realizzazione di una nuova funicolare

per il Vesuvio. A dicembre 1992 la prima comitiva

di turisti avrebbe dovuto prendere posto in

vettura e arrivare a quota 1.162, cioè sul bordo del

cratere.

Tuttavia, dopo vari mesi, i lavori ebbero una battuta

d'arresto, inciampati in una serie di problemi legali

che fermarono l’opera. Le due vetture realizzate

giacciono, a dispetto dei soldi che furono spesi, nel

deposito dell'azienda di trasporti Clp a Pollena

Trocchia, lo stesso dicasi per la stazione a

monte, anch’essa smontata e depositata.

Ad oggi, oltre al progetto di Pagliara, non

sono state presentate concrete proposte per ripristinare

la Funicolare Vesuviana. Non esiste

alcuna progettazione per sfruttare l’indotto

economico che può derivare da un

tale investimento. Al momento il flusso turistico

utilizza essenzialmente il trasporto

su gomma. Con una nuova Funicolare si

potrebbe, ancora una volta, rilanciare l’escursionismo

turistico alle pendici del vulcano partenopeo.

60 domenica 30 agosto 2020



I LUOGHI DI NAPOLI

di Paola Parisi

San Pietro a Majella

tra musica e storia

Un conservatorio prestigioso nato dall’accorpamento di quattro

istituti, un tempo orfanotrofi prima di diventare accademie.

Oggi oltre ad essere una grande fucina di talenti vanta uno

dei più importanti e ricchi musei della musica al mondo

N

el bene e nel male la nostra meravigliosa città ha

sempre qualcosa da dire, da raccontare, da lamentare

e spesso da cantare.

Napoli canta sempre: per allegria, per rabbia, per amore

e sembra quasi che Euterpe, la dea della musica, volteggi

estasiata tra le vie, gli anfratti, i vicoli e soprattutto nella

via di San Pietro a Majella dove risiede il Conservatorio,

uno degli infiniti fiori all'occhiello del nostro capoluogo.

Chiunque si trovi di transito in quella via, anche

il passeggero più distratto, oltre al profumo delle pizze

nei locali adiacenti, non può non udire il suono di note

che prendono vita quotidianamente. Note spezzate, ripetute,

provate e riprovate, note che raccontano storie

infinite fatte di fatica, di studio, di talento e di ingegno,

tutto convogliato nella ricerca del suono perfetto.

Ma cos'è nello specifico questo edificio? È un istituto di

studi musicali molto prestigioso fondato a Napoli nel

1808 ed è situato nel centro storico della città nell'ex

la meravigliosa sala interna con il suo organo

convento dei Celestini annesso alla chiesa di San Pietro

a Majella. Nacque con il nome di Real Collegio di Musica,

dall'accorpamento di quattro preesistenti istituzioni

ovvero Santa Maria di Loreto, Pietà dei Turchini,

S.Onofrio a Capuana ed i Poveri di Gesù Cristo. Sorsero

in principio come orfanotrofi e grazie ai proventi delle

donazioni i bambini avevano la possibilità di studiare

musica unitamente alle altre discipline.

Col tempo, questo monumento all'arte musicale ha vantato

illustri direttori, pietre miliari del patrimonio musicale.

Il nostro chapeau va di rigore a personaggi come

Francesco Cilea, Roberto De Simone, Gaetano Donizetti

e Saverio Mercadante. Per qualcuno questi nomi sono un

mero riferimento topografico ma a volte nemmeno

quello. A volte si ascoltano, pur non volendo, delle con-

62 domenica 30 agosto 2020


Il compositore Francesco Cilea, che fu direttore del Conservatorio

versazioni telefoniche nelle quali ci si accorda per un

luogo di ritrovo e spesso si sentono pronunciare nel divertimento

frasi del seguente tipo: “Allora ce verimmo

a Via Cilea ...eh Cilea…

Cilea addo’ sta

chillu bar gruoss

gruoss... vicino ‘o negozio

addo’ m’accattaje

‘e scarpe?”. Ed in

quel contesto, in uno

scenario surreale, si

riesce a vedere

l'espressione sconfortata

del Maestro che

rivolge il suo sguardo

basito in direzione di

Euterpe... una Euterpe

che si trasforma

nella più agguerrita

delle vrenzole e sfoggiando

un degno turpiloquio gli risponde: “Chi ‘e mann

a fanc***?? Io o tu??”

Tornando a noi come si diceva, in principio queste strutture

nacquero esclusivamente come orfanotrofi, più

avanti come prestigiose accademie ed in quei periodi la

vita in quei posti non era certo serena e gioiosa e spesso

i convittori lamentavano una pessima gestione dell'istituto,

condizioni di vita al limite del disumano e anche

metodi educativi poco conformi, tanto è vero che nel

1730 avvenne un tragico fatto di sangue. In quell'anno,

con la complicità del Rettore, un allievo, Domenico Lanotte,

fu barbaramente assassinato dalla milizia della

Curia Arcivescovile, i cosiddetti Cursori. Tale omicidio

avvenne nel tentativo di sedare una rivolta, le cui motivazioni

sono ancora adesso sconosciute. Le fonti dell'epoca

archiviarono ed insabbiarono tutto con la motivazione

“Malgoverno”. Dopo l'omicidio del Lanotte, le

cose peggiorarono al punto che nel 1744 l'Arcivescovo

Spinelli lo chiuse definitivamente.

Dopo aver attraversato un periodo turbolento tra critiche

e degrado, il Conservatorio di San Pietro a Majella

sembra essere tornato ad essere una realtà consolidata,

fucina di talenti. Al

suo interno, oltre al

chiostro con la statua

di Beethoven, c’è probabilmente

il più importante

museo di

musica al mondo: si

possono ammirare

opere, busti e ritratti

donati tra l’Ottocento

e il Novecento da artisti

e benefattori;

l’arpa di Stradivari e

il pianoforte di Paisiello;

manoscritti di

Verdi e Bellini custoditi

nella biblioteca e

l’archivio storico. Si organizzano inoltre eventi, ospitati

nelle sale interne dedicate a Bellini e al maestro di fama

mondiale Riccardo Muti, studente del conservatorio

negli anni 50 come l'esimio violinista Salvatore Accardo,

altro celebre studente.

Tutto questo per dire che Napoli canta ma con cognizione

di causa ed è proprio il caso di dire “carta canta”

... tutto il resto è invidia!

A sinistra una foto prospettica delle sale del Conservatorio

dedicate ad illustri compositori e a destra la sala Bellini

la statua di Beethoven nel cortile interno

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TEMPI MODERNI

di Ciro Chiaro

Amore

vuol dire

gelosia?

Spesso si tende a considerare i due sentimenti come sinonimi.

In molti casi la gelosia si rivela una spinta irrazionale che finisce

per distruggere quello che in realtà si vorrebbe difendere

L

Sigmund Freud

a consuetudine ci porta a pensare che una persona

che ama tanto non può fare a meno di essere

gelosa, poiché con questo termina si identifica

“quell’ansioso tormento provocato dal timore di

perdere la persona amata ad opera di altri”. Quindi nasce

dalla paura, la gelosia, non dall’amore, anzi è indice

di insicurezza per chi ce l’ha, un sentimento distruttivo

che fa soffrire sia chi ne è tormentato che la vittima.

La gelosia si accompagna sempre ad una visione di

monopolio e possessività dell’altro, senza comprendere

che quando ritieni di possedere un altro, di fatto gli impedisci

la vita. Il timore di perdere l’affetto della persona

amata non si può conciliare in nessun caso con

l’idea che la persona amata ci appartenga. Invece proprio

partendo dalla convinzione che la persona amata

ci appartenga, il soggetto geloso vive intensamente la

paura che qualcuno, che sente come rivale, possa portargliela

via. Se ciò dovesse accadere, risulterebbe profondamente

colpita l’immagine del sé. La paura e/o la

rabbia che nutrono il geloso gli fanno assumere comportamenti

irrazionali che in genere devastano il legame

affettivo, producendo l’effetto contrario a quello

desiderato. Quindi non si difende l’amore ma egoisticamente

lo si distrugge.

Qualcuno dirà che è una patologia. Clinicamente non lo

è, non è inserita neanche nel DSM, il Manuale Diagnostico

Statistico dei Disturbi Mentali, pubblicato ed

aggiornato periodicamente dall’Associazione Psichiatria

Americana. Sicuramente comporta un notevole

stress, correlandosi a situazioni spiacevoli come depressione,

ansia e ferita narcisistica, senza dimenticare

che può sfociare in rabbia incontrollata con conseguenti

atti di stalking e violenza sul partner.

La gelosia quindi può dare origine a caratterizzazioni

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l'othello del pittore tedesco Christian Köhler

patologiche, come nel caso della gelosia ossessiva

quando una persona, in analogia con il disturbo ossessivo

compulsivo, sente il bisogno di controllare continuamente

il comportamento del partner. Alla base c’è

una idea ossessiva: quella di essere abbandonato dalla

persona amata. La compulsione consiste in lunghi e

quotidiani interrogatori, il controllo dell’abbigliamento,

del cellulare, ect. Il tutto teso ad ottenere rassicurazioni

che possano lenire l’ideazione di perdita.

Altra situazione più grave, definita come gelosia delirante,

è quando il soggetto si autoconvince dell’infedeltà

del partner e va alla ricerca solo di elementi confermanti

l’avvenuto tradimento senza alcun beneficio

del dubbio. Anche di fronte ad una confessione, anche

se non reale e dovuta a stanchezza per i continui interrogatori,

lo stato di ansia non si placa e continua con

la medesima intensità. L’obiettivo è da una parte l’autoaffermazione

dell’inquirente e dall’altra l’annullamento

del partner, sia a livello psicologico che fisico in

molti casi, come le cronache raccontano.

Questa forma è conosciuta anche come sindrome di

Otello, protagonista del famoso dramma, che decide che

Desdemona deve morire per un suo presunto tradimento

nonostante le rassicurazioni di quest’ultima riguardo

alla sua fedeltà.

Per Freud tale forma di gelosia nasce da esigenze super

egoiche legate ad una propria infedeltà. In questo caso

l’oggetto della relazione sessuale e/o la fonte dell’attrazione

è dello stesso sesso. La gelosia delirante, o sindrome

di Otello, è quindi una forma di omosessualità latente.

Un tentativo di difesa contro un impulso

omosessuale troppo forte, essa potrebbe essere descritta

(nel caso dell’uomo) mediante la formula: non

sono io che lo amo, è lei che lo ama. (Freud 1905).

Le relazioni familiari si caratterizzano per uno scambio

simbolico in cui si dà all’altro ciò che si ritiene e si auspica

abbia bisogno e, nel contempo avendo fiducia che

l’altro ricambierà con un equivalente simbolico. Nella

relazione affettiva quindi la fiducia diventa l’elemento

essenziale affinché avvenga lo scambio relazionale dell’equivalente

simbolico. Se uno dei partner non ha fiducia

e speranza di essere ricambiato si inserisce la patologia

relazionale che è un terreno fertile per la nascita

di sentimenti di gelosia.

Oltre a quella romantica esistono altre forme di gelosia,

come quella da competizione sociale. Il desiderio di

ottenere un bene o uno status sociale che non si ha, accompagnato

dalla paura di fallire per la presenza di altri

contendenti che hanno la stessa aspirazione.

Oppure la gelosia filiale in ambito familiare, il caso tipico

è quella che insorge nel primogenito all’arrivo del

secondogenito. Molto diffusa, secondo una ricerca riguarda

il 93% dei casi esaminati e può durare negli anni.

Altre forme di gelosia le troviamo nell’adolescenza nell’ambito

dei rapporti di amicizia poiché in questa fase

della vita vengono vissuti come esclusivi e totalizzanti.

L’allontanamento verso altre conoscenze e altri amici

viene vissuto, nella persona che prova gelosia amicale,

con un grande stato di sofferenza.

La gelosia quindi è una emozione complessa, a cui va

data la giusta rilevanza e non va banalizzata come sinonimo

di amore o come reazione esagerata rispetto a

qualche avversità.

66 domenica 30 agosto 2020



PUNTI VENDITA DELLA CAMPANIA:

C.C. CAMPANIA – MARCIANISE

C.C. CC AUCH

HAN GUG GIUGLIANO – GIUGLIANO

C.C. LA CARTIERA – POMPEI

C.C. VULCANO BUONO – NOLA

C.C. AUCHAN MUGNANO – MUGNANO

C.C. LA BIRRERIA - NAPOLI

C.C. NEAPOLIS – NAPOLI

C.C. QUARTO NUOVO – QUARTO

C.C. MAXIMALL – PONTECAGNANO FAIANO

C.C. LE PORTE DI NAPOLI – AFRAGOLA

C.C. JAMBO – TRENTOLA DUCENTA

C. .C. I SANNITI – BENEVENTO

C. .C. LE COTONIERE - FRATTE

CC C. .C. LE GINESTRE – VOLLA

C.C. PEGASO – PAGANI

C.C. IL CARRO – PASSO DI MIRABELLA

VIA GIUDICI N.74 - ANGRI (SA)

CORSO ITALIA N.149 - PIANO DI SORRENTO

VIA TESTA T 13/15 - AVELLINO

VIALE LEONARO DA VINCI N. .25/27 – PORTICI

VIA EPOMEO N.205 – NAPOLI

VIA ROMA 66/68 - AVERSA

VIA DOMITIANA - MONDRAGONE

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