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Pensieri di un suicida

Racconto "pensieri di un suicida" che è stato inviato a persona vittima di associazione a delinquere di stampo piduista, possibilmente a scopo intimidatorio. Il racconto parla di un tizio che ha deciso di "gettarsi dal quinto piano", facendosi coraggio con la vodka. Il presente documento si pubblica nell'esercizio del diritto di cronaca.

Racconto "pensieri di un suicida" che è stato inviato a persona vittima di associazione a delinquere di stampo piduista, possibilmente a scopo intimidatorio. Il racconto parla di un tizio che ha deciso di "gettarsi dal quinto piano", facendosi coraggio con la vodka. Il presente documento si pubblica nell'esercizio del diritto di cronaca.

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PENSIERI DI UN SUICIDA

Stamattina mi sono svegliato e ho deciso di uccidermi. Tra un’ora esatta, alle otto e

quarantacinque, mi getterò dal quinto piano del mio palazzo, e dopo un volo di quasi

quindici metri mi schianterò al suolo. Ci vuole coraggio: la vodka aiuta in questi casi.

Quanto tempo impiegherà il mio corpo a cadere? Due secondi, cinque? Non ne ho la

più pallida idea. La signora del piano di sotto sentirà il boato e scenderà in vestaglia.

Troverà il mio cadavere livido, disfatto, scomposto dalle fratture, reso irriconoscibile e

ancora più grottesco dalla morte. I carabinieri porteranno via ciò che resta di me, e

allora finalmente la mia coscienza si dissolverà di colpo nel fondo di un pozzo senza

luce. Non è difficile immaginare cosa accadrà dopo: sarà l’oscurità, proprio come

prima che nascessi. Un cerchio vuoto che non si è mai riempito. Ecco: il nulla che tutti

temono non è altro che un’assenza.

È assurdo pensare che tra meno di un’ora non esisterò più. Eppure la decisione è

presa, tornare indietro impossibile. Ora tutto ciò che mi ha tormentato per anni mi

appare lontano, opalescente, indefinito: i pensieri angosciosi di morte, il terrore del

disfacimento fisico e mentale, l’idea di lei che ride e fuma tra le braccia di un altro, e

che a quell’altro si dona senza opporre alcun rifiuto; felice, anzi, di abbandonarsi a un

atto che ora posso vedere chiaramente nel suo intimo squallore; tutto è privo di

significato, a tratti ridicolo, come se non mi fosse mai appartenuto. Perfino i motivi che

mi hanno condotto qui, sul cornicione di questa finestra, mi appaiono risibili e lontani,

come brandelli della vita di un altro: posso osservarli con distacco, consapevole dal

fatto che a breve spariranno insieme a me, e che a quel punto nulla avrà più

importanza.

Tu invece, Magda, tu continuerai a esistere nonostante la mia fine, e questo solo,

posso dire, mi brucia: esistevi prima che io nascessi e continuerai a esistere anche

dopo. Tutto sarebbe più facile se potessi trascinarti nel gorgo insieme a me. Se

quell’abisso, il mio stesso abisso, potesse inghiottirti, allora non avrei più alcun

rimpianto.

Quella notte avrei dovuto mettere in atto il proposito che mi ossessionava da tempo:

agire, una buona volta. Lei era lì, accanto a me, addormentata e inerme come un


demone sconfitto. Il chiarore di una luna d’inferno filtrava a malapena dalle fessure

delle persiane, ma tanto bastava a illuminare di sbieco il suo corpo bianchissimo.

Quasi senza respirare, per paura di svegliarla, l’ho osservata a lungo: supina, la pelle

diafana di sirena, cosparsa di efelidi graziose, la bocca vermiglia leggermente

dischiusa, un braccio piegato a coprirsi il viso e l’altro che ricadeva mollemente oltre la

sponda del letto, di quel letto che avevo reso reliquia. I capelli, di un nero profondo, le

ornavano il viso come piccoli serpenti, e ricadevano sparsi intorno ai suoi fianchi di

latte. Le mani mi tremavano, sapete, le mani indegne e senza grazia. Eppure, per

quanto non ne avessi alcun diritto, in ginocchio accanto al suo corpo di velluto, per un

muto, lunghissimo istante le ho sfiorato il collo pallido, quel collo di cigno che odorava

di miele e di erbe selvatiche. Ma le mani mi tremavano, e mi è mancato il coraggio.

Per te, Magda, il mio cuore s’è fatto di pietra. Domani, quando il mio corpo sarà

freddo, so che disgustata ti volterai altrove. Un altro ti avrà, e poi un altro ancora, e

ancora un altro.

Quando è iniziata la caduta? Tra mezz’ora sarò sull’asfalto, esposto agli sguardi di

tutti, ancora una volta senza vergogna. Anche tu accorrerai, ma forse quando

riceverai la notizia sarà tardi, e avranno già rimosso il mio corpo.

Mi hai avvelenato lentamente, goccia a goccia. Bianca, sinuosa, lo sguardo di sirena,

mi divoravi coi tuoi occhi screziati di metallo. Avrei voluto salvarti: non ho potuto.

Quando ti ho incontrata, piangevi: eri sola, radiosa nel tuo cappotto nero. Ti ho

accompagnata a casa e mi hai chiesto di salire, di passare la notte con te: per

ringraziarmi, dicevi. Ho rifiutato. A quel tempo ero ancora un uomo.

Se mi disprezzi, non posso biasimarti. Mi chiamavi in piena notte: accorrevo come

un cane. Solo, disperato, senza orgoglio e senza speranza ti seguivo da una parte

all’altra della città, tormentato all’idea che potessi chiamare un altro. Ti trovavo alla

fine, ti trovavo quasi sempre nella più squallida delle bettole: ubriaca, languida, le

ciglia folte umide di pianto, il trucco disfatto; ma bella, bellissima nel tuo splendore di

rosa sfiorita. «Andiamo a casa», mi dicevi con un sorriso oscuro. Non era me che

volevi, questo è ovvio: ma lui non c’era, e io invece sì.

A lungo ho cercato di decifrare i tuoi pensieri quando, nella penombra della stanza,

cercavi i tuoi vestiti sul letto disfatto, senza curarti affatto della mia presenza. Ti

osservavo mentre, del tutto indifferente alla mia angoscia, ti pettinavi i capelli che


l’amore aveva reso crespi e pieni di nodi. Allungavo la mano furtivamente, per

carezzarti la schiena, ma tu ti ritraevi infastidita. «Che vuoi, ora? Lasciami stare». In

silenzio andavi in bagno, ti rivestivi, aprivi il frigo e bevevi un bicchiere d’acqua.

«Posso chiamarti?» «Ma sì, chiamami, se proprio ti fa piacere», dicevi senza

nemmeno guardarmi.

A volte, nel cuore della notte, mentre ti stringevi a me, simulando una dolcezza

lievissima, squillava il telefono, e allora correvi in bagno e ti chiudevi a chiave. Ti

sentivo parlare sottovoce, ridere amaramente, supplicare. Poi chiamavi un taxi e

sparivi senza alcuna spiegazione. Andavi da lui, Magda, lo sapevo bene; eppure non

mi importava, perché lui non ti amava, e io invece sì; lui non ti desiderava, e io invece

sì; lui non ti capiva, e io invece sì.

In cambio della mia dedizione, ho ottenuto il tuo rancore; le tue risate di disprezzo, in

cambio della mia devozione. Ora so che ai tuoi occhi non ero un uomo. Ma non

m’importa: se era questo che desideravi, l’hai avuto. Sta’ pure tranquilla: non ti

tormenterò più con le mie telefonate, non ti chiederò più di mentirmi; non ti domanderò

di fingere, almeno per qualche ora, non dico di amarmi: sarebbe troppo; ma almeno di

volermi bene.

Cinque piani sono tanti: che cosa penserò tra pochi minuti, nell’esatto istante in cui

mi lascerò cadere nel vuoto? Forse avrò solo il tempo di ripararmi la testa con le mani

prima dell’impatto. O forse l’ultimo pensiero sarà ancora per te, Magda, per te e per i

tuoi occhi di serpe.

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