360 - Quarantena 2020
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Contents
REDAZIONE
EDITORIALE
lifestyle
pag. 2 pag. 16
Direttore
Francesca Cozzi
COGITANDA
pag. 3
cosmoluiss
pag. 19
Responsabile Editoriale
Alessandro M. Trocini
L’INCHIESTA
pag. 6
SPORT
pag. 20
Responsabile Web
Antongiulio Sambati
Marketing e Comunicazione
international
pag. 10
ottava nota
pag. 22
Federica Tataranni
Cogitanda
walk
pag. 12
palintesto
pag. 23
Benedetta Canfora
L’inchiesta
il protagonista
pag. 15
cult
pag. 24
Simone Pasquini
International
Matteo Bucciarelli
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Il Protagonista
Domiziana Carloni
Lifestyle
Chiara D’addesa
Cosmo Luiss
Luca Vesperini
Ottava Nota
Da un’idea di
Fabrizio Sammarino, Luigi Mazza, Leo Cisotta.
Gaetano Amore
Palintesto
Giulia Castriota
Cult
Antonio Attolico
Sport
Marco Pauletti
Progettazione grafica
Marco Deodati
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360gradiluiss@gmail.com
oppure usa la sezione
“contattaci” sul nostro sito
Hanno collaborato a questo giornale:
Leonardo Naccarelli e Alessia Albanese
Questo giornale è interamente gestito e realizzato da studenti.
1
di Francesca Cozzi
Oggi, una delle domande più frequenti che ci si
pone, è cosa ci aspetta in futuro. Ci aspetta un regresso
ad altri tempi sfruttando quanto la società
ha acquisito negli ultimi decenni, un progresso
verso qualcosa da cui aveva preso le distanze, un’epoca
nuova riconsiderando il valore della persona
in quanto tale e dei contatti umani, o riusciremo a
riprendere la nostra vita da dove questa è stata arrestata
il 4 marzo?
Ebbene, vorrei si potesse a gran voce sostenere che
tutte queste ipotesi si verificheranno contestualmente:
la tecnologia non sarà più il centro delle
nostre vite, l’affezione all’altro sarà più viva e daremo
peso alle passeggiate che non abbiamo potuto
fare, agli abbracci che non abbiamo donato, alle
parole che avremmo potuto dire mirando il nostro
riflesso negli occhi di chi le ascolta e non più attraverso
il vetro freddo di uno schermo, riprenderemo
le nostre attività nel punto e nel modo in cui sono
state sospese: le aule universitarie di cui odiavamo
la folla saranno ristoratrici, il caffè al bar avrà un sapore
più intenso, la corsa al parco non sarà per dovere
ma per piacere e persino la palestra sarà meno
sacrificante.
Ma temo di no, temo non ci sarà nulla di tutto ciò.
Come diceva Guccini qualche giorno fa, non saremo
migliori quando torneremo alla normalità, gli
uomini non imparano, dimenticano. Anche dopo
l’11 settembre si diceva che sarebbe tutto cambiato
ma non è cambiato nulla. Gli uomini non imparano,
è nella natura umana dimenticarsi delle tragedie
passate.
Tuttavia, cosa ci resta se non la speranza di un domani
diverso dall’oggi? Allora che male c’è a sperare
che questa volta non ci si dimentichi di quello che
abbiamo ritenuto importante, di quanta mancanza
abbiamo avvertito delle cose semplici, quelle che
spesso abbiamo rifiutato o che abbiamo disprezzato?
La mia speranza è questa: che ognuno possa
di nuovo restituire il valore che merita l’umanità. E
questo, forse, potrebbe essere addirittura un primo
passo che il prossimo secolo impedirà alla progenie
di questo duro colpo di riprodursi a causa di una
disattenzione fatale.
Editoriale
di Alessandro Trocini
Nel corso del quattordicesimo secolo la guerra,
terribile e fondamentale consuetudine umana, fu
scossa alle fondamenta da un’autentica rivoluzione:
la scoperta della polvere da sparo e l’introduzione
nei campi di battaglia delle armi da fuoco. Frecce e
dardi, fino a quel momento protagonisti indiscussi
dei combattimenti a distanza scomparvero in breve
tempo lasciando il posto ad archibugi e cannoni,
la cui tremenda capacità distruttiva mutò alla radice
non soltanto l’ars bellica ma la natura stessa dei
conflitti armati. Al cospetto della furia delle bocche
di fuoco l’uomo si scoprì fragile come non mai.
Questo balzo in avanti della tecnica segnerà il progressivo
canto del cigno di un’epoca: le romantiche
cariche di nobili al galoppo erano infatti destinate
a essere falciate dalle scariche dell’artiglieria. I cavalieri
divennero materia per poeti; Don Chisciotte
avrebbe attraversato per sempre la fantasia e l’immaginazione,
non più i campi da battaglia.
Il vento del cambiamento investì, e sviluppò a un
tempo, anche l’ambito medico e nella fattispecie
la chirurgia: erboristi e cerusici si trovarono a dover
fronteggiare piaghe e lesioni di entità sconosciuta
e a dover risolvere la questione di frammenti
e schegge penetrati a fondo nei tessuti dei feriti,
con tutte le complicazioni del caso. Le conoscenze
dell’epoca contemplavano poco o per nulla il
concetto dell’infezione causata da un corpo estraneo;
all’inizio si pensò che la polvere da sparo stessa
fosse portatrice di uno specifico agente tossico.
Insomma, il mestiere del medico da campo ai primordi
dell’età moderna presentava più dubbi e difficoltà
che dogmi su cui fare affidamento.
L’ingegno umano non rimase però inerte: migliorando
a mano a mano la tecnica delle amputazioni,
la gestione di cancrene purulente e l’affinamento
del materiale operatorio non diverso agli inizi dagli
strumenti del macellaio, si accumulò un bagaglio
di esperienze e cognizioni che avrebbe fondato nel
tempo le basi della chirurgia moderna.
Il progresso che rincorre il progresso o la necessità
di arginare gli effetti nefasti di un male troppo
grande? Quante volte nell’arco dei secoli si è verificato
lo stesso fenomeno in altre forme e con altre
modalità? Possiamo fare affidamento oggi su strumenti
che ci garantiscono comodità e trasmettono
sicurezza; ma quanto abbiamo sacrificato in termini
di libertà, autonomia e riservatezza? Domande
troppo grandi e importanti alle quali forse non è
possibile dare risposta con gli occhi odierni, ma che
proprio alla luce di quella rilevanza meritano una
riflessione coscienziosa, sofferta.
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Cogitanda
Particolare di un’opera di Fortunato Depero
Progresso e sviluppo
attraverso secoli e riflessioni
di Alessia Albanese
Progresso e sviluppo sono diventati, negli ultimi
anni, due concetti all’ordine del giorno, e di cui
potremmo parlare per ore e ore senza mai cadere
nel banale; fanno parte del vocabolario dell’uomo
da sempre ed acquisiscono maggiore importanza
mano a mano che gli anni passano.
Entrambi i termini indicano, a conferma di questo
dinamismo, una trasformazione continua e sempre
più accentuata che tocca molteplici ambiti; è evidente
quindi la presenza di un progressivo mutamento.
Come questi termini si legano è intrinseco nel loro
significato. Il progresso indica, infatti, la trasformazione
graduale, e non quindi repentina, contrassegnata
da un aumento delle capacità; lo sviluppo,
invece, quasi in maniera conseguente, indica una
sorta di implementazione di questo progresso, che
porta quindi ad una crescita, non solo dal punto
di vista tecnologico, o economico ma anche culturale
ed intellettivo.
A dare forza a questi termini che indicano importanti
concetti, vi è la radicata credenza delle persone
che le nuove scoperte, che non sono necessariamente
innovazioni, possano portare a un
miglioramento a livello sociale e personale; in parole
povere, lo sviluppo è supportato dalla volontà di
raggiungere un livello di conoscenza tale da poter
garantire un miglior stile di vita alla collettività.
Sia chiaro che fino ad oggi il progresso non si è mai
rivelato gratuito, si sono spesso resi necessari investimenti
non indifferenti da parte delle imprese,
degli esponenti delle comunità scientifiche e degli
organi governativi preposti al finanziamento della
ricerca allo scopo di prevenire o di anticipare la nascita
di un bisogno, altri sono risultati di catastrofi
che hanno messo il mondo in ginocchio, minando
quindi la sicurezza della società stessa, intesa nella
sua accezione più ampia di genere umano.
A questi concetti talvolta è erroneamente associato
quello di innovazione; sono infatti sicura che molti
di voi, quando hanno letto progresso e sviluppo,
hanno pensato subito all’innovazione. Con questo
termine ci si riferisce principalmente a un radicale
mutamento di qualcosa; non è, quindi, del tutto
sbagliato pensare che possa trattarsi di progresso
inteso come un accrescimento delle nostre conoscenze,
tuttavia non è neanche preciso ritrovare in
questo termine un collegamento diretto con i concetti
che abbiamo fino ad ora sviscerato.
Se pensiamo poi all’oggetto dell’innovazione, e
all’oggetto di uno sviluppo o del progresso, possiamo
intuire come questi siano talvolta frutto di estro
geniale e creativo più che di un processo formato
da fasi sequenziali.
Per spiegare meglio questo concetto vorrei portare
alla luce un esempio che ritengo particolarmente
calzante.
Si pensi ai mezzi di trasporto privato a motore dalla
loro nascita, all’incirca negli anni ‘20, alla loro evolu-
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zione nel tempo. Il primo mezzo di trasporto
privato fu la carrozza, a questo
seguirono negli anni ’20, le automobili,
che diventarono grazie a Ford un bene
che anche la classe media poteva permettersi,
i salari dei suoi operai erano
concepiti in misura tale da rendere gli
operai stessi potenziali compratori del
proprio prodotto. Questo primo step
rappresenta a pieno il concetto di innovazione.
Un cambiamento così radicale
da far scomparire gradualmente
qualunque altro mezzo di trasporto
privato che prevedesse la trazione animale,
oltre a rendere necessario lo studio
di una nuova rete infrastrutturale
capace di accogliere le macchine.
Facciamo un salto nel tempo e pensiamo
a tutti i mutamenti che hanno
subito le automobili sia a livello ingegneristico
sia a livello di design. Questi
mutamenti sono il frutto di graduali
cambiamenti che hanno portato l’automobile
di Ford, quella della quale
potevi scegliere il colore purché fosse
nero, all’auto di oggi, per la quale cambiare
verniciatura è
scontato così come il fatto di poter acquistare
un’auto. Spero che anche voi
abbiate pensato alle vetture elettriche
o a quelle ancora più progressiste senza
conducente, per ora ancora non
commercializzabili. Questo secondo
step è progresso, ed è tutto ciò di cui
abbiamo parlato fino ad ora.
Ma proviamo a fare un ulteriore piccolo
passo. Pensiamo a quando si parla
di progresso tecnologico e di sviluppo
legato alla sostenibilità; lo sviluppo sostenibile
è qualcosa che oggi non possiamo
ignorare, che sta diventando lo
zoccolo duro di alcune aziende, e che
diventa un elemento importante di
differenziazione per i consumatori più
attenti e legati alla lotta per la salvaguardia
del pianeta.
Quando si parla di sviluppo sostenibile
quindi?
Quando i progressi apportati alle modalità
produttive dell’oggetto stesso
del progresso e gli stili di vita degli uomini
possono essere assorbiti dall’ambiente
senza che esso subisca danni.
Non parliamo quindi solo di trasformare
i prodotti che esistono in prodotti
che contengono meno plastica, che
siano re-ciclabili e biologici, ma la cui
produzione abbia
anche un basso impatto ambientale.
Non vi sembra che anche parlare di
sviluppo sostenibile faccia parte in
qualche modo di
quello che abbiamo fino ad ora definito
come progresso?
Un rappo
di Benedetta Canfora
In questi giorni difficili, nei quali per arginare l’emergenza
siamo tutti chiamati a fare sacrifici e a
rimanere confinati nelle nostre case, le tecnologie
digitali stanno mostrando tutte le loro potenzialità;
potenzialità che pochi in precedenza erano
riusciti davvero a cogliere. Per comprenderlo non
è necessario scomodare i grandi e complessi prodigi
della scienza e della tecnica che, ogni giorno,
permettono di diagnosticare e curare nuovi casi e,
così, di salvare vite umane; è sufficiente pensare
a tutti quegli strumenti quotidiani che sono costantemente
sotto i nostri occhi e dei quali non
abbiamo, forse, mai compreso il reale valore.
Oggi, senza i moderni mezzi di comunicazione digitale
non sarebbe, infatti, in alcun modo possibile
continuare a studiare, a lavorare, ad informarsi
su ciò che accade; non ci si potrebbe rilassare leggendo
l’ultimo libro del proprio autore preferito o
guardando una serie appena rilasciata. E non dimentichiamo
i rapporti umani; senza questi mezzi
dall’immenso potenziale non avremmo avuto
modo di passare del tempo con parenti ed amici
chiusi nelle loro abitazioni, di mantenerci in contatto
col mondo esterno, di rassicurare un genitore
lontano o un nonno spaventato.
Cosi, in tempo di pandemia, le innovazioni tecno-
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rto ambivaslente
logiche, da alcuni, molti, condannate in passato
come colpevoli di distruggere rapporti interpersonali
e minare alle radici i diritti umani, si stanno
rivelando uno strumento prezioso per mantenere
vivi rapporti umani e garantire diritti. Primo fra
tutti, il diritto allo studio: scuole di ogni ordine e
grado stanno sperimentando, spesso con grande
soddisfazione di docenti e studenti, forme di didattica
online; ma anche il diritto al lavoro, con il
ricorso generalizzato a forme di smart-working e
lavoro agile. Cosa ne sarebbe di noi, in questa situazione,
se questi strumenti non esistessero?
Quello tra l’uomo e la tecnologia, e in generale tra
l’uomo e il progresso, o l’innovazione, è sempre
stato un rapporto ambivalente. Si è sempre teso, e
lo si fa tuttora, probabilmente per quel sentimento
di paura dell’ignoto che attanaglia il genere
umano, ad attribuire un maggior peso ai possibili
rischi che non ai potenziali vantaggi. Eppure, per
quanto i rischi siano tanti, tantissimi, è in situazioni
come questa che ci si rende conto di quanto i
benefici siano strabilianti. E allora cosa fare? Purtroppo
nessuno ha la risposta.
Il domani è per sua definizione un rischio, un’incognita.
E allora, si può rinunciare al progresso
per paura? Un esempio eclatante. Pensiamo alla
teoria della relatività, se questa non fosse stata
formulata, la bomba atomica non sarebbe esistita;
ma sarebbe stato giusto impedirne la formulazione,
e quindi bloccare il progresso, per paura
che alcuni uomini ne facessero un uso sbagliato?
Purtroppo le scelte che l’uomo fa non sono sempre
quelle esatte, non sempre gli ideali perseguiti
sono quelli giusti, e non sempre lo sono le modalità
di attuazione. Ma la colpa per la bomba atomica
non è di Einstein; lui ha creato progresso, è chi
lo ha applicato male che ha creato morte.
Lo stesso discorso, chiaramente ridimensionato,
può essere applicato al dibattito sull’uso delle
moderne tecnologie, spesso accusate di creare distanze
sociali, di proiettare i ragazzi in mondi fittizi,
di allontanarli dalla realtà. Eppure, ora, è solo
grazie a queste tecnologie se le distanze sono superabili,
se “il mondo” di questi ragazzi non è ridotto
alle mura domestiche.
Alla fine di questo periodo, quando finalmente
ricominceremo ad uscire, non potremo ignorare
quanto stiamo imparando in questi giorni. In fondo,
come già nel 1985 diceva Melvin Kranzberg, “la
tecnologia non è né buona né cattiva, ma nemmeno
neutrale”. Tutto dipende da noi
5
l’inchiesta
di Simone Pasquini
La pandemia che negli ultimi mesi ha colpito il
Mondo non ha precedenti che le ultime due generazioni
possano anche solo lontanamente ricordare.
Una sfida mortale che ha impegnato fin quasi al
collasso Potenze le cui forze e capacità sembravano
inarrestabili. L’Italia, di capacità ben più modeste,
è stata nondimeno uno degli Stati maggiormente
colpiti fin da subito, ed immediatamente ha potuto
godere del supporto della comunità internazionale.
Quando il primo carico di mascherine dalla Cina
atterrò in Italia, la gente si abbandonò a quel particolare
tipo di euforia che si ha solo quando, nel
momento di peggior disperazione, si riesce ad intravedere
una piccola luce nel buio che ci circonda.
Ed all’improvviso il buon (?) popolo italiano, che
fino a pochi giorni prima sputava e talvolta perfino
aggrediva per strada gli “untori” della comunità
cinese, si è scoperto un profondo amante di quel
popolo dalla millenaria cultura. Una massa di diffidenti
(quanto ignoranti e violenti) figuri si tramutò
in tanti Marco Polo e Matteo Ricci, condividendo sui
social una profusione di vignette e messaggi di solidarietà
per gli amici asiatici. A stretto giro, nelle
settimane successive, abbiamo ricevuto altri aiuti
da Paesi come gli Stati Uniti (ancora imbufaliti per
la questione della Nuove Vie della Seta e dello scarso
impegno nel sostenere la NATO) e dalla Russia
(nei cui confronti l’Italia ancora sta applicando le
sanzioni decise a suo tempo in seguito all’invasione
dell’Ucraina). Ma a questo punto io mi chiedo:
possibile che degli Stati che stanno affrontando
una drammatica crisi sanitaria al loro interno, segregando
la propria popolazione e riconvertendo
intere filiere produttive alle necessità sanitarie, siano
così buoni da inviarci a turno tanto materiale?
Quando si opera in politica estera bisogna essere
molto concreti. Dopotutto Machiavelli ci insegna
che in questo campo buono e cattivo sono parole
senza significato, e che ogni azione
politica che si intraprende ha sempre e comunque
una ripercussione. Tra l’altro, a voler essere proprio
esatti, le forniture che sono giunte, nella maggior
parte dei casi, non sono donazioni, ma materiale
che è stato VENDUTO all’Italia in via prioritaria.
6
Il gioco
degli scacchi
Nel caso della Russia, a scortare il materiale sono
giunti numerosi membri delle forze armate e di
intelligence della Federazione che hanno avuto
l’estremo privilegio, per così dire, di usufruire delle
strutture della NATO sul territorio italiano.
Prima di continuare credo sia necessaria una chiarificazione
preliminare: il fatto che giungano “aiuti”
all’Italia da parte di altri Paesi, ed il fatto che questi
aiuti risultino per ragioni concrete sospetti, non significa
che il nostro Paese debba rifiutare le risorse
che altri gli mettano a disposizione. Significa semplicemente
che, come sempre è accaduto nella
Storia, le grandi Potenze ampliano e tutelano i propri
interessi nella misura in cui riescono ad imporre
influenza politica. Normalmente questo avviene
tramite alleanze, favori, progetti ed investimenti; la
politica ai tempi del coronavirus, chiaramente, passa
attraverso le forniture sanitarie. Questo spiegherebbe,
ad esempio, perché l’isolazionista America
di Donald Trump si sia decisa ad inviare forniture
solo DOPO che la Cina aveva già scaricato negli aeroporti
italiani tonnellate di materiale.
Quello che in verità mi lascia interdetto è la reazio-
ne di gran parte della popolazione quando giornalisti
di numerose testate nazionali hanno cominciato
a sollevare questa questione. Coloro che cercano di
aiutare la popolazione nel modo migliore che conceda
una democrazia, cioè invitando i cittadini al
ragionamento, sono stati insultati e verbalmente
aggrediti in quanto “sciacalli che speculano sulle
disgrazie della gente”. Ma la “gente” ha bisogno
che gli si ricordi che poco prima dello scoppio della
pandemia buona parte degli Stati che oggi ci inviano
mascherine (a pagamento) perseguivano delle
strategie di politica estera che vedevano l’Italia
come uno dei “campi di battaglia” principali: i russi,
i cinesi, gli americani... Si tratta sempre e solo di giochi
di potere fra potenze, che quando non possono
imporre con la forza cercano di blandire con segni
di magnanimità. La partita non è mai finita, sono
semplicemente cambiate le carte.
7
Lo sviluppo al tempo del Covid 19
di Leonardo Naccarelli
Coronavirus, è sempre più clima da guerra mondiale.
Lo si capisce da molti aspetti: le libertà individuali
sono limitate pesantemente, le poche fabbriche
rimaste aperte convertono la produzione,
le frontiere tornano ad essere chiuse come prima
della sempre discussa globalizzazione. Come tutti
gli eventi che segnano epoche, ci sarà un prima
ed un dopo pandemia, ne sono certo. Porteremo a
lungo impresso nelle nostre memorie, nelle nostre
coscienze il periodo storico che ci stiamo trovando
a vivere.
Non eravamo pronti ad affrontare questa situazione,
le nostre vite sono state travolte in misura maggiore
di quanto ci saremmo mai aspettati. Abbiamo
parlato anni di quanto fosse troppo caotica ed
iperconnessa la nostra società. Questa quarantena
ci ha imposto la riscoperta di elementi che sembravano
destinati ad essere ricoperti da un velo di polvere:
una sana e costruttiva solitudine o l’intimità
degli affetti. In altre parole, siamo stati costretti a
confrontarci con giornate tanto lente da non passare
mai e con un silenzio difficile da riempire. Questo
però non sarà un articolo da” si stava meglio
quando si stava peggio”.
Infatti, la tecnologia, anch’essa vituperata nel recente
passato, si sta rivelando un’alleata preziosa.
Penso allo smart working per lavorare da casa o
alle videochiamate per essere il più vicino possibile
a chi è importante nelle nostre vite. Una tecnologia
che non sostituisce le relazioni umane ma che le
rende possibili, in un certo senso. “E’ questa la novità”
direbbe Lucio Dalla. C’è chi dice che, a dispetto
di quanto dica il calendario, con quest’emergenza
sia veramente finito il 900. Per la prima volta la tecnologia,
infatti, non rende semplicemente più rapido
o comodo qualcosa che saremmo comunque
riusciti a fare “alla vecchia maniera”. Per la prima
volta siamo stati posti di fronte ad una scelta decisiva:
o il mondo virtuale, con la sua realtà surrogata,
o il nulla. No, nulla sarà più come prima.
Ora c’è da chiedersi che impatto abbia avuto questa
situazione emergenziale sull’economia globale
riprendendo, in parte, quanto già anticipato sopra.
Siamo fermi, semplicemente. I numeri sono impietosi
e forse non riescono a dare fino in fondo l’idea
del disastro. Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria,
ha stimato le perdite in 100 miliardi di euro
ogni mese. L’ansia di ripartire, di ricominciare a produrre
è tangibile nella popolazione: quando sarà
possibile sanitariamente, il Paese sarà in grado di
rialzarsi, di recuperare il tempo perduto. Prima però
è necessario portare pazienza e prendersi cura di
chi non può farcela da solo; non lasciamo nessuno
indietro. Non è soltanto una questione di pura etica
per quanto già questo dovrebbe bastare. Esigenze
più pragmatiche e terrene ci impongono un agire
in quel senso: le sacche di malcontento, il popolo
degli abbandonati a loro stessi rischiano di divenire
delle bombe sociali che sarà difficile, se non impossibile,
disinnescare.
A mio avviso inoltre, in questo momento si potrebbe
provare a riflettere e discutere sull’importanza
che ci sia, in economia e nei servizi, una politica statale
forte. Non me ne vogliano i liberisti ma ci stiamo
rendendo conto di quanto faccia la differenze
essere dotati di un sistema sanitario nazionale che
assicura a tutti l’assistenza, incurante del censo delle
persone, rispetto ai sistemi sanitari basati sulle
assicurazioni private. Anzi, con riguardo alla sanità,
il sentimento generale è il rimpianto per i tagli fatti
in passato, per lo smantellamento reso necessario
dalle politiche di austerity. E’ in questi momenti che
si guarda allo Stato per trovare le risorse per sopravvivere,
ora, per rinascere, dopo.
C’è un altro argomento importante su cui mi sento
di confrontarmi con voi: la protezione dell’ambiente.
In Cina le misure restrittive hanno portato ad
una riduzione delle emissioni di anidride carbonica
quantificabile tra il 15 % ed il 40%. Dello stesso tenore
sono i dati che sono stati divulgati dal Comune di
Milano. L’aspetto positivo è, chiaramente, che l’aria
è di una qualità di gran lunga migliore rispetto alla
media. Certo, è scoraggiante l’idea che sia necessario
fermare del tutto le attività produttive perché
vi siano effetti benefici sull’ambiente; inoltre, vi è il
fondato timore che le istanze ambientali saranno
messe in un angolo quando l’emergenza sarà finita
rendendo irrilevanti questi effimeri buoni risultati.
L’idea di una ripresa economica green è affascinante
ma, personalmente, ci credo poco.
Per concludere, anche in uno stato di crisi, un qualche
tipo di sviluppo, in fondo, c’è stato: uno sviluppo
sociale, economico, ambientale su cui ripartire,
sulla cui base prendere la rincorsa.
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entrando in contatto l’autore in un periodo in
cui il distanziamento sociale è reso necessario.
Ogni playlist corrisponde a una rubrica del nostro
giornale, aggiornata settimanalmente.
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La sfida dell’Europa: azioni virtuose e risposte scoordinate
L’integrazione è fondamentale, ma l’Europa non può sostituirsi alla politica
di Matteo Bucciarelli
Il virus responsabile della chikungunya si trasmette
all’uomo attraverso la puntura di una zanzara e
provoca febbre alta, accompagnata da dolori articolari.
Nell’inverno del 2005-2006 si è registrata
un’epidemia di chikungunya sull’isola della Réunion,
nell’Oceano Indiano. Ciò ha attirato l’attenzione
della comunità scientifica internazionale, portando
l’ECDC, ossia il Centro Europeo per la prevenzione
e il controllo delle malattie, a verificare la probabilità
di una diffusione del virus in Europa. Sono
così state individuate diverse regioni europee che
ospitavano zanzare capaci di veicolare il virus. È stato
inoltre confermato il rischio d’insorgenza di una
pandemia in Europa, dato il suo enorme traffico di
persone con la regione dell’Oceano Indiano. Conseguentemente,
l’ECDC e la Commissione Europea
hanno assistito i Paesi membri al fine di condividere
i propri studi e migliorando gli interventi preliminari
volti a contrastare la febbre di chikungunya.
Successivamente, nell’estate del 2007, si sono riscontrati
i primi casi europei di chikungunya in Italia,
più precisamente nella zona di Ravenna. Data
l’attività di prevenzione svolta fino a quel momento
a livello europeo e la conseguente consapevolezza
del pericolo di diffusione del virus, i funzionari sanitari
locali sono stati capaci di monitorarlo. L’epidemia
è stata quindi rilevata precocemente e circoscritta
in maniera efficace.
L’ECDC è stato istituito nel 2005 allo scopo di armonizzare
l’azione dell’Europa nella difesa contro
le malattie infettive. Come illustrato dal suo sito ufficiale,
si tratta di un’agenzia indipendente dell’UE
la cui attività fondamentale sta nello svolgimento
di attività di consulenza e di trasmissione di dati
nei confronti delle istituzioni europee e nazionali
in vista di eventuali decisioni e provvedimenti per
la tutela della salute. Infatti, tra gli scopi principali
dell’ente vi è, come da esso dichiarato, “la rapida
individuazione delle minacce connesse alle malattie
infettive e l’adozione tempestiva di azioni di risposta”.
Ciò viene realizzato, ad esempio, attraverso
investimenti nei confronti dei Paesi membri al
fine di acquisire le risorse necessarie per affrontare
un’emergenza sanitaria. In aggiunta, elemento cruciale
dell’ECDC è rappresentato dalla condivisione
di dati tecnici e allarmi rapidi su focolai di malattie
infettive. Va inoltre segnalata la collaborazione intrapresa
dall’agenzia con gli Stati membri per elaborare
piani di rapido intervento in vista di una
pandemia influenzale.
Alcuni dei principali risultati raggiunti dall’ECDC
possono essere individuati in materia alimentare.
L’agenzia ha infatti portato, attraverso indagini
multinazionali sulle insorgenze epidemiche di
origine alimentare, al ritiro tempestivo di alimenti
contaminati negli Stati membri.
Al di là della forte attività finora svolta dall’ECDC nel
contrasto al Covid-19, la cui complessità richiede valutazioni
che non avrebbe senso affrontare nel corso
dell’emergenza, ma solo a posteriori, è evidente
la presenza dell’Unione Europea nell’ambito del
controllo e della prevenzione rispetto alla diffusione
delle malattie. Eppure, chiunque può osservare
l’impreparazione da essa manifestata almeno nella
prima fase dell’avanzata del nuovo coronavirus
in Europa. Il periodo che qui interessa analizzare
è quello di marzo, durante il quale il nostro continente
si è trovato dinanzi all’evidenza che questa
epidemia non fosse solo una questione cinese. Il
9 marzo è stato annunciato dal Premier Conte il
decreto che ha esteso la cosiddetta “zona rossa”
all’intero territorio nazionale, obbligando così tutti
gli italiani all’auto-isolamento. Due giorni dopo
l’OMS ha dichiarato la pandemia. Nelle settimane
successive, l’intero Occidente ha manifestato enormi
distanze di reazione all’emergenza. Da un lato, la
Germania emanava provvedimenti volti a restringere
drasticamente gli spostamenti come il divieto
di assembramenti con più di due persone, annunciando
al contempo investimenti da 550 miliardi
sotto forma di prestiti alle imprese. Dall’altro lato,
il Regno Unito di Boris Johnson ha prima intrapreso
la linea dell’immunità di gregge, decidendo
che il Paese non si sarebbe fermato, per poi rendersi
conto nel giro di pochi giorni dell’insostenibilità
della situazione. Ha così fatto seguito l’annuncio del
lockdown del paese, obbligando chiunque a rimanere
a casa.
Nel mezzo, troviamo casi tragicomici come la Francia,
la quale ha tentato di conciliare le misure restrittive
della circolazione con l’esigenza di votare
per le elezioni municipali, tra le principali opere di
raggruppamento di persone esistenti. Il risultato è
stato l’annullamento del secondo turno di elezioni,
rendendo sostanzialmente inutile l’aver già votato,
al fine di bloccare interamente il paese seguendo
tardivamente l’esempio italiano.
Anche sul fronte istituzionale l’Europa ha manifestato
comportamenti lodevoli alternandoli a gaffe
inaccettabili. Esempio del secondo tipo è, ovviamente,
la dichiarazione del 12 marzo della Presidente
della BCE Christine Lagarde, “non siamo
qui per chiudere lo spread”, in risposta a chi le
chiedeva come avrebbe agito la Banca Centrale rispetto
al nuovo coronavirus. Come è noto, ciò ha
causato il panico nelle borse e l’impennata dello
spread oltre 200 punti base. Va però osservato che
la BCE ha invertito subito rotta annunciando nel
giro di una settimana investimenti da 750 miliardi
nell’acquisto di titoli pubblici e privati: un piano
economico, il “Pandemic Emergency Purchase
Programme”, che richiama il quantitative easing e
che è destinato a durare “finché la BCE non giudicherà
che la crisi del Covid-19 è finita, ma in ogni
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caso non terminerà prima di fine anno”.
Atteggiamento più coerente, nonostante le polemiche
sugli Eurobond, è riscontrabile nella Commissione
Europea, la quale, dopo l’impegno assunto
dalla presidente von der Leyen a “fare qualunque
cosa necessaria a sostenere gli europei e l’economia
europea”, ha applicato la clausola generale volta
a sospendere il Patto di Stabilità.
Ebbene, la narrazione fatta durante l’emergenza da
parte del sistema mediatico, come spesso avviene
in momenti d’incertezza, sembra aver giocato in
massima parte sull’emotività. Cosicché si è venuta
a verificare una totale divisione tra due opposte visioni.
Anzitutto, si parla frequentemente di “fallimento
dell’Unione Europea” a causa di risposte tardive di
diversi Stati e poca lungimiranza espressa da alcune
istituzioni. Eppure, decisioni come la sospensione
del Patto di Stabilità e il maxi investimento della
BCE non meritano di essere ignorate come se non
avessero valore. Si tratta di decisioni, soprattutto
la sospensione del Patto, storiche e capaci di produrre
effetti enormi sulle nostre economie. A ciò si
aggiunge l’importanza fondamentale di organismi
come il già citato ECDC, la cui presenza viene data
quasi per scontata da una certa parte politico-giornalistica
come se non fosse la naturale conseguenza
dell’integrazione tra Paesi.
Alla narrazione mediatica si qui delineata si aggiunge
l’idea che per la risoluzione di ogni problema basti
l’eterno slogan “più Europa”. Non è ammissibile
che le azioni dei Paesi siano così scoordinate e
tale ovvia riflessione si tradurrà verosimilmente in
un’ulteriore integrazione, ma c’è da chiedersi se delegare
ulteriori poteri ad un organo sovranazionale
basti, essendo questo tecnico, a colmare tutte le lacune
manifestate dai Paesi. Il problema di questo
ragionamento sta nel fatto che decisioni di natura
emergenziale, seppur fondate su studi, analisi, ed
in generale sul lavoro degli esperti, assumano in
ogni caso valore politico. È politica la decisione di
bloccare il Paese, come lo è quella di sospendere
il Patto di stabilità. A rendere la decisione corretta,
insomma, non sarà mai il fatto che questa sia assunta
dal singolo Stato, come potrebbero pensare i
sovranisti, ma certamente neanche il fatto che questa
venga presa da un organismo sovranazionale.
Ciò è dimostrato dall’incoerenza delle misure di
Macron e dall’ennesima prova di forza della Merkel,
come anche dagli errori della Lagarde e dall’atteggiamento
propulsivo della von der Leyen.
La realtà è che il buon operato della politica sarà
sempre rimesso alla capacità e al coraggio dei
suoi rappresentanti, mentre organi, procedure
ed istituzioni possono limitarsi a fornire i mezzi
per un buon governo. Continuare a pensare che
una maggiore integrazione europea ci salverà in
quanto tale non fa altro che indurre i cittadini a manifestare
fiducia incondizionata oppure odio imprescindibile
verso l’Unione Europea. Se i rapporti
vanno intensificati, ciò serve a permette la creazione
di organismi come l’ECDC e misure come gli
enormi investimenti della BCE, ma non garantisce
nel modo più assoluto il buon operato della politica.
Pensare il contrario equivale a permettere ai governi
nazionali di spostare tutte le colpe sull’Europa a
ogni crisi, facendo pensare che questa abbia assunto
il compito di guidare il destino dell’umanità.
international
11
Nei giorni della pandemia ho riscoperto
il potere di viaggiare col pensiero.
di Chiara Scalia
Non sono mai stata una che sa star ferma. Mia madre
mi racconta sempre, con una certa tenerezza, di
quando, negli ultimi mesi di gravidanza, non la facessi
mai dormire per quanto mi muovessi, giorno
e notte. Mi muovevo così tanto che il giorno che le si
ruppero le acque fui capace di rigirarmi su me stessa
e di stringermi il cordone ombelicale intorno al
collo, costringendo l’ostetrica ad effettuare un parto
cesareo, da cui, stando ai racconti, uscii alquanto
provata. Benvenuta al mondo! Primo impatto?
Poteva andare meglio. Colpa mia, lo ammetto. E
sicuramente da lì in poi è stato solo un crescendo,
una continua ricerca spasmodica di esperienze e
di pezzi di mondo da aggiungere al mio mosaico,
alla mia storia, che mi ha portato a studiare per tre
anni negli Stati Uniti, a viaggiare da sola in Brasile,
in Islanda, a lavorare a Vienna e a Roma e a riempirmi
la vita di amicizie da tutto il mondo. Insomma, in
questi 21 anni mi sono data da fare, vivendo questa
continua ricerca di nuove avventure con entusiasmo
e un pizzico di paura rinnovata ad ogni inizio.
Beh, avevo paura, una paura diversa dal solito, che
mi dava una sorta di nausea che cercavo di attribuire
al moto dell’auto, mentre mi dirigevo nell’ormai
semi-deserta A-1 direzione Napoli, verso Frosinone,
il primo posto che ho chiamato casa. La strada
sembrava non finire mai, illuminata da una luce
sbiadita e tiepida. Pensavo di tornare per un paio
di giorni, forse mi sarei trattenuta fino al weekend,
ma per sicurezza, non si sa mai, avevo messo nello
zaino il Kindle che mia mamma mi aveva regalato
a Natale. Con tutto il trambusto degli ultimi mesi
non avevo ancora avuto il tempo di usarlo. Non ero
molto avvezza, devo ammetterlo. Affezionata come
sono all’odore della carta, alle lettere stampate in
nero su bianco che posso accarezzare sfogliando
una pagina dietro l’altra, alle copertine variopinte,
non sapevo se mi sarei mai abituata all’idea della
digitalizzazione della cultura, in questo senso. Sono
un’inguaribile analogica in un mondo digitale.
Percorrendo le stradine di campagna che mi
avrebbero portato a casa, percepivo un insolito
sentore nell’aria che presto si sarebbe tramutato
in una drammatica certezza. Quello che poteva a
me parere un breve soggiorno, si sarebbe tramutato
in una lunga quarantena, nella speranza di
sconfiggere il nemico comune per lo Stato italiano
nel 2020: il COVID-19. Inutile che spieghi cosa sia, lo
sappiamo tutti benissimo e lo ricorderemo per tanti
anni a venire, bombardati come siamo stati per
tanto tempo da notizie esclusivamente riguardanti
il virus. Abbiamo dovuto adattarci tutti e io stessa
ho dovuto imparare ad accettare un altro lato del
progresso, della digitalizzazione: le lezioni online.
L’idea che la gran parte delle attività giornaliere che
compio dipenda da una connessione Wi-Fi ancora
fa fatica a materializzarsi nella mia testa. Ormai lo
do per scontato, avendo smesso di chiedermi come
sarebbe la mia vita in questo momento senza. Così,
giorno dopo giorno, decreto dopo decreto, con
Conte dietro la sua scrivania, con il naso arrossato
dalla mascherina, che dice agli Italiani che “stiamo
vivendo il momento più duro dal secondo dopoguerra”.
Ed io, che guardo fuori dalla finestra, tra
una lezione online e l’altra, e non passano più macchine
e, quando passano, c’è un solo individuo alla
guida con una mascherina che copre gran parte
del volto. Nonostante il numero limitato di abitanti
del mio paese e il fatto che in un modo o nell’altro
siamo tutti correlati, non potrei dire con certezza
12
chi vedo alla guida di una macchina, nascosto dietro
una maschera di stoffa e paura. Non ci sono più
bambini che giocano nella campagna, coppie che
passeggiano, anziani che prendono una boccata
d’aria fuori. Non c’è più nessuno, siamo tutti rintanati
in casa, ad aspettare il prossimo aggiornamento
del TG sui contagiati e come si stanno comportando
gli altri stati. Siamo in una pandemia. Se me
l’avessero predetto sei mesi fa, non ci avrei creduto.
L’economia globale si è arrestata, tutte le attività
commerciali non necessarie chiuse, il Presidente
del Consiglio che ci chiama “eroi” per stare rintanati
in casa. Ma i veri eroi, che stanno combattendo
questa guerra, sono i medici, infermieri e OSS che
ogni giorno popolano gli ospedali d’Italia, gli unici
posti dove trovare qualche sorta di comunità al momento.
Non eravamo pronti a questo, a smettere di
abbracciarci, stringerci la mano, da un giorno all’altro,
senza condizioni, alla polizia sulle strade che
sorveglia che nessuno esca per motivi non necessari.
Giorno dopo giorno, il mio desiderio di uscire,
prendere la macchina, il treno, un aereo, cresceva
senza che io potessi farci nulla. O forse si? Il Kindle
era fermo lì, sul mio comodino. La terza sera in quarantena
ho deciso di prenderlo e, dopo il necessario
quantitativo di tempo per capire il funzionamento,
mi sono immersa nella lettura di The Sun Also Rises,
Ernest Hemingway. Pagina dopo pagina, nel
piccolo e leggero schermo che mi trovavo davanti,
la mia mente viaggiava a Parigi, San Sebastian,
Bayonne, Pamplona… Sentivo la sua voce calda e
matura accompagnarmi in questo lungo viaggio
in un treno degli anni Venti. Il paesaggio chiaro e
grigiastro nel mio immaginario, sbiadito dal tempo
e dal tipico clima dei Paesi Baschi. Le colline che
incorniciano i caratteristici borghi con i tetti a mattoncini
rossi e le cattedrali gotiche con le facciate
monumentali e oscure. Mi sembrava di essere lì, di
camminare con lui, e il tempo si allungava e scandiva
al ritmo di una playlist jazz intitolata Something
Blue. Nella fretta del mondo che, ogni giorno, fino
a qualche settimana fa ci rendeva sempre più insicuri,
incerti sul futuro che ci correva incontro a
velocità disarmante, che ci faceva costantemente
dubitare se fossimo in grado di keep up with progress,
se fossimo capaci di diventare “validi” adulti,
se avremmo trovato un lavoro, possibilmente anche
appagante. In tutto questo traffico si è infiltrato
un virus e istantaneamente ci ha fermati tutti e ci
ha fatto riflettere sulle priorità di ognuno di noi, del
nostro Paese, del mondo intero. Credo che questo
periodo di silenzio, di tempo fermato, anche se doloroso,
farà crescere tutti noi. Prima che interrompesse
i suoi stand-ups del venerdì, Maurizio Crozza,
dando voce alla sua interpretazione dello scrittore
Mauro Corona si chiedeva “e se fosse la natura che
non ne può più del genere umano? Se fossimo noi
il vero virus della terra, che l’ha fatta ammalare, e il
coronavirus fosse l’antibiotico che la terra sta prendendo
per questo malessere che saremmo noi?”
Chiaramente è una visione estremamente satirica,
ma nella sua assurdità mi ha dato uno spunto di
riflessione. Il progresso capitalistico che il mondo
occidentale ha portato avanti, a velocità esponenziale,
dalla rivoluzione industriale ad oggi ha avuto
un impatto incalcolabile sull’ambiente e di cui i risultati
avranno una forte ripercussione sulle generazioni
a venire per migliaia di anni. Come ha sostenuto
l’oceanografa Sylvia Earle, “le decisioni che
prenderemo nei prossimi dieci anni avranno un
impatto sulla vita nel nostro pianeta per i prossimi
diecimila”. Il progresso è un’arma a doppio taglio.
Ha permesso che nelle lunghe giornate passate a
casa, studenti potessero seguire lezioni online e liberi
professionisti potessero continuare a lavorare
in modalità smart-working. Ha permesso la creazione
di un forte senso di comunità in formato digitale,
incentivando la diffusione di informazione e la
possibilità di partecipare a flash-mobs che ci fanno
sentire, in un periodo drammatico, più uniti, sotto
uno stesso cielo, sotto un’unica bandiera. Mi ha
permesso di viaggiare con la fantasia ad epoche e
posti disparati, con una semplicità disarmante. Ma
allo stesso tempo ha creato una catena di operazioni
dannose alla natura, che in questa esperienza
pandemica abbiamo visto giorno dopo giorno rallentare,
fino al quasi totale arresto. Molti paesi hanno
rallentato la loro fermata per paura di intaccare
l’economia. Wall Street, la borsa di Milano, e migliaia
di stock-markets a livello globale sono in drastico
calo. L’Europa sta elargendo milioni di euro di fondi
per sopperire all’emergenza. Ma questo momento
di stallo, tra una lezione di yoga online, un corso
di diritto con il prof che si riprende solo metà volto
e qualche film, deve darci la possibilità di riflettere.
Riflettere sul mondo, che noi, generazione del
futuro, con l’esperienza che ci portiamo alle spalle,
dobbiamo ricostruire, come vogliamo noi. Ci deve
far riflettere sulle priorità della vita o, detto in un altro
modo, su cosa resta di fondamentale quando
siamo tutti chiusi in casa presi da una pandemia. Io
per quanto mi riguarda l’ho fatto.
walk
13
14
il protagonista
di Domiziana Carloni
Era il sei marzo duemilaventi quando come molti
studenti fuori-sede ho preso lo zaino e sono banalmente
uscita per prendere il treno che mi avrebbe
riportata a casa, nella mia città di origine. Avevo sentito
in televisione e alla radio che il governo avrebbe
adottato delle misure straordinarie per combattere
il già ben noto Coronavirus, ma io non me ne preoccupavo
troppo, stavo tornando dalla mia famiglia
per trascorrere un tranquillo week-end. Così ho salutato
le mie coinquiline, avvertendole del fatto che
sarei tornata il lunedì seguente, come sempre.
È invece, oggi, il primo aprile duemilaventi e a
Roma non ci sono più tornata, né quel lunedì, né
quello seguente. Mai avrei pensato che la mia vita
e quella di altre milioni di persone sarebbe potuta
cambiare da una settimana all’altra e che le mie
abitudini (tanto consolidate da essere quasi automatismi)
sarebbero di lì a poco diventati comportamenti
vietati per tutelare la mia salute e quella del
prossimo.
La paura del nemico invisibile ha permeato e permea
ancora i nostri giorni, ci asfissia, ci priva delle
nostre libertà e della nostra quotidianità, ci fa vivere
ogni pomeriggio con il fiato sospeso fino alle ore
18.00, ora in cui la Rai trasmette il tristemente noto
bollettino della Protezione Civile.
Bollettino è parola che mi fa rabbrividire: il lessico
della guerra è tornato in voga e in tanti paragonano
ormai gli effetti della Pandemia a quelli delle scorse
Guerre.
Che Rai Uno e i vari social siano diventati la nuova
Radio Londra? Se da un lato è vero che non tutti vogliono
associare l’epidemia in corso a una guerra, è
dall’altro certo il fatto che è stata tracciata una spessa
linea di confine tra un ‘pre’-virus e un ‘post’-virus.
La nostra vita da domani in poi sarà totalmente
diversa, e questo non perché abbiamo trascorso
quaranta giorni chiusi in casa ma perchè ci siamo
scoperti vulnerabili, più di quanto ci faccia piacere
ammettere.
L’arroganza di un uomo padrone del mondo sta per
lasciare il passo alla mitezza di un uomo che si riscopre,
citando Ungaretti, una docile fibra dell’universo’,
una creatura fragile al pari delle altre che abitano
questo pianeta.
Una generazione come la nostra, senza la paura e il
senso di precarietà che abbiamo ora sperimentato,
avrebbe continuato a vivere nelle sue egocentriche
illusioni, nella venerazione delle apparenze. Nell’isolamento
e nella angoscia siamo stati costretti ad
un tête-à-tête con il nostro Io più profondo e a ridisegnare
le priorità e la scala di valori che ci guidano.
Per molti aspetti, il Coronavirus ha tirato fuori il
meglio di noi: l’Italia, che fino a Febbraio sembrava
aver perso il senso del concetto stesso di Patria,
si ritrova unita a cantare fuori dai balconi, mentre
manifestazioni di amore e solidarietà ci arrivano
da (più o meno) tutte le nazioni del mondo. Siamo
rimasti a casa per salvare la vita al nonno ultraottantenne,
all’immunodepresso e all’intero sistema
sanitario nazionale, scoprendoci un popolo che,
quando vuole, sa rispettare la legge e soprattutto
il prossimo.
Sul web spopolano foto dell’acqua cristallina dei
canali di Venezia e dei delfini che nuotano in zone
portuali o vicinissime alla costa. Sempre più testate
giornalistiche pubblicano dati relativi al miglioramento
della qualità dell’aria dopo il lock-down ma
anche studi sulla correlazione tra l’inquinamento
atmosferico e la diffusione del virus stesso.
Spero che questi messaggi siano stati recepiti soprattutto
dai leader mondiali che hanno perpetuato
politiche di deforestazione (pensiamo alle condizioni
in cui versa ad oggi la Foresta Amazzonica,
‘il polmone verde’ della terra) o che hanno messo
a repentaglio la biodiversità anteponendo interessi
economici o politici a quelli del benessere dei propri
cittadini.
Stare in casa è alienante e frustrante ma ci ha anche
insegnato che il tempo è prezioso e che le giornate
sono molto più lunghe di quanto fossimo abituati a
pensare. Non abbiamo mai avuto occasione prima
d’ora di conoscere la noia: ci è stato insegnato che
non possiamo fare a meno di produrre, di fare, di
riempire gli spazi vuoti, quando invece a volte è bello
anche soltanto lasciarsi un po’esistere. Ci voleva
davvero una pandemia per farci riappropriare del
nostro tempo?
Chissà che mondo ci aspetterà nel post-Covid. Io
spero di tornare ad uscire e di tornare a vivere sì,
ma in un mondo che, dopo un lungo letargo, si sia
svegliato diverso, più consapevole dei suoi limiti e
del suo essere fragilmente umano.
Il futuro
che verrà
15
Combattere il nemico a modo nostro
di Chiara D’Addesa
È un momento particolare e mai nessuno di noi si
era trovato negli ultimi decenni in una situazione
simile. Pensare di dover affrontare nel 2020 una
emergenza sanitaria di tale portata sembra quasi
assurdo, impensabile e surreale. Eppure, anche la
nostra generazione si trova a combattere una nuova,
atipica e diversa guerra.
Ci sono richiesti dei sacrifici in più, sacrifici che
sembrano limitare le nostre abituali libertà, che
sembrano impedirci di stare vicino a chi amiamo,
che sembrano tenerci più lontani da casa, che sembrano
voler rompere ciò che costruiamo ogni giorno
con la nostra quotidianità.
Sebbene il progresso sembra che da un lato possa
aver favorito nel corso della storia il
sorgere di situazioni emergenziali
come questa, dall’altra parte è stato
ed è esso stesso il mezzo per arrivare
ad una possibile e reale risoluzione.
È grazie al progresso della tecnologia
che le nostre vite, seppure stravolte
e caratterizzate da una nuova
e diversa quotidianità, sembra riescano
a trovare il modo giusto per
andare avanti, non volendo arrendersi
ne fermarsi di fronte ad un nemico
apparentemente ingestibile e
più grande di noi. Grazie all’utilizzo
di molti siti, app e piattaforme web
è possibile per tantissimi lavoratori
accedere allo smart working, per
tantissimi studenti portare avanti i
propri studi e il proprio percorso formativo,
per tante persone bisognose o alla ricerca
di aiuto e consigli su come gestire questa situazione
e questo tempo, che spesso sembra essere morto
ed infinito, trovare attraverso il web la risposta ai
propri dubbi e la motivazione per non scoraggiarsi,
per non lasciarsi andare e per provare, nonostante
tutto, a dare un senso ad ogni giornata, a utilizzare
in modo intelligente, creativo e magari anche innovativo
le ore trascorse tra le mura di casa.
Circolano in rete da giorni tantissime iniziative volte
a farci scoprire il web e le sue potenzialità sotto
un altro punto di vista, mostrandoci sempre di più
quanto il progresso, se gestito nel modo giusto, abbia
delle potenzialità davvero inaspettate e di grandissima
portata!
Ad oggi sono già innumerevoli le aziende e gli enti
che hanno deciso di regalare dei contenuti gratis e
di qualità per aiutarci a mantenere l’umore alto e
migliorare le proprie skills in diversi ambiti.
Innanzitutto, pensando agli studenti di tutta Italia,
© Tyler Spangler
16
la Tv sembra voler fare uno sforzo per facilitare e coltivare
le conoscenze dei giovani anche a distanza.
La Rai, ad esempio, ha annunciato che le reti hanno
pensato a riprogrammazione focalizzata sul mondo
della scuola con lezioni in diretta per le scuole primarie,
secondarie di primo e secondo grado. Sono in
partenza e già in svolgimento anche altre produzioni
tra cui una dedicata agli studenti che affronteranno
quest’anno la Maturità con programma live per ragazzi
di 3 ore al giorno. Da sottolineare, inoltre, il progetto
di Solidarietà Digitale, un’iniziativa del Ministero
dell’Innovazione che ha coinvolto tantissime aziende
con vari servizi gratuiti per tutti i cittadini, ma anche
tanti corsi online gratuiti messi a disposizione dalle
università di tutto il mondo per andare a coltivare le
proprie passioni e rinfrescare le conoscenze (come
nel caso della piattaforma Coursera
o dei cosiddetti MOOC) e tanti tour
online dei più famosi musei del mondo
che custodiscono opere d’arte di
inestimabile valore ora da poter visitare
direttamente da casa.
Una cosa fondamentale in questo
momento è anche supportare chi
sta soffrendo di più, chi si trova in
prima linea per salvare ogni giorno
le vite di tantissimi cittadini tra
cui medici, infermieri e tutti gli altri
operatori ospedalieri. Grazie alla
portata di diffusione e condivisione
dei social si sono create, promosse
e diffuse tante raccolte fondi ufficiali
per rafforzare i reparti di terapia
intensiva di tanti ospedali, per
offrire aiuto e risorse alle strutture
sanitarie più bisognose, tra cui, ad
esempio, anche quella avviata dalla nostra community
di studenti Luiss per offrire supporto all’Istituto
nazionale per le malattie infettive Spallanzani
di Roma, il quale dall’inizio della vicenda ha fatto
davvero l’impossibile.
Unendo le forze, usando le risorse del nostro tempo
è davvero possibile regalare speranza, trovare la forza,
contribuire a fare la differenza e a risolvere, seppur
a modo nostro, un problema che appare più
grande di noi. Per ogni sacrificio e azione di oggi,
troveremo maggiore tranquillità domani, riuscendo
a ritornare il prima possibile a quella quotidianità,
spesso tanto odiata e forse solamente adesso così
apprezzata, che tutti noi temiamo di aver momentaneamente
perso.
lifestyle
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di Luca Vesperini
Il contatto fisico è ciò che distingue l’uomo da altri
animali. Da una calda stretta di mano, da un abbraccio
affettuoso sino ad una pacca sulla spalla,
abbiamo sviluppato linguaggi complessi, culture
ed espressioni emotive attraverso il contatto fisico.
Eppure siamo arrivati ad avere un mondo saturo di
tecnologia dove esistono emoticons per ogni stato
d’animo, reazioni alla storia e chat ovunque; ma che
fine hanno fatto quelle facce rosse dall’imbarazzo,
la tenerezza di un bacio, la sicurezza nella stretta
di mano, l’incognita di chiedere una prima uscita
guardandola negli occhi, la felicità che ti fa cantare
a squarcia gola? In questi giorni chiusi in casa
sto pensando proprio a questo: al come sia possibile
che, pur avendo la possibile di contatto fisico,
di apprezzare le emozioni personali e altrui, di
commuoverci, siamo arrivati a scriverci molto ma a
comunicarci poco, siamo inespressivi di persona e
ci inviamo mille facce e reazioni per trasmettere ↓
Cosmoluiss
scritti o addirittura a immagini e animazioni.
Tuttavia proprio quando la comunicazione digitale
ha iniziato a dare assuefazione ci siamo riscoperti
deboli e vulnerabili senza. In questi giorni è ↓
Io ti sto toccando
quello che non riusciamo a dire con le parole.
Nonostante i vantaggi dell’avanzamento digitale, è
fondamentale preservare il contatto umano affinché
possiamo dire di vivere veramente.
Infatti gli esseri umani diventano quasi irriconoscibili
in assenza di contatto fisico. Basti pensare che
duecento anni fa, degli scienziati francesi hanno
scoperto una creatura simile ad un essere umano
disperso nella foresta. Una volta catturato, hanno
determinato che aveva 11 anni e aveva corso selvaggiamente
nelle foreste per gran parte della sua infanzia.
Il ragazzo, Victor, presentava un forte ritardo
mentale; i medici e gli psichiatri francesi alla fine
conclusero che era stata la privazione del contatto
fisico umano ad aver causato un ritardo delle sue
capacità sociali e di sviluppo. Questa è l’estrema
conseguenza di un’assenza totale di contatto fisico
con altri uomini, tuttavia dobbiamo considerare
che i canali di comunicazione digitali non ci hanno
di certo resi selvaggi ma forse ci hanno resi più
aridi nei rapporti personali. Non sappiamo più cosa
raccontarci quando ci incontriamo perché già abbiamo
detto tutto per messaggio. Proprio per rispondere
a questa esigenza lo smartphone si è trasformato
ad appendice del nostro corpo e sempre
più spesso l’oralità ha lasciato il posto a rapidi testi ↗
impensabile poter vivere senza nessuna persona vicino
o senza sentire qualche nostro amico. Tutti si
ripetono “quando finiranno questi gironi ci incontriamo,
non vedo l’ora di abbracciarti” ma quante
volte nella nostra vita avremmo detto una frase del
genere? Credo poche o comunque non così frequentemente.
Non siamo capaci a restare distanti
se consideriamo anche l’esistenza di una fame molto
particolare che alcuni studiosi chiamano “skin
hunger”, letteralmente fame di pelle, altro non è
che una carenza di contatto, che al pari della fame
che ci spinge a mangiare, questa particolare fame
ci richiede di avere contatti con altre persone
perchè semplicemente ne abbiamo bisogno. Forse
in questi giorni oltre ad esserci un’epidemia di covid-19
c’è anche un’epidemia di skin hunger meno
pericolosa e sicuramente guaribile.
La possibile cura che potrei ipotizzare è una gestione
del processo digitale e comunicativo trasformandolo
in opportunità dell’esperienza umana
e non mera essenza del rapporto poiché tutto ciò
che avverrà da questo momento in poi inciderà nel
significato stesso di essere umano. Vorrei smettere
di pensare inconsciamente “io digito questo messaggio”
vorrei solo dire: “IO DICO”, “IO SONO QUI”,
“IO TI STO TOCCANDO”.
19
sport
Quali prospettive
di Marco Pauletti
La crisi sanitaria che sta attanagliando il nostro paese
in questo periodo, ha pochi, pochissimi precedenti
storici. Seppur sotto altro profilo, con le dovute
precauzioni, è ragionevole il confronto con il secondo
dopoguerra. Infatti, da quando fra fine febbraio
e inizio marzo il paese è stato messo in quarantena,
sotto ogni punto di vista, l’Italia sta facendo innumerevoli
sacrifici: a partire dalla locomotiva economica
del paese, passando per le singole imprese,
piccole medie e grandi, liberi professionisti, lavoratori
autonomi e così via. Numerose famiglie pagano
a caro prezzo la spesa per il sostentamento; le
scuole e le università sono state chiuse, utilizzando,
con riscontro assai positivo, la modalità telematica.
Sicuramente vanno considerati anche gli aspetti
positivi, primo fra tutti la diminuzione dell’inquinamento
dell’aria che respiriamo.
Sarebbe inopportuno – forse – paragonare queste
situazioni drammatiche a un aspetto che, ad ogni
modo, non va trascurato: il mondo sportivo. Infatti,
lo sport in Italia, specie a livello dilettantistico soffre
le gravissime conseguenze di questa situazione,
E’ chiaro che le persone che lavorano in questo
mondo lo facciano più per passione, attaccamento
a una certa società, affiatamento con una squadra,
ambizione, piuttosto che per una remunerazione.
Ma è chiaro che è un aspetto da considerare, soprattutto
in riferimento a società che sono concessionarie
di un terreno (spesso a fronte di un canone
di locazione molto elevato). Il governo, con il decreto
“Cura Italia”, si è già attivato per sanare eventuali
problematiche, preferendo prevenire i danni futuri:
la prima fondamentale azione è stata quella di sospendere
e interrompere tutti i canoni di affitto di
terreni, palestre o palazzetti. Ma, è chiaro, sarà necessario
un intervento più decisivo e penetrante. Il
paragone con una situazione simile già affrontata
in passato è inevitabile ora.
E’ innegabile quanto l’attività sportiva sia salutare,
sia dal punto di vista fisico (a livello cardiaco-respiratorio)
sia dal punto di vista sociale (per un bambino
è fondamentale intraprendere diverse relazione
con amici o coetanei praticando attività, all’aria
aperta o meno). In questo particolare e delicato
momento questo non è possibile e uno dei rischi
maggiori è quello di portare alcuni ragazzi in giovane
età all’abbandono dello sport praticato oppure,
di gran lunga peggio, allo sport in generale.
Una situazione analoga si presentò, per il nostro
paese circa settant’anni fa: l’Italia del secondo dopoguerra
si presentava come un paese con un
enorme bisogno di ricostruirsi dalle fondamenta
e ripartire dopo un ventennio di dittatura e cinque
anni che la videro al centro di un palcoscenico di
atroci conflitti. Durante quegli anni i campionati
vennero sospesi e le olimpiadi rimandate. Certamente
lo sport in Italia non era sotto la lente del
ciclone come lo è ora: il professionismo, infatti, ancora
non esisteva. In quegli anni si decise di far ripartire
lo sport dilettantistico in Italia come forma
di aggregazione sociale, come fonte di fiducia e ottimismo
per uno stato in ginocchio. I partiti politici
seguirono alla lettera questa ideologia e si affidarono
a società sportive per consolidare l’organizzazione
e l’attività sportiva fra i giovani. Nel 1944 era
stato nominato Giulio Onesti come commissario
straordinario per la liquidazione ma, al contrario,
egli riuscì a salvare l’ente e a rilanciarlo socialmente
ed economicamente. La prima grande iniziativa
fu quella di istituire una organizzazione di concorsi
per pronostici e scommesse sportive: nascono la
SISAL e il Totocalcio, i cui introiti finanzieranno per
metà il CONI e per metà lo Stato. L’espressione “fare
13” diventerà comune e le domeniche non saranno
più giorni dedicati esclusivamente alla messa, ma
anche ad altre fedi.
Nel 1948 nascono i gruppi sportivi “Fiamma” (Fiamme
Oro, Fiamme Gialle ecc.). Sono gli anni del
20
(sportive) per l’Italia che verrà?
Grande Torino, degli scudetti granata, di una sponda
di Torino che oggi calcisticamente riteniamo insolita,
ma che all’epoca era dominante in Serie A e
in Europa: la sventura volle che, un tragico giorno
di maggio, l’aereo che li riportava dal portogallo a
Torino, si schiantò a Superga e quella squadra di
fenomeni morì nello schianto, consegnandosi alla
storia. Nel Novembre del 1945, la nazionale giocò
la prima partita del dopoguerra a Ginevra, contrò
la Svizzera: finì 4-4, ma la partita passò alla storia
per un altro motivo. Da questo momento, infatti,
aprimmo le frontiere ai giocatori stranieri nel nostro
campionato (Hansen nella Juventus di Agnelli
oppure il trio Gren-Nordahl-Liedholm al Milan).
Il giro d’Italia di quegli anni passò alla storia per la
meravigliosa rivalità fra Fausto Coppi e Gino Bartali,
che divise inizialmente i più appassionati. Le indimenticabili
edizioni della più nota competizione
ciclistica italiana durante il periodo post-bellico, ci
venivano trasmesse dalla penna del bellunese Dino
Buzzati, in una raccolta poi pubblicata nel 1981: da
questo momento in poi il giornalismo sportivo non
sarà più lo stesso. Raramente abbiamo assistito a
rivalità come quella fra Coppi e Bartali (momento
emblematico è senza dubbio il passaggio della borraccia
al Col du Galibier), una rivalità che, addirittura,
si credeva avesse anche sfondo politico: dopo
le elezioni del 1948 i due maggiori partiti erano la
Democrazia Cristiana e il PCI e si credeva che Coppi
fosse comunista, mentre Bartali era il democristiano.
Non ebbero esito simile alla politica le loro competizioni:
Coppi riuscì a vincere due tour de France
(nel 1949, lasciando al rivale il secondo posto del
podio, e nel 1952) e ben quattro giri d’Italia, mentre
Bartali solo uno, arrivando molto spesso alle spalle
del piemontese.
1960 a Roma. Siamo nel pieno del boom economico
e l’Italia inizia a risorgere. Già a Londra nel 1948
avevamo ben figurato: nacque la leggenda del Settebello
(primo oro olimpico) e la doppietta nel lancio
del disco Consolini-Tosi. Dopo essere ripartita a
livello locale, fu proprio grazie a queste due grandi
manifestazioni che l’Italia si riaffacciò sulla scena internazionale
facendo la voce grossa. Le olimpiadi,
specie quelle romane, diedero linfa vitale alla capitale
che realizzò e una serie di costruzioni, sportive
e non, che cambieranno per sempre il volto della
capitale: basti pensare al viadotto di Corso Francia,
l’olimpica, tutto il foro italico (nonostante fosse stato
già edificato in epoca mussoliniana), il palazzetto
dello sport all’EUR, lo Stadio Flaminio o lo stesso
quartiere realizzato per gli atleti, il Villaggio olimpico,
ancora oggi esistente.
In un momento di difficoltà, lo sport fu senza
dubbio uno strumento che aiutò la popolazione
a ripartire dal basso prima e successivamente a
livello mondiale. Siamo tutti figli di quella generazione.
Quando le cose si complicheranno e sarà
difficile ripartire, bisognerà ispirarsi a quegli anni e
quell’impulso che diede vita a un paese che era in
ginocchio e che nel giro di pochi anni diventò una
potenza mondiale.
Sempre più associazioni si affiliano al CONI, che sotto
la guida di Onesti raggiunge due notevoli risultati:
le olimpiadi invernali del 1956 si svolgeranno a
Cortina (le prima teletrasmesse) e quelle estive del
21
Ci vuole molto coraggio…
di Gaetano Amore
Come reagisce al presente l’industria musicale
“Il futuro ci spaventa più di ogni cosa”, cantavano
gli Psicologi in un pezzo di qualche settimana fa. E
non c’è niente di più vero, soprattutto in un periodo
come questo.
Da quando questo periodo assurdo (non riesco veramente
a trovare altro modo per definirlo) è iniziato,
giorno dopo giorno abbiamo fatto i conti con le
cose, o le persone, che ci mancavano di più.
Personalmente, e so di non essere solo, una delle
cose che più manca in questo periodo, ovviamente
oltre alla libertà di movimento e alla mia Famiglia,
sono i concerti. La musica live negli ultimi anni ha
visto una crescita esponenziale, ed è importantissima
all’interno del sistema Paese. L’avvicinamento
di molte più persone ai live, grazie alla diffusione
dello streaming ed alla capillarità che nuovi artisti
hanno avuto grazie a questo, ha permesso che gli
esponenti della nuova generazione dell’Indie trovassero
fin da subito un grande riscontro di pubblico,
senza nemmeno contare i grandi nomi del pop
italiano o gli esponenti della musica internazionale
che affollano piazze e stadi in tutto il Paese. Inoltre,
la crescita e la diffusione su tutto il territorio nazionale
del modello dei Festival come nel resto d’Europa,
ha permesso che molta gente iniziasse a vivere
il live come una vera e propria esperienza “di vita”,
appunto.
Lo shutdown ha abbassato la saracinesca su centinaia
di attività, così come ha tagliato improvvisamente
le gambe al settore della musica. Tutti
gli eventi sono stati sospesi, come in un limbo che
non si sa quando terminerà, altri definitivamente
cancellati. Alcuni hanno avuto il coraggio, come in
un ultimo grido disperato di speranza, quasi una
preghiera, di riprogrammare verso l’autunno o comunque
verso la fine del 2020 alcuni eventi, con la
speranza che tutto possa essere finito.
Già, ma quando sarà finito tutto questo? Nessuno
può dirlo con certezza, quel che è certo è che
questi saranno gli eventi che riprenderanno
per ultimi, per- ché i più difficili in cui
far rispettare il distanziamento sociale.
C’è chi dice
addirittura
autunno 2021, con l a
consapevolezza che
se il vaccino dovesse
essere pronto prima si
potrebbe ripartire già in
primavera magari, non sacrificando
un’altra stagione
estiva ed evitando il collasso
definitivo di un settore fondamentale
per la cultura e l’economia:
secondo le stime di Assomusica,
infatti, fino alla fine di
maggio ci saranno 4200 eventi
saltati, con 63 milioni di perdite solo
per il settore dei live, che arrivano a
130 per tutto l’indotto.
Ci sono priorità, è chiaro. Ma è altrettanto
chiaro che servirà capire
come ripartire. Il settore musicale
è stato colpito e quasi affondato e
gli appelli di questi giorni, uno su
tutti quello di Tiziano Ferro, hanno
portato un’attenzione diversa,
...perchè la
palintesto
22
di Giulia Castriota
La pandemia, “πανδήμιος”, è sostantivo femminile
derivante dal greco, è la crasi tra il complemento di
“παν” e il sostantivo “δῆμος”, letteralmente si traduce
“tutto il popolo” ed è forse proprio questa traduzione
letterale, che mette in luce l’aspetto più crudo
di un’epidemia, ossia il fatto che colpisce senza far
caso ad età, sesso o tantomeno estrazione sociale,
ad affascinare le penne più illuminate e ferventi
della letteratura mondiale.
Philip Roth con “Nemesi”, romanzo ambientato
nell’estate del ’44, racconta di una guerra nella
guerra, il protagonista è un giovane americano,
che per colpa di un difetto alla vista non si è potuto
arruolare, ma nonostante ciò si trova a contrastare
un nemico subdolo ed inafferrabile, la poliomielite.
l’ottava nota
spesso sottovalutata. Il primo pensiero, sbagliato,
che arriva dalla pancia del Paese, è che ovviamente
uno come Tiziano Ferro non abbia diritto di parola,
“perché di sicuro non ha problemi di soldi in questo
periodo e che chi ha problemi è qualcun altro”.
Quello che la gente ci ha messo un po’ a capire, ma
l’ha capito, è che un artista con la risonanza di Tiziano
Ferro vuole portare l’attenzione NON su di lui,
ma su quei lavoratori dell’industria musicale che
non hanno tutela e che, senza gli introiti dai singoli
eventi o dai tour, non hanno veramente modo di
andare avanti. Purtroppo, in Europa, è toccato all’Italia
di aprire le danze di questo ballo al quale nessuno
avrebbe mai voluto partecipare. Non tocca a
me giudicare l’operato di Governo e Regioni, quello
che mi sembra chiaro è che non è andato tutto
bene e che non tutto potrà andare bene. Quello
che possiamo fare è chiedere alle Istituzioni di valutare
scenari possibili, altrimenti saremo un’altra
volta impreparati.
Fortunatamente, per una volta, la maggior parte
degli artisti si è schierata compatta, nemmeno per
aiutare sé stessi, ma per aiutare tutti quei lavoratori
che, non essendo star, con quel lavoro pagano
il necessario per vivere. Mi riferisco ai tour manager,
a chi monta i palchi, ai fonici o a chi, magari,
in condizioni normali vi insegna a suonare uno
strumento. E di questo si parla pochissimo. Ma
il settore della Musica e dell’Intrattenimento in
generale come potrà reggere ad una emergenza
che diventa sempre più lunga? Io non ho delle
risposte, nessuno le ha e, soprattutto, nessuno
pretende che qualcuno le abbia, non avendo
le Istituzioni una sfera di cristallo.
Speriamo solo di rivederci presto. In un club, in
un teatro, nei palasport, negli stadi, nelle arene e
nelle piazze. Certi che, per allora, tutto questo sarà
finito e che, quando ci rivedremo, il nostro primo
applauso sarà per loro. Per chi in questi mesi ci è
mancato così tanto. Ed anche per chi, quello spettacolo
al quale stiamo assistendo, ha contribuito a
realizzarlo. E certi altrettanto che gli artisti sapranno
processare questa inquietudine per sorreggerci
e consolare le nostre anime turbate.
Quando si sceglie un lavoro come questo perché
“una vita a timbrare il cartellino non l’avrei mai e poi
mai voluta”, non significa che non si meriti tutela.
Bisogna tenere duro. È soltanto un’altra bella sfida
servita su un piatto d’argento, della quale probabilmente
avremmo volentieri fatto a meno.
“Ci vuole molto coraggio!”.
© Alessandro Romano
www.rifugiomusicale.com
lettura è un’immortalità all’indietro
Nel corso della narrazione Roth fotografa il quadro
completo delle emozioni che la pestilenza ingenera
nei personaggi, giocando tra i loro vari punti
di vista, passando dalla più
23
cruda paura della malattia,
al dubbio che si trasforma in
estraneità verso un Dio che
permette che tutto ciò possa
verificarsi, indifferente alle vicende
degli uomini.
Jack London nel 1912 e Josè
Saramago nel 1995 con i loro
rispettivi romanzi “La peste
scarlatta” e “Cecità”, partendo
da un assunto fantasioso ed ipotetico, dato da due
malattie surreali, la prima, si intuisce dal nome, prima
di portare alla morte rende la pelle del malato
completamente scarlatta, la seconda, che viene
chiamata nel romanzo “il mal bianco”, consiste in
una cecità che viene paragonata all’essere immersi
in un mare di latte ad occhi
Immortale è
chi accetta l’istante.
Chi non conosce
più un domani.
(Cesare Pavese)
aperti, riescono ad essere
incredibilmente profetici su
ciò che potrebbe comportare
una pandemia in una società
moderna.
London ci porta nel 2073
in California e all’interno di
uno scenario post-apocalittico,
racconta le vicende dei
pochi sopravvissuti, tra cui
un vecchio che dinanzi ad un gruppo di ragazzi,
rimembra di come il morbo diffusosi sessant’anni
prima avesse portato l’umanità alla quasi completa
estinzione. Rendendosi depositario del passato
avvisa i giovani sul rischio di ripetere i
medesimi errori.
Saramago descrive una pandemia che porta
all’abbrutimento di ogni forma di umanità.
L’unico brandello rimasto si incarna nella
figura di una donna, “la moglie del medico”,
ancora capace di vedere. Chi legge è
portato alla cecità dalla mancanza totale di
riferimenti, non vi è una collocazione spazio-temporale,
i personaggi non hanno volti,
ma epiteti, di loro si conosce solamente l’angosciata
disperazione, che si tramuta spesso
in violenza verso il prossimo. La malattia
dilaga e gli infetti sono rinchiusi in un manicomio,
sorvegliato da soldati privi di pietà,
che non esitano a trucidare chiunque tenti
la fuga ed è qui che la moglie del medico,
circondata da violenza e brutalità, combatte
piccole battaglie per portare in salvo ciò che
rimane di una popolazione condotta alla follia,
da una cecità che si rivela essere sempre
più metaforica che reale.
Alessandro Manzoni, nella seconda edizione
della sua celebre opera “I Promessi Sposi”,
pubblicò in appendice un saggio storico
dal titolo “La storia della colonna infame”,
nel quale ricostruisce i fatti storici risalenti
al 1630 durante la peste a Milano. Nel saggio
viene in luce come il potere e la paura
possano condurre l’uomo a mettere in atto
ingiustizie tali, da assumere dei connotati
paradossali. È la narrazione di un’indagine
caratterizzata da minacce e torture, che
portano all’arresto di altri personaggi, tra cui
un barbiere, che vende balsami curativi, in
tribunale definiti come pozioni pestilenziali.
La sentenza decreta la condanna a morte
di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, e
dopo l’esecuzione la casa del barbiere viene
rasa al suolo e sulle sue ceneri è eretta una
colonna a memoria dell’infamia per gli untori.
Manzoni condanna le autorità, nel caso
inquisitori e magistrati, di aver forzato la procedura
giudiziaria contro degli innocenti,
con l’unico scopo di trovare un colpevole al
terribile male che affliggeva Milano e placare
i lamenti della popolazione.
Le voci di questi autori danno ragion d’essere
al titolo di questo breve scritto, l’affermazione
con cui Umberto Eco ha saputo definire
la lettura come una forma di immortalità,
perché se nulla ci è concesso sapere sul
futuro, del passato, per quanto lontano e
diverso dal presente possa essere, ci è permesso
conoscere ogni sua sfaccettatura, per
non reiterare gli stessi errori già commessi,
bensì per imparare da questi. Se è vero che
ogni lettore, quando legge, legge sé stesso,
come sosteneva Proust, avventurarsi in uno
di questi testi potrebbe diventare come un
viaggio interiore, teso al miglioramento individuale
di ognuno di noi, ed è forse ciò che
questo mondo merita.
GEOS
Cult
di Antonio Attolico
Controllare il clima?
Una delle sfide che l’umanità contemporanea si
trova ad affrontare, oltre alla crisi epidemica corrente
e le sue conseguenze economiche su paesi
sviluppati, in via di sviluppo e sottosviluppati, è sicuramente
il cambiamento climatico. Una realtà
che deve essere osservata in un’ottica più ampia,
di cui il riscaldamento globale connota un’accertata
fonte, e un probabile catalizzatore. In merito al
tema, per fornire una cornice ad hoc alla pellicola
di cui si tratterrà, è necessario far riferimento alle
catastrofi più o meno recenti che hanno coinvolto il
globo nell’ultimo decennio. Senza riprendere eventi
troppo distanti infatti, questo secolo ha già assistito
a disastri come lo Tsunami di Sumatra (2004),
l’Uragano Katrina (2005), i terremoti di Haiti (2010)
e Tohoku (2011), e “La Nina” nell’Africa Subsahariana
(2011) che ha realizzato la siccità più dannosa degli
ultimi 100 anni.
Questo riepilogo è utile per contestualizzare l’incipit
di “Geostorm”, disaster movie del 2017 diretto da
Dean Devlin, alla sua prima esperienza da regista,
ed interpretato dall’ormai cult Gerard Butler, nei
panni di un tecnico americano intento a salvare il
mondo da una tempesta globale imminente. Infatti,
la sequenza si apre con una narrazione sul come
a seguito di una serie di catastrofi naturali, i governi
della terra si siano accordati per implementare un
sistema di satelliti in orbita geostazionaria, con lo
scopo di controllare il clima attraverso la manipolazione
di acqua, pressione e calore, e intervenire
nell’alterare fenomeni metereologici. Soluzione,
questa, che sembra funzionare, e sembra permettere
all’uomo di controllare la natura a suo piacimento,
soltanto che la situazione precipita quando
il sistema informatico viene infettato da un virus,
programmato dall’uomo, con l’obiettivo di causare
una catastrofe metereologica su scala mondiale.
24
TORM
Da escludere, riflettendoci su
Purtroppo, la trama lascia a desiderare per la sua
semplicità di sviluppo e per la mancata evoluzione
dei personaggi coinvolti, che non si trovano a crescere
nella loro sfera personale e relazionale. Tutti
i rapporti cambiano meccanicamente, non dando
allo spettatore la possibilità di immergersi negli
attori, al contrario, in prossimità dello scioglimento
finale sembrano forzate delle fasi perché necessarie
alla conclusione del film con un aspettato
lieto fine, in cui Jake Lawson, protagonista, riesce
nell’impresa salvando tutti, compreso il presidente
degli Stati Uniti, figura ambigua e poco dinamica
fino agli ultimi passaggi in cui abbaglia con una
serie di interventi, prima di risparire sullo sfondo di
una storia che lo vede poco incidente. Sicuramente,
considerata la categoria del film, merito va dato
alla sceneggiatura per gli effetti speciali, che sono
in grado di riprendere nel film backgrounds variegati,
passando dallo spazio, a diversi siti terrestri, tra
cui Cape Canaveral, Hong Kong, Orlando, Dubai e
villaggi in India ed Afghanistan, oggetto di scenari
apocalittici resi con una varietà ed una veridicità
molto efficace.
Ciononostante, il punto davvero forte rimane il
tema trattato, che riecheggia per l’attualità dello
script, sulla questione climatica in sé e sull’effettivo
progresso tecnologico in rapporto a quest’ultima.
Riverberato è il motto “Chi controlla il clima, controlla
il mondo”, che nel film è manifestato tramite
l’impiego di 1270 satelliti artificiali, gestiti dalla ISS
(Stazione Spaziale Internazionale), che formano
una rete di sensori, recettori ed esecutori che intervengono
sugli elementi principali dei fenomeni
atmosferici, come elencati sopra. Molto enfatica è
la scena iniziale, in cui una tempesta viene interrotta
tramite l’impiego di questo sistema, che agendo
sui cumulonembi, provoca uno schiarimento immediato
del cielo ripreso.
La soluzione adottata nel film permette una rifles-
sione, specialmente in una società dove il progresso
tecnologico cerca di essere considerato come
la soluzione a ogni problema. Una costellazione di
satelliti, già è utilizzata realmente per supportare il
Global Position System (GPS), e quindi non parrebbe
neanche astratta, se solo fosse efficace e se solo
fosse conveniente. L’impiego di una simile tecnologia
aprirebbe quesiti su tre piani, con i rispettivi vantaggi
e svantaggi. Da un punto di vista politico-giuridico
questa soluzione porterebbe sicuramente
una diminuzione in valore assoluto delle catastrofi,
ma imporrebbe il duro compito di scegliere su scala
globale a chi attribuire la responsabilità e quindi le
conseguenze delle scelte su questo sistema d’azione.
Considerando il piano scientifico invece, l’utilizzo
di tale tecnologia permetterebbe una costante
permanenza di condizioni climatiche migliori, che
incentiverebbero la produttività di alcune attività
umane, ma finirebbero per alterare sicuramente i
cicli naturali, e manomettere un sistema che è in
continuo bilanciamento autonomo. Infine, sul piano
etico apparirebbero da un lato la piacevole adattabilità
della natura alle necessità umane, dall’altro
creerebbe spazio per una pericolosa illusione di onnipotenza,
e per brame di ascesa individualista.
Nonostante l’ipotesi fantascientifica di rifugiarsi in
una tecnologia simile, questa è sicuramente una
soluzione impraticabile per il momento storico corrente.
Trascurando ulteriori problemi esistenti, l’impiego
di tali ingenti quantità di capitale, materiale e
lavoro non rientrano nell’interesse di nessuno stato.
Tuttavia, l’impegno che può essere richiesto e che
dovrebbe essere implementato è sicuramente in
primis di tipo politico. Esempi come il protocollo di
Kyoto (1997), gli accordi di Doha e di Parigi (2016),
dimostrano un concreto passo avanti verso disposizione
di regole, utili per contrastare il riscaldamento
globale, fattore accelerante di questa pericolosa
escalation. In fondo, le conseguenze di un clima in
costante cambiamento, non si ripercuotono su di
noi esclusivamente in modo diretto aumentando la
probabilità di avvenimenti disastrosi su larga scala,
come uragani o incendi. In aggiunta, c’è l’ulteriore
corollario di modificare l’habitat e le consuetudini
di animali particolari, che più a contatto con la società,
trasmettono nuove patologie. Basti pensare
al CoVid-19 nella crisi corrente o la MERS in Arabia
Saudita, entrambi dovuti al contatto sempre più
ravvicinato con animali non ordinari che tempo
fa non avrebbe avuto ragione di essere considerato
un problema. Per questo motivo, è importante
prendere in considerazione il problema e le misure
per contrastarlo, senza sottovalutare o sminuire
l’implemento delle stesse, per evitare di sfociare in
all’alba di una crisi mondiale, una geostorm.
In questo momento storico, si ritiene prendere
come monito, consiglio, avvertimento la frase conclusiva
del film: “Non si può cambiare ciò che è stato
fatto, si può solo affrontare ciò che verrà, un pianeta,
una popolazione, e finché ci si ricorderà che
si condivide un unico futuro, allora si sopravvivrà”.
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