DaTizianoaRubens_IT
Catalogo della mostra Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe, a Palazzo Ducale, Venezia, 2019/2020
Catalogo della mostra Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe, a Palazzo Ducale, Venezia, 2019/2020
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Nel 2017 la Casa di Rubens ad Anversa ha ricevuto in prestito
da una collezione privata due eccezionali capolavori: L’angelo
annuncia il martirio a Santa Caterina d’Alessandria, un dipinto
generalmente noto come “il Tintoretto di David Bowie”, e il
Ritratto di dama con la figlia, uno dei rari doppi ritratti di Tiziano,
che raffigura una donna con la propria figlia.
Per dare il dovuto rilievo al ritorno di queste due opere iconiche
a Venezia, la loro città d’origine, la Fondazione Musei Civici di
Venezia, in collaborazione con la Flemish Community, la Città di
Anversa e VisitFlanders, ha organizzato una grande retrospettiva
sull’arte fiamminga. Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa e da
altre collezioni fiamminghe presenta una panoramica dettagliata su
quanto di meglio la pittura fiamminga ha da offrire. La mostra
accoglie prestiti importanti dai principali musei delle Fiandre che
dispongono di significative collezioni d’arte del XVII secolo. Viene
presentata inoltre una selezione di pregevoli dipinti provenienti
da collezioni private fiamminghe. Capita raramente che questi
capolavori, sia pubblici che privati, lascino le loro sedi e in questa
mostra molti di essi sono esposti al pubblico per la prima volta.
Da Tiziano a Rubens
Da Tiziano
a Rubens
Capolavori da Anversa e
da altre collezioni fiamminghe
9 789461 6 11123
Da Tiziano a Rubens
DaTiziano
a
Rubens
Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe
La nostra Città è orgogliosa di presentare la mostra Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa
e da altre collezioni fiamminghe nella prestigiosa sede di Palazzo Ducale. Attraverso un percorso
ricco di capolavori, la mostra narra la storia dei rapporti, gli scambi culturali, le reciproche
influenze tra due città solo apparentemente lontane: Venezia e Anversa, accomunate
dall’affaccio sul mare, dall’importante vocazione mercantile e dal fermento culturale.
Le due città si scambiarono artisti, opere, libri, manufatti e saperi sin dal Medioevo, quando
una rotta commerciale collegava i due porti dalla valle del fiume Reno al valico sulle Alpi.
La mostra porta a Venezia più di 80 capolavori provenienti dalle collezioni dei musei più
importanti della Regione delle Fiandre: primo fra tutti il Rubenshuis – la Casa di Rubens,
che ospita il museo a lui dedicato diretto dal curatore di questa mostra, Ben van Beneden.
Altri musei della città di Anversa hanno contribuito in modo determinante con grandi
capolavori : il Museo Reale delle Belle Arti di Anversa (KMSKA), il Museo Plantin-Moretus,
il Museo Mayer van den Bergh, il Museo Vleeshuis, il Museo della Casa di Snijders&Rockox
e il MAS, Museum aan de Stroom. Prestiti importanti sono giunti anche da altre città delle
Fiandre, come Gent, Bruges, Lovanio. Mai così tanti capolavori avevano lasciato le Fiandre
per trasferirsi presso un’unica sede all’estero. Una partecipazione eccezionale che Venezia
accoglie con gioia e con orgoglio.
Questa mostra nasce dalla felice collaborazione con le istituzioni fiamminghe nostre
partner in questo progetto: la città di Anversa, VisitFlanders e la Comunità fiamminga,
dipartimento della Cultura, Gioventù e Media. Il Comune di Venezia e la città Metropolitana
sono lieti di porsi come interlocutore attivo e propulsore di nuove idee, puntando a rafforzare
il ruolo di Venezia protagonista sul piano culturale in campo internazionale.
Il mio ringraziamento più vivo va dunque al sindaco di Anversa Bart De Wever,
convinto sostenitore dell’iniziativa, al Ministro del Turismo fiammingo, all’Ente del turismo
VisitFlanders e al Ministro della Cultura del governo fiammingo, che hanno coprodotto la
mostra e sostenuto il progetto con grande convinzione e generosità.
Luigi Brugnaro
Sindaco di Venezia
La cooperazione internazionale che la Fondazione Musei Civici di Venezia ha già avviato nel
corso delle passate esposizioni a Palazzo Ducale, da Tintoretto nell’inverno 2018 a Canaletto
nella primavera 2019, continua raccontando un altro interessante episodio dell’irradiarsi
della cultura veneziana nel mondo. Con la mostra Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa
e da altre collezioni fiamminghe viene portata alla conoscenza del grande pubblico una fase
straordinariamente felice dei rapporti tra Venezia e le Fiandre, quando un intenso scambio
di persone e idee portava molti artisti fiamminghi a intraprendere il viaggio attraverso le
Alpi per raggiungere la città lagunare. Venezia fu lo scenario tra fine Cinquecento e inizio
Seicento di un fitto scambio di professionalità in vari domini delle arti: dalla pittura alla
musica, dall’arte del vetro a quella della decorazione murale. Contribuisce alla messa in
scena della grande arte e cultura fiamminga del periodo la presenza di più di 80 capolavori
dai più importanti musei delle Fiandre riuniti per l’occasione in modo del tutto eccezionale
a Venezia. La mostra è stata realizzata e ideata con il Rubenshuis, museo della Casa di
Rubens, con il sostegno della città di Anversa, di VisitFlanders e della Comunità fiamminga,
dipartimento della Cultura, Gioventù e Media. La mostra sarà palcoscenico non solo per
grandi capolavori raramente visti in Italia, ma anche per tre grandi ritorni a Venezia. Siamo
lieti di poter dare l’opportunità ai visitatori di vedere nella loro città di origine tre icone
dell’arte veneziana: la grande pala votiva di Tiziano Jacopo Pesaro presentato a San Pietro da
papa Alessandro VI; la pala d’altare della chiesa perduta di San Geminiano, L’angelo annuncia
il martirio a Santa Caterina d’Alessandria di Tintoretto, già appartenuta a David Bowie; il
Ritratto di dama con la figlia di Tiziano, proveniente dalla collezione Barbarigo. Per questa
impresa corale desidero ringraziare il direttore della Fondazione Musei Civici, Gabriella
Belli, catalizzatore inarrestabile di idee che fanno cultura, e il direttore della Casa di Rubens,
Ben van Beneden, che ha curato la mostra. Il mio grazie più sentito anche a tutto lo staff
della Fondazione che con estrema professionalità e competenza permette sempre anche
ai progetti più ambiziosi di realizzarsi.
Mariacristina Gribaudi
Presidente Fondazione Musei Civici di Venezia
Anversa e Venezia, entrambe porti di primaria importanza, sono legate fin dal Medioevo.
La storia ci racconta, però, che le grandi città assumono un ruolo davvero rilevante solo
quando diventano centri di potere. È allora che iniziano ad esercitare la loro influenza
anche in ambito culturale. Nel corso del XVI secolo, Anversa sperimentò un crescente
sviluppo economico; una sorta di Età dell’Oro che produsse un’espansione culturale mai
verificatasi fino ad allora e il fiorire, in particolare, della pittura.
Il predominio internazionale di Anversa fu, tuttavia, breve. Dal 1550 in poi, il suo
ruolo di snodo per i commerci divenne via via sempre più marginale, come conseguenza
della divisione tra i Paesi Bassi e della chiusura della Schelda che favorì, invece, l’ascesa
di Amsterdam a nuovo polo commerciale. I Portoghesi smisero di fare riferimento alla
città belga come mercato principale per le spezie e diversi mercanti inglesi di tessuti si
trasferirono altrove. Ci fu un periodo di indigenza e carestia. Tanti commercianti anversesi,
ma anche molti artisti e scienziati, abbandonarono la città per trasferirsi in altri centri
europei più accoglienti, soprattutto nei Paesi Bassi.
La Controriforma aprì la strada a nuove importanti committenze artistiche, come la
Chiesa di San Carlo Borromeo. Con la Tregua dei dodici anni si delineò quasi immediatamente
per i Paesi Bassi meridionali la prospettiva di una ripresa economica. Durante
questo periodo, emerse un’altra generazione di grandi artisti anversesi, tra i quali Rubens,
Jordaens e Teniers. Fu grazie a loro che la città consolidò la propria fama di capitale culturale.
L’influsso di questi pittori è tangibile ancora oggi.
Peter Paul Rubens tornò ad Anversa dall’Italia nel 1608. La Repubblica Veneziana,
anche allora un centro artistico e culturale di spicco, accoglieva molti artisti fiamminghi e
del capoluogo delle Fiandre alla ricerca d’ispirazione. Se è a Venezia che si possono trovare
le radici del Barocco anversese, è vero anche che le opere di Rubens e dei suoi apprendisti
Jacques Jordaens e Anthony van Dyck diedero una spinta alla ripresa dei Paesi Bassi
meridionali. Il fatto, poi, che Anversa fosse la sede dell’impresa editoriale più importante
a livello internazionale contribuì ad irrobustirne la fama come divulgatrice globale di
sapere e di cultura.
Questa magnifica mostra vuole richiamare l’attenzione su quelle origini. Più che focalizzarsi
sull’influsso esercitato su Rubens dai maestri veneziani, l’esposizione sottolinea,
all’interno di uno scenario maestoso, la meraviglia provata da visitatori di tutto il mondo
davanti all’arte dei pittori fiamminghi e di Anversa.
Bart De Wever
Sindaco
Città di Anversa
Nabilla Ait Daoud
Vice sindaco con delega alla Cultura
Città di Anversa
10 Introduzione
Gabriella Belli
13 La pittura e le arti ad Anversa, 1500-1650
Ben van Beneden
37 Il vetro veneziano nelle nature morte fiamminghe e olandesi del XVII secolo
Fred G. Meijer
47 L’esibizione della ricchezza.
Clavicembali, spartiti e cabinet ad Anversa
Timothy De Paepe
61 La produzione libraria ad Anversa nel XVI e nel XVII secolo
Dirk Imhof
Catalogo
74 L’alba di un’età dell’oro
96 Bozzetti e modelli per la gloria
122 Dipingere per la Chiesa e per la Corte
154 Tintoretto e Tiziano
170 Un’esistenza circondata dal lusso
190 Oltre Anversa
202 Nuovi mercati
232 Bibliografia
Introduzione
La Fondazione Musei Civici di Venezia accoglie nelle splendide sale di Palazzo Ducale un
nucleo di straordinari dipinti provenienti dai musei di Anversa e da altre prestigiose collezioni
pubbliche e private fiamminghe. La mostra s’inaugura sotto gli auspici di una felice
collaborazione tra la Città di Venezia e la Città di Anversa, che con questo progetto hanno
voluto promuovere uno scambio culturale di alto livello. Arrivano cosi in Laguna, dopo molti
anni dalla memorabile esposizione curata da Bernard Aikema e Beverly Louise Brown nel
1999 a Palazzo Grassi, un nucleo eccezionale di dipinti che testimoniano il racconto di una
storia artistica condivisa, che ha segnato almeno due secoli di strette relazioni culturali tra i
nostri territori e che ha avuto come sigillo, tra gli altri, la firma di pittori del calibro di Tiziano
e Rubens, Tintoretto e Van Dyck, tutti artisti cresciuti in un contesto internazionale, pronti
ad affrontare lunghi viaggi attraverso l’Europa per incontrare e imparare da altri artisti,
ma anche pittori capaci di offrire il loro talento in uno scambio continuo di esperienze, di
confronti e conoscenze.
Il racconto, che si dipana con un bel ritmo narrativo nelle stanze dell’appartamento del
Doge, frutto della grande esperienza di Ben van Beneden direttore del Rubenshuis (Museo
della Casa di Rubens) di Anversa e curatore della mostra, si affida a confronti ed esempi
illustri di quanto avvenne nell’arte di ciascun Paese, mostrando al visitatore cosa volle dire
la contaminazione tra i rispettivi stili e le diverse tecniche e dando spiegazione non solo di
fatti pittorici, forse più noti, ma anche di importanti scambi e suggestioni nel campo delle
arti applicate, il vetro in primis.
Il racconto è anche storia del collezionismo, pubblico e privato, che nei secoli arricchì
con veri e propri capolavori le raccolte fiamminghe, dove oggi possiamo ammirare dipinti
rinascimentali superbi come la pala votiva eseguita da Tiziano Jacopo Pesaro presentato a San
Pietro da papa Alessandro VI, presente in mostra. Ma anche per l’Italia la fascinazione per la
pittura di dettaglio della tradizione nordica non fu da meno e a Venezia ne sono testimonianza
molti inventari patrimoniali di facoltose famiglie nobili in cui si registra, soprattutto dalla
metà del XVI secolo, l’affermarsi di un gusto sempre più diffuso per la pittura olandese e
fiamminga. Ne tennero conto perfino Tiziano e Tintoretto che, per non perdere il primato
in patria, presero a bottega apprendisti e assistenti che venivano dal nord. Certo per lo più
furono artisti anonimi e di cui non è rimasta documentazione precisa, ma su alcuni nomi
illustri come Lambert Sustris, Paolo Fiammingo e Frans Floris per ricordarne solo alcuni,
10
ancora si indaga per accertarne la sicura presenza nell’atelier di Tintoretto. Perfino il più
grande fiammingo del XVII secolo, Peter Paul Rubens, nel suo lungo soggiorno italiano si
confrontò con la pittura veneziana e, se in gioventù guardò all’esempio di Tiziano, nella piena
maturità fini per preferire Tintoretto, ovviamente con tutti i distinguo del caso, considerata
l’eccezionale statura artistica di Rubens. Pittori in cerca d’ispirazione e di contatti per
progredire nella propria arte, semplici apprendisti e assistenti abilitati presso gli atelier dei
grandi maestri, cultori dell’arte e collezionisti di razza, tanti furono i viaggiatori sulle tracce
della bellezza che percorsero da nord a sud e viceversa tutta l’Europa in una straordinaria
osmosi di culture pensieri e civiltà, che oggi potrebbe anche sembrare appartenere ad un
mondo scomparso se non fosse in noi ancora forte la convinzione che l’arte rimanga sempre
lo strumento più efficace per riunire in amicizia i popoli.
La mia più sincera gratitudine va a Marnix Neerman senza il cui aiuto questa mostra
non si sarebbe potuta realizzare. Un collezionista dal gusto raffinato che crede, come noi, che
la bellezza possa cambiare il mondo e gli uomini, e che con grande generosità ha condiviso
con la Fondazione Musei Civici di Venezia parte della sua preziosissima collezione, messa
a disposizione di tutti coloro che visitano Palazzo Ducale e entrano in queste straordinarie
stanze piene di storia, testimonianza del talento e della passione di quanti, artisti e cultori
d’arte, hanno fatto grande Venezia.
Gabriella Belli
Direttore Fondazione Musei Civici di Venezia
11
La pittura e le arti
ad Anversa, 1500-1650
Ben van Beneden
Jan van Hemessen,
Doppio ritratto di marito e moglie
mentre giocano a tavola reale.
The Phoebus Foundation
(dettaglio)
Situata strategicamente sull’estuario della Schelda, Anversa prosperò e fiorì come mai
prima d’allora all’inizio del XVI secolo. Nel giro di pochi decenni la città portuale divenne
un’importante metropoli commerciale, una superpotenza alla pari di Genova e Venezia, e il
centro artistico più prestigioso a nord delle Alpi.1 Entro la prima metà del secolo, era già tanto
famosa che Lodovico Guicciardini, un mercante fiorentino stabilitosi proprio ad Anversa,
la definiva nella sua Descrittione di tutti i Paesi Bassi come «la preclara et famosa città, la bella,
la nobilissima et amplissima città» (cat. 12).
La crescita fulminea della città sulla Schelda agì come un richiamo irresistibile, non
solo per i mercanti, ma anche per i pittori e altri artigiani altamente qualificati. Anversa
divenne il polo d’attrazione nei Paesi Bassi per giovani artisti ambiziosi che volevano stare
al passo con le ultime tendenze artistiche. Gli abitanti di questo centro cosmopolita avevano
la possibilità di apprezzare le stampe e i cibi prelibati italiani che riempivano i bastimenti
provenienti da Venezia, allora il porto principale per l’Oriente. Nel viaggio di ritorno, quegli
stessi bastimenti trasportavano i tesori del nord: splendide stoffe e dipinti. Molti degli artisti
che vivevano e lavoravano ad Anversa nel XVI secolo non erano originari del luogo. Alcuni,
come Jan Gossaert (conosciuto anche come Mabuse, dalla sua città natale, Maubeuge) e Lucas
van Leyden (di Leida), furono attivi in città per un periodo limitato di tempo.2 Altri – come
Anthonis Mor (o Antonio Moro, di Utrecht) e Hans Vredeman de Vries (originario della
Frisia) – trascorsero la vita in giro per l’Europa alla ricerca di nuovi stimoli artistici, ma la
città sulla Schelda restò sempre la loro base. La situazione, negli stessi anni, era identica
anche a Venezia: Carpaccio doveva il suo appellattivo alla regione montuosa dei Carpazi, da
dove arrivava la sua famiglia; Giorgione era nato a Castelfranco, nell’Italia settentrionale,
e Tiziano a Pieve di Cadore. In questo contesto è il caso di ricordare che Albrecht Dürer, dopo
aver visitato Venezia nel 1494 e nel 1505, fece un viaggio ad Anversa nel 1520, e le massime
autorità cittadine fecero tutto il possibile per non farlo andare via: «mi si prostrarono ai
piedi», scrisse Dürer nel suo diario.
La notevole concentrazione di artisti di primo piano diede una spinta al rinnovamento
e accelerò il fiorire di nuovi approcci artistici. Pittori innovativi arrivarono ad Anversa in
13
Fig. 1 Quinten Massys, Compianto sul Cristo morto. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA)
cerca di nuove opportunità e intrapresero lo studio degli esempi italiani. Le loro composizioni
diventarono più armoniose, le figure più naturali dal punto di vista anatomico. Fecero la loro
comparsa elementi dell’architettura classica e motivi ornamentali ispirati all’arte del Bel
Paese. La competizione sfrenata tra i pittori della città favorì senza dubbio la specializzazione.
Molto di quel che più tardi fu etichettato come “tipicamente olandese” – paesaggi realistici,
nature morte e scene di vita quotidiana – ebbe origine proprio ad Anversa. L’ampiezza della
domanda portò a una vasta produzione, diversificata per qualità: i dipinti, realizzati in
numero sempre crescente, andavano dalle commissioni più costose agli articoli prodotti in
serie, destinati sia al mercato domestico che all’esportazione in Italia, Spagna e Sud America.3
Si inziarono a sfornare in gran quantità copie di opere di maestri famosi.4 Ma oltre ai grandi
artisti, ad Anversa erano di casa anche una miriade di pittori minori, o addirittura anonimi,
sebbene altamente qualificati.5
Quinten Massys (1456 o 1466-1530) – originario di Lovanio, dove si formò probabilmente
presso Dirk Bouts − fu il primo artista famoso della città.6 Insieme al suo contemporaneo Joos
van Cleve (1485 ca.-1540 ca.)7 gettò un ponte fra la tradizione tardomedievale e il Rinascimento
del XVI secolo. Sotto molti punti di vista, Massys esemplificava il nuovo periodo artistico.
Sebbene dipingesse principalmente opere religiose (fig. 1), si cimentò anche in scene morali
e vivaci ritratti, che attestano un nuovo modo di guardare alla natura umana. Soprattutto
nella descrizione delle mani, che spesso parlano un linguaggio dei segni umanista, retorico,
Massys introdusse movimenti naturali, e fu anche uno dei primi a prestare attenzione
alla caratterizzazione dei suoi modelli. Nel 1517 eseguì il primo ritratto di Erasmo di cui
14
ben van beneden
Fig. 2 Jan van Hemessen, Doppio ritratto di marito e moglie mentre giocano a tavola reale.
The Phoebus Foundation
si abbia notizia.8 Di Massys oggi conosciamo
anche diversi tronies, che riflettono la sua familiarità
con i tipi umani abbozzati da Leonardo da
Vinci, con il quale condivideva evidentemente
l’interesse rinascimentale per la fisiognomica.
Una dimostrazione della sua fama sono le copie
tratte dalle sue opere, eseguite tra gli altri anche
da Rubens.9 Oltre a Massys e Van Cleve, altri due
pittori di soggetti storici contribuirono a definire
il panorama artistico di Anversa nella prima
metà del XVI secolo: Pieter Coecke van Aelst
(1502-1550) e Jan van Hemessen (1500 ca.-post
1575).10 Originario di Aalst, Coecke era un homo universalis: pittore, architetto e disegnatore
di stampe, vetrate policrome e arazzi, anche se è forse più conosciuto come traduttore degli
scritti dell’architetto italiano Sebastiano Serlio. Con le sue traduzioni, Coecke contribuì
notevolmente a diffondere la conoscenza del Rinascimento nell’Europa settentrionale. Jan van
Hemessen, nativo di Hemiksem vicino ad Anversa,11 negli anni Venti del XVI secolo viaggiò
in Italia, dove prese confidenza con l’arte rinascimentale della penisola. Le sue opere più
significative raffiguravano episodi tratti dalla Bibbia, come quello del Figliol prodigo. Si tratta
di composizioni non convenzionali, con le figure vigorosamente modellate che riempiono
l’intero spazio pittorico, estremamente originali per il loro tempo (fig. 2).
Joachim Patinir (1480 ca.-1524) e Herri met de Bles (1510 ca.-post 1555?), entrambi di
Dinant, furono i primi artisti a specializzarsi ad Anversa – e nei Paesi Bassi – nella pittura
paesaggistica.12 Produssero in genere vedute dall’alto di paesaggi immaginari dai colori brillanti,
che servivano come scenari per racconti biblici (fig. 3). Patinir ricorse spesso all’aiuto
di pittori come Massys e Van Cleve per aggiungere le figure nei suoi panorami. L’artista di
Amsterdam Pieter Aertsen (1508 ca.-1575) si assicurò una fetta del mercato di Anversa con
le sue scene di contadini, che precedono quelle di Pieter Bruegel; inoltre, i suoi mercati e le
sue cucine, presentati come ambientazioni bibliche, gettarono le fondamenta per il genere
della natura morta.13 Nel 1555 o nel 1556 Aertsen tornò nella sua città natale, ma Joachim
Beuckelaer (1533 ca.-1575), suo cugino più giovane oltreché allievo, con clienti nell’Italia del
nord, continuò lungo il sentiero da lui tracciato.14 Hans Vredeman de Vries (1526-1609) si
dedicò alle sperimentazioni prospettiche e fu il primo a specializzarsi nelle “prospettive”,
altro nome dato all’epoca alla pittura d’architettura.15
La pittura e le arti
15
Fig. 3 Joachim Patinir, Paesaggio con la fuga in Egitto. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA)
16
Fig. 4 Frans Floris, Il banchetto degli dei. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA)
A metà del XVI secolo, Frans Floris (1519/20-1570) era l’esponente di maggior successo
della pittura storica anversese.16 Di ritorno dal suo viaggio in Italia, fece scalpore con i suoi
dipinti dall’impostazione vigorosa, dove incorporava le conquiste più recenti dei colleghi
italiani. Ad Anversa faceva parte della Gilda dei Romanisti, un circolo esclusivo al cui
interno gli artisti viaggiatori dei Paesi Bassi meridionali si scambiavano informazioni sui
nuovi pittori romani e i loro dipinti, e sulle sculture antiche recentemente riscoperte. Floris
fu anche il primo ad introdurre temi mitologici nella pittura anversese (fig. 4). Come il suo
maestro Lambert Lombard (1505/6-1566), si definiva un pictor doctus, in possesso di una vasta
cultura umanistica. Anche i contemporenei di Floris, Anthonis Mor (1519-1576), Willem Key
(1516-1568) e Adriaen Thomasz Key (1545 ca.-1589 ca.)17 (cat. 2), si erano formati nel solco della
pittura storica, ma erano conosciuti soprattutto per i loro eccellenti ritratti. Willem Key e
Mor furono tra i primi artisti ad Anversa a specializzarsi esclusivamente nella ritrattistica
(cat. 1).18 In ogni caso il vero successore di Floris fu Maerten de Vos (1532-1603). Dopo aver
trascorso lunghi periodi a Roma e a Venezia negli anni Cinquanta del XVI secolo, De Vos fece
ritorno ad Anversa, dove in breve tempo si costruì una solida fama come pittore di soggetti
storici e ideatore di stampe (catt. 3-5, 7-11).
Il più grande talento artistico del Cinquecento nei Paesi Bassi meridionali fu senza dubbio
Pieter Bruegel (1525 ca.-1569), un artista rimasto impresso nella percezione collettiva grazie ai
suoi innumerevoli (e infinitamente copiati) matrimoni contadini, feste campestri, paesaggi
La pittura e le arti
17
Fig. 5 Pieter Bruegel, Margherita la pazza. Anversa, Museo Mayer van den Bergh
invernali e scene di bambini che giocano. Formatosi ad Anversa, Bruegel si iscrisse alla Gilda
dei Pittori nel 1551. L’anno dopo partì per l’Italia e si fermò per un periodo a Roma. Un disegno
con una veduta di Reggio Calabria attesta che si spinse fino all’estremità dello stivale. Il valico
delle Alpi dovette lasciargli una profonda impressione, perché questo panorama montano
torna più volte nei suoi paesaggi, sia disegnati che dipinti, e in entrambi compaiono spesso
delle figurine collocate sullo sfondo per enfatizzare la grandiosità della natura. Dopo il suo
ritorno ad Anversa nel 1555, Bruegel realizzò diversi progetti per incisioni a tema biblico,
allegorico, morale o satirico, poi pubblicate dal famoso editore Hieronymus Cock. Dal 1563,
l’anno in cui si trasferì a Bruxelles, fino alla sua morte nel 1569, si dedicò quasi completamente
alla pittura, e fu in quel periodo che produsse le sue opere più famose, compresa De Dulle
Griet (Margherita la pazza) (fig. 5).
Passando alle commesse per opere scultoree, ad Anversa tutti gli occhi erano puntati
su Cornelis II Floris (1514 ca.-1575), un artista versatile con una propensione internazionale
che, come suo fratello Frans Floris, aveva lavorato in Italia. Cornelis II Floris non era solo
uno scultore e uno stampatore, ma anche un architetto, i cui progetti includono quello per
18
ben van beneden
il Municipio di Anversa. Insieme a Pieter Coecke van Aelst, contribuì in maniera sostanziale
a introdurre lo stile del Rinascimento italiano. Un’altra personalità artistica ugualmente
affascinante fu quella di Willem van den Broecke (1530-1580), che si autodefiniva un “Paludanus”
per sottolineare la sua erudizione e il suo interesse umanistico per l’antichità classica.
Sebbene si sappia poco della sua vita e della sua carriera, sembra che fosse specializzato in
piccole sculture in alabastro, terracotta, bronzo e cera, destinate a studioli privati.19
La produzione artistica di Anversa nel XVI secolo sfoggiava una straordinaria varietà
tematica e stilistica, e non è quindi facile definire il carattere “locale” dell’arte di questo
periodo storico. Solo nel XVII secolo – il secolo di Rubens e di Van Dyck – la produzione
anversese iniziò a mostrare una maggiore omogeneità, anche se la città non sviluppò mai
un suo stile peculiare vero e proprio.20
Quando nel 1585 si arrese alla Spagna, Anversa, da calvinista che era, fu trasformata
nel giro di una notte in un centro del Cattolicesimo. Alla fine fu costretta a cedere il suo
primato economico ad Amsterdam, che grazie al commercio con l’Asia era diventata la
città più ricca d’Europa. L’esodo di massa da Anversa riguardò innumerevoli imprenditori,
professionisti dall’educazione raffinata ed esperti artigiani; anche molti giovani pittori si
trasferirono più a nord per evitare le persecuzioni religiose. Alcuni artisti, come Pauwels
Franck (Paolo Fiammingo, 1540/4 ca.-1605) e Lodewijk Toeput (Ludovico Pozzoserrato, 1550
ca.-1605), presero la strada del sud, per il Veneto, e altri, come i fratelli Matthijs (1550 ca.-1583) e
Paul Bril (1553-1602), cercarono impiego a Roma, dove contribuirono in maniera significativa
al precoce sviluppo del panorama romano. Nonostante questa emorragia di giovani talenti,
però, il commercio internazionale di Anversa, la sua prosperità e la sua cultura artistica
non finirono in maniera improvvisa e brutale. Anzi, non solo la pittura in città conservò la
sua esuberanza e la sua considerevole qualità, ma – in parte grazie a pittori brillanti come
Rubens e Van Dyck – ci fu un nuovo periodo di grande vitalità artistica.
È innegabile comunque che il declino di Anversa abbia segnato l’inizio involontario di una
divisione tra i due Paesi Bassi, non solo da un punto di vista religioso e politico, ma anche per
quanto riguarda le arti. Nei Paesi Bassi meridionali, la Chiesa della Controriforma, la corte
di Bruxelles, la nobiltà e la ricca borghesia garantirono un flusso costante di commesse.21
Sotto questo aspetto, la situazione era molto diversa da quella dei Paesi Bassi settentrionali,
dove la Chiesa e la Corte (ad eccezione di quella dello statolder Federico Enrico, principe
d’Orange e conte di Nassau) cessarono completamente le commissioni di opere d’arte. In
Olanda anche i borghesi smisero di richiedere ampie scene bibliche e mitologiche, preferendo
invece soggetti quotidiani.22 I pittori dei Paesi Bassi settentrionali andarono verso una
crescente specializzazione e la loro arte acquisì un ben definito carattere nazionale. Al sud,
La pittura e le arti 19
Fig. 6 Peter Paul Rubens, La deposizione dalla Croce. Anversa, Cattedrale di Nostra Signora
invece, l’arte conservò un orientamento più internazionale, e i dipinti a soggetto storico
dominarono la scena.
Il ritorno di Peter Paul Rubens (1577-1640) ad Anversa nel 1608, dopo otto anni estremamente
produttivi trascorsi in Italia, dove aveva suscitato un grande interesse, segnò
una svolta decisiva nella vita artistica della città. Sotto il suo energico influsso, molti artisti
iniziarono a dipingere con uno stile potente ed estremamente dinamico. Rubens eccelleva in
tutte le categorie: accanto alle scene bibliche (fig. 6), mitologiche e storiche, il suo repertorio
includeva ritratti, paesaggi, dipinti di animali e nature morte. In più, realizzava disegni per
frontespizi (catt. 27-28), arazzi (cat. 57) e sculture. Ma era molto di più che un brillante pittore.
Rubens era il pictor doctus per eccellenza, un artista erudito che spaziava in maniera disinvolta
dalla cultura antica all’arte contemporanea, si immergeva nella storia, ancorava il passato
al presente. Tra le qualità più notevoli, aveva senza dubbio una capacità impareggiabile di
adattarsi all’opera di altri e farla propria: i suoi dipinti sono pervasi dalla presenza dell’arte
venerata degli antichi e da quella dei grandi predecessori e contemporanei italiani.23 Per
eseguire le tante commesse che gli venivano affidate, Rubens dirigeva uno studio ampio e
indaffarato, la cui struttura organizzativa seguiva il modello delle botteghe italiane, dove
una mole enorme di lavoro veniva sbrigata con l’aiuto di numerosi assistenti.24 In Italia,
e in particolare a Venezia, Rubens deve aver fatto un’esperienza approfondita del modo
in cui alcuni suoi colleghi preparavano i loro affreschi e le pale d’altare con l’aiuto di studi
preparatori, che in alcune occasioni potevano anche mostrare ai committenti per dar loro
un’idea del lavoro finito. Pare che l’abitudine di dipingere bozzetti o modelli in preparazione
di un’opera, per istruire gli assistenti e come esempio da mostrare ai committenti, fosse più
La pittura e le arti 21
Fig. 7 Adriaen van Utrecht, Natura morta con verdure. Anversa, Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens
diffusa a Venezia che altrove. Rubens adottò questa pratica e divenne il primo pittore a fare
un uso sistematico di bozzetti a olio come parte integrante del processo creativo (catt. 21,
23, 25, 30). La sua fascinazione per gli studi preparatori eseguiti dai colleghi italiani risulta
evidente anche dalla sua abitudine di dipingere studi di teste,25 un metodo di lavoro che fu
presto adottato anche da Anthony van Dyck (fig. 8).
Ad Anversa lo studio di Rubens aveva un ruolo di spicco, e il suo predominio artistico e
sociale nei Paesi Bassi meridionali superò abbondantemente quello di Rembrandt, il suo pari
olandese. Le tracce dell’influsso rubensiano si trovano ovunque, non solo nei dipinti storici,
ma anche nelle nature morte e nelle scene di caccia. L’opera del talentuoso Frans Snijders
(1579-1657), pittore animalista e di nature morte, riflette chiaramente questa supremazia.26
Oltre ad ambiziose composizioni di frutta, ortaggi e trofei di caccia (cat. 87), dipinte spesso con
dinamismo barocco, Snijders eseguì scene di animali, di cucine e di mercati, soprattutto del
pesce, sia come opere a sé stanti che in serie.27 Su di li lui fu molto forte l’influsso di Rubens,
con il quale collaborò frequentemente a partire dal 1609;28 la sua reputazione era poi così
consolidata da permettergli di fare affidamento sulla collaborazione di influenti pittori di
soggetti storici di Anversa, anche se eseguì di persona alcune delle figure nei suoi dipinti.
Come Snijders, anche Adriaen van Utrecht (1599-1652) dipinse imponenti nature morte,
dispense di selvaggina e scene ambientate al mercato, anche se la sua opera è meno compiuta.
Seguendo le orme di una lunga serie di pittori olandesi, tra cui anche il suo influente collega
Snijders, Van Utrecht viaggiò in Italia agli inizi degli anni Venti del Seicento, dove pare sia
rimasto affascinato da Caravaggio e dal suo potente chiaroscuro (fig. 7). Attratto dall’opera
Fig. 8 Anthony van Dyck,
L’apostolo Matteo. Anversa,
Fondazione Re Badovino,
in prestito al Museo della Casa
di Rubens
22
ben van beneden
Fig. 9 Peter Paul Rubens, La caccia al leone. Londra, The National Gallery
pregevole di colleghi come Frans Snijders, che mantenne un contatto stretto con Rubens e
realizzò dipinti differenti da quelli che si producevano in Olanda, anche Jan Davidsz de Heem,
originario di Leida, si trasferì ad Anversa. Al suo ritorno in Olanda fu uno degli iniziatori
dei “Trionfi di natura morta” (cat. 88).29
Rubens dipinse trenta scene di caccia, molte delle quali gli furono commissionate da
sovrani e aristocratici come Filippo IV di Spagna e dalla coppia arciducale formata da Alberto
e Isabella. In questo genere pittorico si dimostrò un innovatore di primo piano, perché raffigurò
la caccia come una battaglia eroica tra uomo e animale (fig. 9).30 Aveva anche un talento
fuori dal comune nel descrivere il senso di aggressione e la paura nelle prede: molte delle sue
scene sono splendidi saggi di psicologia animale. Per alcuni di questi quadri, Rubens si fece
aiutare da pittori specializzati nella raffigurazione degli animali, come Snijders e il cognato
di quest’ultimo, Paul de Vos (1595-1678). A loro volta questi artisti adottarono il suo metodo
rappresentativo estremamente vivace nelle loro scene di caccia (cat. 60).
Rubens ebbe anche un ruolo guida nello sviluppo della pittura paesaggistica fiamminga.
Negli anni Trenta del XVII secolo, ispirato dalla bellezza dei dintorni della sua casa di campagna,
la “Het Steen” (La rocca), vicino a Mechelen, dipinse alcune impressioni atmosferiche
molto originali, che sembrano quasi anticipare le vedute romantiche dei grandi paesaggisti
inglesi John Constable e William Turner.31 Pochi artisti nel Seicento emularono i suoi
panorami del Brabante. Diversamente dai Paesi Bassi settentrionali, Anversa non partorì
24
ben van beneden
Fig. 10 Anthony van Dyck, Autoritratto. Anversa, Museo della Casa di Rubens
mai grandi maestri del paesaggio, a eccezione dello stesso
Rubens e, in misura minore, di Jan Wildens (1583/86-1653),
che con lui collaborò spesso.32
L’erede più famoso di Rubens – e sicuramente quello
con più talento – fu Anthony van Dyck (1599-1641), un enfant
prodige che eseguì una quantità di straordinari autoritratti
ancor prima di potersi definire pittore (fig. 10).33 Ad Anversa
divenne il primo vero rivale di Rubens, anche se per qualche
tempo rimase nella sfera d’influenza di quest’ultimo. Più
tardi, una volta che si fu imposto come pittore indipendente
a Genova, e dal 1632 come pittore di corte di Carlo I a Londra,
Van Dyck si rivelò un eccellente ritrattista con acute
capacità empatiche e una tecnica brillante che non aveva
niente da invidiare a quella di Velázquez (cat. 44).34 Anche
se ad Anversa visse all’ombra dell’intoccabile Rubens, i suoi
dipinti storici, così come i suoi ritratti, divennero una fonte
d’ispirazione importantissima per altri artisti.35
Van Dyck non era l’unico ritrattista di talento ad Anversa.
Prima di lui Rubens si era già fatto un nome (cat. 52) in questo campo. In cima alle preferenze
dei cittadini anversesi dai gusti più conservatori (e con minori disponibilità economiche)
c’era Cornelis de Vos (1584-1651), un prolifico pittore di soggetti storici che fece una rapida
carriera nella ritrattistica.36 Ad Anversa e nei Paesi Bassi meridionali era l’unico artista
specializzato in ritratti di bambini, un genere nel quale eccelleva.37 A metà del XVII secolo,
l’élite cittadina scelse invece come suo ritrattista Gonzales Coques (1614/18-1684),38 uno dei
pochi artisti di Anversa specializzato esclusivamente in questo genere e autore soprattutto di
quadri di piccole dimensioni, in genere ambientati in un giardino, in un paesaggio naturale
o su una terrazza.39 Coques fu inoltre uno dei due artisti – insieme a Philip Fruytiers (1610-
1660) – ad aprire la via alla “scena di conversazione”, un ritratto di gruppo informale nel
quale i protagonisti interagiscono tra loro.
Nonostante la supremazia di giganti come Rubens e Van Dyck, la pittura del XVII secolo
ad Anversa mostra una sorprendente varietà. Molti pittori di temi storici riuscirono a farsi
strada tra i due maestri, preservando allo stesso tempo uno stile individuale, che nasceva in
parte dalla loro personalità come artisti e in parte dall’ispirazione che qualcuno di loro aveva
trovato in Italia. È il caso soprattutto di Jacques Jordaens (1593-1678), l’artista più importante
di Anversa dopo la morte di Rubens e Van Dyck (catt. 38, 55),40 ma anche di Abraham
La pittura e le arti
25
Fig. 11 Abraham Janssens, Il fiume Schelda e la città di Anversa. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA)
Janssens (1575 ca.-1632) (fig. 11), Gerard Seghers (1591-1651),41 Cornelis Schut (1597-1655),42 e
Erasmus II Quellinus (1607-1678).43 Le opere prodotte ad Anversa non si limitavano, però,
ai grandiosi dipinti storici. Altri maestri – in particolare, per esempio, Hendrick van Balen
(1575-1632) e Frans II Francken (1581-1642) – realizzarono scene storiche alla maniera italiana
e allegorie in formati molto più piccoli,44 e di tanto in tanto Francken si cimentò anche nella
realizzazione di imponenti pale d’altare. Gli capitò di frequente, inoltre, di aggiungere piccole
figure negli interni o nei paesaggi eseguiti da altri maestri. La sua principale innovazione
restano i dipinti raffiguranti gallerie di opere d’arte (cat. 82), il cui esempio più antico finora
conosciuto risale al 1612.45
Jan I Brueghel (1568-1625), il figlio minore di Pieter Bruegel, si dedicò soprattutto a
panorami di piccole dimensioni, che possono essere considerati i diretti precursori del
puro paesaggio olandese, e fu anche un pioniere della natura morta floreale, un genere a cui
diede un notevole contributo in uno stadio iniziale.46 Nel solco della tradizione fiamminga,
Bruegel applicava strati opachi di colore con movimenti minimi del pennello per ottenere
immagini straordinariamente dettagliate. Difficile immaginare un contrasto più grande con
26
ben van beneden
l’opera del suo amico Rubens. Le nature morte in trompe l’œil, con ghirlande di fiori intorno
a un rilievo di pietra, erano il marchio di fabbrica di Daniël Seghers (1590-1661), un artista
gesuita che aveva imparato il mestiere da Jan I Brueghel. Come il maestro, anche Seghers si
affidava spesso a pittori di figure per corredare le sue scene. A questo riguardo, gli esempi
più famosi di collaborazione tra artisti sono i dipinti realizzati insieme da Jan I Brueghel e
da Rubens, ma anche altri maestri lavorarono spesso allo stesso modo (cat. 40).47 Motivati
dall’amicizia, dal reciproco rispetto e da una consumata abilità, Rubens e Brueghel – i cui
talenti avevano poco in comune – collaborarono a circa venticinque dipinti tra il 1598 e il
1625. La divisione del lavoro era netta: Brueghel dipingeva il paesaggio, la flora e la fauna,
mentre Rubens era responsabile per le figure. Per i contemporanei, l’esecuzione a due mani
rendeva questi capolavori speciali, e di conseguenza ancora più appetibili.
Una pittrice contemporanea di Brueghel, Clara Peeters (attiva dal 1607), introdusse ad
Anversa e nei Paesi Bassi la natura morta di soli pesci (catt. 85, 86), un genere che in città
aveva il suo esponente più prolifico in Alexander Adriaenssen (1587-1661), anche se in realtà
nella maggior parte delle sue composizioni i pesci sono raffigurati in mezzo ad altri oggetti,
per esempio i trofei di caccia48 (e spesso compare anche un gatto che si avvicina furtivo per
rubare un po’ di cibo). Joannes (Jan) Fyt (1611-1661), che aveva un tocco da maestro nel rendere
le superfici, si dedicò soprattutto alle nature morte con trofei di caccia di varie dimensioni
e formati. Come Adriaenssen, ravvivava le sue composizioni aggiungendo un gatto che
occhieggiava le prede, o un cane da caccia intento a fare la guardia. Un altro specialista
della natura morta fu Cornelis Mahu (1613-1689), le cui preferenze andavano alle ontbijtjes
(colazioni) sobriamente apparecchiate e ai banketjes (banchetti) nello stile di artisti olandesi
come Pieter Claesz e Willem Claesz Heda (fig. 12).49
Anche l’opera di Adriaen Brouwer (1605/06-1638) si può dire abbia avuto origine in
Olanda.50 Brouwer, che era nato a Oudenaarde, all’inizio dipingeva a Haarlem le sue scene
ambientate in taverne fumose, con rozzi villani che bevevano e si azzuffavano, ma poi portò
il suo stile olandese ad Anversa, dove si stabilì nel 1631 (cat. 75). In un primo momento il suo
allievo Joos van Craesbeeck (1606-1660 ca.) e David II Teniers (1610-1690) seguirono il suo
esempio, ma in seguito il secondo cambiò il proprio modo di vedere la vita contadina e le
sue scene diventarono meno severe, a volte assunsero perfino un tono affettuoso (cat. 76).
Più avanti Teniers assegnò più spazio al paesaggio.51 Nel 1650 divenne pittore di corte per
l’arciduca Leopoldo Guglielmo a Bruxelles, dove, tra il 1651 e il 1653, dipinse una decina di
composizioni che raffiguravano la collezione d’arte del reggente, nella quale spiccavano
La pittura e le arti 27
Fig. 12 Cornelis Mahu, Natura morta con ostriche. Anversa, Museo Mayer van den Bergh
soprattutto capolavori veneziani del XVI secolo, accanto a dipinti di maestri fiamminghi
contemporanei come Rubens e Van Dyck.52
Ad Anversa, Theodoor Rombouts (1597-1637) (cat. 80), Adam de Coster (1585/86-1643)
e Gerard Seghers erano gli esponenti di spicco del Caravaggismo, che godette di una breve
ondata di popolarità in tutta Europa, in particolare nella città olandese di Utrecht.53 Questi
pittori, ciascuno dei quali aveva soggiornato a Roma, traevano ispirazione dall’opera originale
di Caravaggio e del suo principale seguace, Bartolomeo Manfredi. Le composizioni di Caravaggio,
con le figure che riempivano completamete il quadro, sfidavano le convenzioni e i suoi
dipinti brillavano e splendevano di colore. Il maestro italiano infondeva forza drammatica
nei suoi dipinti attraverso spettacolari effetti di luce e un chiaroscuro tagliente: tecniche e
intuizioni poi sperimentate dai caravaggisti nelle loro opere. Seghers e De Coster, per esempio,
si concentrarono completamente sui cosiddetti notturni. Queste scene – a tematica religiosa
o con soggetti di genere – erano a tal punto considerate una specialità a parte che De Coster
finì per essere chiamato pictor noctium (cat. 79). Come Artemisia Gentileschi, Borgianni e
Ribera in Italia, e Vouet e Valentin de Boulogne in Francia, tutti questi pittori di Anversa
avevano preso “qualcosa” da Caravaggio, ma ciascuno qualcosa di diverso. Un dato di fatto
28
ben van beneden
Fig. 13 Willem van Haecht, La galleria di Cornelis van der Geest. Anversa, Museo della Casa di Rubens
ben evidente nell’opera di Jan Cossiers (1600-1671), pittore e disegnatore talentuoso che
produsse alcune scene caravaggesche, oltre a dipinti storici e ritratti (cat. 81).
Una categoria a parte spetta ai grandi ritratti moraleggianti di vita borghese di Jacques
Jordaens, i più famosi dei quali erano le scene dell’Epifania (“Il re ubriaco”) e la sua versione
di “Mentre il vecchio canta, il giovane suona”, un proverbio che aveva tratto dagli scritti di
Jacob Cats,54 un autore di successo dei Paesi Bassi settentrionali. In alcuni generi, come le
vedute marine e le architetture, Anversa non raggiunse mai l’eccellenza che caratterizzò
invece i Paesi Bassi Settentrionali. Gli scorci degli interni di chiese realizzati verso il 1650 a
Delft da Gerard Houckgeest ed Emanuel de Witte, con il loro incredibile senso della luce e
dello spazio, non sembrano aver avuto effetto sui pittori di architetture di Anversa. Nella
città belga non c’era niente di paragonabile alla semplicità degli interni con una o più figure
dipinti in Olanda da Pieter de Hooch e Johannes Vermeer. Nella pittura anversese del XVII
secolo non trovavano posto nemmeno i paesaggisti imitatori degli italiani, attratti soprattutto
dalla calda luce dorata del sud. Un genere, tuttavia, era quasi esclusivo di Anversa: le scene
ambientate nelle “stanze d’arte” o constcamer.55 In uno degli esempi più belli, La galleria di
Cornelis van der Geest, dipinto da Willem van Haecht (1593-1637) (fig. 14), il proprietario mostra
La pittura e le arti 29
Fig. 14 Willem van Haecht, La galleria di Cornelis van der Geest (dettaglio)
ai suoi distinti ospiti il pièce de resistance della sua collezione, la Madonna col Bambino di Quinten
Massys, mentre Rubens spiega l’opera del suo illustre predecessore (fig. 13).56 Tra i presenti
riconosciamo Anthony van Dyck e Frans Snijders: Anversa sapeva bene quali erano i suoi
pittori più brillanti, e il quadro regala un’immagine vivida della ricchezza e della straordinaria
versatilità della scuola pittorica anversese nel XVI e nel XVII secolo.
Fiorì anche la scultura, sebbene quest’arte nel suo insieme sia rimasta in secondo piano
rispetto alla pittura. La professione degli scultori era pesante, pericolosa, polverosa, e soprattutto
rumorosa, e le commissioni per le opere scultoree erano care. Sorprendentemente, gli
scultori fiamminghi più brillanti dell’epoca – Giambologna e François Du Quesnoy – trascorsero
quasi tutte le loro carriere in Italia. Giambologna o Giovanni da Bologna (1529-1608) si
chiamava in realtà Jehan de Boulogne, era nato a Douai in quelle che allora erano le Fiandre.57
Da giovane aveva soggiornato a Roma per studiare la famosa scultura rinascimentale e
l’antichità classica. Non tornò mai nella terra dov’era nato. Si stabilì invece a Firenze, dove
fece scalpore con le statue in marmo e in bronzo a grandezza naturale che creava per i palazzi
e le ville dei Medici. Di solito Giambologna realizzava modelli in legno o in pietra, invece
che di cera, più facile da modellare (fig. 15). Una piccola parte della sua produzione consiste
di bronzi di dimensioni ridotte, i più raffinati dei quali erano fusi dai suoi assistenti sotto
la sua supervisione. Queste opere mostrano, quindi, il virtuosismo sia dell’ideatore del
modello che del fonditore, ed erano molto ricercate dai collezionisti (fig. 14). Quando nel 1600
Rubens arrivò in Italia, Giambologna era ormai considerato il più celebre scultore vivente
d’Europa. Anche un suo collega di Bruxelles, François Du Quesnoy (1597-1643), trascorse la
parte più importante della sua carriera a Roma, che allora era il centro per eccellenza della
scultura barocca. Conosciuto come Francesco Fiammingo, Du Quesnoy era tra i migliori nella
sua professione, insieme al brillante scultore-architetto-pittore Gianlorenzo Bernini e ad
30
ben van beneden
Fig. 15 Giambologna, Giulio Cesare. Collezione privata
Alessandro Algardi. Du Quesnoy divenne famoso soprattutto per la giocosità e la tenerezza
che conferiva agli amorini paffuti che scolpiva nel marmo e nel bronzo (fig. 16).58
Ad Anversa nel campo della scultura dominavano artisti esperti come Robert (1570 ca.-
1636 ca.) e Andreas de Nole (1598-1638), Johannes van Mildert (1588-1638) e Hubrecht van
den Eynden (1594-1661/62 ca.), ciascuno dei quali collaborò occasionalmente con Rubens.
Tutti loro si concentrarono soprattutto su soggetti religiosi come sculture funerarie, pulpiti
e cibori,59 ma nel 1616-17 lo scultore di corte Van Mildert eseguì anche opere monumentali
per la decorazione scultorea della casa di Rubens, dove sopravvivono diversi busti e uno
splendido Satiro in terracotta di Servaes Cardon (1608-1649) (cat. 56). Dagli anni Venti del
XVII secolo, Rubens coordinava un gruppo di giovani scultori e intagliatori, che modellavano
statuine d’avorio da lui disegnate. Il pittore aveva un debole per questo materiale, spesso
associato al colore dell’incarnato umano. Alcuni degli esempi più belli di tali sculture sono
stati attribuiti al tedesco Georg Petel (1601/02-1634), uno scultore talentuoso che nell’avorio
sapeva intagliare di tutto (fig. 18).60 Come Petel, anche lo scultore-architetto di Mechelen
Lucas Faydherbe (1617-1697) modellò questo materiale, soprattutto su disegni di Rubens,
La pittura e le arti
31
Fig. 16 François Du Quesnoy, Sileno addormentato con putti. Anversa, Museo della Casa di Rubens
anche se ancora non si conosce esattamente il numero di piccole opere per studiolo da lui
realizzate. Faydherbe scolpì anche statue in marmo (cat. 43), e di lui ci restano inoltre dei
busti, incluso uno del pittore Gaspard de Crayer, così come splendide terracotte raffiguranti
temi mitologici (fig. 19). Il terzo giovane scultore protetto da Rubens fu Aert Quellien o
Artus I Quellinus (1609-1668), appartenente a una famiglia di artisti di Anversa. Dopo un
periodo passato a lavorare con il pittore, Quellien si recò a Roma, dove trovò un incarico
nello studio di François Du Quesnoy. Tornato ad Anversa, iniziò a farsi chiamare Artus
Quellinus e diventò lo scultore più importante della città. Oltre a servire i clienti anversesi,
Quellinus lavorò anche per committenti benestanti della Repubblica olandese. Tra il 1650 e
il 1665, per esempio, era il responsabile ad Amsterdam, insieme a dozzine di assistenti, di un
impressionante numero di sculture realizzate per le facciate e le sale di rappresentanza del
nuovo Municipio di piazza Dam (cat. 48), un progetto ambizioso di Jacob van Campen col
quale i reggenti di Amsterdam cercavano di misurarsi con la famosa Piazza San Marco di
Sansovino a Venezia. Le sculture realizzate per il Municipio di Amsterdam da Quellinus e
dal suo principale assistente, il fiammingo Rombout Verhulst (1624-1698), che si era formato
nello studio del maestro ad Amsterdam, possono competere con i migliori risultati artistici
dell’Europa del XVII secolo (fig. 17).
32
ben van beneden
Fig. 17 Artus Quellinus, Atlante.
Amsterdam, Municipio
Fig. 18 Georg Petel, Adamo ed
Eva. Anversa, Museo della Casa
di Rubens
Fig. 19 Lucas Faydherbe,
Ercole. Anversa, Fondazione
Re Baldovino, in prestito al
Museo della Casa di Rubens
La pittura e le arti
33
* Questa è una versione rivista e ampliata di Van Beneden
2011, qui ripubblicata per gentile concessione di Ermitage
Amsterdam.
1 Per un riepilogo recente, vedi Limberger 2001, pp. 39-62;
più in generale su Anversa come precoce metropoli moderna,
vedi Van der Stock 1993.
2 Per gli ultimi studi su Gossaert, vedi Ainsworth 2010,
pp. 9-29. Su Lucas van Leyden, vedi Vogelaar & Filedt Kok
2011.
3 Vermeylen 1999.
4 Sulla produzione di serie negli studi di Massys, Joos van
Cleve e Patinir, vedi Ewing 2007, pp. 81-95, 90-91.
5 Un’introduzione generale alla pittura dei Paesi Bassi nel XVII
si trova in Koldeweij, Hermesdorf & Huvenne 2006.
6 Silver 1984.
7 Su Van Cleve, vedi Hand 2004; Van den Brink 2011.
8 Su Massys ed Erasmo, vedi Van der Coelen et al. 2008.
9 Belkin 2009, I, pp. 234-238, n. 119, tav. 6; III, ill. 329.
10 Per Coecke van Aelst, vedi Cleland 2014. Per Van Hemessen,
vedi Wallen 1983.
11 Secondo Karel van Mander, biografo di Van Hemessen,
quest’ultimo si stabilì ad Haarlem dopo il 1550 per motivi
religiosi, ma non ci sono prove a riguardo (Van Mander 1604).
12 Su Patinir, vedi Vergara 2007.
13 Su Aertsen, vedi Lemmens 1989.
14 Su Beuckelaer, vedi Verbraeken et al. 1986.
15 Su Vredeman de Vries, vedi Borggrefe, Fusenig &
Uppenkamp 2002.
16 Van de Velde 1975; Wouk 2018.
17 Uno studio recente ha dimostrato che Adriaen non era
imparentato con Willem Key, ma da giovane si era formato
nella sua bottega, che continuò a mandare avanti alla morte
del maestro, assumendo anche il cognome di quest'ultimo;
see Jonckheere 2007.
18 Su Mor, vedi Woodall 2007.
19 Su Floris e Paludanus, vedi Woodall, Scholten & Kavaler 2017.
20 Balis 1993, p. 123.
21 Per un’indagine sull’arte nei Paesi Bassi meridionali durante
il XVII secolo, vedi Vlieghe 1998.
22 Per una pubblicazione recente sull’argomento, vedi Biesboer
2008. Samuel van Hoogstraten, allievo di Rembrandt e
biografo di artisti, si rammarica del fatto che dall’inizio
dell’iconoclastia nell’Olanda protestante fossero sparite le
migliori prospettive di carriera per i pittori, “vale a dire le
chiese”. Come risultato, la maggior parte dei pittori decise di
concentrarsi su “questioni minori, in alcuni casi, addirittura,
su vere e proprie facezie” come le nature morte; vedi
Hoogstraten 1678, p. 257.
23 Per il corpo di Cristo, Rubens utilizzò un disegno che aveva
realizzato a Roma nel 1605, sul modello di un’antica statua di
marmo raffigurante un Centauro e Cupido, che era stata da
poco riscoperta; vedi Jaffé 2005, nos 83-84 e Gruber et al. 2017.
24 Su Rubens e il suo studio, vedi Balis 2007, pp. 30-51.
25 Sui bozzetti a olio di Rubens, vedi Lammertse & Vergara
2018; sui suoi studi di teste, vedi Van Hout in corso di
pubblicazione.
26 Su Frans Snijders, vedi Koslow 1995.
27 Uno degli esempi più notevoli è un dipinto conservato
all’Ermitage (207 × 341 cm, inv. GE 604), che fa parte di una
serie di quattro scene di mercato rappresentanti i quattro
elementi.
28 Non solo Rubens ricorse all’aiuto di Snijders per dipingere le
figure nelle sue opere, ma realizzò anche dei bozzetti a olio
per composizioni con significativi dettagli di natura morta,
con l’intento che Snijders li eseguisse basandosi sui suoi
disegni.
29 Segal 1991.
30 Balis 1986.
31 Brown 1996.
32 Jan Siberechts (1627-1700) era un paesaggista dallo stile
assolutamente personale. Era considerato la controparte di
Aelbert Cuyp per quanto riguarda i Paesi Bassi meridionali;
vedi Vlieghe 1988, pp. 197-198.
33 Barnes et al. 2004.
34 Su Van Dyck ritrattista, vedi Alsteens & Eaker 2016.
35 Due indubitabili seguaci di Van Dyck furono Pieter Thys
(1624-1677) e Thomas Willeboirts Bosschaert (1613-1654),
che eseguirono innumerevoli opere a carattere mitologico,
allegorico e religioso per la corte della casata d’Orange a
L’Aia a partire dal 1641. Su Willeboirts Bosschaert e la corte a
L’Aia, vedi Van der Ploeg & Vermeeren 1998.
36 Van der Stighelen 1990.
37 Bedaux & Ekkart 2000.
34
38 Lisken-Pruss 2011.
39 Sorprende che ad Anversa i primi a realizzare ritratti
a grandezza naturale siano stati i pittori di soggetti
storici, i quali si avventurarono così, di tanto in tanto, in
un genere che era considerato meno prestigioso da una
teorica posizione di vantaggio artistico. Jan Boeckhorst
(1604-1668) eseguì occasionalmente ritratti, così come il
suo contemporaneo Theodoor van Thulden (1606-1669), e
Thomas Willeboirts Bosschaert e Pieter Thys, che erano
un po' più giovani. Il più dotato tra questi pittori storici
sconfinanti in altri generi fu senza dubbio Jan Cossiers
(1600-1671) (cat. 81), che aveva studiato con Cornelis de Vos,
e del quale ci restano alcuni ritratti straordinariamente
intensi che realizzò rendendo a modello i propri figli; vedi
Van der Stighelen 1990, pp. 144-47.
57 Su Giambologna, vedi Avery 1993; Seipel & Kryza Gersch
2006.
58 Boudon-Machuel 2005; Lingo 2007.
59 Sui progetti per sculture di Rubens, vedi Herremans 2019.
60 Sui progetti di Rubens per piccole sculture in avorio
e per oggetti decorativi, vedi Van Beneden in corso di
pubblicazione.
40 Per Jacques Jordaens, vedi d’Hulst, De Poorter & Vandenven
1993; Vander Auwera & Schaudies 2012. Sebbene Jordaens
fosse uno dei pochi pittori storici di Anversa a non aver mai
visitato l’Italia, aveva comunque familiarità con le opere
italiane grazie a Rubens e Van Dyck.
41 Van de Velde 1992.
42 Wilmers 1996.
43 De Bruyn 2014.
44 Per i dipinti storici di piccolo formato ad Anversa, vedi
Vlieghe 1998, pp. 105-114.
45 Filipczak 1987, pp. 62, 218, n. 19. Härting 1989, n. 455.
46 Ertz 2008-2010.
47 Collaborazioni di questo tipo tra due o più maestri
specializzati erano tipiche della scena di Anversa. Sulla
collaborazione tra Rubens e Brueghel, vedi Woollett & Van
Suchtelen 2006.
48 Su Adriaenssen, vedi Spiessens 1990.
49 Su Mahu, vedi Craft-Giepmans 2006, pp. 198-199.
50 Renger 1986; Lichtert 2017.
51 Su Teniers, vedi Vlieghe 2011.
52 Sulla collezione dell’arciduca, vedi il saggio recente di Haag
2014.
53 La pubblicazione di base sul Caravaggismo in Europa resta
Nicolson 1990; di più recente, vedi Ebert & Helmus 2018.
54 d’Hulst, De Poorter & Vandenven 1993.
55 Van Suchtelen & Van Beneden 2009.
56 Van Beneden 2009, p. 68.
La pittura e le arti
35
Il vetro veneziano nelle
nature morte fiamminghe
e olandesi del XVII secolo
Fred G. Meijer
La raffigurazione del vetro è una delle sfide più impegnative per un artista, e lo era ancora di
più nel XVII secolo per i pittori di nature morte che mettevano al centro della loro attenzione
gli oggetti che dipingevano. L’obiettivo principale di questi artisti era la somiglianza tra
l’immagine e l’oggetto rappresentato, cosa non sempre semplice da raggiungere, perché gli
oggetti di vetro, soprattutto se privi di colore, prendono forma sulla tela quasi esclusivamente
attraverso i riflessi della luce. Inoltre, dal momento che sono in gran parte trasparenti, non
è facile percepirli come solidi.
L’arte vetraria, con i suoi eleganti manufatti, poggiava su tecniche antiche e si sviluppò in
particolar modo nell’isola di Murano, dove soprattutto nel corso del XV e XVI secolo raggiunse
livelli degni di nota. Alcuni esemplari di vetri veneziani arrivarono presto nel nord Europa,
in particolare attraverso il porto di Anversa, e divennero beni di lusso per le classi più elevate.
Già intorno al 1535 alcuni maestri vetrai veneziani si trasferirono nelle città del nord – come
Anversa e Liegi – avviando botteghe dove iniziarono a riprodurre i modelli che avevano
imparato a forgiare in patria, conosciuti come vetri à la façon de Venise. Nel Seicento quasi
tutta l’industria vetraria si spostò da Anversa a Liegi e Bruxelles, periodo in cui la famiglia
Bonhomme di Liegi monopolizzò quasi tutta la produzione locale, non solo di bicchieri in
stile veneziano, ma anche di altri tipi molto usati come i römer verdi in Waldglas, tipici della
Germania. Manufatti quali bicchieri, bottiglie e vasi vitrei in stile veneziano compaiono
spesso rappresentati nelle nature morte del diciassettesimo secolo.
Osias Beert il Vecchio (1580 ca.-1623), iscritto nel 1602 come maestro nella Gilda di San
Luca ad Anversa, è stato nella prima decade del Seicento uno dei pionieri nel genere della
natura morta. Fu lui uno dei primi artisti a scegliere come soggetto un assortimento di oggetti
disposti su un tavolo. Di solito Beert dipingeva le sue nature morte su tavola o su lastre di rame
dal formato orizzontale; le firmava raramente e non le datava quasi mai. L’esempio in fig. 1 è
databile intorno al 1605-1610. La datazione relativamente antica del dipinto è avvalorata dal fatto
che la composizione sia inquadrata dall’alto. Nelle nature morte successive infatti, e non solo
in quelle di Beert, la prospettiva si abbassa mostrando solo una porzione del tavolo. In questo
37
Fig. 1 Osias i Beert, Natura morta con prelibatezze e bicchieri di vino. Collezione privata
dipinto, molto elaborato, l’artista dispiega un assortimento di prelibatezze culinarie: ostriche,
un pollo arrosto, dolci e frutta candita. Tra i vassoi di peltro che ostentano queste squisitezze,
spiccano degli splendidi goblet lavorati à la façon de Venise, che potrebbero, però, essere di manifattura
fiamminga. Bicchieri di questo tipo ricorrono con gran varietà in tutta l’opera di Beert.
David Rijckaert II (1589-1642), sebbene gran parte della sua opera sia stata più tardi
confusa con quella di Beert, suo contemporaneo più noto, fu un eccellente pittore di nature
morte, con una predilezione per la resa figurativa di vasellame metallico e di raffinati oggetti
in vetro. I brani di natura morta nel Sileno dormiente della Pinacoteca dell’Accademia di Belle
Arti di Vienna (fig. 2), dipinto insieme a Rubens, gli sono stati attribuiti solo di recente.1
La composizione include un clamoroso assortimento di bicchieri in stile veneziano, variegati
per forme per e dimensioni, assieme a diversi calici e perfino una tazza, ed è databile all’incirca
allo stesso periodo della piccola natura morta di Beert di collezione privata descritta
poc’anzi. I bicchieri dipinti da Rijckaert, però, ancor più di quelli di Beert, sono caratterizzati
da riflessi nitidi, brillanti sui profili esterni, mentre le loro forme sono definite soprattutto
dai contorni del vino bianco o rosso che contengono. Nell’opera di un altro genio precoce
della natura morta, Clara Peeters (attiva dal 1607 almeno fino al 1621) i bicchieri sono meno
abbondanti, sebbene nel suo primo dipinto conosciuto, datato 1607, se ne trovi uno in stile
veneziano, accanto a un römer tedesco in Waldglas verde (fig. 3). Nemmeno il grande maestro
Frans Snijders (1579-1657) attribuiva ai bicchieri un ruolo di spicco, però nei suoi quadri ne
compaiono regolarmente di diversi tipi, per esempio nella figura n. 87 del catalogo e in una
natura morta di frutta conservata presso il Museo Reale delle Belle Arti di Anversa (fig. 4).
38
Fred G. Meijer
Fig. 2 Peter Paul Rubens e David Rijckaert II, Sileno dormiente. Vienna, Accademia di Belle Arti
Fig. 3 Clara Peeters, Natura morta con bicchieri di vino, dolci e una candela. Collocazione ignota
Il vetro veneziano nelle nature morte fiamminghe e olandesi 39
Fig. 4 Frans Snijders, Natura morta con frutta e bicchieri. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti
Il genere principale della natura morta si differenziò presto in vari sottogeneri: nature
morte di fiori, di frutta, di banchetti, vanitas (ricche di simboli che ricordano allo spettatore la
caducità della vita), nature morte di selvaggina o di pesci, nature morte di cucine e di mercati.
Nelle composizioni di selvaggina o di pesci, i raffinati bicchieri da vino trovavano in genere
poco spazio, ma Alexander Adriaenssen (1587-1661), il più prolifico pittore di nature morte,
ogni tanto ne includeva uno, così come, sempre saltuariamente, abbandonava le composizioni
di pesci per dedicarsi a quelle di oggetti più lussuosi. In una di queste opere, datata 1646,
inserisce lo stesso goblet in stile veneziano già usato in alcune delle sue nature morte di pesci
(fig. 5). In questo dipinto il ruolo centrale spetta a un grande vassoio di granchi bolliti, attorno
al quale, a parte il goblet à la façon de Venise, sono disposti anche un römer in Waldglas verde e
una piccola caraffa deliziosamente lavorata alla maniera veneziana, contenente un mazzo
di fiori e decorata da fili di vetro blu con il bordo dorato. Il dipinto emana una sensazione di
lusso, che manca nelle altre nature morte di pesci di Adriaenssen.
40
Fred G. Meijer
Fig. 5 Alexander Adriaenssen, Natura morta con granchi e un vaso di fiori su un tavolo. Collocazione ignota
I fiori disposti in bottiglie di vetro, caraffe, o vasi in stile veneziano si trovano con
frequenza molto maggiore nei quadri del più famoso pittore di fiori, il prete gesuita Daniël
Seghers (1590-1661) e in quelli del suo allievo, Jan Philip Van Thielen (1618-1667) (fig. 6).
Il dipinto di Van Thielen, risalente probabilmente agli anni Cinquanta del XVII secolo,
raffigura un vaso con piede e scanalature verticali, un tipo di decorazione usato anche per i
bicchieri di vetro, come l’esemplare che compare nel quadro di Snijders alla figura 4.
La natura morta si ramificò quindi in molteplici direzioni, non solo nelle Fiandre ma
anche e in modo particolare nei Paesi Bassi settentrionali, per esempio a Haarlem, dove artisti
come Pieter Claesz (1597/98-1660) e Willem Claesz Heda (1594-1680) elaborarono composizioni
caratterizzate da tavole imbandite e da una ristretta gamma cromatica.2 Ad Anversa, Cornelis
Mahu (1613-1689) dirigeva una bottega che realizzava copie delle opere di Heda, forse destinate
almeno in parte all’esportazione. La natura morta dipinta nel 1638 (fig. 7) è una composizione
originale di Mahu, ma deve molto all’opera di Heda. Nel dipinto, un bicchiere di vino rosso
Il vetro veneziano nelle nature morte fiamminghe e olandesi 41
Fig. 6 Jan Philip van Thielen, Natura morta con fiori in un vaso à la façon de Venise.
Collocazione ignota
Fig. 7 Cornelis Mahu, Natura morta su un tavolo. Anversa, Museo Mayer van den Bergh
42
Fred G. Meijer
Fig. 8 Jan i van den Hecke, Natura morta con frutta, ostriche, bicchieri di vino e un calice in argento dorato. Collocazione ignota
à la façon de Venise è collocato vicino a un’elaborata coppa a spirale d’argento dorato che regge
un römer di Waldglas verde contenente vino bianco. Un impulso importante a questo genere
pittorico, nelle Fiandre, arrivò da Jan Davidsz De Heem (1606-1684), uno dei pittori di nature
morte più creativi ed apprezzati del Seicento. Nato nei Paesi Bassi settentrionali, dove fece
anche il suo apprendistato, a metà anni Trenta del XVII secolo De Heem si trasferì ad Anversa
e adottò un sontuoso stile barocco. Le sue nature morte, in un ampio ventaglio di formati,
sono straordinariamente dettagliate. Il n. 88 del catalogo riporta un esempio perfettamente
conservato della sua opera, databile più o meno al 1652. De Heem era solito accostare un
bicchiere à la façon de Vénise ad altri generi di lusso, per esempio una costosa porcellana cinese.
Qui fa lo stesso: sopra un tavolo traboccante di frutta succulenta, dentro un vassoio di peltro
lucente e una ciotola di porcellana cinese, si staglia maestoso un bicchiere di vino bianco
dalla lavorazione sofisticata. È evidente che l’artista amava giocare con i riflessi della luce,
come quello della finestra che notiamo sulla coppa e su diversi punti dello stelo del bicchiere,
o quelli sul peltro e sulla porcellana cinese. De Heem influenzò diversi pittori, per esempio i
suoi talentuosi seguaci Jan Van den Hecke il Vecchio (1619/20-1684) e Joris Van Son (1623-1667),
anche se entrambi manifestavano già un loro stile ben riconoscibile (figg. 8, 9). Il quadro di
Van den Hecke del 1643 (fig. 8) era chiaramente ispirato alla sfarzose nature morte che De
Il vetro veneziano nelle nature morte fiamminghe e olandesi 43
Fig. 9 Joris van Son, Natura morta con granchi, frutta e bicchieri di vino. Collocazione ignota
44
Fred G. Meijer
Heem aveva sviluppato negli anni precedenti, come la grande tela del 1640, ora al Louvre
di Parigi, che mostra una prospettiva simile dello sfondo architettonico, in parte celato da
un sontuoso tendaggio. Nel dipinto di Van den Hecke, la frutta succulenta, il piatto con le
ostriche e la ricca tazza con coperchio in argento dorato hanno il ruolo di protagonisti, ma
dietro di loro, in secondo piano, anche un bicchiere trasparente da birra e due raffinati calici
à la façon de Vénise contribuiscono alla sensazione di opulenza emanata dal dipinto.
Nella più piccola e modesta natura morta di Joris Van Son (fig. 9) della metà del XVII
secolo compare un bicchiere da vino in stile veneziano e, accanto, un römer verde. Come nel
quadro di Van den Hecke, anche qui i bicchieri sono collocati dietro i veri protagonisti del
dipinto: un vassoio di peltro lucente con il suo contenuto di granchi e gamberi circondati
da due pesche, grappoli di uva bianca e nera, e da un limone sbucciato a metà. Sia Van den
Hecke che Van Son erano pittori versatili e si misero alla prova anche con altri soggetti, ma
le loro specialità restarono comunque le nature morte di vari tipi e dimensioni.
Nell’ultimo quarto del XVII secolo i quadri di nature morte persero popolarità nelle
Fiandre, mentre nei Paesi Bassi settentrionali l’interesse per questo genere durò più a lungo.
Vennero in auge le composizioni di fiori o di frutta, ma continuarono ad essere apprezzate
anche le nature morte di cacciagione. I pittori che si dedicarono a questo genere di quadri
non erano particolarmente interessati a riprodurre delicati bicchieri di vetro, probabilmente
perché nel mercato dell’arte ne scarseggiava la richiesta.
In tutte le nature morte qui analizzate, la raffinatezza dei manufatti vitrei allude al lusso
e all’agiatezza delle classi dominanti che potevano permetterseli – sia dipinti che realizzati
a mano – in un secolo che viene giustamente chiamato età dell’oro.
1 Ho attribuito a Rijckaert i brani di natura morta di questo dipinto nel 2005. Sull’artista, vedi anche il mio articolo
“Herkend: Een stilleven van David Rijckaert II”, Magazine Rijksmuseum Twenthe 2009, n.1, pp.26-28.
2 Sui primi sviluppi della natura morta con tavola imbandita, vedi Buvelot et al. 2017.
Il vetro veneziano nelle nature morte fiamminghe e olandesi 45
46
Fig. 1 Cornelis Hagaerts, Virginale (spinetta), Anversa, 1636. Anversa, KBC, Museo della Casa di Snijders e Rockox
L’esibizione della ricchezza.
Clavicembali, spartiti e cabinet
ad Anversa
Timothy De Paepe
Lo scrittore e diarista inglese John Evelyn (1620-1706) trascorse qualche giorno ad Anversa
nell’ottobre del 1641. Visitò le chiese e le ditte commerciali più importanti, salì sulla torre della
cattedrale, restò estasiato di fronte ai dipinti di Rubens nella Chiesa dei Gesuiti e acquistò i
libri dei famosi editori Plantin-Moretus. Ricevette anche un invito dal mercante anversese
Gaspar Duarte (1584-1653 ca.), che viveva in una bella casa sulla Meir, la via principale della
città. La facciata relativamente semplice dell’edificio strideva con l’opulenza barocca che si
respirava appena entrati nel salone. Secondo Evelyn, la dimora era “arredata come quella
di un principe”.1 Vi erano esposti in bella mostra mobili costosi, spesse tappezzerie, libri su
ogni genere di argomento, spartiti a stampa o manoscritti e, alle pareti, dipinti di maestri
italiani e soprattutto fiamminghi, da Tiziano e Tintoretto a Rubens e Van Dyck. Gaspar e
tre delle sue figlie offrirono a Evelyn un concerto «di musica rara, vocale e strumentale»
eseguita con uno strumento, tra gli altri, che apparteneva alla famiglia dei clavicembali e
dei virginali, di cui i Duarte possedevano almeno cinque esemplari. Anversa non avrebbe
potuto desiderare ambasciatori culturali migliori di questa famiglia di collezionisti ed Evelyn
restò debitamente impressionato.
Il lusso e la raffinatezza artistica che Gaspar Duarte dispiegò col suo ospite furono davvero
straordinari, ma non unici nell’Anversa del XVII secolo. Il padre di Gaspar, di origini ebree,
era arrivato dal Portogallo circa settantacinque anni prima per sfuggire all’Inquisizione
e aveva avviato un’attività commerciale nel centro sulle rive della Schelda. A quel tempo
Anversa stava vivendo la sua età dell’oro (1500-1585) e la sua ascesa richiamava artisti, artigiani
e mercanti da ogni dove, che a loro volta contribuivano a questo fiorente sviluppo. Tale
successo economico determinò la nascita di un’élite commerciale e politica sicura di sé, che
iniziò a dare sempre più importanza, oltre al lavoro, anche a uno stile di vita confortevole
e culturalmente raffinato. Una volta raggiunta una certa posizione sociale, questa élite era
impaziente di esibirla attraverso i beni di lusso che riusciva facilmente a procurarsi.
47
Artisti, mobilieri, ceramisti, vetrai, stampatori di libri e artigiani di strumenti musicali
trovarono ad Anversa un terreno fertile per le loro attività e divennero così ulteriori catalizzatori
di questo sviluppo culturale. Al contempo, la città guadagnò una reputazione sul piano
internazionale: come porto di prima grandezza, rappresentava un crocevia tra l’Europa settentrionale
e quella meridionale e ospitava filiali importanti e depositi di comunità mercantili,
come quella anseatica e quella portoghese. Le rotte commerciali anversesi attraversavano
tutto il mondo allora conosciuto, incluso l’impero coloniale spagnolo; nella piazza dove si
concludevano le transazioni si potevano sentire ogni giorno dozzine di lingue straniere. Lungo
questa rete commerciale viaggiavano merci e conoscenze, la richiesta di beni di lusso era
alta sia a livello locale che internazionale. I conflitti religiosi (1568-1648) e l’assoggettamento
di Anversa, allora ribelle, da parte delle truppe spagnole nel 1585 provocarono un ristagno
economico e un drastico calo della popolazione. Sia la domanda che l’offerta di beni di lusso
rimasero, però, molto alte fin dopo la metà del XVII secolo.
Anversa, la città dei clavicembali
I Duarte sfruttarono al meglio le opportunità culturali ed economiche offerte da Anversa,
come dimostrano gli oggetti ammirati da Evelyn nella loro casa. Gaspar Duarte, a quanto
pare, non collezionava solo dipinti: con i suoi clavicembali e virginali, almeno cinque in tutto,
poteva evidentemente sfoggiare anche una notevole collezione di strumenti a tastiera. Per
acquistarli non dovette andare lontano, dal momento che Anversa era uno dei centri dove
se ne producevano di più e almeno due importanti cembalai rientravano nella cerchia di
conoscenze di Duarte.
Nel 1615, l’italiano Giovanni Maria Trabaci, compositore e virtuoso della tastiera, pubblicò
il suo famoso secondo volume di musica per clavicembalo, con queste parole di prefazione:
«Il Cimbalo è Signor di tutti l’istromenti del mondo». Forse aveva in mente i clavicembali
italiani, che ben conosceva: strumenti aggraziati e leggeri con pareti sottili in legno di cipresso
mediterraneo. Nel XVI e nel XVII secolo erano molti gli artigiani che li realizzavano, in particolare
a Venezia. Tra loro si contavano almeno quattro membri della famiglia Trasuntino,
oltre a “Dominicus Venetus”, Giovanni Celestini e Giovanni Antonio Baffo.
48
Timothy De Paepe
Eppure, non furono i clavicembali italiani ad avere il maggior seguito intorno al 1615:
mentre l’Italia restava fedele alla propria tradizione artigianale, il resto dell’Europa guardava
ad Anversa, che, in piena età dell’oro, attirava cembalai provenienti dalla Germania
ad aprire la loro attività in città. La prima notizia su uno di questi artigiani trapiantati ad
Anversa risale al 1512 e riguarda il tedesco Hans Süss (da “Cuelen” o Cologna), che proprio
in quell’anno costruì un “clavecenon” per Eleonora d’Austria, sorella del futuro imperatore
del Sacro Romano Impero Carlo V. Nei decenni successivi, la fama di Anversa come centro
per la produzione dei clavicembali continuò a crescere.
I primi strumenti di questo tipo realizzati in città rispecchiano l’influsso italiano, pur
se introdotto attraverso la Germania. Dalla metà del XVI secolo, però, iniziò a svilupparsi
ad Anversa un modello caratteristico di clavicembalo, che poi restò pressoché uguale anche
nel secolo seguente. Un tipico clavicembalo anversese della fine del Cinquecento o della
prima metà del Seicento era uno strumento robusto con pareti spesse in legno di pioppo e
una cassa armonica in legno di pino (cat. 63), che portava incorporata, come un marchio
di fabbrica, una rosetta dorata col monogramma del costruttore. La tastiera aveva circa
quarantacinque tasti, ciascuno dei quali dotato di due registri: uno su corde corte e l’altro
su corde lunghe. Le leve su un lato dello strumento permettevano all’esecutore di inserire
o disattivare uno dei due registri, o di farli suonare all’unisono, ottenendo così una varietà
di combinazioni acustiche.
Anche i virginali erano un prodotto presente nelle botteghe di Anversa (fig. 1). Questi
strumenti risalivano più o meno allo stesso periodo dei clavicembali e funzionavano all’incirca
allo stesso modo, ma la cassa aveva una forma diversa. La conformazione dei clavicembali
era ad ala con una fascia curva laterale e la tastiera sul lato stretto. La cassa dei virginali,
invece, aveva una forma poligonale, o rettangolare alla fine del XVI secolo, con la tastiera sul
lato lungo. I virginali avevano, poi, un solo registro di corde invece di due, il che ne limitava
notevolmente le possibilità. I materiali e i metodi di costruzione erano comunque identici
a quelli dei clavicembali.
L’esibizione della ricchezza 49
Fig. 2 Decorazione di un virginale (Anversa, 1611) di
Joannes Ruckers, con esterno (a sinistra) dipinto di
rosso con effetto marmorizzato e (a destra) strisce di
carta ornamentale nella parte interna. Anversa, Museo
Vleeshuis | Sound of the City
Fig. 3 Andreas I Ruckers, Clavicembalo (Anversa, 1615),
con le parole Concordia res parvæ crescunt, discordia maximæ
dilabuntur e Omnis spiritus laudet dominum sugli elementi
del coperchio. Anversa, Museo Vleeshuis | Sound of the
City
Fig. 4 Andreas Ruckers (I e/o II), Tasti di clavicembalo
(Anversa, 1646). Anversa, Museo Vleeshuis | Sound of
the City
50
Timothy De Paepe
La famiglia Ruckers-Couchet
Hans Ruckers (morto nel 1598), i suoi figli Joannes (1578-1642) e Andreas I (1579-1653 ca.) e i
nipoti Andreas II (1607-1654 ca.) e Joannes Couchet (1615-1650) ebbero un ruolo centrale nella
standardizzazione e nel successo dei clavicembali e dei virginali anversesi. La famiglia era
originaria della Germania. Hans era arrivato ad Anversa via Mechelen nel 1575 o poco prima
e si era iscritto alla Gilda di San Luca come maestro cembalaio nel 1579.
La sua bottega fiorì rapidamente; vi lavoravano parecchi dipendenti, ciascuno con
un compito ben preciso. Ruckers si costruì anche una rete di colleghi e di fornitori che
garantivano competenze tecniche e artistiche specializzate. Il risultato fu una linea di
produzione efficientissima, che permetteva di risparmiare tempo e denaro. I modelli di
clavicembalo e virginale, costruiti dalla maggior parte degli artigiani di Anversa, erano
relativamente semplici ed essenziali. L’uniformità riguardava sia la costruzione che la
decorazione, quest’ultima, almeno a un livello base, era assai schematica. La maggioranza
dei cembalai anversesi prediligeva all’esterno una decorazione marmorizzata, verde o
rossa, e rivestiva quasi tutto l’interno con carta ornamentale (fig. 2), che costava molto
meno e richiedeva un impegno minore rispetto alla pittura. Sulla carta del coperchio, gli
artigiani stampavano motti edificanti (fig. 3). La cassa armonica dei clavicembali anversesi
era invariabilmente dipinta con fiori, insetti, uccelli e, in alcuni casi, piccoli mammiferi,
tra cui spesso conigli. I tasti, infine, venivano ricoperti di osso oppure realizzati in legno di
quercia tinto di scuro e decorati sul davanti con pergamena o pelle incollata sopra (fig. 4),
o con semplice intaglio. La rifinitezza era secondaria rispetto alla solidità, all’affidabilità
e alla qualità del suono.
Hans Ruckers e i suoi figli erano anche intraprendenti uomini d’affari, non si affidavano
al solo mercato locale, una parte dei loro prodotti era destinata anche all’esportazione. I loro
strumenti musicali raggiunsero ogni angolo dell’Europa, i loro clavicembali e virginali
finirono addirittura nelle colonie spagnole del Sud America. Benché i Ruckers-Couchet non
fossero gli unici artigiani musicali di Anversa – la città ne contava a dozzine – riuscirono a
guadagnarsi una fama a livello internazionale, quando erano ancora in vita. Dopo la morte,
la loro reputazione divenne quasi leggendaria. Gli strumenti dei Ruckers furono aggiornati
L’esibizione della ricchezza 51
Fig. 5 Andreas I Ruckers, Ottavino (virginale “figlio”), Anversa, 1626 ca. Anversa, Museo Vleeshuis | Sound of the City
Fig. 6 Coperchio dipinto di clavicembalo di Andreas I Ruckers, Anversa, 1605 ca. Anversa, Museo Vleeshuis | Sound of the City
e talvolta perfino contraffatti da astuti costruttori, fino a buona parte del XVII secolo; soprattutto
in Francia, dove gli esemplari con la rosetta dei Ruckers valevano una fortuna.
La famiglia Ruckers-Couchet sviluppò un efficiente sistema produttivo e uniformò il
disegno dei suoi strumenti, ma si concesse anche di esplorare nuove possibilità nella creazione
di pezzi unici su richiesta. Oltre a quelli con tastiera singola, la famiglia costruì un tipo di
clavicembali a tastiera doppia, una sull’altra, una specialità che divenne il fiore all’occhiello
delle botteghe di Anversa. Quando nel 1604 i consiglieri comunali di Amsterdam decisero
di acquistare un clavicembalo municipale, scelsero un modello a due tastiere costruito dai
Ruckers.
Anche i virginali potevano avere diverse forme: oltre ai modelli con la tastiera collocata
a sinistra – il tipo “spinetta”, dal suono più alto e acuto – i Ruckers-Couchet ne costruirono
altri con la tastiera centrale o spostata a destra, il tipo “muselar”, che aveva un suono più
morbido e diffuso. Nel frattempo, il “virginale madre-e-figlio”, la cui invenzione è attribuita
a Hans Ruckers, impegnò i cembalai in un tour de force tecnico. Questo strumento era
formato da un virginale (la “madre”) che aveva uno scompartimento segreto vicino alla
tastiera per un secondo virginale più piccolo, chiamato ottavino (il “figlio”), dal suono più
alto e più cupo (fig. 5; cat. 61). Le tastiere potevano essere suonate in contemporanea da
due esecutori, oppure si poteva spostare il “figlio” in un’altra stanza. Una terza opzione
consisteva nel collocare il “figlio” sopra la “madre”, così, grazie a un meccanismo ingegnoso,
quando l’esecutore schiacciava un tasto dello strumento principale i due suonavano
52
Timothy De Paepe
Fig. 7 Maerten de Vos (bottega o seguace), Le tentazioni di Sant’Antonio Abate, fine del XVI secolo, coperchio dipinto di virginale. Anversa, Museo
Mayer van den Bergh
all’unisono, creando una gamma avanzata di possibilità tonali. Pare, però, che il virginale
madre-e-figlio sia stato inventato soprattutto per dare una dimostrazione dell’abilità
tecnica dei cembalai di Anversa.
Al momento di ordinare uno strumento, i clienti potevano scegliere tra un ampio
ventaglio di decorazioni. La carta ornamentale era pratica e non faceva lievitare i prezzi
dei clavicembali, ma ovviamente si poteva optare anche per una decorazione dipinta. In
questo caso, la parte più adatta era l’interno del coperchio: per deliziare gli ospiti, bastava
semplicemente aprire il clavicembalo – fino a quel momento un semplice arredo – e svelare
un autentico dipinto (fig. 6). Fonti del XVII secolo, come inventari patrimoniali e lettere,
menzionano clavicembali anversesi decorati da Jan I Brueghel e da Hendrick I van Balen,
Peter Paul Rubens, Pieter I Codde e Otto van Veen. In alcuni casi, quando lo strumento
restava inutilizzato, il coperchio veniva rimosso e conservato come un quadro a sé stante
(fig. 7). Quasi sempre, però, andava perduto insieme al clavicembalo. Un destino che toccò,
per esempio, a uno strumento Ruckers dipinto da Rubens per l’arciduca Alberto e l’infanta
Isabella, governatori dei Paesi Bassi meridionali, la cui corte aveva sede a Bruxelles.
L’esibizione della ricchezza 53
L’editoria musicale
È piuttosto strano, ma durante il XVI e il XVII secolo, la musica da tastiera dei Paesi Bassi
meridionali fu preservata solo raramente in edizioni a stampa. Sono i manoscritti, soprattutto,
a fornirci informazioni sul repertorio che si suonava ad Anversa. Eppure, in città il sorgere
di una scuola clavicembalistica si sviluppò in parallelo al diffondersi dell’editoria musicale
e all’emergere di una cultura borghese interessata alla musica.
Nel Seicento, Anversa non era né il primo né l’unico centro dove si stampavano edizioni
musicali, ma senza dubbio uno dei più importanti. Dopo l’invenzione della stampa intorno
al 1450, si iniziarono a cercare dei metodi anche per stampare la musica. Nel 1501, a Venezia,
Ottaviano Petrucci pubblicò la prima raccolta di musica polifonica, utilizzando la tecnica
a impressione multipla, che prevedeva tre stampe successive per ogni foglio: prima il testo,
poi il pentagramma, infine le note. Ogni elemento era realizzato in lega tipografica, con un
procedimento assai lungo e costoso, per quanto innovativo. Un ulteriore passo avanti nella
storia della stampa musicale fu compiuto a Parigi, attorno al 1528, quando lo stampatore
Pierre Attaingnant riuscì con un’unica impressione a stampare contemporaneamente il
testo, il pentagramma e le note.
Intorno al 1539-40, Simon Cock fu il primo ad Anversa a utilizzare il metodo Petrucci.
Poco dopo, nel 1542, il suo concittadino Willem van Vissenaecken stampò le sue Quatuor vocum
musicae modulationes usando la tecnica a impressione singola. Van Vissenaecken non era uno
stampatore di musica, ma di libri. Si rivolse perciò al giovane Tielman Susato (1510 ca.-1570
ca.), non solo per sistemare la musica prima della pubblicazione, ma anche per disegnare una
nuova collezione di note con le quali stamparla. Dopo aver litigato con Van Vissenaecken, Susato
utilizzò quelle stesse note per varare un’impresa tipografica tutta sua. Da quel momento in poi
Fig. 8 Tielman Susato, Premier
livre de chansons à deux ou à trois
parties, Anversa, 1544. Anversa,
Biblioteca del Conservatorio
Reale di Anversa
54
Timothy De Paepe
Fig. 9 Georges de la Hèle, Octo missae quinque, sex et septem vocum,
Anversa, Christophe Plantin, 1578. Anversa, Museo Plantin-Moretus
UNESCO World Heritage
pubblicò almeno cinquantacinque raccolte
di messe, mottetti, canzoni e musica
strumentale, che fecero di lui uno dei più
importanti stampatori musicali del nord
Europa. Nel frattempo, Susato contribuì
al successo di Anversa come uno dei centri
più importanti in questo settore, insieme
a Venezia, Parigi e, in misura minore,
a Norimberga (fig. 8).
Oltre a Susato, vi erano naturalmente
altri stampatori musicali. Nel 1545, per
esempio, Petrus I Phalesius (1510 ca.-
1573 ca.) iniziò a vendere libri a Lovanio
e poi fondò un’impresa tipografica. A partire
dal 1570 collaborò con l’editore musicale anversese Jean Bellère: un’alleanza, la loro, che
portò il figlio di Phalesius, Petrus II (1545 ca.-1629), a stabilirsi definitivamente ad Anversa nel
1581. La tipografia continuò ad avere un ruolo importante anche per i discendenti di Phalesius,
fino alla fine del Seicento. Padre e figlio avevano interessi molto ampi: tra l’uno e l’altro,
stamparono messe e mottetti, canzoni in olandese e in francese, intavolature per liuto e altri
strumenti di compositori dei Paesi Bassi, della Francia e dell’Italia. I Phalesius rifornivano
sia il mercato locale, sia quello estero (cat. 65). La posizione di Anversa come crocevia e snodo
nella rete del commercio internazionale garantì alla stampa musicale gli stessi vantaggi di cui
godeva l’esportazione di clavicembali e virginali: la musica arrivava da ogni angolo dell’Europa
e in ogni angolo dell’Europa veniva spedita.
Anche l’editore anversese più famoso in assoluto, Christophe Plantin (1520-1589), si
cimentò nel settore musicale. La sua prima pubblicazione in questo campo si attestava
già a un livello straordinario. Nel 1578 pubblicò una raccolta di messe in cinque, sei e sette
parti composte da Georges de La Hèle (fig. 9, cat. 64). A differenza dalle raccolte di Susato
e di Phalesius, quello di Plantin era un volume estremamente lussuoso, destinato a ricchi
collezionisti. Le pubblicazioni degli altri due editori si rivolgevano, invece, a musicisti
professionisti e amatoriali, appartenenti a quel genere di famiglie mercantili e patrizie per
le quali libri di questo tipo, insieme a clavicembali e virginali, erano entrati a far parte di un
raffinato stile di vita cittadino.
L’esibizione della ricchezza 55
Fig. 10 Anonimo (mobile) e Michiel II Coignet (dipinto), Cabinet, Anversa, 1640 ca. Anversa, KBC, Museo della
Casa di Snijders e Rockox
56
Timothy De Paepe
I cabinet
L’Anversa del XVII secolo era un centro internazionale per la produzione non solo dei clavicembali,
ma anche di cabinet per oggetti preziosi; in questo campo poteva competere solo con
Augusta. È nella città tedesca, infatti, che a metà del XVI secolo gli stipi di questo genere fecero
la loro prima comparsa come lussuosi elementi d’arredo e come opere d’arte. Dall’esterno, la
forma dei cabinet ricordava spesso quella di un cesto e alcuni erano perfino dotati di manici
per facilitarne il trasporto. All’interno, avevano un numero tale di cassetti e altri scomparti
da rendere evidente la loro funzione di contenitori di articoli da cancelleria e, soprattutto,
di piccoli oggetti da collezione. In questo senso, erano l’equivalente sotto forma di mobile
delle stanze – anch’esse note come cabinet – destinate alle collezioni private di opere d’arte e
“curiosità”. Gli stipi in legno potevano essere collocati su un tavolo o su un apposito supporto. Lo
splendore delle rifiniture ne faceva spesso delle opere d’arte a sé stanti, piuttosto che semplici
arredi; i cabinet erano dunque l’espressione del gusto e della ricchezza dei loro proprietari.
Gli stipi di Augusta si caratterizzavano per la complessità degli intarsi e degli intagli e per
l’utilizzo di un’ampia gamma di materiali, incluse diverse qualità di legno, metallo, avorio
e osso. Verso l’inizio del XVI secolo, i mobilieri di Anversa si resero conto del potenziale di
questi pezzi e svilupparono una variante locale specifica: dietro una facciata relativamente
insignificante, i cabinet anversesi celavano di solito un interno con piccole ante e cassetti dipinti
in maniera esuberante. Il proprietario, o i suoi fortunati ospiti, dovevano prima dischiudere
le ante per godere di questo splendore.2 Lo stipo anversese divenne immediatamente popolare
anche all’estero: una storia di successo parallela, più o meno nello stesso periodo, a quella
della produzione dei clavicembali. Come i cembalai locali, anche i mobilieri dei cabinet per
oggetti preziosi eccellevano nella manifattura rapida ed efficiente di un modello robusto e
duraturo, ma che i clienti, se lo desideravano, potevano adattare alle mode internazionali.
Una differenza notevole rispetto alla produzione di strumenti musicali riguarda i nomi
degli artigiani che realizzavano i mobili. Su clavicembali e virginali comparivano le firme dei
cembalai, come richiesto dalla Gilda di San Luca, alla quale appartenevano questi maestri.
I cabinet, al contrario, erano in pratica sempre anonimi. Una delle poche figure identificabili
coinvolte nella manifattura e nella vendita degli stipi è Melchior Forchondt (morto nel
1633), originario della regione di Breslavia e uno dei primi ebanisti ad Anversa. Col tempo,
L’esibizione della ricchezza 57
Fig. 11 Anonimo (mobile) e
Victor II Wolfvoet (dipinto),
Cabinet, Anversa, 1640 ca.
Anversa, Museo della Casa di
Rubens
divenne un importante fornitore di mobili e beni di lusso e il capostipite di una vera e propria
dinastia di mercanti e artisti (pittori, orefici),3 con una storia simile per molti versi a quella
della famiglia Ruckers-Couchet.
Anche i decoratori degli interni dei cabinet restarono spesso anonimi. Le loro opere in
miniatura rispecchiavano in genere i dipinti o le incisioni di Rubens e dei suoi colleghi
artisti di Anversa, come Jacques Jordaens o Frans II Francken. Tra i soggetti più amati,
spiccavano episodi biblici e scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio. Proprio come Rubens e
altri famosi maestri lasciavano ai loro lavoranti o ai loro imitatori la decorazione dei coperchi
dei clavicembali, anche quella dei cabinet era affidata spesso a maestri minori specializzati
in questo campo. Inoltre, dipingere su modelli preesistenti permetteva ai decoratori di stipi
di risparmiare molto tempo, riduceva i costi ed incrementava la produzione. Sicuramente è
vero che le decorazioni mostrano più di una volta i segni di un’esecuzione frettolosa, ma non
si può dire che i risultati fossero sempre mediocri. Il Museo della Casa di Snijders e Rockox di
Anversa possiede un cabinet arricchito da splendidi dipinti, attribuibili a Michiel II Coignet
(1618-1663 ca.) (fig. 10), il quale lavorò regolarmente per la famiglia Forchondt, forse anche
58
Timothy De Paepe
per questo stipo. Qui si basò su una serie di incisioni di Crispin I van de Passe (1564-1637)
relative a scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, su disegni di Maerten de Vos (1532-1603)
ed altri artisti. Il Rijksmuseum di Amsterdam e il Museo della Casa di Rubens ad Anversa
conservano ciascuno uno stipo con dipinti di una qualità eccezionale, attribuiti a Victor II
Wolfvoet (1612-1652) (fig. 11). Recentemente, Gregory Martin e Bert Schepers hanno indagato
il rapporto tra Wolfvoet e Rubens e sono giunti alla conclusione che Wolfvoet godesse di un
accesso privilegiato alla bottega di Rubens, per poterne studiare l’opera e adattarla o copiarla
direttamente nei dipinti per i cabinet. In altre parole, acquistando uno stipo anversese ci si
aggiudicava non solo un raffinato elemento d’arredo, ma anche un’intera galleria di dipinti
in miniatura eseguiti sul modello di Rubens o dei suoi contemporanei.
La manifattura di beni di lusso, che in molti casi nascevano dalla collaborazione tra artisti
e artigiani di diversa formazione – pittori, cembalai, stampatori, compositori, carpentieri,
e via dicendo – era uno dei punti forti di Anversa e, per tutto il XVII secolo, le garantì una
fama internazionale di centro capace di produrre ricchezza.
1 Dobson 2015, p. 53.
2 Uno studio approfondito sui cabinet anversesi si trova in Fabri 1991 e Fabri 1993.
3 Sulla famiglia Forchondt, vedi tra gli altri Van Ginhoven 2017.
L’esibizione della ricchezza 59
La produzione libraria ad Anversa
nel XVI e nel XVII secolo
Dirk Imhof
Nel XVI e nel XVII secolo Anversa ricoprì un ruolo di spicco in Europa per la stampa dei libri,
così come per molte altre arti. Il numero di volumi che vi si producevano era comparabile, in
termini relativi, a quello di centri importanti come Parigi e Venezia. Le pubblicazioni anversesi
erano rinomate anche per l’alta qualità dell’esecuzione tipografica e per l’accuratezza della
decorazione. Le basi di questa reputazione furono gettate nel XVI secolo, e per la prima metà
di quello successivo Anversa continuò a dimostrarsi all’altezza della sua fama di città dove
si stampavano edizioni di lusso magnificamente illustrate.
La produzione libraria anversese doveva molto del suo prestigio alla casa editrice Plantin,
spesso citata insieme alle migliori d’Europa, come quella di Aldo e Paolo Manuzio a Venezia e
di Robert e Henri Estienne a Parigi e a Ginevra. Il nome Plantin sul frontespizio garantiva la
qualità della carta, della tipografia e allo stesso tempo del progetto. Oltre a prestare un’attenzione
costante alla bellezza delle illustrazioni e all’accuratezza del testo, Christophe Plantin
e i suoi eredi si assicurarono che le loro edizioni fossero conosciute in tutta l’Europa (fig. 1).
Insieme all’Officina Plantiniana, ad Anversa erano attivi molti altri editori, e tutti cercavano
continuamente di fare concorrenza ai Plantin. Anche molti di questi editori lavoravano
per il mercato internazionale. I Verdussen, per esempio, che avevano debuttato alla fine
del XVI secolo, erano agguerriti concorrenti dei Plantin, insieme alle famiglie tipografiche
Van Keerberghen, Nutius e Bellerus. Anche loro stampavano libri che si facevano notare per
l’alta qualità tipografica e grafica. In questo breve saggio esplorerò in maniera più dettagliata
il mondo librario di Anversa, concentrandomi in particolare sulle illustrazioni che compaiono
nelle edizioni dell’epoca, e che sono state un elemento chiave del loro successo.
A metà del XVI secolo Anversa godette di uno straordinario periodo di fioritura economica
e culturale. Il commercio, che prosperava grazie al porto, generò una ricchezza
tale da permettere alla città di diventare la capitale della produzione libraria nei Paesi
Bassi. Come metropoli commerciale dell’Europa settentrionale, il centro sulla Schelda
attraeva moltissimi mercanti da altri paesi, tra i quali l’Italia, la Spagna, l’Inghilterra e
la Germania, e furono proprio loro a dare un contributo sostanziale alla diffusione dei
61
volumi stampati. I librai, di solito, erano abituati a
scambiarsi tra loro le pubblicazioni, ma le transazioni
con i mercanti facilitarono la circolazione di denaro
liquido. Le grandi ditte avevano agenti di commercio
o parenti in altre città, che si occupavano di ricevere
i pagamenti alla consegna dei libri. Anche i mercanti
si presero la responsabilità di trasportare i volumi
stampati, di assicurarli e di affrontare i rischi legati
alla vendita. Da questo punto di vista, i tanti uomini
d’affari internazionali che facevano base ad Anversa
offrivano svariate opportunità. È per questo che la
casa editrice Plantin preferiva in genere affidarsi a
loro per consegnare le sue pubblicazioni.
La prosperità economica di Anversa favorì anche
lo sviluppo di un solido settore finanziario, che si
rivelò estremamente importante per gli investimenti
nell’industria libraria. Quando gli editori pianificavano
il lancio sul mercato di una nuova edizione, prima di tutto dovevano investire in carta
(in assoluto il costo di produzione più alto) e pagare i salari dei tipografi e degli stampatori. La
vendita dei libri finiti, invece, era un processo lento, quindi le case editrici avevano bisogno
di liquidità per coprire il periodo tra la stampa e la vendita. Questo vuol dire che dovevano
ricorrere a prestiti o trovare partner finanziari.
Fig. 1 Peter Paul Rubens, Ritratto di Christophe Plantin. Anversa, Museo Plantin-Moretus
UNESCO World Heritage
Un altro fattore chiave per il successo della produzione libraria anversese fu la presenza
di un gran numero di artisti, che arrivavano in città da altre zone dei Paesi Bassi, attratti
dalla fama di centro editoriale del capoluogo delle Fiandre, e contribuivano ad illustrare i
volumi che vi si stampavano. Le correnti artistiche dall’Europa settentrionale e meridionale
convergevano nella città sulla Schelda, il cui florido commercio in dipinti, sculture e altri
beni di lusso portò all’editoria un ulteriore incremento. A metà del XVI secolo, Hieronymus
Cock si era costruito, come editore di stampe, una rete di relazioni estesa in tutta l’Europa.
Gli artisti che lavoravano per lui venivano non solo dai Paesi Bassi, ma anche dall’Italia, per
esempio il mantovano Giorgio Ghisi. Oltre a Cock, altri editori dello stesso genere ebbero un
62
Dirk Imhof
Fig. 2 Philips Galle, Virorum doctorum de disciplinis benemerentium effigies XLIIII, Anversa, 1572: frontespizio. Anversa, Museo Plantin-Moretus
UNESCO World Heritage
ruolo importante; tra questi, Gerard de Jode e Hans Liefrinck. Quando Cock morì nel 1570,
la vedova ne proseguì l'attività. Philips Galle, stabilitosi ad Anversa più o meno nello stesso
periodo, colse l’occasione al volo e occupò immediatamente il posto lasciato libero da Cock,
diventando l’editore di stampe più importante della città. Galle pubblicò diverse serie di
incisioni a tema religioso, e altre ispirate a opere d'arte dell'antichità, e poi ritratti e mappe
(fig. 2). Per quanto riguarda la cartografia, produsse il primo atlante tascabile della storia.
Dopo che nel 1570 Abraham Ortelius aveva fatto pubblicare il suo Theatrum orbis terrarum, in
assoluto il primo di tutti gli atlanti, (fig. 3), Galle commissionò versioni ridotte delle mappe,
che iniziò a far uscire in versione tascabile in olandese, francese, latino e italiano dal 1577
in poi (Miroir du monde o Epitome theatri). La versione italiana, in particolare, godette di un
successo prolungato e fu ristampata fino al 1697.
È in questo contesto che Christophe Plantin si stabilì ad Anversa nel 1549. In quel momento
la città aveva 140 editori-stampatori, che producevano libri su qualsiasi argomento, incluse le
scienze, edizioni di autori classici, trattati storici e legali, e ancora testi religiosi in quantità,
libri di ordinanze e pamphlet. Alcune ditte erano specializzate in generi specifici, come le
La produzione libraria ad Anversa 63
Fig. 3 Abraham Ortelius, Theatrum orbis terrarum, Anversa, Christophe Plantin, 1584: mappa del globo.
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage
famiglie Phalesius e Bellerus, che si concentravano sulle partiture musicali, o le case editrici
Nutius e Steelsius, che fornivano edizioni in spagnolo: nel Seicento solo a Salamanca si
pubblicava un numero più alto di libri in questa lingua. Al contrario di altri paesi, in genere
gli editori di Anversa stampavano e pubblicavano le loro edizioni, e in più erano gestori di
librerie. A Parigi, per fare un paragone, c’era una miriade di piccole stamperie, che lottavano
per sopravvivere lavorando per un gruppo ristretto di editori e librai, che detenevano il
controllo sul mercato librario.
All'inizio della sua attività, Plantin era dunque solo uno dei tanti editori anversesi.
Impiegò appena pochi anni, però, per diventare il più importante di tutti. In questo gli fu
d’aiuto la qualità della sua stampa. Per illustrare i suoi libri Plantin utilizzava le xilografie,
come era normale in quel periodo: le incisioni su legno erano più economiche da produrre
e potevano essere combinate con i caratteri tipografici e stampate con lo stesso torchio. Le
incisioni e le acqueforti restituivano un'immagine molto più dettagliata, con una varietà di
grigi al posto del semplice bianco e nero delle xilografie. Nonostante queste qualità, però,
nel XVI secolo erano usate di rado per le illustrazioni dei libri. Le immagini venivano incise,
con strumenti di metallo o con l’uso di acidi, su lastre di rame, che poi dovevano essere
stampate separatamente o con un torchio da intaglio, e questo faceva lievitare i costi di
64
Dirk Imhof
Fig. 4 Biblia regia, Anversa, Christophe Plantin, 1568-72, vol. I: frontespizio. Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage
produzione. Senza contare che le lastre erano soggette ad usura. Alcuni editori avevano già
messo in commercio libri illustrati con incisioni nel corso del XVI secolo, ma si era trattato di
esperimenti isolati. Anche Plantin si ostinò a lungo a usare solo xilografie per i suoi volumi.
Verso la metà degli anni Sessanta del Cinquecento, però, anche lui iniziò a convertirsi alle
incisioni. E non per edizioni limitate: Plantin usò sistematicamente le più raffinate tecniche
d'illustrazione in molte pubblicazioni di diverso tipo, inclusa la sua Biblia regia, una Bibbia in
otto volumi e cinque lingue, dove inserì incisioni a pagina intera (fig. 4). Fece lo stesso nelle
altre pubblicazioni liturgiche, differenziando però ciascuna tiratura in una serie di copie
illustrate con xilografie e destinate ai clienti comuni, e un'altra con incisioni per la clientela
più ricca. Plantin divenne così un pioniere in Europa nell’uso di illustrazioni realizzate con
incisioni e acqueforti. A questo scopo collaborò con disegnatori come Peter van der Borcht
e Crispijn van den Broeck, e con incisori come Frans e Peter Huys, i famosi fratelli Wierix,
Abraham de Bruin e Jan Sadeler (fig. 5). Plantin poteva permettersi un utilizzo su larga scala
di incisioni e acqueforti perché aveva un capitale sufficiente a coprire le spese di produzione
di un numero così elevato di lastre di rame. Per un’edizione della descrizione dei Paesi Bassi
scritta da Lodovico Guicciardini (cat. 12) ne occorsero, per esempio, non meno di sessanta.
Non tutti gli editori potevano affrontare un investimento così sostanzioso.
La produzione libraria ad Anversa 65
Fig. 5 Officium B. Mariae virginis, nuper reformatum, et Pii V pont. max. jussu editum, Anversa, Christophe Plantin, 1573.
Antwerp, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage
Fig. 6 Joannes David, Paradisus sponsi et sponsae, Anversa, Jan Moretus, 1607.
Anversa, Plantin-Moretus UNESCO World Heritage
66
Dirk Imhof
Prima del 1589, anno della sua morte, Plantin era già molto imitato sia nei Paesi Bassi
che fuori, e l’uso di incisioni e acqueforti per illustrare i libri era diventata una pratica
comune. Jan I Moretus, genero e successore di Plantin, proseguì sulla strada aperta dal
suocero. Continuò ad avvantaggiarsi del rapporto stretto da quest'ultimo con il rinomato
pittore Maerten de Vos, che forniva immagini alla casa editrice, ma la collaborazione più
valida iniziata da Moretus fu quella con Theodore Galle, figlio del commerciante di stampe
Philips Galle, subentrato al padre nell'attività. Molti altri artisti lavorarono nello studio di
Galle, incluso suo fratello Cornelis e Charles de Mallery. L’incisore sposò, inoltre, la figlia di
Moretus, Catherine, nel 1598. Il matrimonio divenne il simbolo della collaborazione tra la casa
editrice-tipografia di Jan Moretus e lo studio specializzato in stampe di Galle. Il successore di
quest’ultimo continuò a fornire lastre di rame e a eseguire tutte le stampe per le pubblicazioni
di Jan Moretus e dei suoi eredi fino all’ultimo quarto del XVI secolo. Questa collaborazione
speciale produsse, tra altri risultati, diverse edizioni dell’opera del gesuita Joannes David, per
esempio quella del Veridicus Christianus del 1601, di cui Moretus supervisionò il testo e Galle
l’incisione e la stampa di centinaia di illustrazioni (fig. 6).
Quando nel 1610, in seguito alla morte del padre, Balthasar I and Jan II Moretus subentrarono
alla guida dell’editrice Plantin, continuarono a lavorare con Theodore Galle per
l’incisione, la rielaborazione e la stampa delle immagini. Persuasero anche Peter Paul Rubens
a fornire disegni per illustrare i loro volumi. Rubens – “l’Apelle dei nostri giorni”, come lo
aveva soprannominato Balthasar, dal leggendario pittore greco del IV secolo a.C. – era appena
tornato dall’Italia nel 1608. Consegnò diversi disegni di monumenti che aveva fatto nel Bel
Paese per il libro scritto da suo fratello Philip sull'antichità classica. Furono i suoi primi
contributi all’illustrazione dei libri pubblicati dalle edizioni Plantin. Qualche anno dopo,
l’artista realizzò delle composizioni per le nuove immagini del Missale Romanum in-folio del
1613 (cat. 37) e per il Breviarium Romanum del 1614, nello stesso grande formato di stampa. Da
quel momento, fornì regolarmente nuovi disegni ai Moretus. Di tanto in tanto collaborò
anche con altri editori anversesi, ma la maggior parte dei suoi disegni fu sempre destinata ai
Plantin. Rubens introdusse una nuova freschezza nelle illustrazioni librarie: i suoi bozzetti
per frontespizi non erano semplicemente decorativi, ma contenevano anche una trasposizione
visiva del contenuto del volume. Per ottenere questo risultato, disegnò allegorie di ogni
tipo riferite all'antichità classica e alla Bibbia (fig. 7). Rubens fu il disegnatore perfetto per
La produzione libraria ad Anversa 67
Fig. 7 Peter Paul Rubens, Progetto grafico per Bernardus Baubusius, Epigrammata, 1634. Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage
Balthasar Moretus: questi due eruditi, entrambi in possesso di un’eccellente conoscenza della
mitologia classica e dell’iconografia cristiana, si completarono alla perfezione dal punto di
vista professionale. Il fatto che fossero anche grandi amici rese la loro collaborazione ancora
più straordinaria. Fatta eccezione per i periodi in cui era all’estero, Rubens continuò a fornire
disegni alle edizioni Plantin fino alla morte, nel 1640. Negli ultimi anni il suo apporto si limitò
quasi elusivamente alle idee, la cui esecuzione lasciava poi al suo allievo Erasmus Quellinus.
Quest’ultimo fu autore a sua volta di disegni per frontespizi e illustrazioni e per molti anni
continuò a lavorare per un gran numero di editori, sia ad Anversa che altrove nei Paesi Bassi
meridionali.
Il frontespizio e le illustrazioni giocavano senza dubbio un ruolo importante nella percezione
del libro da parte del lettore o del cliente, ma c’erano anche altri fattori utili a definirne
l’aspetto. Un volume prendeva forma attraverso piccoli elementi decorativi, come le iniziali,
i capopagina e i finalini, l’occhio e il punto del carattere, la disposizione in colonne e altri
aspetti compositivi. La cura dispiegata nell’eseguire alla perfezione tutti questi elementi fece
68
Dirk Imhof
dei libri pubblicati ad Anversa, e in particolare dai Plantin, preziosi oggetti d’arte diffusi in
tutta l’Europa.
Quella dei Moretus non era l’unica casa editrice anversese nel Seicento: già dalla fine
del secolo precedente, sempre più editori avevano iniziato a seguire l'esempio delle edizioni
Plantin e a usare le incisioni per illustrare i libri. Nel 1600, per esempio, Jan van Keerberghen
pubblicò il Rosarium sive psalterium beatae virginis Mariae del prete inglese Thomas Worthington,
con incisioni di Adriaen Collaert su disegni di Maerten de Vos. E nel 1599, Arnold Coninx
diede alle stampe un libro di preghiere inglese, The primer, or office of the blessed Virgin Mary,
con incisioni anonime. Un’opera influente pubblicata ad Anversa, che ispirò molti libri di
emblemi religiosi, fu l’Evangelicae historiae immagine, con le correlate Adnotationes et meditationes
in evangelia del gesuita spagnolo Hieronymus Natalis. Anche se le 153 illustrazioni del volume
erano state disegnate a Roma da Bernardino Passeri, i Gesuiti vollero che le lastre di rame
fossero incise ad Anversa. La commessa fu assegnata quasi per intero ai fratelli Wierix, ma
anche Adriaen e Hans Collaert e Charles de Mallery si occuparono di alcune lastre. Il testo
delle Adnotationes […], stampato da Martinus Nutius, apparve nel 1594, un anno dopo la
pubblicazione delle illustrazioni (fig. 8). I Gesuiti ne distribuirono centinaia di copie in tutta
l’Europa attraverso le loro fondazioni e, tramite le missioni, anche nell’Estremo Oriente e
nelle Americhe. Anche Jan I Moretus ne vendette dozzine di copie ai librai europei alla fiera
del libro di Francoforte. L’opera ebbe un tale successo che suo figlio Jan II acquistò tutte le
lastre di rame dai gesuiti nel 1607 e fece ristampare il testo.
La competizione più agguerrita tra gli editori di Anversa riguardava il controllo del
lucroso mercato dei libri liturgici. Il Concilio di Trento (1545-1563) aveva stabilito che questi
testi fossero standardizzati per tutte le chiese cattoliche d’Europa. La decisione risaliva al XVI
secolo, ma ci vollero molti anni prima che le chiese e i monasteri sostituissero i loro vecchi
libri con nuove edizioni approvate dal Vaticano. Non solo nei Paesi Bassi meridionali, ma
anche in altri paesi europei, gli editori fecero del loro meglio per assicurarsi le commesse.
Le edizioni Plantin riuscirono quasi a monopolizzare la stampa di questi libri e breviari,
anche se il clero si lamentava del fatto che non riuscivano a produrre abbastanza copie per
soddisfare la domanda e che i loro prezzi erano eccessivi. Gli altri editori anversesi passarono
gran parte della prima metà del XVII secolo a cercare di spezzare il monopolio dei Moretus,
spesso sostenuti dai vescovi. Jan van Keerberghen, per esempio, stampò diversi libri liturgici
con illustrazioni incise dalla famiglia Collaert. Ciononostante, non rappresentò mai una seria
La produzione libraria ad Anversa 69
Fig. 8 Hieronymus Natalis, Adnotationes et meditationes in evangelia – Evangelicae historiae imagines, Anversa, Martinus Nutius, 1593.
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage
minaccia per i Moretus. Ai suoi successori non andò meglio. Negli anni Venti del Seicento
Jan II van Keerberghen unì le proprie forze a quelle di un altro giovane editore, Hieronymus II
Verdussen, e insieme costituirono una “Societas librorum officii ecclesiastici” per stampare
alcuni dei messali e breviari necessari, ma neanche loro riuscirono a raggiungere il traguardo.
A dispetto di diverse cause legali, i Moretus continuarono per la loro strada.
Se l’editrice Plantin aveva bene o male saturato il mercato dei testi liturgici, altri editori
anversesi riuscirono a produrre edizioni estremamente attraenti in altri campi, attingendo ai
tanti artisti attivi in città nella produzione e nella vendita di stampe. Le edizioni di emblemi
religiosi erano particolarmente popolari. Hendrik Aertsen pubblicò diversi testi di questo
genere, contenenti dozzine di incisioni da Boëtius a Bolswert. Particolarmente diffuse erano le
ristampe delle opere devozionali dei gesuiti Hermannus Hugo (Pia desideria, 1624) e Antonius
Sucque (Via vitae aeternae, 1620).
Nel corso del XVII secolo, gli editori di Anversa si concentrarono in maniera sempre più
esclusiva sui libri religiosi. I volumi scolastici, storici e legali continuarono a essere pubblicati,
ma le opere su altri temi divennero via via più rare (per esempio, il Theatro militare di
Flaminio della Croce, edito da Hendrik Aertssen nel 1617). La Controriforma, che aveva già
posto il proprio marchio su altre arti visive, finì per dominare anche la produzione libraria.
A partire dalla seconda metà del XVII secolo, le edizioni Plantin si concentrarono a tal
punto su opere liturgiche e Bibbie da rinunciare quasi del tutto ad altri generi di pubblicazioni.
70
Dirk Imhof
Questo orientamento prevalse sotto la guida di Balthasar II Moretus. Negli anni Quaranta del
Seicento, il 70% della produzione complessiva delle case editrici era ormai rappresentato dalle
opere religiose e, tra queste, il 50% da quelle liturgiche. I numeri erano saliti, rispettivamente,
al 100% e al 92% entro gli anni Settanta dello stesso secolo. Quando nel 1674 Balthasar III
subentrò al padre, non solo bloccò la produzione di tutti i volumi non liturgici, ma smise
anche di vendere qualsiasi altro libro e liquidò migliaia di copie rimanenti delle pregevoli
edizioni del padre e del nonno. In questo modo, fece calare definitivamente il sipario sulla
fiorente produzione libraria anversese del XVI e XVII secolo.
Riferimenti bibliografici: Sabbe 1926; Voet 1975; Materné 1991; De Nave 1993; Bowen & Imhof 2008.
La produzione libraria ad Anversa 71
Autori del catalogo
ADN
ADV
BV
BVB
CB
CC
DI
EB
FGM
FS
GD
GVE
HV
JA
KJ
KVDS
MDH
MN
NB
RL
SJB
SVI
SVO
SVS
TDP
THB
Abigail D. Newman
Annemie De Vos
Brecht Vanoppen
Ben van Beneden
Christopher Brown
Caroline Campbell
Dirk Imhof
Elise Boutsen
Fred G. Meijer
Frits Scholten
Guy Delmarcel
Geert Van Eeckhout
Hans Vlieghe
Jaynie Anderson
Koen Jonckheere
Katlijne Van der Stighelen
Marieke D’Hooghe
Maja Neerman
Nils Büttner
Riccardo Lattuada
Susan J. Barnes
Steven Van Impe
Sarah Van Ooteghem
Sabine Van Sprang
Timothy De Paepe
Till-Holger Borchert
Catalogo
74 L’alba di un’età dell’oro
96 Bozzetti e modelli per la gloria
122 Dipingere per la Chiesa e per la Corte
154 Tintoretto e Tiziano
170 Un’esistenza circondata dal lusso
190 Oltre Anversa
202 Nuovi mercati
74
1. Willem Key (1516-1568)
Ritratto maschile
1560
Olio su tavola, 79,5 × 59,5 cm
Datato in alto a destra: “A° 1560”
Collezione privata
BIBL.: Jonckheere 2011, p. 88.
Willem Key fu uno dei più importanti ritrattisti di Anversa
a metà del XVI secolo. Originario di Breda, arrivò in città da
giovane per entrare nella bottega di Pieter Coecke van Aelst
nel 1529. Lui e Frans Floris trascorsero poi diversi anni con
Lambert Lombard a Liegi tra il 1538 e il 1541, per approfondire
la conoscenza dell’arte rinascimentale. Lombard aveva
soggiornato a lungo in Italia e, al ritorno, aveva creato un
centro per lo studio del Rinascimento nella sua città natale.
Dopo alcuni anni a Liegi, Willem Key tornò ad Anversa
come maestro indipendente. Si dedicò ai ritratti, ma di
tanto in tanto realizzava anche grandi dipinti storici e opere
devozionali in un formato più piccolo. La sua bottega divenne
una delle più rinomate di Anversa a metà del XVI secolo.
La città sulla riva della Schelda era ormai diventata uno dei
centri del commercio inter nazionale e vi lavoravano molti
artisti di primo piano. Pieter Bruegel, Pieter Aertsen e Frans
Floris erano tra i colleghi più vicini a Key, che, sebbene oggi
sia meno conosciuto, in quel periodo era al loro stesso livello.
Le doti eccezionali di Willem Key come ritrattista
non si possono attribuire alla formazione che ricevette da
Pieter Coecke o da Lambert Lombard. È probabile che per
un periodo abbia lavorato anche con Joos van Cleve, i cui
ritratti sono i più in linea con la sua opera. Key traspose la
monumentalità dei ritratti dell’ultima fase di Van Cleve in un
nuovo genere di ritratto che fondeva armoniosamente austerità,
grandeur (sia in termini compositivi che di dimensioni)
e realismo di dettagli. In questo modo, insieme ad Anthonis
Mor, gettò le basi per un nuovo corso della ritrattistica che
avrebbe prevalso nei Paesi bassi fino alla fine del XVII secolo.
Il Ritratto maschile qui in mostra ne è un esempio eccellente.
Grazie ai suoi meriti, Willem Key fu incluso nel
Pictorum Aliquot Celebrium Germaniae Inferioris Effigies (1572)
di Domenicus Lampsonius, l’elenco degli artisti più illustri
dei Paesi Bassi, e questo certifica il grado raggiunto dalla sua
fama e dalla sua influenza. KJ
L’alba di un’età dell’oro
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2. Adriaen Thomasz Key (1545 ca.-1589 ca.)
Ritratto di un donatore con un angelo
1558-1589
Olio su tavola, 60,2 × 49,3 cm (recto verso)
Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens
Adriaen Thomasz era un allievo di Willem Key e dopo
la morte del maestro, nel 1568, ne adottò il cognome e
continuò a dirigerne con successo la bottega nei primi,
turbolenti decenni del conflitto religioso nei Paesi Bassi.
Al pari di Key, si costruì una solida reputazione come
ritrattista, ma ci sono giunte anche diverse pale d’altare e
opere devozionali da lui eseguite.
Le notizie certe sulla sua vita sono scarse,
ma dall’opera risulta evidente un talento eccezionale e
un forte impatto visivo. Valgano come esempio i ritratti,
eseguiti nel 1579, di Guglielmo d’Orange-Nassau e dei suoi
familiari e le commesse ottenute da alcune delle famiglie
più influenti di Anversa, inclusi i De Smidt. L’aspetto più
affascinante della sua opera riguarda tuttavia il fatto che,
come pittore dalle simpatie calviniste in un periodo di
disordine religioso e di iconoclastia, abbia sperimentato la
mimesi e il decorum. I suoi ritratti naturalistici sono quasi
completamente privi di dettagli aneddotici e secondari,
decisamente focalizzati invece sul volto, caratterizzato da
un atteggiamento austero e inflessibile.
Il Ritratto di un donatore con un angelo è un frammento di
quella che in origine doveva essere una pala d’altare, o un
dipinto commemorativo. Non conosciamo l’identità del
modello, mostrato nell’atteggiamento caratteristico del
donatore: immerso nella preghiera, con lo sguardo rivolto
a una scena sconosciuta che un tempo doveva ornare il
pannello centrale del trittico. Dietro di lui vediamo una
colonna dorica, che ricorda gli elementi architettonici nella
Pala d’altare della famiglia di Gillis de Smidt e Maria de Deckere
(fig. 2a). KJ
Fig. 2a Adriaen Thomasz Key, Pala d’altare della famiglia di Gillis de Smidt
e Maria de Deckere, pannello di sinistra, 1575, olio su tavola, 181 × 118 cm.
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 228
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L’alba di un’età dell’oro
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3. Maerten de Vos (1532-1603)
Studio di testa
Olio su tavola, 40,4 × 36,3 cm
Collezione privata
Nella seconda metà del XVI secolo, nelle botteghe di alcuni
dei più importanti pittori di Anversa si verificò un fenomeno
interessante. Sull’esempio di Frans Floris, un numero sempre
crescente di maestri iniziò a dipingere studi di teste, o tronies
come vennero chiamati più avanti. Erano oli su tavola dipinti
“alla prima”, qualche volta dal vivo. In un secondo momento,
le tavole entravano a far parte di repertori di teste che
potevano essere usate e riusate in composizioni più grandi o
più piccole.
Fu proprio Frans Floris ad aprire la strada. Di lui e
dei suoi allievi, ma anche di artisti come Maerten de Vos
e Adriaen Thomasz Key, ci restano dozzine di studi di teste.
In seguito il tronie diventò un elemento importante della
pratica di studio nei Paesi Bassi meridionali e settentrionali
del XVII secolo, con Rubens, Jordaens, Van Dyck e Rembrandt
autori di diversi esempi “pittoreschi”.
I lineamenti del vecchio nello Studio di testa qui in mostra
si ritrovano nell’Incredulità di Tommaso, il pannello centrale
della pala d’altare dipinta da Maerten de Vos nel 1574 per la
Gilda dei Pellicciai di Anversa, adesso nel Museo Reale delle
Belle Arti della città (fig. 3a). Lo stesso uomo, con addosso
un mantello nero, si vede nella stessa pala d’altare a sinistra,
dietro l’incredulo Tommaso. Questa testa – una rarità nell’opera
conosciuta di Maerten de Vos – fu dipinta con pennellate
fluide ma vigorose. Gli abiti sono abbozzati grossolanamente.
Il volto, di profilo, è costruito attentamente con una varietà
di toni per l’incarnato, contorni marcati e zone in ombra.
La collana di semi (un rosario?) è un dettaglio interessante
che, insieme ai peli non rasati sul collo, suggerisce che lo
studio sia stato abbozzato dal vivo.
Maerten de Vos fu uno degli artisti di maggior successo
ad Anversa nella seconda metà del XVI secolo. Come figlio di
Pieter de Vos, appartenne all’élite della gilda dei pittori sin
da giovane. Dopo aver trascorso periodi in città come Roma
e Venezia negli anni Cinquanta, tornò ad Anversa, dove in
breve divenne noto come pittore e autore di stampe. KJ
Fig. 3a Maerten de Vos, L’incredulità di Tommaso, 1574, olio su tavola,
206,8 × 185 cm. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 77
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L’alba di un’età dell’oro
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4. Maerten de Vos (1532-1603)
Maria Maddalena penitente
Olio su tavola, 105 × 75,4 cm
Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens (fino al 2019)
Maria Maddalena siede rapita in contemplazione, con lo
sguardo fisso al crocifisso che tiene nella mano sinistra,
dentro una grotta in mezzo al paesaggio. I suoi attribuiti
icono grafici, un teschio e un flagello, sono collocati su una
balaustra di pietra che crea una separazione netta tra lei e
lo spettatore, e vicino all’entrata della grotta si vede un vaso
d’unguento. I lunghi capelli biondi della donna ricadono sul
busto nudo, in una citazione della Maddalena Penitente dipinta
da Tiziano verso il 1530-35 e ora conservata a Palazzo Pitti
di Firenze. A richiamare l’attenzione, in entrambi i dipinti,
è l’estrema sensualità della santa.
Nonostante la modestia suggerita dal gesto del braccio
destro – col quale la protagonista del dipinto cerca invano di
coprirsi il seno – da entrambe le opere scaturisce infatti un
esplicito richiamo sensuale, che affascina e allo stesso tempo
ispira devozione.
La chioma bionda fluente, il collo candido e i piccoli seni
sodi, così come le guance rosee, gli occhi scuri, le sopracciglia
affusolate e la bocca piccola rispecchiano in pieno l’ideale di
bellezza femminile della Venezia del XVI secolo, che De Vos
fa suo e che resterà una costante del suo lavoro fino alla fine
della sua carriera.
Tiziano e la sua bottega crearono diverse copie e
variazioni di questa composizione, almeno sette delle quali
sono conosciute oggi. De Vos potrebbe aver visto in situ
la Maddalena del maestro veneziano, dal momento che
viaggiò in Italia tra il 1552 e il 1558 e trascorse un periodo
a Venezia. È più probabile, però, che conoscesse il modello
di Tiziano attraverso la stampa che ne fece Cornelis Cort.
Quest’ultimo infatti visse a Venezia e collaborò con Tiziano,
realizzando incisioni tratte dalle sue opere, tra le quali due
molto conosciute: San Gerolamo nel deserto e Maria Maddalena
penitente. MN
Fig. 4a Cornelis Cort, da una composizione di Tiziano, Maria Maddalena
Penitente, incisione. Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage,
inv. PK.OP.18347
L’alba di un’età dell’oro
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5. Maerten de Vos (1532-1603)
La Calunnia di Apelle
1594-1603 ca.
Olio su tavola, 111 × 180 cm
Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens (fino al 2019)
Dopo la riscoperta del testo dell’autore greco Luciano di
Samosata (120 d.C.-post 180 d.C.) che descrive La Calunnia,
il dipinto perduto di Apelle, diversi artisti – tra i quali Sandro
Botticelli, Andrea Mantegna, Federico Zuccaro e Raffaello –
crearono le loro versioni del tema, molto conosciuto da un
pubblico erudito ma scarsamente raffigurato nell’Europa settentrionale.
La Calunnia di De Vos è la prima interpretazione
visiva, oltre che l’unica conosciuta, nel sud dei Paesi Bassi.
È possibile che De Vos sia venuto a conoscenza di questo
soggetto durante il suo soggiorno in Italia, ma è più probabile
che a dargli l’input sia stata una stampa che circolava ad
Anversa e che Giorgio Ghisi aveva tratto da un’opera di Luca
Penni. De Vos si limitò a incorporare nel dipinto qualche
elemento della stampa, per facilitare l’identificazione delle
figure e l’interpretazione generale della scena.
Combinando due tradizioni, una letteraria e una visiva,
che avevano le loro radici nell’antichità, il soggetto della
Calunnia offriva agli artisti l’occasione perfetta per dimostrare
la loro conoscenza della letteratura classica. De Vos
aveva una conoscenza approfondita del retroterra letterario
e realizzò un dipinto sostanzialmente accurato, rispondente
al testo originale.
Il soggetto in sé – una rappresentazione allegorica
di tutti gli aspetti della calunnia, personificati dalle figure
di un re con le orecchie d’asino, e da Ignoranza, Sospetto,
Maldicenza, Inganno, Falsità, Invidia e Ingenuità, e della
redenzione attraverso Pentimento, Tempo e Verità – offre
l’opportunità di dispiegare una grande abilità artistica,
nel caso di De Vos potenziata dalle dimensioni dell’opera.
Con le sue graziose fanciulle adornate in maniera meravigliosa,
le vesti e i gioielli dalle fogge stravaganti ed elaborate,
e il paesaggio bucolico sulla sinistra, questa tavola, realizzata
dal pittore in una fase avanzata della sua carriera, si inserisce
perfettamente nell’opera di De Vos ed è un esempio della
sua capacità di coniugare lo stile italiano con quello
fiammingo. MN
L’alba di un’età dell’oro
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6. “Den Salm”, la bottega di Franchois Frans (1543-1560/61)
Attribuito
La conversione di Saulo
1547
Maiolica, 98 × 192 cm
Anversa, MAS – Museum aan de Stroom, Collection Vleeshuis,inv. AV.1571
BIBL.: Laurent 1922; Van Herck 1936, pp. 62-66; Douillez 1957; Groneman 1959a; Groneman 1959b; Donatone & Di Mauro 1981; Dumortier 1986, pp. 4-37; Van
Isacker & Van Uytven 1986, p. 159; Van der Stock et al. 1993, p. 253, n. 101; Caignie 1995, pp. 2-10; Dumortier 2002, pp. 27-32; Baeck 2008; Carvalho Dias 2013, p. 277;
Crepin-Leblond et al. 2016; De Vos et al. 2018.
Il prestigio internazionale di Anversa come centro del commercio
europeo di beni di lusso esercitò un forte richiamo sui
ceramisti italiani, che vi si stabilirono all’inizio del XVI secolo.
Le loro opere trasformarono la città sulla Schelda nella culla
della produzione della maiolica a nord delle Alpi.
La conversione di Saulo ne è un esempio. Realizzato nel
1547, è attribuito alla bottega “Den Salm”, famosa a livello
internazionale, fondata da Guido di Savino, conosciuto anche
come Guido Andries. Il ceramista italiano, originario di
Casteldurante (Urbania) nelle Marche, si stabilì ad Anversa
intorno al 1508. Nel periodo a cui risale La conversione di Saulo,
la bottega era diretta dal successore di Guido, Franchois
Frans (1543-1560/61), che subentrò al fondatore sposandone
la vedova nel 1543. Frans era un nipote di Jan Francisco da
Brescia, un esponente, insieme allo stesso Guido Andries e a
Janne Maria de Capua, della prima generazione di produttori
di maiolica italiani emigrati ad Anversa.
Sotto la guida di Franchois Frans, “Den Salm” produsse
su scala più ampia questo pannello dipinto con scene
narrative. Per dimensioni ed epoca, La conversione di Saulo,
composta da circa novanta piastrelle, è un raro esempio
sopravvissuto di pannello di maiolica anversese. La scena
centrale descrive il momento chiave nella vita dell’apostolo
Paolo prima di convertirsi al Cristianesimo, quando ancora si
chiamava Saulo di Tarso ed era uno spietato persecutore dei
cristiani. Saulo è raffigurato mentre cade da cavallo, accecato
da un fulmine che Dio gli ha scagliato contro. I soldati che lo
accompagnano a piedi e a cavallo sono presi dal panico.
Il pannello qui esposto è di una qualità eccezionale e
offre una brillante testimonianza di come la tecnica italiana
di pittura su maiolica, la luminosità dei colori e il linguaggio
formale elaborati in Italia e in Francia venissero assimilati
nella tradizione locale. ADV
L’alba di un’età dell’oro
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7. Maerten de Vos (1532-1603)
La salita al Calvario
1581
Penna, inchiostro bruno, acquerello, 229 × 202 mm
Collezione privata
Una processione apparentemente infinita scende serpeggiando
a sinistra e risale una collina a destra. Il contrasto
tra Gerusalemme, con la sua architettura imponente e
vagamente eccentrica, e il Golgota, un umile sito appena fuori
le mura della città, dove avverrà la Crocifissione, è sorprendente.
In primo piano al centro del quadro, a metà strada tra
il primo e il secondo luogo, vediamo Cristo che cade sotto il
peso della croce.
La processione avanza verso destra, ma Cristo,
in ginocchio e oppresso dalla croce, distoglie lo sguardo dalla
sua destinazione. Simone di Cirene, costretto dalle guardie,
lo aiuta a sollevare il pesante fardello. L’episodio di Simone
che solleva la croce è la quinta o settima stazione della
Via Crucis. Gli sguardi del Cireneo e di Cristo sono rivolti
all’uomo che tiene quest’ultimo incatenato alla sua mano
destra e che sta per colpirlo con un bastone.
Un uomo a cavallo, con la barba e un profilo austero,
la testa coperta da turbante, discute con un altro uomo che
indossa un berretto a punta. Gli ufficiali e i soldati a piedi
si dirigono verso la folla, in mezzo alla quale vediamo la
Vergine Maria e San Giovanni, di solito raffigurati molto
più vicini a Cristo, ma qui collocati discretamente in
alto a sinistra nel quadro. Questa disposizione distoglie
lo spettatore dal loro dolore, facendolo concentrare in
maniera più obiettiva sull’ingiustizia che viene fatta a Cristo,
e sull’indifferenza dei suoi aguzzini. La combinazione
efficace di inchiostro bruno e acquerello non contribuisce
semplicemente all’estetica generale del disegno, ma crea
anche splendidi effetti tonali e sottolinea la prospettiva
ingegnosa usata in questo foglio.
Una composizione simile si trova in una stampa
pubblicata da Gerard de Jode intorno al 1585. MN
Fig. 7a Antonie II Wierix, Maerten de Vos,
Christ Carrying the Cross, incisione de ‘Thesaurus novi
testamenti [...], Anversa, Gerard de Jode, 1585 ca..
Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-P-1988-312-317
L’alba di un’età dell’oro
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8. Maerten de Vos (1532-1603)
L’Assunzione di Maria
1587 ca.
Penna, inchiostro bruno, acquerello bruno,
lumeggiature bianche, cornice dipinta grigia, 187 × 143 mm
Collezione privata
La Vergine Maria, fluttuante tra le nuvole, viene condotta
in Paradiso dagli angeli che suonano vari strumenti. Ai suoi
piedi, sotto il muro di nubi, il sepolcro vuoto conferisce alla
composizione una modesta profondità. Il disegno è il modello
di un’incisione stampata da Sadeler come quattordicesima di
una serie sulla Vita di Cristo e della Vergine Maria.
La popolarità di quest’opera, di per sé abbastanza
tradizionale, scavalcò i confini dell’Europa quando una sua
versione dipinta fu collocata, intorno al 1582-83, sull’altare
maggiore della chiesa del convento francescano di San
Bonaventura, a Cuautitlán, in Messico, insieme ad altri tre
dipinti di San Pietro e di San Paolo, e dell’Arcangelo Michele.
Solo l’ultimo è firmato e datato 1581 e pare sia opera dello
stesso De Vos. La qualità degli altri tre dipinti è inferiore e fa
pensare a semplici studi.
La presenza delle opere di De Vos in un luogo tanto
lontano dalla città natale del pittore, Anversa, che in quel
periodo pativa la chiusura della Schelda e una complicata
situazione socio-politica che aveva spinto molti artisti a emigrare
al nord, testimonia la familiarità e i rapporti commerciali
di De Vos con i mercanti d’arte e la sua consapevolezza
delle opportunità migratorie dell’arte stessa. MN
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L’alba di un’età dell’oro
9. Maerten de Vos (1532-1603)
La riconciliazione di Giacobbe ed Esaù
1580-1585 ca.
Penna, inchiostro bruno, acquerello bruno, parziale cornice in inchiostro bruno, 270 × 375 mm
Collezione privata
Confuso in passato con una scena dalla vita di Alessandro
Magno, il disegno descrive più probabilmente la
riconciliazione tra Giacobbe ed Esaù. Il foglio è collegato
a un altro disegno firmato e datato 1581, conservato all’Art
Institute di Chicago. Da quest’ultimo, che descrive lo stesso
episodio, ma orientato in verticale, Johannes Sadeler ricavò
un’incisione che fa parte di una serie di scene dal Vecchio
Testamento e che reca un’iscrizione in latino sullo stesso tema.
Nel disegno in mostra, Esaù, che vent’anni prima è
stato defraudato dal fratello del suo diritto di primogenitura,
arriva all’incontro decisivo scortato da quello che sembra un
esercito. A sinistra, Giacobbe, ribattezzato Israele dopo aver
combattuto con un angelo, si prostra ai piedi del fratello e lo
implora di accettare il gregge e gli altri doni che ha portato
per chiedergli perdono. La folla che riempie il disegno
rappresenta le conseguenze dell’atto fraudolento di Giacobbe,
che non solo ha creato una spaccatura tra lui e il fratello,
ma anche tra le nazioni che da loro discendono.
La riappacificazione tra i fratelli è emozionante, perché
nel volto di Esaù, che aveva giurato di ucciderlo per vendicarsi
e ora gli mostra la tenerezza del suo perdono, Giacobbe
vede il volto di Dio. MN
L’alba di un’età dell’oro
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10. Maerten de Vos (1532-1603)
Giona inghiottito dalla balena
1585-1589 ca.
Penna, inchiostro bruno e acquerello, cornice bruna parzialmente mancante, 216 × 183 mm
Collezione privata
Maerten de Vos iniziò ad esplorare questo tema fin dal 1585.
Realizzò diversi disegni, progetti per incisioni e un grande
dipinto, tutti con lo stesso soggetto: Giona inghiottito dalla
balena. Un’incisione ricavata da questo modello in particolare
si deve a Crispin van de Passe e un’altra molto simile ad Antonio
Wierix, poi pubblicata da Jean Baptiste Vrints. Il dipinto,
datato 1589, fu distrutto durante la seconda guerra mondiale.
La storia avvincente dei mostri marini e della salvezza
finale offre opportunità pittoriche che De Vos sfruttò appieno.
Lo spettatore si trova di fronte una grande nave agitata con
violenza da un mare infuriato, che lotta per restare a galla in
mezzo alla tempesta, con onde tratteggiate con disinvoltura,
nuvole drammatiche e forti contrasti di luce e ombra. Il sacrificio
volontario di Giona è ormai inevitabile, mentre il suo
corpo sta per cadere in acqua. In primo piano, il grande pesce
spalanca la bocca, pronto a inghiottirlo, e intanto lo fissa con
uno sguardo selvaggio, terrificante.
I marinai cercano disperatamente di sciogliere le
vele, con movimenti eccessivi e teatrali, gesti sottolineati e
anatomie esagerate.
Questi elementi anticlassici, mutuati da Roma e Firenze,
sono combinati con un vocabolario pittorico scoperto nella
Venezia del XVII secolo e rimandano alla Tempesta attribuita a
Palma il Vecchio e conservata all’Accademia.
L’urgenza e la disperazione descritte nella storia biblica
dei marinai che lottano per rendere stabile la nave sovraffollata,
alleggerendola dal carico, sono raffigurate insieme al
barile spazzato via dal mare in burrasca. Nonostante il terrore
soverchiante del caos, il disegno di De Vos è eseguito con
grande raffinatezza e ricchezza di dettagli. La nave è ricca di
fantasia con il suo elegante ornamento della prua a forma di
proboscide di elefante e lo stemma araldico sulla poppa. MN
L’alba di un’età dell’oro
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11. Maerten de Vos (1532-1603)
Le virtù teologali e cardinali
1585-1603 ca.
Penna, inchiostro bruno, acquerello bruno, su due fogli giuntati, 62 × 241 mm
Firmato nella parte centrale in basso: “M D VOS”
Collezione privata
Le sette figure, che rappresentano le tre virtù teologali Speranza,
Fede e Carità, e quelle cardinali Prudenza, Giustizia,
Fortezza e Temperanza sono delineate con finezza e grande
sensibilità. In alcuni punti i contorni hanno una maggiore
evidenza, mentre un’ombreggiatura leggera suggerisce sottili
variazioni nei corpi e nello spazio che li circonda. Il foglio è
firmato ‘M D VOS’, accompagnato da iscrizioni con il nome
delle Virtù in fiammingo.
La collocazione delle figure allegoriche all’interno di
nicchie ricorda quella di un’altra serie di stampe morali di
De Vos,1 e le Virtù tornano anche in una terza serie.2 De Vos
era un disegnatore prolifico, e quasi certamente l’ideatore
di stampe più importante della sua generazione. A quanto
sappiamo, realizzò circa 500 disegni e più di 1600 modelli
originali per stampe. Era enciclopedico, passava dalle scene
del Vecchio e del Nuovo Testamento alle allegorie popolari
di Elementi, Pianeti, Continenti e Stagioni, oltre che di temi
morali.
Questo foglio rimanda a un album che contiene 70 piccoli
disegni di singole figure allegoriche, tracciate dall’artista
col proposito di utilizzarle per le decorazioni di Anversa
durante l’entrata trionfale di Ernesto d’Austria nel 1594, e oggi
conservate ad Anversa nella collezione Plantin-Moretus.
Anche le figure raccolte nell’album, come quelle in questo
92
L’alba di un’età dell’oro
disegno, sono identificabili grazie a note in fiammingo e a
precisi riferimenti iconografici, che testimoniano l’influenza
italiana sull’intera opera di Maerten de Vos. Gli attributi
assegnati dall’artista alle sue figure concordano, infatti, con le
guide compilate da autori italiani o italianizzati; tra queste
la Prosopographia di Philips I Galle e l’Iconologia di Cesare Ripa,
dove vengono codificate le allegorie e i loro simboli. MN
1 Hollstein 1169-1175.
2 Hollstein 1165-1168.
93
94
12. Lodovico Guicciardini (1521-1589)
Descrittione di tutti i Paesi Bassi
Anversa, Christophe Plantin, 1581
2°: [24], 432, [20] p.
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. A MPM A 14
BIBL.: Voet 1980-1983, n. 1277; Deys, Franssen, van Hezik, te Raa & Walsmit 2001.
Per la sua descrizione Lodovico Guicciardini si basò, almeno
in parte, sulle informazioni raccolte durante i suoi viaggi
nelle varie provincie dei Paesi Bassi. Nipote dello storico
italiano Francesco Guicciardini, Ludovico, che era un
mercante, si stabilì da giovane ad Anversa, dove ebbe una
vita alquanto movimentata. Nel 1554, accusato di aver ucciso
un suo collega, fu costretto a lasciare momentaneamente la
città. Guicciardini fu poi messo in prigione nel 1569 per aver
criticato la politica del duca di Alba, il governatore dei Paesi
Bassi. Si ritrovò di nuovo in carcere nel 1582, questa volta per
le sue relazioni con un mercante spagnolo, in un periodo in
cui Anversa si era unita alla rivolta contro la Spagna.
Le prime edizioni della Descrittione di tutti i Paesi Bassi
furono pubblicate nel 1567 e nel 1568 dall’editore di Anversa
Willem Silvius. Quando anche Christophe Plantin decise di
far uscire un’edizione dell’opera, acquistò tutti i blocchi di
legno dalla vedova di Silvius, ufficialmente per aiutarla con
un po’ di denaro, ma probabilmente per ostacolare edizioni
concorrenti. Al contrario della versione pubblicata da Silvius,
che era illustrata con xilografie realizzate con quegli stessi
blocchi, Plantin fece incidere delle acqueforti su lastre di
rame, molto più dettagliate. Non sappiamo chi fossero gli
incisori, ma in una lettera l’editore accenna a «eccellenti
pittori e quattro incisori». Quel che sappiamo, invece, è che
al progetto prese parte anche il famoso cartografo Abraham
Ortelius.
Nel 1581 Plantin pubblicò un’edizione in italiano della
Descrittione, e l’anno seguente una in francese. Una nuova versione
italiana uscì nel 1588. La città di Anversa aveva un ruolo
di primo piano nel testo di Guicciardini e la sua descrizione
era accompagnata da illustrazioni di diversi edifici, come la
Cattedrale e il Municipio. Alle altre città, invece, era dedicata
un’unica immagine. Il libro di Guicciardini sui Paesi Bassi
ebbe un enorme successo, e oltre che in italiano e in francese
fu tradotto anche in tedesco (1580). La prima versione
olandese uscì ad Amsterdam nel 1612. DI
L’alba di un’età dell’oro
95
13. Peter Paul Rubens (1577-1640)
Studio di busto romano: l’imperatore Galba (3 a.C.-69 d.C)
1605-1608 ca.
Gesso rosso, 233 × 155 mm
Anversa, Museo della Casa di Rubens, inv. RH.S.207
BIBL.: Jaffé 1968a, pp. 184-187; Anversa 1977, p. 271, n. 117; Logan 1977, p. 408; Limentani Verdis 1992, p. 145; Muller 1993, pp. 86-87.
Questo disegno in gesso rosso su carta color camoscio è stato
pubblicato per la prima volta come opera di Rubens nel 1968.1
L’attribuzione suscitò qualche perplessità, ma è ora largamente
accettata,2 così come l’identificazione del personaggio
ritratto con Servio Sulpicio Galba,3 diventato imperatore di
Roma dopo il suicidio di Nerone nel 68 dopo Cristo. Il popolo
gli si rivoltò subito contro, e Otone, che a sua volta mirava
a diventare imperatore dei romani, lo uccise. Iniziò così un
periodo caratterizzato da rapidi avvicendamenti al potere,
che sarebbe passato alla storia come l’“Anno dei quattro
imperatori”.4 Il ritratto di Galba compariva sulle monete
dell’epoca e in una serie di busti. Rubens studiò attentamente
uno di questi busti, disegnandolo da varie angolazioni.5
La forte somiglianza tra lo studio in gesso e i bozzetti tracciati
dall’artista sul suo taccuino, nei quali analizzava i lineamenti
del viso di Galba, avvalorano l’attribuzione del foglio a
Rubens e l’identificazione del soggetto. La maggior parte
di questi disegni, con l’unica eccezione quello conservato
a Chatsworth, sono sopravvissuti solo attraverso copie.6
Rubens studiò la testa dell’imperatore alla luce delle teorie
contemporanee sull’anatomia e la fisiognomica, incoraggiando
l’osservatore a ricollegare la biografia di Galba ai suoi
lineamenti estremamente spigolosi. L’interesse di Rubens per
Galba traspare anche da una serie di dipinti,7 e da un busto
dell’imperatore che, dopo essere appartenuto a Sir Dudley
Carleton, entrò a fare parte della collezione dell’artista nel
giugno del 1618.8 Non sappiamo se questo busto abbia fatto
da modello per i disegni eseguiti in precedenza, ma di sicuro
Rubens non usò lo studio in gesso rosso come modello per
un’altra opera. NB
1 Jaffé 1968a, pp. 184-187.
2 Logan, 1977, p. 408; Muller 1993, pp. 86-87.
3 Anversa 1977, p. 271, n. 117.
4 Svetonio, Vite dei Cesari, II, trad. Rolfe, 1997, pp. 201-205 (Galba, VII. 12-13).
5 Van der Meulen 1994, I, p. 78; III, fig. 245-246.
6 Jaffé 2002, I, p. 140, n. 1133. Per gli studi fisiognomici su Galba vedi
MS Johnson (Londra, The Courtauld Institute of Art), fols 66r, 71r; MS de
Ganay (Fondation Roi Baudouin) e MS Bordes (Madrid, Prado). Balis in corso
di pubblicazione.
7 Jonckheere 2016, pp. 95-96, 111-112, nos. 27 e 45.
8 Muller 1989, pp. 82-87.
96
Bozzetti e modelli per la gloria
97
14. Anthony van Dyck (1599-1641)
da Tiziano (1488-1576)
Cristo e l’adultera
1622-1623 ca.
Penna, inchiostro ferrogallico, cornice a penna con inchiostro nero, 137 × 221 mm
Firmato in basso a sinistra, a penna con inchiostro bruno: ‘Anto. van Dyck F.’; iscrizione d’altra mano in basso a destra, a penna con inchiostro nero: ‘n.f.’
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.00120
BIBL.: d’Hulst & Vey 1960, pp. 92-93, cat. 56; De Nave 1988, pp. 183-184, cat. 37; Brown 1991, p. 170, cat. 46.
Questo disegno sciolto risale probabilmente al periodo
veneziano di Van Dyck, intorno al 1622-23. Da un punto di
vista stilistico è molto simile ai disegni che l’artista tracciò
sul suo album di schizzi durante i viaggi in Italia (Londra,
British Museum, inv. 1957,1214.207.1-121). Van Dyck impostò
la composizione, consistente in alcune figure a mezzo busto,
con linee decise a penna e inchiostro. La donna accusata di
adulterio è collocata al centro, circondata da cinque farisei,
e rivolge lo sguardo in basso, mentre Cristo – a sinistra –
si volta verso di lei e le porge la mano.
La linea orizzontale sotto il gruppo delle figure mostra
che non si tratta di una coincidenza se l’immagine termina
qui: Van Dyck stava copiando un dipinto di Tiziano sullo
stesso tema, oggi esposto al Kunsthistorisches Museum
di Vienna. Probabilmente vide il quadro – dipinto circa un
secolo prima e rimasto incompiuto – quando si trovava
ancora a Venezia. Come il suo maestro Rubens (vedi cat. 19),
nemmeno Van Dyck copiò esattamente il dipinto, ma fece
propria la composizione mentre la abbozzava. Il gesto forte di
Cristo che tende il braccio verso la donna è assente nell’opera
originale, mentre le pose e le espressioni del viso dei Farisei,
leggermente diverse, trasmettono un intenso coinvolgimento.
Lo sfondo aperto e la figura quasi completamente in ombra a
sinistra dell’adultera sottolineano ancora di più l’importanza
delle figure principali.
La firma di Van Dyck nell’angolo in basso a sinistra è un
elemento sorprendente: all’epoca era inusuale firmare così
un disegno preparatorio, e si è quindi pensato che l’artista
abbia regalato o venduto lo schizzo. La firma potrebbe aiutare
a spiegare come mai questo foglio sia sopravvissuto come un
raro disegno indipendente del periodo italiano. SVO
98
Bozzetti e modelli per la gloria
15. Anthony van Dyck (1599-1641)
La Cacciata dal Paradiso terrestre
1618-1621 ca.
Penna, pennello e inchiostro ferrogallico (recto). Penna e inchiostro ferrogallico (verso), 172 × 222 mm
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.00122
BIBL.: Lugt 1943, p. 109, fig. 19; d’Hulst & Vey 1960, p. 37, cat. 1; Brown 1991, p. 114, cat. 25; Galen 2012, p. 234, Z1
Questo studio esplorativo fuori dagli schemi, a penna e
pennello, regala uno sguardo eccezionale sul talento creativo
del giovane Van Dyck. All’interno di una cornice quadrata,
Adamo ed Eva sono raffigurati nell’atto di essere cacciati,
nudi, dal Paradiso terrestre dall’Arcangelo Gabriele che brandisce
una spada. Sullo sfondo, il serpente avvolge le sue spire
intorno all’albero della conoscenza del Bene e del Male. Come
suggerisce la cornice, il disegno, tracciato sul recto del foglio,
è probabilmente il risultato della ricerca della composizione
più adatta. Sul verso, Adamo ed Eva raminghi sono abbozzati
in quattro diverse pose (fig. 15a), forse disegnate prima della
composizione sul recto, nella quale il braccio sinistro di
Adamo riprende le ali dell’angelo.
Lo schizzo risale all’apprendistato di Van Dyck ad
Anversa. Anche Rubens incluse questa scena della Genesi,
molto in voga tra i pittori, nei suoi disegni preparatori per
gli affreschi del soffitto della Chiesa dei Gesuiti ad Anversa.
Dal contratto per quella commessa, firmato nel 1620, risulta
che si fece aiutare da Van Dyck. La fonte d’ispirazione più
immediata per quest’ultimo dev’essere stata, però, una xilografia
dell’artista svizzero Tobias Stimmer (1539-1584), forse
nota a Van Dyck attraverso una copia disegnata da Rubens.
Sembra che un bozzetto a olio su carta, attribuito all’artista
tedesco Jan Boeckhorst (1604-1668), attivo ad Anversa
dal 1626, sia stato tratto direttamente da questo disegno,
con finalità ancora da chiarire. SVO
Fig. 15a Anthony van Dyck, Quattro studi per Adamo ed Eva, 1618-21 ca.,
penna e inchiostro ferrogallico, 172 × 222 mm. Anversa, Museo Plantin-Moretus
UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.02267
Bozzetti e modelli per la gloria
99
100
16. Jacques Jordaens (1593-1678)
Il martirio di Sant’Apollonia
1628
Penna, inchiostro marrone, acquerello bruno, acquerelli policromi, tempera, tracce di gesso nero, 510 × 275 mm. Foglio composto da quattro frammenti, centinato
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.00155
BIBL.: Jaffé 1968b, p. 170, n. 167; d’Hulst 1974, pp. 167-170, n. A73; d’Hulst 1993, pp. 26-27, n. B13; Merle du Bourg 2013, pp. 128-130, n. II-17
Questo disegno del martirio di Sant’Apollonia occupa un
posto importante nell’opera di Jordaens. Nel 1628 l’artista
collaborò con Rubens e Van Dyck a un progetto iconografico
dedicato alla Vergine Maria e a tutti i santi per gli altari
della Chiesa degli Agostiniani ad Anversa. Rubens realizzò
la pala per l’altare maggiore, mentre Van Dyck e Jordaens
dipinsero quelle per gli altari laterali. Per quanto ne sappiamo,
fu questa l’unica commessa che vide riuniti i tre grandi
capofila del Barocco anversese, probabilmente con Rubens
alla guida del gruppo.
In primo piano, un uomo su un cavallo marrone fa la
guardia mentre Sant’Apollonia viene condannata a morte.
Lei è inginocchiata su una predella tra un carnefice e un
sacerdote pagano. All’ordine di quest’ultimo, alla santa
vengono strappati tutti i denti, come punizione per essere
rimasta fedele al Cristianesimo invece di abbracciare il culto
di Giove, il cui simulacro è presente sullo sfondo. Il rogo sul
quale Apollonia finirà per gettarsi è già acceso in primo piano.
In cielo, gli angeli l’attendono con una corona di alloro e un
ramo di palma, attributi tradizionali dei martiri.
Il disegnò servì da modello per la pala d’altare e fu
eseguito secondo la tecnica caratteristica di Jordaens,
con acquerelli policromi e tempera. Evidentemente l’artista
stava ancora cercando una composizione che riscuotesse
l’approvazione del committente, perché il foglio è formato
da frammenti di carta sovrapposti, che coprono forse parti
originali dell’opera non rispondenti al gusto del cliente. A
questo proposito, sussistono anche varie differenze tra il
disegno e il dipinto definitivo, che potrebbero far pensare
che Jordaens abbia tratto da questo disegno un modello più
elaborato. BV
Bozzetti e modelli per la gloria
101
17. Jacques Jordaens (1593-1678)
Cristo tra i dottori
ante 1663
Pennello, inchiostro bruno, gesso rosso e nero, acquerelli policromi, lumeggiature bianche, cornice nera, su foglio prolungato sul fondo, 412 × 283 mm
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.00527
BIBL.: d’Hulst 1974, II, pp. 454-455, n. A395; Stampfle, Kraemer & Shoaf 1991, pp. 133-134, n. 288; d’Hulst 1993, pp. 104-105, n. B66.
Il giovane Gesù è in piedi di fronte a un leggio, in mezzo agli
scribi o “dottori” (Luca 2:41-50). Gli astanti, in abiti colorati,
reagiscono con stupore mentre Maria e Giuseppe, a destra,
guardano amorevolmente il Figlio. I disegni di Jordaens
spiccano per l’uso vivace del colore, come in questo caso,
con acquerello blu, giallo e di un marrone rossastro. Quando
ritoccava i suoi fogli, l’artista aggiungeva pezzi di carta come
la striscia incollata sul fondo di questo disegno.
La composizione era uno schizzo preparatorio per il
dipinto dell’altare maggiore della Chiesa di Santa Valburna a
Veurne (Mainz, Museo Statale, inv. 389). Il dipinto è firmato
e datato “Jc. Jor. Fec. 1663”, il che suggerisce che il disegno sia
stato eseguito poco prima di quella data. Un secondo schizzo
preparatorio, conservato alla Morgan Library & Museum
di New York (inv. III 170), mostra una composizione un po’
più stretta rispetto a quella dell’opera finale, ma nessuno dei
due fogli può essere considerato il progetto definitivo per il
dipinto. Jordaens prese elementi da entrambi: una dimostrazione
di come fosse solito dipingere i suoi quadri basandosi su
più di un progetto. EB
102
Bozzetti e modelli per la gloria
18. Jacques Jordaens (1593-1678)
Psiche consolata da Pan
1640 ca.
Gesso nero e rosso, acquerelli policromi, tempera, 282 × 367 mm. Foglio centrale ampliato sui quattro lati, vergato.
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.000163
BIBL.: d’Hulst 1974, II, pp. 323-324, n. A248; d’Hulst 1993, pp. 66-67, n. B41; McGrath 2009; Vander Auwera & Schaudies 2012, pp. 284-285, n. 106.
Il disegno ha un’origine insolita. Era un bozzetto preparatorio
per un dipinto che faceva parte di un ciclo sul mito di Amore
e Psiche. Intorno al 1639, la corte inglese decise di decorare la
Residenza della Regina a Greenwich con una serie sul tema.
Per ragioni economiche, l’identità del committente fu tenuta
segreta. Rubens e Jordaens furono contattati entrambi dal
diplomatico italiano Cesare Alessandro Scaglia. Dopo un
periodo di trattative e in seguito alla morte di Rubens nel
1640, l’incarico fu affidato a Jordaens.
All’artista fu chiesto di realizzare, come prova,
un dipinto con un elemento di paesaggio. Il risultato è questo
disegno di Pan che cerca di consolare Psiche, perché Amore è
fuggito dopo che la fanciulla ha scoperto la vera identità del
suo sposo. Psiche, in preda al dolore, aveva cercato di annegarsi,
ma la morte le era stata impedita dal fiume, personificato
della figura con la brocca, che l’adagia gentilmente sulla
riva. Qui viene trovata dal dio delle selve, Pan, che sta dando
lezioni di musica a Eco. Appena scorge Psiche, Pan smette di
suonare per consolarla e lei, seppure affranta, si mette alla
ricerca del suo amato.
Non deve stupire il fatto che Jordaens abbia scelto di
sottoporre questo episodio al committente, come esempio di
quanto avrebbe realizzato e delle sue abilità. Infatti, a partire
dagli anni Quaranta del XVII secolo, disegnò una gran varietà
di scene mitologiche in ambienti bucolici. Tra gli esempi
si possono annoverare le immagini di Diana e Callisto o il
Ratto d’Europa. Questa scena in particolare gli diede anche
l’opportunità di raffigurare degli animali, un soggetto che
amava e proponeva spesso.
Dopo aver delineato la composizione, Jordaens completò
il bozzetto con colori a acqua e tempera, secondo una tecnica
che gli era propria. Per il grado di finitezza dei suoi disegni,
questo artista merita un ruolo a parte rispetto ad altri maestri
del tempo. BV
Bozzetti e modelli per la gloria
103
19. Peter Paul Rubens (1577-1640)
Ercole strangola il leone di Nemea
1635-1638 ca.
Gesso rosso e nero, 363 × 498 mm
Annotazione in fondo al centro, a penna e inchiostro bruno: “I 18”
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.00110
BIBL.: De Nave 1988, pp. 114-116, cat. 17; Logan 2004, pp. 296-297, cat. 110; Van Hasselt 1974, pp. 135-137, cat. 101.
In questo disegno Peter Paul Rubens affronta un episodio
della mitologia greca dalla lunga tradizione storico-artistica.
Il re di Tirinto, Euristeo, ordinò a Ercole di compiere dodici
imprese eroiche, o “fatiche”, come punizione per aver sterminato
la sua famiglia. La prima consistette nello sconfiggere un
gigantesco leone nei dintorni della città di Nemea.
Rubens raffigura l’eroe greco mentre afferra alla gola
e sta per avere la meglio sulla belva che gli si è scagliata
contro. Il bozzetto preparatorio in gesso rosso e nero rivela
la ricerca, da parte dell’artista, della giusta posizione per il
protagonista e la sua preda. Ercole e il leone sono intrecciati al
centro del foglio nel vivo dell’azione. La forza muscolare dei
due avversari è rappresentata in maniera tanto convincente
che ci vuole un po’ per rendersi conto che sia l’eroe che la
belva hanno più arti del normale. Le due diverse posizioni
dell’eroe greco con la testa del leone tra le braccia sono
riprese succintamente a sinistra e a destra dell’immagine
centrale. Nonostante la spontaneità e l’espressività delle
linee, qui Rubens attinse sicuramente a rappresentazioni
precedenti del tema. Come di consueto, guardò sia ad esempi
antichi che contemporanei, ma, com’era tipico di questo
maestro, non si limitò a copiare i modelli.
Il disegno viene ascritto alla parte finale della vita
di Rubens, in parte anche per il modo di applicare il gesso
e per la scelta di una carta robusta. L’artista raffigurò più
volte la lotta di Ercole con il leone Nemeo, sia in altri disegni
che in bozzetti a olio e in dipinti, e questo rende ancora più
sorprendente l’evidente sperimentazione in corso in questo
disegno. SVO
104
Bozzetti e modelli per la gloria
20. Anthony van Dyck (1599-1641)
L’estasi di Sant’Agostino
1628
Olio su tavola, 44,5 × 27,5 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 5145
BIBL.: Martin & Feigenbaum 1979, n. 37; Wheelock, Barnes & Held 1990, n. 93;
Brown & Vlieghe 1999, n. 52; Barnes et al. 2004, n. III.40.
Quando era un giovane pittore ad Anversa, Van Dyck dipingeva
soggetti religiosi con passione, energia e forza inventiva.
Solo due di queste opere di grandi dimensioni gli furono
sicuramente commissionate da chiese (quella di San Paolo ad
Anversa e la Chiesa parrocchiale di Zaventem). Durante il suo
soggiorno in Italia (1621-27), Van Dyck riempì il suo album
di schizzi con motivi tratti da soggetti religiosi – soprattutto
gesti e espressioni di emozioni. Ai suoi clienti, però, interessavano
molto di più i suoi ritratti, e infatti i dipinti religiosi che
risalgono a quel periodo sono relativamente pochi.
Poco dopo il suo ritorno ad Anversa nel 1628, Van Dyck
fu incaricato di dipingere una pala d’altare da collocare
accanto a quelle di Jordaens e Rubens nella Chiesa di
Sant’Agostino. Quest’importante commessa lo consacrò
definitivamente come maestro ormai maturo, alla pari con
i suoi colleghi più anziani. Altri incarichi simili arrivarono
poco dopo: le pale d’altare per Gent, Dendermonde, Courtrai,
Mechelen, Lille, Bruxelles, e naturalmente Anversa.
Questo splendido bozzetto, dipinto con uno stile fluido,
è il primo di numerosi schizzi a olio realizzati da Van Dyck
in quel periodo, per la maggior parte destinati a pale d’altare.
Per lui, che all’inizio realizzava i suoi studi di composizione
con penna e inchiostro, si trattava di una tecnica nuova.
Il Concilio di Trento si era opposto con fermezza alle critiche
dei Protestanti al culto dei santi. Durante la Riforma cattolica,
però, la Chiesa intensificò il controllo sull’iconografia
religiosa, ed è possibile che questi bozzetti a olio servissero
come modelli da sottoporre all’approvazione dei committenti.
Il soggetto del dipinto non è un episodio specifico,
ma piuttosto la devozione di Agostino per la Trinità,
argomento sul quale il santo scrisse diffusamente. L’unico
cambiamento significativo tra il bozzetto e il dipinto
definitivo si trova nella posa della madre di Agostino,
Monica. Qui è inginocchiata accanto a lui ed è voltata di
schiena. Nella pala d’altare, invece, ha il viso rivolto verso
di noi, con un’espressione estatica simile a quella del figlio.
La spiritualità di Monica era stata un esempio per Agostino,
che nelle Confessioni racconta una visione avuta insieme a
lei ad Ostia, poco prima della morte della donna. Può darsi
che il dipinto alluda a quel ricordo, ma più semplicemente i
gesti e le espressioni di Agostino e di sua madre esprimono
la loro fede, la consacrazione a Dio delle loro vite e delle loro
volontà. SJB
Bozzetti e modelli per la gloria
105
21. Peter Paul Rubens (1577-1640)
La crocifissione
1628
Olio su tavola, 51 x 38 cm, centinata e con bordi dipinti di marrone
Anversa, KBC Art Collection Belgium, Museo della Casa di Snijders e Rockox, Anversa, inv. 77.124
BIBL: Held 1980, I, pp. 485–486, n. 353, fig. 348; Jaffé 1989, p. 301, n. 886; Judson 2000, pp. 133–136, n. 34, ill. 104.
I cattolici più influenti, e non solo quelli dei Paesi Bassi
meridionali, ambivano a possedere pale d’altare dipinte da
Peter Paul Rubens (1577-1640). La Confraternita della Sacra
Croce della Chiesa di San Michele a Gent non faceva eccezione.
Dagli archivi diocesani risulta che i responsabili della
confraternita avevano deciso di decorare il transetto nord
della loro cappella appena restaurata con un’opera del grande
maestro di Anversa. A partire da un saggio scritto da Horst
Vey nel 1959,1 questo bozzetto a olio è stato posto in relazione
cronologica e iconografica con quella committenza.
Gli studi preparatori erano una fase essenziale nel
processo creativo di Rubens, in quanto gli consentivano di
elaborare lo stile e la composizione dei dipinti. A giudicare
dal livello di elaborazione, questo studio deve essere servito
anche come modello, in scala ridotta, da mostrare alla confraternita
per ottenere l’approvazione del progetto. Alla fine,
però, Rubens non poté ultimare la pala d’altare, probabilmente
a causa di impegni diplomatici all’estero, in particolare
a Madrid e a Londra tra l’autunno del 1628 e la primavera
del 1630. I committenti si rivolsero, allora, a Anthony van
Dyck (1599-1641), che presentò un nuovo modello, ispirato dalla
composizione rubensiana. 2
Con ampie pennellate e una gamma cromatica calda
e bilanciata, Rubens creò una composizione semplice e
compatta: Cristo sulla croce occupa la posizione centrale e ha
alla sua destra la madre devota e un protettivo San Giovanni,
a sinistra un gruppo di soldati zelanti. Maria Maddalena,
in ginocchio, abbraccia la base della croce e bacia un piede a
Gesù. Fa da sfondo all’azione un cielo annuvolato da un’eclissi
di sole. Sull’incisione che Jacob Neefs trasse dal modello di
Rubens si legge una scritta che conferma l’esatto momento
raffigurato.3 “Quando Gesù vide sua madre e accanto a lei il
discepolo prediletto, disse: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi si
rivolse al discepolo: «Ecco tua madre»”. (Giovanni 19:26-27).
Possiamo ipotizzare che la confraternita attraverso l’opera
volesse esprimere un messaggio di unione tra i credenti.
In questa versione della Crocifissione, Rubens seguì l’iconografia
tradizionale, ma, sull’esempio degli artisti italiani,
aggiunse dettagli realistici per aiutare i fedeli a immaginare
la scena nel modo più vivido possibile. Il dipinto, con la sua
valenza naturalistica ed emotiva, è dunque una trasposizione
perfetta dei precetti della Controriforma. MDH
1 Vey 1959, pp. 2, 9, 10, fig. 4.
2 Barnes et al. 2004, p. 263, nr. III.23, vedi anche pp. 263-264, n. III.24.
3 Voorhelm Schneevoogt 1873, p. 47, n. 324. Nella didascalia si legge: ‘ECCE
MATER TVA Ioan. 19’.
106
Bozzetti e modelli per la gloria
107
108
22. Peter Paul Rubens (1577-1640)
L’Arco della Zecca (retro)
1634-1635
Olio su tavola, 104 × 71 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 317
BIBL. McGrath 1974, pp. 191-217; Martin 1972, pp. 19-203, n. 51; Held 1980, I, pp. 243-245, n. 164; II, fig. 165; Vervaert et al. 1990, pp. 82-85, n. 20; Van Hout & Balis
2010, p. 146; F.Lammertse, in Lammertse & Vergara 2018, pp. 176-178, n. 55.
L’arciduca Alberto d’Austria morì nel 1621, seguito qualche
anno dopo, nel 1633, dall’arciduchessa Isabella di Spagna,
sua vedova. Come loro successore col ruolo di reggente dei
Paesi Bassi meridionali, il re Filippo IV di Spagna (1605-1665)
nominò il Cardinale Infante Ferdinando (1609/10-1641) e in
suo onore, come richiedeva la tradizione, fece organizzare
una sfarzosa Entrata trionfale. I preparativi per la Pompa
Introitus Ferdinandi furono affidati al borgomastro Nicolaas
Rockox (1560-1640), che si fece aiutare da Jan Gaspar
Gevartius (1593-1666) e da Peter Paul Rubens.1 Gevartius ideò
l’architettura effimera e Rubens fu incaricato di decorarla.
In una lettera datata 18 dicembre 1634 il pittore si lamentava
dell’eccessivo carico di lavoro: «Sono così assorbito dai preparativi
per la nostra Entrata trionfale del Cardinale Infante
(che sarà alla fine di questo mese) che non ho il tempo né per
vivere né per scrivere […] perché i magistrati mi hanno messo
sulle spalle l’intero carico di questa festa, che a mio parere
non dispiacerebbe neanche a te per la fantasia e la varietà
dei soggetti, la novità della progettazione e l’accuratezza
dell’esecuzione».2
L’Arco trionfale pagato dalla Zecca di Anversa fu
progettato da Rubens in due diversi bozzetti a olio, nei quali
elaborò lo schema iconografico per il fronte e per il retro della
struttura. I temi e i motivi allegorici, che evocavano le passioni
dei maestri di zecca e del nuovo reggente, riguardavano
quasi esclusivamente l’estrazione e la lavorazione di metalli
preziosi. L’aspetto generale dell’arco alludeva alla celebre
montagna di Potosí, la più ricca e famosa delle miniere d’argento
della Spagna nel Nuovo Mondo. Nel livello più basso
della struttura, Rubens propose due diverse soluzioni per la
disposizione degli dei del fiume. Alla fine fu scelta quella a
sinistra, con la figura distesa in cima alla nicchia. Il portale
rustico fiancheggiato da erme è sormontato da un’altra nicchia,
all’interno della quale fa la sua comparsa Vulcano, il dio
fabbro, intento a forgiare una saetta d’oro sull’incudine. Alla
sinistra del dio, due uomini lavorano in una miniera, mentre
altri due alla sua destra portano fuori sacchi pieni d’oro.
La cima della montagna spicca al vertice della nicchia, che è
decorata con una collana di monete di rame, argento e oro.
Nel punto più alto cresce un albero, simbolo dell’albero delle
mele d’oro nel giardino delle Esperidi, e ai suoi piedi vediamo
Giasone, l’eroe greco che rubò il leggendario Vello d’oro, dopo
aver eluso la sorveglianza del terribile dragone, che Rubens
raffigura, sconfitto, ai piedi dell’albero. La figura sulla sinistra,
con in mano il modellino di una nave, è Felicitas, la personificazione
della fortuna. Jan Gaspar Gevartius spiegò tutti
dettagli di questa struttura allegorica in un erudito saggio in
latino, pubblicato dopo l’Entrata trionfale (cat.24) NB
Fig. 22a Peter Paul Rubens, L’Arco della Zecca, (retro), olio su tavola,
104 × 71 cm, Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 316
1 Berghaus 2005.
2 Martin 1972, p. 26; Rooses & Ruelens 1887-1909, I, p. 82.
Bozzetti e modelli per la gloria
109
110
23. Peter Paul Rubens (1577-1640)
Carro trionfale di Kallo
1638
Olio su tavola, 103 × 71 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 318
BIBL.: Martin 1972, pp. 216-221, n. 56; Held 1980, I, pp. 388-390, n. 289; II, tav. 290; Vervaet et al. 1990, pp. 88-89, n. 21; Van Hout & Balis 2010, pp. 42-43, 59-61, 88-89,
125, 150; F. Lammertse, in Lammertse & Vergara 2018, p. 180, n. 56.
Il 21 giugno 1638 il Cardinale Infante Ferdinando (1609/10-
1641) riportò una schiacciante vittoria sugli eserciti delle
province olandesi ribelli. La battaglia si svolse a Kallo,
un villaggio delle Fiandre orientali, a nord di Anversa. Pochi
giorni dopo Ferdinando inflisse una pesante sconfitta anche
alle truppe francesi che assediavano Saint-Omer. Le autorità
di Anversa decisero di celebrare degnamente questi due trionfi
e commissionarono a Peter Paul Rubens il progetto di un carro
allegorico che doveva sfilare lungo le vie della città. Per un
bozzetto a olio, che nelle dimensioni e nell’esecuzione somiglia
al bozzetto per la Pompa Introitus Ferdinandi (cat.22),1 l’artista fu
pagato in vino per un valore di 84 fiorini.
Questo grande bozzetto raffigura lo sfarzoso carro e
le sue decorazioni allegoriche, che occupano quasi tutto lo
spazio della composizione. Le zampe posteriori dei cavalli
si intravvedono appena, davanti al gancio di trazione sulla
sinistra. A sinistra dell’esibizione centrale dei trofei, raggruppati
a formare l’albero di una nave, si vede il prospetto
del carro dall’alto. La struttura nel suo insieme ha la forma
di una barca, emblema della fortuna, o Felicitas, delle
vittoriose campagne militari, ed è pilotata dalla Providentia
Augusta, personificazione allegorica della lungimiranza
imperiale. Dietro di lei notiamo altre due figure femminili,
che rappresentano le città di Anversa e Saint-Omer, mentre
sopra le loro teste l’araldo che annuncia la vittoria suona
una fanfara gioiosa. Due dee della vittoria, con in mano serti
trionfali, stanno in piedi ai lati dell’albero, cinto da alloro e
decorato con un bottino di armi e trofei. I prigionieri poco
più sotto sono un classico simbolo di conquista.2 Completano
la composizione, a poppa della barca, la Virtù e la Fortuna,
di fronte a un blasone asburgico inghirlandato. Il complesso
schema visivo di questa composizione ricca di significati
simbolici è integrato ed esplicitato da una serie di iscrizioni.
Il 6 dicembre 1641 le autorità di Anversa decisero di includere
il progetto del carro trionfale nel libro del Pompa Introitus,
che non era ancora stato pubblicato (cat.24).3 Nel frattempo,
Rubens era morto. Theodoor van Thulden (1606-1669) realizzò
un’incisione non rovesciata del motivo centrale del disegno,
e Jan Gaspar Gevartius (1593-1666) scrisse un testo latino
d’accompagnamento che fornisce una spiegazione dettagliata
dei motivi nell’immagine. NB
1 Martin 1972, p. 217.
2 Büttner 2018, I, p. 226.
3 Van den Branden 1883, p. 571.
Bozzetti e modelli per la gloria
111
112
24. Jan Gaspar Gevartius (1593-1666)
Pompa Introitus Ferdinandi
Anversa, Jan van Meurs, 1641-1642
560 × 415 mm
Anversa, Museo della Casa di Rubens, inv. RH.B.001
BIBL.: Arents 1950; Judson & Van de Velde 1977, pp. 327-334, n. 81; Uppenkamp & Van Beneden 2011, p. 165, n. 46; Knaap & Putnam 2013, p. 321; Bertram & Büttner
2018, pp. 174-179, n. 51; Manfré 2013, pp. 43-54.
Il Cardinale Infante Ferdinando (1609/10-1641), nuovo
reggente dei Paesi Bassi, fu accolto ad Anversa il 17 aprile
1635 con una cerimonia solenne. Questa Pompa Introitus,
o Entrata trionfale, non fu semplicemente una festa
sontuosa, ma anche un rituale politico carico di significati
simbolici, attraverso il quale le città dei Paesi Bassi
esprimevano la loro lealtà al reggente. In cambio, il nuovo
governatore riconosceva e rinnovava i diritti e i privilegi
locali già stabiliti.1 Anversa si aspettava grandi cose dal nuovo
governatore, lo straordinario vincitore della famosa battaglia
di Nördlingen. La situazione politica era tesa e la guerra
protratta con le province ribelli del nord aveva condotto la
città sull’orlo del baratro. Sotto questa luce, l’intero progetto
iconografico delle decorazioni celebrative può essere visto
come un accorato appello al re di Spagna e al suo nuovo viceré,
affinché aiutassero finanziariamente ed economicamente
Anversa mentre attraversava un periodo difficile.
Per sottolineare la natura dell’appello, la città pubblicò
un resoconto delle celebrazioni.2 Appena un mese dopo
l’accoglienza solenne, una copia del testo scritto da Jan Gaspar
Gevartius fu spedito a Bruxelles. Attraverso la vendita di un
lussuoso volume, le autorità comunali di Anversa speravano
di recuperare una parte delle ingenti spese sostenute per il
progetto, e a questo scopo avevano incaricato Theodoor van
Thulden (1606-1669) di realizzare venticinque acqueforti degli
archi trionfali e delle impalcature, oltre a quindici vedute
dettagliate dei dipinti più importanti che contenevano. Tutte
queste illustrazioni furono stampate insieme al testo di
Gevartius.3
La pubblicazione si rivelò complicata, e di conseguenza
il volume non fu presentato se non cinque anni dopo l’evento.
Il frontespizio era stato disegnato appositamente da Rubens e
inciso da Jacob Neefs. Delle seicento copie stampate, duecento
furono destinate alle autorità comunali di Anversa. Complessivamente,
duecento furono stampate su carta veneziana e
quattrocento su carta di Lione, mentre cinque copie furono
impresse su pergamena – sia il testo che le stampe – e tre
di queste colorate a mano.4 La lussuosa pubblicazione ci dà
almeno un’idea dell’intenzione sottesa al progetto iconografico,
mentre i frammenti superstiti delle decorazioni dipinte
ci restituiscono un’ombra dello splendore perduto. Tuttavia,
pur nella loro imponenza, le grandi acqueforti di Theodoor
van Thulden rendono senza dubbio solo un’impressione
parziale della magnificenza e dello splendore della produzione
complessiva. NB
1 Martin 1972, p. 23.
2 Arents 1950, pp. 82, 86-89, 126, 127.
3 Martin 1972, pp. 225-226.
4 Judson & Van de Velde 1977, I, pp. 117-118.
Bozzetti e modelli per la gloria
113
25. Peter Paul Rubens (1577-1640)
Minerva sconfigge l’Ignoranza
1634-1635 ca.
Olio su tavola (supporto originario in legno trasferito su tela, poi applicato a un nuovo supporto in quercia e sughero), 62,4 × 48,4 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 802
BIBL.: Burchard 1950, p. 27, n. 24; Held 1980, I, pp. 213-214, n. 142; II, fig. 149; Vervaet et al. 1990, p. 74, n. 15; Martin 2005, I, pp. 256-262, n. 7b; II, fig. 115; Van Hout &
Balis 2010, p. 160.
Si tratta di un bozzetto preparatorio per un dipinto alto
più di cinque metri, che faceva parte di un grande ciclo
figurativo: l’unica commessa di grandi dimensioni eseguita
dalla bottega di Rubens che si trovi tuttora nella collocazione
originaria. Durante la fortunata missione diplomatica del
pittore in Inghilterra, il re Carlo I (1600-1649) gli aveva
commissionato un progetto per il soffitto della Banqueting
House di Whitehall Palace a Londra,1 un edificio maestoso
progettato dall’architetto Inigo Jones (1573-1652) e costruito
tra il 1619 e il 1622. A Rubens fu chiesto di decorare lo spazio
prima che fosse completato, ma non presentò i progetti fino
al 1633-34, dopo il suo ritorno a Londra.
Il potere degli Stuart si reggeva sull’unione delle
corone d’Inghilterra e di Scozia, e il ciclo di dipinti aveva
per tema questa unione. Da Rubens ci si aspettava anche
che raffigurasse l’impegno del monarca a portare avanti la
politica di pace iniziata dal padre e a instaurare la monarchia
assoluta, che Giacomo I aveva difeso in discorsi e trattati.
Queste dichiarazioni programmatiche dovevano essere
tradotte in un linguaggio allegorico adeguato, che sarebbe
risultato particolarmente efficace nella sala dei banchetti,
con il suo doppio ordine di colonne. Si trattava di un compito
impegnativo, soprattutto per l’altezza straordinaria dei
soffitti: più di sedici metri.
Nel progetto alquanto elaborato che glorificava la
dinastia Stuart, si vede una Minerva trionfante all’interno
di un dipinto ovale, collocato accanto alla rappresentazione
allegorica dell’unione tra Inghilterra e Scozia. Secondo
quanto si legge nella commissione, Rubens fu incaricato
di mostrare il trionfo della «saggezza che calpesta l’ignoranza».2
Per effigiare il sapere, o la saggezza, Rubens ricorse
all’iconografia tradizionale di Minerva, la dea corazzata della
scienza e delle arti. Mancava, invece, uno schema codificato
per raffigurare l’ignoranza, e infatti gli storici dell’arte si sono
trovati in difficoltà quando hanno cercato di interpretare
questa figura. Rubens optò per l’immagine di una donna dalla
bruttezza grottesca e lunghe orecchie asinine, segni tradizionali
di stupidità e ignoranza. Lo sfondo della composizione,
in origine abbozzato in modo sommario, fu rimaneggiato
nell’Ottocento. NB
1 Martin 2005, I, pp. 19-40; Martin 2011, pp. 101-119.
2 Martin 2005, I, p. 256.
114
Bozzetti e modelli per la gloria
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26. Peter Paul Rubens (1577-1640)
La marca tipografica dello stampatore Jan van Meurs
1630-1631 ca.
Olio su tavola, 20,3 × 21,3 cm
Iscrizione sul un cartiglio: “NOCTV INCVBANDO DIVQVE” (“Notte e giorno covo”)
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM.V.IV.59
BIBL.: Judson & Van de Velde 1977, cat. 60a; Held 1980, cat. 307.
Rubens era molto coinvolto nel mondo dell’editoria di
Anversa, soprattutto per i suoi rapporti personali con la
famiglia Plantin-Moretus. Per loro, e per altri tipografi
della città, produsse i disegni per illustrazioni e frontespizi.
Jan van Meurs (1583-1652), anche lui di Anversa, divenne
socio dell’impresa dei Plantin nell’aprile del 1618, dopo la
morte di Jan II Moretus, uno dei due fratelli che dirigevano
la tipografia. La società tra Van Meurs e Balthasar Moretus
durò fino al 1629, quando i due litigarono e divisero le loro
strade. Van Meurs fondò allora una stamperia tutta sua,
conosciuta come De Vette Hinne (La chioccia grassa), in una
casa di Cammerstraat. Fu il nome dell’edificio a suggerirgli
l’idea di scegliere come marca una gallina che depone uova
notte e giorno, un’allusione alla sua incrollabile dedizione
al lavoro. E fu sempre Van Meurs, probabilmente, ad avere
l’idea iniziale, che poi Rubens elaborò e disegnò. La chioccia
ha appena deposto le uova ed è appollaiata tra due rami
di palma che reggono una lampada a olio, simbolo di
splendore e saggezza, e incorniciata dalle teste di profilo
di Minerva e Mercurio, che imitano due busti scolpiti e
simboleggiano la Conoscenza e il Commercio. Minerva
regge la testa della Gorgone e Mercurio un borsellino,
entrambi hanno accanto i loro animali simbolo: una civetta
per la dea, un gallo per il dio. Sia il gallo che la civetta
mettono in evidenza il motto sul cartiglio.
La marca tipografica dello stampatore fu adoperata
per la prima vota sul frontespizio dello Speculum Aureum
Vitae Moralis, seu Tobias ad vivum delineatus, explicatus et per
selectiora moralia illustratus, un saggio alquanto prolisso sul
Libro di Tobia, scritto da David van Mauden e stampato
da Van Meurs nel 1631: questo fu il primo volume ad avere
sul frontespizio la marca tipografica disegnata da Rubens
(fig. 26a). Il modello preparatorio, specchiato, è conservato al
Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo (la parte sottostante
in gesso nero è probabilmente opera di un assistente,
mentre quella a penna è dello stesso Rubens). È punzonato
per la trasposizione e fu utilizzato da Cornelis Galle il
Vecchio per l’incisione del disegno per Van Meurs. CB
Fig. 26a. David van Mauden, Speculum Aureum Vitae
Moralis, Anversa, Jan van Meurs, 1631: frontespizio.
Anversa, Museum Plantin-Moretus, UNESCO World
Heritage, inv. MPM A 1858.2
116
Bozzetti e modelli per la gloria
117
27. Peter Paul Rubens (?) (1577-1640)
Disegno per il frontespizio dei Poemata
di Urbano VIII
1634
Penna e matita, 198 × 147 mm
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM.TK.390
BIBL.: Judson & Van de Velde 1977, I, pp. 283-287, n. 68b.
Nel 1634 Balthasar Moretus pubblicò diversi volumi di poesia
religiosa con frontespizi ricavati da disegni di Peter Paul
Rubens. Stampò nel piccolo formato in-ventiquattresimo
una raccolta di poesie dei gesuiti Bernardus Bauhusius,
Balduinus Cabillavus e Carolus Malapertius e uno scritto del
gesuita tedesco Jakob Bidermann. Usò, invece, il formato più
grande in-quarto per un’antologia poetica del gesuita polacco
Mathias Casimir Sarbievius e per una raccolta di poesie
dell’allora papa Urbano VIII (fig. 27a).
Quest’ultimo – il cui nome era Maffeo Barberini –
era salito al soglio pontificio nel 1623. I suoi versi furono
pubblicati a Roma nel 1631 dalla Tipografia Vaticana, in una
lussuosa edizione che aveva per frontespizio un’incisione di
Claude Mellan tratta da un disegno di Gian Lorenzo Bernini.
Balthasar Moretus cercò di fare di meglio: in quel periodo
infatti era molto impegnato a consolidare le sue relazioni
col Vaticano, dopo essere venuto a conoscenza della morte
dei cardinali che fino ad allora lo avevano protetto. Questa
edizione di grande formato delle poesie di Urbano VIII
rientrava nella strategia dell’editore di Anversa per garantirsi
l’appoggio del papa e del suo entourage.
Il frontespizio fu disegnato da Peter Paul Rubens che,
come Bernini, attinse per il tema a una storia biblica su un
leone. Bernini aveva raffigurato il Re David, il presunto
autore dei Salmi, il quale, poco prima della battaglia col
gigante Golia, aveva rivelato al Re Saul di aver tratto in
salvo, in passato, gli agnelli di suo fratello dalle fauci di
un leone famelico. Rubens, per contrasto, scelse Sansone,
un altro eroe biblico che aveva sconfitto una fiera simile.
Mentre si recava a Timna, aveva infatti ucciso un leone a
mani nude. Quando poi era tornato sul posto, si era accorto
che uno sciame d’api aveva fatto il miele nella carcassa
dell’animale. Rubens scelse un racconto legato alle api in
omaggio allo stemma della famiglia Barberini, sul quale ne
comparivano tre. Nell’antichità si credeva che le uova degli
Fig. 27a Urbano VIII,
Poemata, Anversa, Balthasar I
Moretus, 1634. Anversa,
Museo Plantin-Moretus
UNESCO World Heritage,
inv. mpm B 932
insetti si schiudessero dentro i corpi degli animali morti e che
attraverso le api le anime giungessero in paradiso.
Nell’aprile del 1634, Balthasar Moretus spedì tre copie
del libro a Roma; due erano avvolte in velluto rosso: una per
il papa e l’altra per il cugino del papa, il potente cardinale
Francesco Barberini. DI
118
Bozzetti e modelli per la gloria
28. Erasmus Quellinus (1607-1678)
Peter Paul Rubens (1577-1640)
Disegno per il frontespizio delle Icones
imperatorum di Hubertus Goltzius
1645
Penna, bistro e acquerello bistrato, lumeggiature bianche, 310 × 213 mm
In basso a sinistra l’iscrizione: “E. Quellinius Inuent”
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM TK 398
BIBL.: Judson & Van de Velde 1977, I, p. 340-343, sotto n. 83.
Nel 1631 Balthasar Moretus acquistò da Peter Paul Rubens
328 copie dei libri di Hubertus Goltzius sulle monete
antiche, insieme alle lastre di rame usate per illustrarli.
L’idea di Moretus era dare una nuova veste grafica ai volumi
e rimetterli sul mercato. Per arricchire i quattro tomi decise
anche di ripubblicare la vecchia opera di Goltzius con le
effigi degli imperatori romani. Le lastre di rame usate per
i ritratti non rientravano nel lotto che aveva acquistato da
Rubens, così Moretus commissionò all’intagliatore Christoffel
Jegher una nuova serie di xilografie. Per i frontespizi,
invece, fece realizzare a Erasmus Quellinus nuove incisioni
da idee di Rubens. Ci vollero diversi anni per portare a
termine l’intero progetto, che risultò troppo lungo perché
Balthasar potesse vederne la fine. La pubblicazione avvenne
sotto il suo successore, suo nipote Balthasar II, nel 1645.
Il frontespizio del libro mostra tre imperatori, ciascuno
dei quali rappresenta un momento particolare della
Storia: in alto vediamo Giulio Cesare, il primo imperatore
dei Romani, insieme al primo imperatore cristiano, Costantino,
a sinistra del titolo, e al primo imperatore asburgico,
Rodolfo I, a destra. Nel XIII secolo Rodolfo divenne il primo
di una lunga serie di Asburgo che regnarono sul Sacro
Romano Impero e che si consideravano discendenti diretti
degli imperatori romani. Nella parte inferiore dell’immagine
sono collocati diversi oggetti, che simboleggiano
l’esercizio dell’autorità: il timone rappresenta un governo
saggio, i fasci littori associati ai consoli romani sono un
emblema di potere, e il serpente che si morde la coda è un
simbolo dell’eternità così come, probabilmente, il sole e la
luna effigiati in alto. DI
Fig. 28a Hubertus Goltzius, Icones imperatorum ex priscis
numismatibus … delineatae & brevi narratione historicâ illustratae,
Anversa, Balthasar II Moretus, 1645. Anversa, Museo Plantin-
Moretus UNESCO World Heritage, inv. mpm K 398 V
Bozzetti e modelli per la gloria
119
120
29. Anthony van Dyck (1599-1641)
Studio per il ritratto di un alto funzionario di Bruxelles
1634 ca.
Olio su tela, 55,3 × 45,1 cm
Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa (fino al 2019)
BIBL.: Barnes et al., 2004, cat. III. 169 (Parigi), cat. nos. 196 e 197 (Ashmolean); Alsteens & Eaker 2016, cat. 33.
Van Dyck dipinse due grandi ritratti di gruppo che restarono
esposti nel Municipio di Bruxelles finché questo non venne
distrutto durante il bombardamento da parte dei francesi
nell’agosto del 1695. Il primo gli era stato commissionato
nel 1628, poco dopo il suo ritorno da un lungo soggiorno in
Italia. Della composizione non restano testimonianze visive,
ma a giudicare dalle descrizioni dei contemporanei doveva
mostrare più di venti soggetti seduti e a grandezza naturale.
Van Dyck realizzò diversi ritratti preparatori tagliati all’altezza
del busto; oggi ne conosciamo cinque. Il primo ritratto
di gruppo ebbe sicuramente successo, perché a Van Dyck ne
fu commissionato un altro, nel 1634-35, quando si trovava
nelle Fiandre. Una volta finito, il quadro fu appeso nel
Municipio. L’unica testimonianza che ne resta è un bozzetto
a olio, conservato nella collezione della Scuola delle Belle
Arti di Parigi (fig. 29a). Il bozzetto mostra una composizione,
alquanto statica, di sette alti funzionari seduti in due file
– tre a sinistra e quattro a destra (il quarto è in piedi) – ai lati
di una Giustizia bendata. Si tratta di magistrati membri del
Vierschaar (tribunale), la corte di giustizia più antica della città.
Non sappiamo se il dipinto definitivo ricalcasse esattamente
il bozzetto a olio: è possibile, almeno a giudicare dalle descrizioni
del quadro fatte dai visitatori del Municipio (citate in
Barnes et al. 2004, cat. III. 169), ma nessuna è abbastanza
precisa da permetterci di esserne certi.
Prima di dipingere questo grande ritratto di gruppo,
Van Dyck, che in quel periodo visse per qualche tempo a
Bruxelles, realizzò diversi studi preparatori per ciascun
personaggio. Due di questi studi, straordinariamente vividi,
si trovano all’Ashmolean Museum di Oxford (fig. 29b). Questo
ritratto, scoperto di recente, appartiene allo stesso gruppo,
ed è immediato nel catturare efficacemente la somiglianza,
nonostante un tempo di posa che immaginiamo abbastanza
breve. CB
Fig. 29a Anthony van Dyck, La Giustizia affiancata da sette magistrati di Bruxelles,
1634 ca., olio su tavola, 26,3 × 58,5 cm. Parigi, École nationale supérieure des
Beaux-Arts (ENSBA)
Fig. 29b Anthony van Dyck, Studio di ritratto maschile, 1634 ca.,
olio su tela, 52 × 46 cm. Oxford, Ashmolean Museum, inv. WA1855.173
Bozzetti e modelli per la gloria
121
30. Peter Paul Rubens (1577-1640)
La flagellazione di Cristo
1617 ca.
Olio su tavola, 37,4 × 35,1 cm
Gent, Museo di Belle Arti, inv. 1910-Z
BIBL.: Held 1980, pp. 469-470, n. 342, tav. 336; Judson 2000, pp. 62-63, n. 11a, fig.. 25.
Rubens dipinse questo bozzetto a olio in preparazione della
sua Flagellazione di Cristo (fig. 30a), una delle opere del ciclo
I quindici misteri del Rosario, che era stato commissionato
verso il 1617 per sottolineare l’acquisizione della Madonna del
Rosario di Caravaggio per la Chiesa di San Paolo ad Anversa.
La diffusione del culto del rosario era uno degli obiettivi
dei Domenicani, per il cui ordine la chiesa di Anversa era
particolarmente importante. Il culto aveva un ruolo chiave
nel trionfalismo romano cattolico del XVII secolo, riflettendo
in parte la convinzione secondo la quale grazie alla preghiera
del rosario una flotta cattolica agli ordini di don Giovanni
d’Austria era riuscita a sconfiggere i Turchi nel 1571. I quindici
dipinti non furono eseguiti tutti dallo stesso artista: oltre a
Rubens, collaborarono anche Van Dyck e Jordaens, insieme
a un gruppo di artisti meno conosciuti. A pagare i quadri
non fu la congregazione domenicana, ma singoli benefattori,
compresi i parenti dei monaci dell’abbazia anversese.
La tavola di Rubens fu donata alla chiesa da Louis Clarisse,
un prominente mercante di seta di Anversa.
Questa Flagellazione fu probabilmente ispirata dal dipinto
di Sebastiano del Piombo dal medesimo soggetto, che era
stato realizzato su un modello di Michelangelo per San Pietro
in Montorio a Roma. Rubens aveva sicuramente visto questa
famosa composizione, che influenzò profondamente le sue
successive raffigurazioni del Cristo flagellato, durante gli
anni di formazione in Italia, e in particolare nel lungo periodo
che trascorse a Roma. HV
Fig. 30a. Peter Paul Rubens, La flagellazione di Cristo, 1617 ca., olio su tavola,
220,5 × 163,5 cm. Anversa, Chiesa di San Paolo
122
Dipingere per la Chiesa e per la corte
123
31. Tiziano (1488-1576)
Jacopo Pesaro presentato a San Pietro da papa Alessandro VI
1511-1513 ca.
Olio su tela, 145 × 185 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 357
BIBL.: Sinding-Larsen 1962, pp. 159-161; Hope 1980, pp. 23-26; Pedrocco 2000, p 85; A. Ballarin, in Laclotte 1993, pp. 368-375; Joannides 2001, pp. 151-155; C. Campbell,
in Falomir 2003, pp. 1-8; Campbell 2003b, pp. 144-145; Brown 2005, pp. 429-434; Humfrey 2007, pp. 70-71; Gentili 2012, pp. 14-17; Villa 2013, pp. 78-79; Brown 2013,
pp. 47-89; Brown 2015, pp. 85-105.
Jacopo Pesaro, qui ritratto in ginocchio davanti a San Pietro,
apparteneva a una delle più illustri famiglie veneziane.
Nato verso il 1465, aveva intrapreso la carriera ecclesiastica,
prima come frate domenicano e poi come prelato. Fu uno
dei luogotenenti di fiducia del famigerato papa Alessandro
VI Borgia, il cui pontificato durò dal 1492 al 1503. Nel 1495
Pesaro fu nominato vescovo titolare di Pafo, sull’isola di Cipro
controllata dai Veneziani. Nella tela è presentato a Pietro,
la “pietra” sulla quale Cristo edificò la sua Chiesa e il primo
papa della storia, da Alessandro VI, risplendente nella sua
tiara adorna di pietre preziose e nella sua veste sfolgorante
di verde e oro. San Pietro solleva la mano destra, come per
benedire Jacopo Pesaro. Il trono su cui siede è decorato con
bassorilievi all’antica, varianti di composizioni effigiate
su cammei, gemme incise e medaglie già note a Pesaro e ai
suoi sodali di Venezia. Il rilievo più grande, in basso, sembra
raffigurare un sacrificio ad Afrodite, la dea dell’amore, il cui
culto aveva le sue origini proprio a Pafo.
Jacopo Pesaro commissionò questo dipinto a Tiziano per
celebrare l’evento più importante della sua vita. Il 30 agosto
del 1502 aveva, infatti, piantato il vessillo di Alessandro
VI sulla fortezza più imponente dell’isola di Santa Maura,
adesso conosciuta come Leucade, nello Ionio. Pesaro era
il comandante dell’armata navale del papa, che – insieme
alle truppe alleate spagnole e veneziane (queste ultime al
comando di Benedetto, cugino di Jacopo) – aveva strappato
l’isola ai Turchi ottomani. Le imbarcazioni a sinistra nel
dipinto di Tiziano sono un’allusione a quella vittoria. Anche
se Jacopo Pesaro visse fino al 1547, la presa di Santa Maura
restò sempre il punto più alto della sua carriera pubblica,
una vittoria dalla quale trassero vantaggio Venezia e lo Stato
pontificio da lui servito.
Tiziano dipinse quest’opera più o meno dieci anni dopo.
La composizione adotta il formato tradizionale del ritratto
votivo veneziano, nel quale un committente (di solito un
governante della città, il Doge) è presentato dal santo di cui
porta il nome alla Vergine e al Bambino. Il dipinto di Tiziano
rimanda a questo genere di opere, ma ha un carattere più
personale, e fu probabilmente eseguito per una collocazione
privata. La notizia più antica che si ha del quadro risale al
1622, attraverso un disegno che Anthony van Dyck trasse dal
dipinto durante il suo wanderjahre in Italia. CC
124
Dipingere per la Chiesa e per la corte
125
126
32. Cornelis de Vos (1584/5-1651)
La restituzione a San Norberto dei tesori provenienti dalla Chiesa di San Michele ad Anversa
1630
Olio su tela, 153 × 249 cm
Firmato e datato in fondo a destra: “C. DE VOS. FECIT/ A°. 1630”
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 107
BIBL.: Van der Stighelen 1990, pp. 144-150, n. 59, ill.
San Norberto, sulla sinistra, con indosso l’abito talare di arcivescovo
di Magdeburgo, è circondato dai monaci norbertini
dell’Abbazia di San Michele ad Anversa, da lui fondata, che si
scorge sullo sfondo. Dal personaggio inginocchiato davanti
a lui, il santo riceve un ostensorio d’argento splendidamente
cesellato. Sulla destra, sempre in ginocchio, vediamo una
famiglia intera con componenti di età diverse che osservano
con reverenza la solenne presentazione. Due bambini hanno
portato altri vasi liturgici.
I particolari della scena sono spiegati in un’iscrizione,
dove si legge che il dipinto fu commissionato in memoria
di Nicolaes Snoeck e di sua moglie Catharina van Uytrecht.
Quest’ultima morì nel 1630, l’anno di realizzazione del
quadro, secondo la data riportata sulla tela. Nicolaes Snoeck
e sua moglie sono sicuramente la coppia in ginocchio in testa
al gruppo familiare. L’iscrizione dice anche che il dipinto
commemora il ritorno di oggetti sacri – in particolare
l’ostensorio – nella loro sede originaria grazie all’intercessione
di San Norberto, dopo che erano stati portati in salvo
durante un focolaio d’eresia fomentato dal predicatore
Tanchelm nell’Anversa del XII secolo. La lotta contro l’eresia
di Tanchelm qui è senz’altro un’allusione al conflitto tra la
Controriforma e il Calvinismo.
Il dipinto fu commissionato per la Chiesa abaziale di
San Michele ad Anversa, dove rimase fino all’occupazione
francese nel 1793. La famiglia Snoeck godeva di un rapporto
speciale con l’abbazia, dal momento che Johannes Snoeck,
uno dei figli della coppia, fu lì un monaco norbertino e
rivestì un ruolo importante all’interno della comunità
monastica. HV
Dipingere per la Chiesa e per la corte
127
33. Peter Paul Rubens (1577-1640)
San Francesco d’Assisi riceve le stimmate
1630-1635 ca.
Olio su tela, 265,5 × 193 cm
Gent, Museo di Belle Arti, inv. S-9
BIBL.: Vlieghe 1972-1973, I, pp. 144-145, n. 92, ill. 161.
Il miracolo delle stimmate è l’episodio più famoso nella ricca
iconografia associata a San Francesco, il fondatore dell’Ordine
dei Frati Minori e, indirettamente, della sua propaggine
successiva, i Cappuccini. La storia è descritta nella Legenda
maior Sancti Francisci di Bonaventura da Bagnoregio – la
famosa cronaca della vita del Santo, compilata tra il 1260 e il
1263 – dove si racconta come Francesco e un suo compagno,
frate Leone, si recarono a meditare sul monte della Verna,
vicino ad Arezzo. Si narra che, mentre erano lì, Cristo crocifisso
sia apparso al Santo con le sembianze di un serafino con
sei ali. Fu allora che le cinque ferite inflitte a Cristo durante la
Crocifissione comparvero per miracolo sulle mani, sui piedi e
sul costato del Santo.
Francesco è raffigurato a destra nel dipinto, con frate
Leone dietro di lui sulla sinistra. Sempre a sinistra, ma in alto,
si può vedere Cristo con le sembianze di un serafino mentre
trasmette le stimmate. Tra i dettagli, sono inclusi un teschio e
un libro di preghiere, che qui alludono alla vita di mortificazione
e raccoglimento che Francesco si impose durante il suo
eremitaggio a La Verna.
Stilisticamente, il dipinto può essere ricondotto alla
prima metà degli anni Trenta del XVII secolo. Rubens
dipinse lo stesso soggetto in diverse occasioni, anche se
prevalentemente all’inizio della sua carriera, prima del 1620.
In quel periodo realizzò una serie di opere per la Chiesa dei
Cappuccini a Colonia e per quella dei Minoritani ad Arras,
e sempre in quel periodo fece realizzare una stampa sul tema
dall’incisore Lucas Vorsterman. HV
128
Dipingere per la Chiesa e per la corte
129
34. Anthony van Dyck (1599-1641)
Ritratto di Johannes Malderus
1628 ca.
Olio su tela, 112 × 87 cm
Collezione privata
BIBL.: Barnes et al. 2004, cat. III.A17 (versione di atelier).
Jan Van Malderen, latinizzato in Johannes Malderus, fu nominato
vescovo di Anversa nel 1611 e mantenne l’incarico fino
alla morte nel 1633. Era nato a Sint-Pieters-Leeuw nel 1563 e
aveva studiato filosofia a Douai e teologia a Lovanio. Dopo
essere diventato dottore in teologia nel 1594, dal 1596 insegnò
teologia a Lovanio fin quando divenne vescovo di Anversa.
Van Malderen era stimato per il suo impegno pastorale e
pubblicò importanti trattati teologici. Da questo ritratto,
Wenceslaus Hollar ricavò nel 1645, ad Anversa, un’acquaforte,
con immagine riflessa. Il formato è stato ridotto su entrambi i
lati e la composizione finisce appena sotto le mani del vescovo.
Nel 1779 furono realizzate delle incisioni non ribaltate da
Adrian Lommelin (con l‘iscrizione “Ant. Van Dijck pinxit”) e
da Andries de Quertenmont.
Van Dyck dipinse il ritratto del vescovo intorno al 1628,
poco dopo essere tornato dall’Italia. Esistono diverse versioni
dell’opera – la sua composizione è fissata nell’acquaforte
di Hollar – e si è a lungo discusso su quale sia l’originale.
In effetti, non ci possono essere dubbi sul fatto che questo
dipinto, recentemente riscoperto, sia l’originale. All’interno
di questa mostra viene esposto per la prima volta al pubblico.
L’abile pennellata e l’efficace caratterizzazione di Malderus
sono tratti distintivi dello stile ritrattistico del secondo
periodo anversese di Van Dyck. Un’altra versione, anche
questa nella medesima collezione privata di Anversa, è di
Van Dyck con la partecipazione dell’atelier, soprattutto nei
drappeggi. Le versioni al Museo Reale delle Belle Arti di
Anversa e alla Royal Collection di Londra sono probabilmente
copie precoci. Una di queste potrebbe essere il “Malderus van
Erasmus Quellinus naer van Dyck”, che compare nell’inventario
di Quellino nel 1678-79. Un’ulteriore copia è appesa nella
sacrestia della Cattedrale di Anversa insieme a una serie di
ritratti dei vescovi della città. CB
130
Dipingere per la Chiesa e per la corte
131
35. Graduale Romanum
Anversa, Jan I Moretus, 1599
2°: [24], 845, [1], CCXXII, [8] p.
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM R 38.8
(stampa su pergamena colorata a mano)
BIBL.: Imhof 2014, n. G-19; Bowen & Imhof 2001; Berkeley & Scotland 2017.
Questo imponente Graduale Romanum del 1599 consta di 1.100
pagine ed è per grandezza il secondo volume stampato da
Jan I Moretus. Raccoglie canti liturgici per la messa. L’ampiezza
del formato dipende dall’esigenza che il libro fosse letto
da molte persone nello stesso momento. Il frontespizio reca
un’incisione della messa e – a sinistra e a destra del titolo –
le figure di Re David e di Santa Cecilia, mentre la sezione con
gli spartiti è introdotta da un’incisione dell’Annunciazione.
Entrambe le illustrazioni furono disegnate da Maerten de Vos.
La seconda fu usata anche negli anni successivi per illustrare
il Missale Romanum.
Per stampare il libro Jan Moretus ricevette un acconto
di 1.000 fiorini da Vaast de Grenet, il priore dell’abbazia di
San Bertino a Saint-Omer, e altri 350 da Mathias Hovius,
l’arcivescovo di Mechelen. In cambio, ciascun prelato ebbe
un numero di copie corrispondente al valore della somma
anticipata.
Ci vollero quasi due anni e mezzo per completare la
stampa del libro, con il saldo finale per la sua produzione
datato al 21 novembre 1598. Negli anni precedenti l’uscita
del Graduale, l’abate di San Bertino spedì regolarmente fogli
di pergamena a Moretus, che li usò per stamparvi un’intera
copia del volume destinata all’uso personale del priore. DI
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Dipingere per la Chiesa e per la corte
36. Officium Beatae Mariae Virginis, Pii V. Pont. Max. iussu editum.
Nunc pluribus quàm hactenus umquam figuris æneis illustratum
Anversa, Jan I Moretus, 1609
4°: [40], 696, [4] p.
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM R 56.2
BIBL.: Imhof 2014, n. O-40; Bowen 2014.
Jan Moretus dimostrò il suo acume commerciale con questo
Libro d’Ore, che avrebbe dovuto limitarsi a stampare e
invece trasformò in un’edizione di successo per la sua
casa editrice. Il volume in-quarto, del 1609, si basa su una
versione stampata da Moretus nel 1600 per l’arciduca Alberto.
Il governatore dei Paesi Bassi desiderava un libro di preghiere
dal formato grande e lussuoso e dai caratteri ben visibili,
da usare durante le funzioni private. L’editore stampò il libro
col supporto economico della Corte. Il volume consta di oltre
1.300 pagine illustrate, con 42 incisioni piuttosto ampie e 25
più piccole. Nonostante il costo elevato della pubblicazione,
Moretus non ebbe difficoltà a esaurire tutte le copie grazie ai
suoi ricchi clienti. Quando la tiratura stava per finire, decise
di far uscire una nuova edizione, dove ometteva il fatto che il
libro in origine fosse stato pubblicato su richiesta dell’arciduca.
Nella nuova tiratura il volume fu ridotto a 740 pagine,
per renderlo più maneggevole. Il numero delle illustrazioni,
al contrario, aumentò a 57 incisioni di grande formato e 38
più piccole. Moretus commissionò i disegni per le nuove
immagini a Pieter de Jode, mentre delle lastre si occuparono
incisori che lavoravano nella bottega di Theodore Galle e
Charles de Mallery.
Anche l’arciduca e l’infanta acquistarono diverse copie
della nuova edizione, una delle quali colorata interamente a
mano, con la rilegatura in velluto rosso e rifinita con nastri
variopinti. I Moretus continuarono a stampare questo Libro
d’Ore per decenni, con nuove versioni non modificate nel
1622, nel 1652, nel 1724 e nel 1759. DI
Dipingere per la Chiesa e per la corte
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37. Missale Romanum
Anversa, Balthasar I e Jan II Moretus, 1613
2°: [64], 542, CIIII, [8] p.
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM 2-161
(copia a colori)
BIBL.: Judson & Van de Velde 1977, I, pp. 85-100, n. 6-9; Bowen 1996, pp. 37-51, cat. 32.
Jan I Moretus, cognato di Christophe Plantin, diresse la casa
editrice dei Plantin dal 1589. Quando morì, nel 1610, i suoi due
figli Balthasar I e Jan II Moretus decisero di rinnovare tutte
le illustrazioni per le pubblicazioni liturgiche della Officina
Plantiniana. L’aspetto dei messali e dei breviari editi da Jan I
era stato caratterizzato in modo particolare, negli anni Venti
del XVII secolo, dai progetti grafici di Maerten de Vos. I due
fratelli Moretus riuscirono a convincere nientedimeno che
Peter Paul Rubens a realizzare i nuovi disegni.
Il rinnovamento iconografico dei Moretus avvenne come
al solito in varie fasi. Il primo grande Missale Romanum in-folio,
pubblicato nel 1613, contiene due nuovi disegni di Rubens:
L’Adorazione dei magi e L’Ascensione di Cristo. Anche le due
cornici che corrono lungo le illustrazioni a piena pagina sono
opera di Rubens. Queste immagini, usate anche in messali
successivi, continuarono a tornare in altri lavori dei Plantin
per vari decenni.
Gli ecclesiastici dell’epoca ammiravano, in questi testi
liturgici, la combinazione di illustrazioni di grande formato
e cornici posta all’inizio di sezioni importanti. Il gesuita
spagnolo Philippus de Peralta, per esempio, ne restò tanto
colpito che, sotto la sua influenza, il clero spagnolo iniziò a
preferire le pubblicazioni sacre di Anversa a quelle prodotte
a Lione o a Venezia. Nemmeno i prezzi più alti imposti dai
Plantin servirono da deterrente. DI
134
Dipingere per la Chiesa e per la corte
38. Jacques Jordaens (1593-1678)
Nettuno e Anfitrite
1648 ca.
Olio su tela, 220 × 307 cm
Firmato e datato a un’estremità della conchiglia: “J. Jordaens fecit 164[?]” (ultima cifra illegibile]
Anversa, Museo della Casa di Rubens, inv. RH.S.094
BIBL.: Jaffé 1968b, p. 118, n. 80; d’Hulst 1974, pp. 521-522, n. C38; Vandenven 1978, pp. 62-63, n. 22; Balis 2010, p. 519.
Quest’opera monumentale raffigura Nettuno, in piedi su
una conchiglia, in primo piano. A sinistra del dio romano
vediamo la sua sposa, l’eternamente splendida Anfitrite,
figlia di Oceano e Teti. La coppia è attorniata da un gruppo
etero geneo di Tritoni, delfini e cavalli marini. Nettuno
stringe nella mano destra un tridente, il suo classico attributo,
con il quale esercita il potere sulle acque. Come si evince dallo
sfondo, il dio ha appena domato una tempesta; le nuvole
scure, al cui interno quattro piccole teste soffiano i venti,
cedono il passo a un sole splendente e all’arcobaleno.
Durante il recente restauro del quadro, sono venuti
alla luce pentimenti significativi da parte di Jordaens.
Il Tritone, che immobile soffia nella sua conchiglia, rivela
qualche indecisione da parte del pittore sulla composizione.
All’Albertina di Vienna (inv. 15.123) si conserva un disegno
attribuito allo studio di Jordaens, che potrebbe essere stato
eseguito a ridosso dell’esecuzione del quadro, dal momento
che ne riproduce fedelmente la struttura definitiva.
Sorprende che questo ricordo non contenga le due strisce a
lato dell’arcobaleno, che di conseguenza devono essere state
aggiunte in epoca successiva.
Jordaens firmò e datò il quadro lungo l’estremità della
conchiglia di Nettuno, il che ci dice che l’opera fu realizzata
negli anni Quaranta del Seicento, ma l’ultima cifra non
si legge, e una datazione più precisa è quindi impossibile.
Stilisticamente, il dipinto sembra rientrare meglio nella
seconda metà della decade, una datazione a quanto pare
supportata dall’iconografia che Arnout Balis ritiene collegata
al Trattato di Münster (1648). Il trattato mise fine alla Guerra
dei Trent’anni e segnò la ripresa dei traffici marittimi
per la Repubblica Danese, con conseguente vantaggio per
l’economia di Anversa. BV
136
Dipingere per la Chiesa e per la corte
39. Anthony van Dyck (1599-1641)
Compianto
1634-1635
Olio su tela, 115 × 208 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 404
BIBL.: Anversa 1899, n. 25; Anversa 1949, no 7; Genova 1955, n. 83; Wheelock, Barnes & Held 1990, n. 79 (Wheelock); Brown & Vlieghe 1999, n. 85; Barnes et al. 2004,
n. III.33 (Vey).
Già prima del viaggio in Italia, nei suoi ritratti e nei dipinti
a soggetto storico Van Dyck emulava le tecniche pittoriche
dei maestri veneziani, Tiziano in particolare: la loro luce
brillante e gli scintillanti effetti di superficie che creavano
col pennello carico di colore. Gli studi dalle opere di Tiziano
predominano nel taccuino di schizzi italiani sopravvissuti
di Van Dyck. Ma negli anni che trascorse in Italia vide anche
opere di maestri recenti, come Carracci, Procaccini e Guido
Reni. Le loro innovazioni nel campo della composizione,
del colore e della luce influenzarono più tardi lo stile dei suoi
dipinti religiosi.
Questo capolavoro, eseguito da Van Dyck in una fase avanzata
della sua carriera, raffigura la Vergine Maria sgomenta
di fronte alla morte di Cristo; fu commissionato all’artista
dall’abate Cesare Alessandro Scaglia, che poi lo lasciò in eredità
ai frati agostiniani di Anversa. Nel 1641 i frati lo collocarono nel
luogo dove è sepolto l’abate, sopra un altare della cappella della
Vergine dei Sette Dolori nella Chiesa degli Agostiniani.
Il corpo supino di Cristo riempie l’insolita composizione
orizzontale. Ai lati, Van Dyck collocò due figure, ciascuna delle
quali incarna un importante messaggio teologico. In Maria,
a sinistra, Van Dyck ha concentrato tutta la tragedia della
crocifissione. La sua posa straordinaria, distesa con il corpo
di Cristo che giace tra le sue gambe, è un riferimento esplicito
all’incarnazione. Nato da Maria, Dio si è fatto carne. Le braccia
distese della Madonna ricordano la croce sulla quale è morto
Gesù. Il gesto esprime allo stesso tempo la sua disperazione e
la volontà di restituire il figlio al Padre, verso il quale solleva
lo sguardo.
A destra, San Giovanni evangelista espone l’eredità di
Gesù ai suoi seguaci: l’eucaristia. Mentre mostra a due angeli
piangenti la ferita aperta nella mano di Gesù, Giovanni ne
rievoca le parole durante l’Ultima Cena, e ripete la preghiera
eucaristica: « Questo è il mio corpo … questo è il mio sangue ».
Il dipinto testimonia l’enfasi posta dalla Controriforma sul
tema della transustanziazione (Wheelock).
Al contrario di altri studiosi, che datano il dipinto
al 1634-35, Vey (2004) suggerisce la data del 1640, e indica
nell’opera l’estrema professione di fede di Van Dyck. SJB
Dipingere per la Chiesa e per la corte
139
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40. Daniël Seghers (1590-1661)
Cornelis I Schut (1597-1655)
La Vergine e il Bambino tra i fiori
Olio su tavola, 74,7 × 51,4 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 330
BIBL.: Vlieghe 1967, pp. 295, 298-299; Morel-Deckers 1978, pp. 176-179, cat. 4; Hairs 1985, pp. 184, 188, fig. 60, 439 n. 612, 494; Jones 1993, pp. 69, 77-78, 81-82, 86-87;
Wilmers 1996, pp. 53-56, 167-168, cat. A101; Hollstein LIII, pp. 122-123, cat. 12; Huvenne, Van Hout & Vergara 2002, pp. 114-115, 139, 156-157 (scheda di N. Van Hout);
Cataldi Gallo & Van Hout 2003, p. 136, cat. 50 (scheda di N. Schrijvers); Merriam 2012, p. 109, tav. XXIII; Van de Velde 2013, p. 32; Van Hout 2015, pp. 160-161, cat. 23.
Le volute di una balaustra si elevano fino a formare un elaborato
cartiglio di pietra ornato da tre festoni floreali, ai quali
si uniscono delicati tralci d’edera. Sui petali e le foglie sono
posati diversi insetti, tra cui una farfalla in alto a destra e una
coccinella poco più in basso. Al centro del cartiglio, su quella
che appare come la superficie di una lastra di pietra, sono
raffigurati la Vergine e il Bambino. La Vergine, dall’incarnato
roseo, coperta da un leggerissimo velo di garza quasi trasparente,
si sporge verso lo spettatore, reggendo il Figlio sopra
un decoro a spirale, con i piedi che sembrano oltrepassare il
confine del quadro per spingersi nello spazio reale.
Ornare le immagini – sia scolpite sia dipinte – con
ghirlande di fiori veri era stato a lungo un modo per rendere
omaggio a Cristo e ai santi. Già dal 1607-08 Jan Brueghel il
Vecchio creò un nuovo genere pittorico, includendo queste
ghirlande nei suoi quadri: da quel momento fiori dipinti
circondavano un’immagine centrale. Il genere fu adottato e
sviluppato da un discepolo di Brueghel, Daniël Seghers, nelle
cui mani le ghirlande di fiori si trasformarono in decorazioni
floreali per cartigli di pietra, come in questo esempio.
Brueghel eseguiva i suoi dipinti con ghirlande in
collaborazione con altri pittori, e anche Seghers collaborò in
genere con i suoi colleghi, incluso Cornelis Schut il Vecchio,
con il quale lavorò ad almeno 44 tele dal 1621 fino agli anni
Quaranta del XVII secolo. L’assistente di Schut, l’incisore
Hans Witdoeck, realizzò almeno dieci stampe di disegni
di Schut, compresi quelli eseguiti in collaborazione con
Seghers. L’incisione realizzata da questo dipinto riporta la
frase “c scut in / i witd scul”, che conferma l’attribuzione delle
figure a Schut. Nelle sue stampe, però, Witdoeck eliminò i
decori floreali. Forse lui e Schut temevano che, senza i colori
brillanti e la ricchezza di dettagli in cui Schut eccelleva,
una ghirlanda stampata avrebbe finito per distrarre lo
spettatore dall’immagine devozionale. Tuttavia, con il loro
splendore, le ghirlande di fiori dipinte da Seghers non erano
affatto una distrazione dalla fede: anzi, offrivano ai devoti
l’opportunità di contemplare le meraviglie della creazione
di Dio, come suggeriva il cardinale e arcivescovo di Milano
Federico Borromeo. ADN
Dipingere per la Chiesa e per la corte
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41. Daniël Seghers (1590-1661)
Natura morta di fiori in un vaso
Olio su rame, 41,6 × 28,5 cm
In basso a destro, scritta: “D. Seghers [Soctis JE]SV”
Anversa, Museo Mayer van den Bergh, inv. MMB.0078
BIBL.: Eeckhout 1960, p. 132, cat. 126; Burke-Gaffney 1961; Couvreur 1967, pp. 87-158; De Coo 1978, p. 158, cat. 485, tav. 55; Hairs 1985, pp. 134, 171-172, 174, 437 n. 518bis,
490; Merriam 2012, pp. 107-123; Van Hout 2015, pp. 158-159, cat. 22.
Un vaso di vetro su fondo scuro contiene fiori di diversi
tipi, tra cui rose, iris e un tulipano. Alcuni puntano verso
l’alto, altri invece sono curvi, gli steli troppo deboli per
reggere le corolle. Sul vaso, colpito dalla luce, si riflette una
finestra nello studio dell’artista. Daniël Seghers non era solo
straordinariamente abile nel descrivere le composizioni
floreali, ma eccelleva anche nel catturare le sfumature
luminose sul vetro e sull’acqua. La superficie del dipinto,
su supporto di rame, brilla grazie alle pennellate meticolose
dell’artista e al suo elegante senso del colore, che fa di questo
lavoro un piccolo gioiello, mentre l’uso audace della luce e lo
scorcio fanno sembrare il bouquet un elemento dello spazio
dello spettatore.
Nato ad Anversa nel 1590, Seghers trascorse parte
dell’infanzia in Olanda con la famiglia della madre, protestante,
prima di tornare nella sua città d’origine. Pare che
Jan Brueghel il Vecchio, il pittore di fiori più importante ad
Anversa, sia stato, oltre che il suo maestro a partire dal 1611,
anche il responsabile della sua conversione al Cattolicesimo.
Seghers si unì presto ai Gesuiti e visse negli istituti dell’ordine
a Mechelen, Bruxelles e Anversa. Nel 1625 fece un viaggio
a Roma, dove rimase per due anni. L’antichità e i maestri
del Rinascimento italiano, studiati abitualmente dai pittori
fiamminghi che visitavano la Città Eterna, non riuscirono
a distrarlo dal suo interesse per i fiori, anche se le forme
ornamentali dei suoi cartigli sono in parte debitrici delle
decorazioni classiche.
Come gesuita, Seghers non poteva vendere le sue opere,
e così le donò per conto dei Gesuiti a una serie di re, nobili
ed esponenti del clero. Le sue iscrizioni su molti di tali
dipinti, compreso questo, anche se scarsamente visibile in
basso a destra – “D. Seghers [Soctis JE]SV” – ricordavano
a chi li guardava le origini gesuitiche dei suoi quadri.
È interessante notare che Seghers conservava un inventario
dettagliato, nel quale registrava le tele insieme ai destinatari.
Sfortunatamente, però, a causa della concisione di molte delle
sue annotazioni, non è possibile identificare questo dipinto
all’interno della lista. ADN
Dipingere per la Chiesa e per la corte
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42. Frans II Pourbus (1569-1622)
La principessa Elisabetta di Francia (1602-1644 ), poi Isabella regina di Spagna
1609-1612
Olio su tela, 54 × 46,5 cm
Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa
Questo ritratto a busto intero è probabilmente il primo di
una serie di ritratti dipinti da Pourbus intorno al 1610-15,
raffiguranti la figlia maggiore di Enrico IV e di Maria de’
Medici prima della sua partenza per la Spagna come regina.
Nel quadro, la principessa Elisabetta è una bambina tra i sette
e i dieci anni. Dopo l’assassinio del padre nel 1610 fuori dal
Palazzo del Louvre, Luigi XIII, fratello di Elisabetta, salì al
trono sotto la reggenza della madre. Fratello e sorella avevano
quasi la stessa età ed erano molto legati tra loro, come testimoniano
i loro ritratti, che spesso venivano dipinti insieme.
Durante il suo incarico alla corte di Francia, Pourbus effigiò
varie volte Elisabetta, ma questo dipinto pare sia un’opera
unica, non si conoscono altre versioni o copie.
Il quadro fissa un momento importantissimo nella vita
della principessina, all’inizio delle trattative per il doppio
matrimonio tra la famiglia reale francese e quella spagnola.
Elisabetta era promessa a suo cugino, il principe delle Asturie
(e futuro re di Spagna Filippo IV), mentre suo fratello Luigi
XIII avrebbe preso in moglie l’infanta di Spagna, Anna.
Non conosciamo l’esatta provenienza o la storia di questo
ritratto, ed è quindi impossibile dire per chi o per quale
finalità sia stato dipinto. Forse era destinato alla corte di
Spagna, ma le dimensioni ridotte farebbero pensare piuttosto
a una collocazione privata, ed è possibile che Maria de’ Medici
lo abbia inviato ai suoi parenti a Firenze. BvB
144
Dipingere per la Chiesa e per la corte
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43. Lucas Faydherbe (1617-1697)
Madonna col Bambino
1670-1675 ca.
Marmo di Carrara, 68 × 36 × 40 cm
KBC Art Collection Belgium, Museo della Casa di Snijders e Rockox, Anversa, inv. 77.16
BIBL.: De Nijn et al. 1997, p. 46, n. 47; De Nijn & De Greef 1997, pp. 10, 11.
Questa scultura in marmo è l’epitome dell’intimità. Maria
tiene amorevolmente in grembo Gesù Bambino, che solleva
lo sguardo verso di lei e le accarezza la guancia con la mano
destra. Il tema è in linea con un interesse crescente nel XVII
secolo per descrizioni più familiari, “quotidiane” di temi
biblici. Questa iconografia più personale si fece strada sotto
l’influenza della Riforma Cattolica, che incoraggiava una
spiritualità più accessibile.
Non è un caso che la scultura attinga a un’invenzione di
Rubens – la Sacra Famiglia1 – visto che fu realizzata da Lucas
Faydherbe, un importante scultore di Mechelen, che trascorse
tre anni nello studio del maestro.2 La mano di Faydherbe è
evidente in tratti come le pieghe piene, pastose del voluminoso
manto di Maria, nel suo volto, con gli occhi nitidamente
cesellati, e in quello del figlio. L’opera ricorda anche da vicino
un gruppo statuario in arenaria, ugualmente attribuito a
Faydherbe, con Sant’Ignazio in adorazione della Madonna e
del Bambino, nella Cattedrale di San Rombaldo a Mechelen
(1675 ca.).3
Purtroppo la destinazione originaria della scultura
non è nota, dal momento che circa un secolo dopo la sua
realizzazione fu trasferita in Inghilterra. Rimase per circa
duecento anni nella cappella di Brough Hall, una residenza
di campagna nello Yorkshire, prima di ritornare infine
nelle Fiandre nel 1971. Le sue dimensioni contenute fanno
pensare che fosse stata scolpita per una cappella privata di
una chiesa o di una grande casa. Anche il modello in terracotta
di Faydherbe, leggermente più piccolo, nel XVIII secolo finì
in Inghilterra4, dove esercitò una certa influenza intorno al
1780 grazie a una serie di copie realizzate da Enoch Wood in
erracotta smaltata. FS
1. De Nijn et al. 1997, p. 46, fig. 28.
2. Scholten 2004.
3. De Nijn et al. 1997, n. 55; De Nijn & De Greef 1997, pp. 10, 11;
Philippot et al. 2003, p. 880.
4. Londra, British Museum, inv. 1957,II-I,I, ma già in una collezione
londinese prima del 1761, vedere De Nijn et al. 1997, n. 46.
5. De Nijn et al. 1997, n. 48.
Dipingere per la Chiesa e per la corte
147
148
44. Anthony van Dyck (1599-1641)
Giovanni VIII, conte di Nassau-Siegen (1583-1638)
1628-1629
Olio su tela, 113 × 81,5 cm
Collezione privata (Courtesy of Christophe Janet)
BIBL.: Barnes et al. 2004, n. III.110, pp. 335-336 (ritratto a figura intera nelle Collezioni del Principe del Liechtenstein); nr. III.111, pp. 336-338 (ritratto di gruppo del
conte e della sua famiglia).
Giovanni VIII, del ramo protestante dei Nassau-Siegen,
prestò servizio militare combattendo per la causa
protestante nelle Province Unite e in altri luoghi dal 1605 al
1611. A Roma, nel 1612, si convertì al cattolicesimo, pare su
pressante richiesta della sua futura moglie, la principessa
Ernestina Iolanda di Ligne, che apparteneva al ben
più illustre casato dei Ligne, e che Giovanni VIII aveva
incontrato per la prima volta intorno al 1611, senza peraltro
sposarla fino al 1618. Nel 1614 il conte di Nassau-Siegen
aveva combattuto per il duca Carlo Emanuele I di Savoia
contro gli Spagnoli, e nel 1615-17 aveva abbracciato la causa
della reggente di Francia Maria de’ Medici per soffocare
una rivolta della nobiltà. Dal 1617 fino alla morte combatté
per la Spagna e per il Sacro Romano Impero, soprattutto
contro le Province Unite, e prese quindi le armi contro i
suoi stessi fratelli e cugini. Nel 1627 Filippo IV di Spagna lo
ammise nell’Ordine del Toson d’oro, una delle più antiche e
prestigiose istituzioni cavalleresche, e nel 1628 fu nominato
maresciallo imperiale di campo. Tre anni dopo fu promosso
a generale di cavalleria dei Paesi Bassi spagnoli.
Van Dyck eseguì questo ritratto di recente riscoperto
verso il 1628-29, quando il conte era all’apice della sua carriera
militare. Qui indossa la corazza e la collana dell’Ordine
del Toson d’oro; il lungo bastone lo identifica nel ruolo di
comandante. Nel 1781, durante il suo viaggio di due mesi nelle
Fiandre e in Olanda, il pittore inglese Joshua Reynolds (1723-
1792) vide questo quadro nello studiolo del principe di Ligne,
a Bruxelles: “Qui non c’è niente degno d’attenzione, a parte
un ritratto a figura intera del conte Giovanni di Nassau
realizzato da Van Dyck”. La provenienza precedente del
dipinto è confermata da una stampa di Adriaen Lommelin,
dedicata alla principessa di Ligne (fig. 44a). A un certo punto
la tela è stata ridotta al formato attuale. Viene mostrata al
pubblico per la prima volta in occasione di questa mostra.
Fig. 44a Adriaen Lommelin da Anthony van Dyck, Giovanni VIII, conte di Nassau-
Siegen (1583-1638), incisione. Collezione privata
Un ritratto a figura intera del conte con indosso la
corazza si trova nelle Collezioni del Principe del Liechtenstein
(Vaduz/Vienna), mentre un magnifico ritratto di gruppo
del nobile e della sua famiglia è conservato a Firle Place,
nel Sussex. BvB
Dipingere per la Chiesa e per la corte
149
45. Joannes Bochius (1555-1609)
Historica narratio profectionis et inaugurationis … Alberti et Isabellae
Anversa, Jan I Moretus, 1602
2°: 500, [12] p.
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM W 78
BIBL.: Imhof 2014, n. B-44.
Joannes Bochius (Jan Boghe) nacque a Bruxelles nel 1555.
Studiò a Lier e Ath, e poi legge all’università di Lovanio,
prima di partire per l’Italia per completare la sua formazione
con Roberto Bellarmino. Nel 1578, Bochius lasciò l’Italia
e visitò l’Europa nord-orientale. Il viaggio riuscì tutt’altro
che divertente: sulla strada per Mosca, Bochius fu colto alla
sprovvista da un freddo rigidissimo e si salvò per miracolo
dall’amputazione di entrambi i piedi. Prima di essersi completamente
ristabilito, ripartì per la Lituania, ma fu aggredito da
alcuni rapinatori che lo lasciarono per morto. Si salvò anche
questa volta e prese la via del ritorno per i Paesi Bassi. Dopo la
conquista di Anversa nel 1585 da parte delle truppe cattoliche
spagnole, fu nominato segretario municipale da Alessandro
Farnese e mantenne l’incarico fino alla morte nel 1609.
Bochius era un rinomato poeta neo-latino, ed ebbe
l’eccellente opportunità di coniugare il suo impegno civile
con la sua professione di scrittore redigendo i resoconti
delle Entrate trionfali allestite in onore dei nuovi governatori
dei Paesi Bassi. I festeggiamenti per celebrare questi eventi
furono registrati e pubblicati in libri commemorativi, due dei
quali Bochius poté compilare personalmente. Il volume
che riporta l’accoglienza cerimoniale di Ernesto d’Austria
ad Anversa nel 1594 – la Descriptio publicae gratulationis … in
adventu … principis Ernesti – fu pubblicato da Jan Moretus nel
1595. Nel 1599, anche l’arciduca Alberto e l’infanta Isabella
ebbero la loro Entrata trionfale. Tre anni dopo, nel 1602,
Jan Moretus diede alle stampe il solenne album commemorativo
Historica narratio profectionis et inaugurationis … Alberti et
Isabellae. Entrambe le opere furono illustrate con acqueforti e
incisioni in-folio. DI
150
Dipingere per la Chiesa e per la corte
46. Michiel Coignet (1549-1623)
El uso de las doze divisiones geometricas, puestas en las dos reglas pantometras
1618
Manoscritto
Anversa, Biblioteca del Patrimonio Hendrik Conscience, inv. EHC B 264708
BIBL.: Favaro 1908-1909, pp. 1-16; Drake 1978; Meskens 1998; Meskens 2005, pp. 64-65.
Michiel Coignet era il membro più illustre di una grande
famiglia di matematici e pittori di successo. Come suo padre
Gillis, anche lui costruiva strumenti di calcolo. Ancor prima
di diventare adulto fu ammesso nella Gilda degli Insegnanti
e aprì una scuola di matematica avanzata. Inoltre, revisionò
e ripubblicò diversi manuali scolastici. Verso il 1570 ereditò il
laboratorio del padre e iniziò a produrre astrolabi, goniometri,
sfere armillari e altri strumenti che vendeva nel negozio
di libri di Christopher Plantin. Nel 1580 Coignet pubblicò
un libro sull’uso della balestriglia e dell’astrolabio marino,
e propose dei miglioramenti a questi strumenti. Coignet era
in corrispondenza con Giovanni Keplero, e scrisse una lettera
anche a Galileo Galilei. Pare che quest’ultimo non gli abbia
mai risposto, ma doveva essere comunque al corrente della
reputazione del matematico fiammingo, perché nel 1611 cercò
di ottenere una copia delle tavole astronomiche di Coignet.
Dal 1596 in poi Coignet fu al servizio degli arciduchi
dei Paesi Bassi come ingegnere militare, disegnò piani per
nuove fortificazioni e calcolò l’angolo ottimale di lancio dai
cannoni, basandosi sui principi balistici di Niccolò Fontana
Tartaglia. Continuò a perfezionare strumenti già esistenti,
o a utilizzarli in maniera innovativa per risolvere problemi
matematici. Più o meno nello stesso periodo iniziò a lavorare
al settore, o compasso di proporzione, e a proporre strumenti
per calcoli geometrici. Questo manoscritto del 1618 contiene
la versione avanzata del compasso di proporzione di Coignet.
Questo strumento è spesso attribuito a Galileo, che ne
annunciò l’invenzione nel 1598, ma in realtà diversi ingegneri
stavano lavorando contemporaneamente in tutta Europa per
migliorare il compasso di riduzione che i pittori hanno usato
per secoli. SVI
Dipingere per la Chiesa e per la corte
151
47. Ferdinand Verbiest (1623-1688)
Compendium latinum proponens XII posteriores figuras libri observationum nec non priores
VII figuras libri organici
Pechino, 1678
Anversa, Biblioteca del Patrimonio Hendrik Conscience, inv. EHC G 4978
Il gesuita fiammingo Ferdinand Verbiest fu missionario in
Cina, e grazie alla sua eccellente conoscenza dell’astronomia,
alla quale era stato formato all’interno dell’ordine, divenne
un personaggio influente alla corte imperiale con il nome
di 南 怀 仁 (Nán Huáirén). Le predizioni occidentali infatti
erano molto più accurate di quelle degli astrologi cinesi,
che, per tradizione, godevano di una grande influenza come
consiglieri dell’imperatore. A Pechino Verbiest pubblicò una
dozzina di libri di astronomia e, per ottenere appoggio anche
in Europa, realizzò una versione in latino dei suoi scritti e
la fece diffondere in patria. Il volume, stampato con blocchi
di legno su carta di riso come tutti i libri tradizionali cinesi,
contiene illustrazioni dei grandi strumenti astronomici
che Verbiest progettava per l’imperatore. Questi strumenti
sono tuttora conservati a Pechino, dove attirano migliaia di
visitatori ogni anno.
Anche questa copia contiene una rara opera cinese di
Verbiest, con predizioni per l’eclissi solare del 29 aprile 1669.
Pubblicate in forma di rotolo, le previsioni furono diffuse
in tutto l’impero cinese per spiegare agli astrologi come
osservare il fenomeno celeste. Il rilegatore europeo non era
pratico di questo tipo di pubblicazione, così ripiegò il rotolo in
fogli e lo rilegò insieme al libro. SVI
152
Dipingere per la Chiesa e per la corte
48. Artus I Quellinus (1609-1668)
Bottega
Apollo uccide il serpente Pitone
1651 (invenzione), post 1651– ante 1664 (esecuzione)
Terracotta, con tracce di ingobbio bianco, 63,4 × 36,3 × 12,8 cm
Charles Van Herck coll., Fondazione Re Baldvino, in prestito al Museo Reale
delle Belle Arti (KMSKA), Anverda, inv. IB00.050
BIBL.: Baisier & Baudouin 2000, pp. 44-46; Scholten 2010, pp. 23, 24.
Lo scultore di Anversa Artus Quellinus trascorse gli anni tra il
1650 e il 1665 ad Amsterdam, dove diresse una grande bottega,
incaricata di realizzare le decorazioni scultoree per il nuovo
Municipio (l’attuale Palazzo Reale di piazza Dam). Per il
primo piano dell’edificio disegnò una serie di otto divinità
planetarie, inclusa questa figura del dio del sole Apollo, come
descritta da Cesare Ripa: «Il Sole si dovrà rappresentare con
figura di giovanetto ardito, ignudo, ornato con chioma dorata,
sparsa dai raggi, con il braccio destro disteso, & colla mano
aperta terrà tre figurine, che rappresentino le tre grazie. Nella
sinistra mano haverà l’arco, & le saette, & sotto li piedi il
serpente ucciso con li strali».1
Con Pitone sconfitto che giace ai suoi piedi, Apollo è
rappresentato anche come lo sterminatore del male ed è per
questo che nel Municipio vigila davanti alla porta dell’ufficio
del “Commissario agli affari minori”, che si occupava di
piccole dispute tra i cittadini.2
Quellinus realizzò il modello originale di Apollo, alto
tre piedi (circa 85 cm) e attualmente perduto, qualche giorno
prima del 24 ottobre 1651 e subito dopo scolpì l’opera in
marmo.3 Questa replica in terracotta di dimensioni minori,
così come un secondo modello ancora più piccolo conservato
al Rijksmuseum, rispecchia quasi fedelmente la versione in
marmo.4 Le due terrecotte differiscono leggermente per la
posa, le rifiniture e la modellatura intorno ai bordi.5 Versioni
ridotte furono prodotte dallo studio di Quellinus, destinate
probabilmente a fungere da souvenir del Municipo per i
collezionisti d’arte presenti tra i borgomastri di Amsterdam e
la loro cerchia.6 La versione del Rijksmuseum appartenne per
molti anni alla collezione municipale di Amsterdam; dunque,
la terracotta qui analizzata potrebbe essere uno degli Apollo
messi all’asta nel 1737 e nel 1819, provenienti dalla collezione
del borgomastro di Amsterdam, Joan de Vries, e da quella
della sua controparte di Delft, Emanuel Sandoz.7 FS
1 Ripa 1644, p. 272.
2 Fremantle & Halsema-Kubes 1977, p. 41.
3 Fremantle 1959, p. 48 (nota 3); Vreeken 1995, pp. 52-53.
4 Leeuwenberg 1973, n. 292; Baisier & Baudouin 2000, pp. 44-46; Scholten
2010, pp. 23, 24.
5 Baisier & Baudouin 2000, p. 46
6 Vreeken 1995, pp. 43, 44.
7 Catalogus van een cabinet van uytmuntende schilderijen […] Antique en moderne
beelden, en eenige antique penningen, merendeels by een verzamelt door wylen den Wel
Ed. Heer Joan de Vries, In zyn Wel ed. leven Burgermeester en raed der stad Amsterdam
[…], L’Aia (Nicolaas van Wouw), 13 ottobre 1738, p. 15, n. 51 en Catalogue d’une
très belle collection de livres en divers facultés et langues […] delaissé par feu Monsieur
mr. E. Sandoz, en son vivant Bourgemaistre de la Ville de Delft, L’Aia (B. Scheurleer)
20 dicembre 1819, p. 172, n. 143.
Dipingere per la Chiesa e per la corte
153
154
49. Jacopo Tintoretto (1519-1594)
L’angelo annuncia il martirio a Santa Caterina d’Alessandria
1560-1570
Olio su tela, 177 × 99,3 cm
Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa (fino al 2019)
Il primo a documentare il dipinto, fra i più citati di Tintoretto, in un’opera a stampa fu
Francesco Sansovino nel 1581. Commissionato dalla Scuola di Santa Caterina per l’altare
della Chiesa di San Geminiano in piazza San Marco a Venezia, il quadro fu trasferito nelle
Gallerie dell’Accademia in seguito alla distruzione della chiesa nel 1807. Venduto nel 1818 al
mercante d’arte Angelo Barbini, dopo aver fatto qualche apparizione sul mercato artistico,
approdò infine nel 1983 nella collezione di David Bowie.
Rodolfo Pallucchini fu il primo a riscoprire quest’opera nel 1959 e a riprodurre l’incisione
realizzata da Zucchi a partire da un disegno del dipinto fatto da Silvestro Manaigo (1720).1
Sempre a Pallucchini si deve la datazione del quadro intorno al 1557-60 e la messa in luce
dell’influsso di Paolo Veronese, già notato nel 1648 da Ridolfi.2 Pallucchini citava, inoltre,
il disegno del 1622 di Van Dyck conservato al British Museum e ispirato alla Visione di Santa
Caterina, prova evidente del successo di questo dipinto nel XVII secolo.3 L‘attribuzione a Tintoretto
è stata confermata da De Vecchi (1970),4 Pallucchini e Rossi (1982).5 Nel 2009 Echols
e Ilchman hanno proposto di datare L’angelo annuncia il martirio a Santa Caterina d’Alessandria
“verso la fine degli anni Settanta del Cinquecento”6 datazione ribadita nel 2016 da Ilchman,
che ha attribuito l’opera a Tintoretto “con la partecipazione della sua bottega”.7
Il dipinto fu eseguito tra il 1557, quando Jacopo Sansovino lavorava alla Chiesa di San
Geminiano, e il 1581, quando Francesco Sansovino registrò l’opera di Tintoretto in situ8 e scrisse
che la chiesa “anche se piccola, è forse la più ornata di tutte le altre della città”.9 Il giudizio
di Francesco pendeva in favore di suo padre Jacopo, tanto orgoglioso della propria opera da
esprimere il desiderio di essere sepolto in quella stessa chiesetta: prospiciente la basilica di San
Marco, San Geminiano era uno dei monumenti più prestigiosi della città, molto frequentato
anche per i concerti che vi si svolgevano.
Un esame tecnico del dipinto ha dimostrato che la sua esecuzione è conforme al metodo
di Tintoretto. Verso il 1560 Paolo Veronese realizzò le porte dipinte dell’organo di San Geminiano
(ora alle Gallerie Estensi di Modena). Dal momento che la pala d’altare di Tintoretto
era destinata alla stessa chiesa che ospitava anche le opere del suo rivale, è improbabile
Tintoretto e Tiziano
155
Andrea Zucchi da Tintoretto, L’angelo annuncia il martirio a Santa Caterina d’Alessandria, incisione da
un disegno di Silvestro Manaigo, ne Il Gran Teatro delle pitture & prospettive di Venezia, 1720, 54.5 × 34 cm
che Jacopo ne abbia delegato l’esecuzione ai suoi lavoranti. Nella visione di Santa Caterina,
un angelo annuncia alla santa che dovrà subire il supplizio con una ruota irta di punte
acuminate.10 I filosofi pagani sullo sfondo non sanno ancora che l’eloquenza di Caterina
li farà convertire alla fede cristiana e che alla fine anche loro saranno martirizzati: dietro
un episodio così originale dev’esserci stata per forza la regia della Scuola di Santa Caterina.
L’incedere leggero a mezz’aria dell’angelo è un’idea che deriva dall’Annunciazione di
Tiziano (Venezia, Scuola Grande di San Rocco, 1535 ca.); la struttura fisica del messaggero è la
stessa usata per il suo corrispettivo nella Visione della croce di San Pietro, sempre di Tintoretto,
nella chiesa veneziana della Madonna dell’Orto (1552-56).11
Ilchman ha notato che il volto della santa è simile per tipologia a quelli presenti nel Viaggio
di Sant’Orsola (Venezia, Chesa di San Lazzaro dei Mendicanti, 1554-55 ca.).12 La struttura fisica
di Caterina è identica (anche se speculare) a quella di Sant’Orsola nella pala d’altare di San
Lazzaro, mentre la testa di scorcio dell’angelo è basata sul disegno usato per la testa di San
156
Tintoretto e Tiziano
Anthony van Dyck, Studi da Tiziano e Tintoretto, fol. 6v del Taccuino italiano, 1621-1627, penna e inchiostro bruno,
Londra, British Museum (dettaglio)
Giorgio in San Giorgio e il drago (Londra, National Gallery, 1553 ca).13 La schiera dei filosofi
pagani trova corrispondenza nella serie dei Filosofi della Libreria Marciana (Venezia, entro
il 1572),14 per la quale Tintoretto collaborò con Battista Franco, Giuseppe Porta, Lambert
Sustris, Paolo Veronese e Andrea Meldolla.
I confronti qui proposti riguardano opere eseguite da Tintoretto verso il 1550-70: c’è
una forte somiglianza con San Giorgio e il drago della National Gallery di Londra. Il cartone
usato per la principessa è stato riutilizzato per la figura di Santa Caterina, pur con qualche
ovvia variante. L’angelo, concepito in origine come una figura nuda dai contorni indefiniti
e poi ricoperto con una tunica, è costruito secondo il metodo tipico di Tintoretto, al
pari di Santa Caterina. Le linee ampie che tracciano la prospettiva del pavimento e delle
colonne inquadrano la composizione all’interno di una griglia, come succede nel bozzetto
incompiuto del Doge Alvise Mocenigo al cospetto del Redentore (New York, Metropolitan Museum
of Art, 1571-74).15
Tintoretto e Tiziano
157
Le colonne doriche sulla destra riecheggiano quelle presenti nel Martirio di San Lorenzo di
Tiziano (Venezia, Chiesa dei Gesuiti, 1557 ca.), benché quest’ultime siano di ordine corinzio,
così come i pilastri nel frontespizio del terzo volume dei Sette libri di Architettura (1540) di
Sebastiano Serlio.
Le dimensioni della Visione di Santa Caterina di Alessandria (177 × 99,3 cm) si avvicinano
a quelle del San Giorgio e il drago della National Gallery di Londra (158,3 × 100,5 cm). Si tratta
di un formato abbastanza piccolo per una pala d’altare, scelto probabilmente perché si
adattasse alla scala ridotta della cappella di San Geminiano, dove il dipinto rimase fino al
1807. L’angelo annuncia il martirio a Santa Caterina d’Alessandria influì sull’evolversi successivo
dell’iconografia dell’annunciazione a Venezia, come dimostra quella eseguita dalla bottega
di Paolo Veronese e oggi al Blanton Museum of Art di Austin, Texas.16
Riccardo Lattuada
1 Pallucchini 1959-60, p. 52.
2 Ridolfi 1648, II, p. 30 in Grath 2009.
3 Pallucchini 1959-60, pp. 51, 52, ill. 6, p. 54, n. 10.
4 P. De Vecchi, in Bernari & De Vecchi 1970, p. 100, n. 126.
5 Pallucchini & Rossi 1982, I, p. 178, cat. 220; II, p. 433, tav. 286.
6 Echols & Ilchman 2009, p. 128, cat. 208.
7 Il contenuto della lettera di Robert Ilchman a Sotheby’s è stato fedelmente riportato nella scheda della casa d’aste
sul dipinto, che mi è stata gentilmente messa a disposizione dagli attuali proprietari.
8 Sansovino 1581, p. 43
9 Sansovino 1581, p.42
10 Questa iconografia non si trova né in Réau 1958, pp. 262-272; né in Balboni, Bronzini, Brandi 1963.
È stata analizzata da Di Monte 1999, pp. 118-120.
11 Il confronto è già stato proposto da Robert Ilchman nella già citata lettera a Sotheby’s.
12 M. Binotto in Sgarbi 2012, pp. 90-91, n. 6.
13 M. Binotto in Sgarbi 2012, pp. 86-89, cat. 5, con precedente bibliografia.
14 Cfr. P. De Vecchi in Bernari & De Vecchi 1970, pp. 112-113, cat. 189, con precedente bibliografia.
15 Falomir 2007, pp. 324-329.
16 Precedentemente alla Suida Manning Collection di New York; Pignatti 1976, I, p. 162, n. 315; II, ill. 678; Arasse
1990; Pignatti, Pedrocco 1995, I, p. 451, n. 346; Bober 1999, p. 448, ill. XI; Scarborough 2006, p. 39; Huber 2005,
p. 77; p. 429, n. 99; http://collection.blantonmuseum.org/Obj16449? sid=891254&x=14866000).
Tintoretto e Tiziano
159
50. Massimo Stanzione (1585 ca.-1656 ca.)
Attribuito
La meditazione di Maria Maddalena
Olio su tela, 102,3 x 76,2 cm
Collezione privata (Courtesy of Museo Nazionale di Arte e Storia, Lussemburgo)
BIBL.: Whitfield & Martineau 1982; Hilaire & Spinoza 2015.
Massimo Stanzione fu uno degli artisti napoletani più
importanti della prima metà del XVII secolo. Come molti
colleghi attivi a Napoli nello stesso periodo, incluso il suo
principale rivale Jusepe de Ribera (1591-1652), anche lui
subì l’influsso del Caravaggismo, ma il suo stile aveva una
raffinatezza e una grazia tanto peculiari da fargli guadagnare
il soprannome di ‘Guido Reni napoletano’. Le prime opere di
Stanzione sono in prevalenza profane – scene mitologiche e
ritratti – mentre quelle delle maturità hanno un carattere in
gran parte religioso.
Raffigurata come una santa eremita, Maria Maddalena
siede solitaria nella sua grotta, che la leggenda vuole a Sainte
Baume nella Francia meridionale, e guarda con occhi contriti
il teschio che tiene fra le mani. Nonostante il travaglio della
sua anima, ha l’aspetto di una giovane donna sensuale. Il vaso
di olio profumato di fronte a lei ricorda allo spettatore l’episodio
in cui, da prostituta pentita, pianse davanti a Cristo che
cenava nella casa di Simone il fariseo. Dopo aver asciugato
con i capelli i piedi di Gesù bagnati dalle sue lacrime, li baciò
e li unse con olio di mirra. Il teschio richiama la brevità
della vita e qui serve probabilmente a indurre chi guarda
a confessare i propri peccati e ottenere il perdono prima
che sia troppo tardi. Come archetipo della donna penitente,
Maria Maddalena era un soggetto popolare nell’arte della
Controriforma, rispecchiava gli sforzi della Chiesa cattolica
per diffondere la devozione ai sacramenti, soprattutto quello
della confessione, che i Protestanti non riconoscevano come
strumento per ottenere la Grazia divina.
Questo dipinto riscoperto recentemente è senza
dubbio uno dei capolavori di Stanzione. La tecnica pittorica,
con i suoi intensi effetti di chiaroscuro e la stesura densa del
colore, è tipica del periodo maturo dell’artista e ricorda lo
stile di Jusepe de Ribera. Il quadro è databile all’incirca al
1635-40. BVB
160
Tintoretto e Tiziano
Tintoretto e Tiziano 161
162
51. Tiziano (1488-1576)
Ritratto di dama con la figlia
1550 ca.
Olio su tela, 88,3 × 80,7 cm
Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa (fino al 2019)
Ritratto incompiuto di ‘Milia’, la donna amata da Tiziano, e della loro figlia
Emilia dalla Collezione Barbarigo di Venezia
L’incompiuto Ritratto di dama con la figlia, tornato a Venezia dopo quasi 500 anni, è una delle
tante opere non finite rimaste nella bottega di Tiziano alla sua morte. In seguito, forse appena
qualche anno dopo, l’opera fu ridipinta, presumibilmente da uno degli allievi del maestro,
con la composizione religiosa Tobia e l’arcangelo Raffaele: le teste sono state modificate e rese
leggermente più generiche, la madre è diventata l’arcangelo e la figlia il giovane Tobia. Sotto
queste sembianze religiose, le loro caratteristiche individuali non erano più riconoscibili. Le
modelle hanno acquisito un’acconciatura da ragazzo e i loro abiti sono stati mutati in una
foggia maschile. Sono spuntate ali policrome, rosa e bianche, ed è stata cambiata anche la
posizione del braccio destro di entrambe le figure per permettere a Tobia di sollevare in alto
un grande pesce e alla sua guida, Raffaele, un vaso contenente il fiele che restituisce la vista
al padre del ragazzo. I nuovi gesti e gli attributi sono stati aggiunti in maniera alquanto
maldestra, lasciando il dipinto a diversi livelli di finitura. Evidentemente un quadro religioso
finito era considerato più vendibile di un doppio ritratto incompiuto, nonostante quest’ultimo
fosse di gran lunga superiore per qualità.
La composizione originale sottostante fu riscoperta nel 1948, quando la tela fu sottoposta
a una radiografia al Courtauld Institute. I raggi X rivelarono il pregevole doppio ritratto di
una donna in compagnia della figlia, eseguito alla maniera energica di Tiziano. Nella stessa
occasione risultò anche una stretta affinità tra le radiografie della testa della bambina e la
testa di Lucrezia nel Tarquinio e Lucrezia, sempre di Tiziano, conservato al Fitzwilliam Museum
di Cambridge. Diversi anni dopo, il dipinto fu esaminato nello studio del restauratore Alec
Cobbe per capire se fosse possibile riportare alla luce il doppio ritratto sottostante, considerato
dagli esperti molto più importante del sovradipinto Tobia e l’arcangelo Raffaele. Alla fine
prevalse la decisione di rimuovere la composizione sovrastante nel corso di un estenuante
restauro durato vent’anni.
Tintoretto e Tiziano
163
Ritratto di dama con la figlia di Tiziano sotto forma di “Tobia e l’Arcangelo Raffaele”, raggi X e differenti fasi del restauro
Lo stato incompiuto, ora visibile, del dipinto originale ci permette di indagare la tecnica
ritrattistica di Tiziano. Anche lui, come molti altri pittori che si dedicarono a questo genere,
si concentrò all’inizio sulle teste e portò a un elevato grado di finitezza i lineamenti della
madre e della figlia, presumibilmente realizzati dal vivo. Una parte degli abiti mostra un
livello di esecuzione relativamente avanzato, per esempio il vestito di velluto tra il giallo e il
marrone della madre, mentre altre aree, soprattutto nelle maniche, sono poco risolte, come
anche la mano destra della donna, abbozzata con pennellate sommarie. C’è una maestria nel
tocco che fa presagire un risultato definitivo di invidiabile brillantezza; nonostante i diversi
gradi di finitezza sulle varie aree della superficie, la composizione nel suo insieme manifesta
un’armonia complessiva e una totale coerenza.
Il vestito della madre, di un’eleganza austera, è ben rifinito. La dama indossa una
sottoveste bianca, una camicia candida, lini dalle fantasie delicate e una sopravveste di un
marrone dorato, conosciuta a Venezia col nome di camora, dalle ampie maniche definite
164
Tintoretto e Tiziano
con diverse gradazioni di color lionato. Sulla spallina della manica sinistra sono inoltre
abbozzati tre bottoni; la donna porta come gioielli due splendidi fili di perle, mentre una
terza collana è parzialmente intrecciata alle prime due, con un effetto finale davvero
notevole. La figlia indossa un magnifico orecchino di ametista e un ornamento di perline
intrecciato ai capelli, fermato sulla testa da un elegante fermaglio. La madre regge un fiore
nella mano destra, da cui emergono una serie di pennellate bianche e grigie, che terminano
in uno svolazzo impastato. Un’interpretazione di questo passaggio sorprendente potrebbe
far pensare all’inizio di un ventaglio di piume di struzzo, o a una conocchia, oggetto che
farebbe riferimento al ramo matrilineare della famiglia, assai appropriato per questo doppio
ritratto. Risulta che Tiziano abbia eseguito il dipinto dal vivo, e l’apparente indecisione
in alcuni dettagli è una delle tante ambiguità che descrivono il suo processo compositivo
in maniera affascinante.
I ritratti femminili di Tiziano sono estremamente rari, si riducono più o meno a tredici.
Eppure fu un innovatore in questo genere, introducendo nei ritratti femminili il formato
di tre quarti, a partire da La Schiavona della National Gallery di Londra. Questa descrizione
familiare di una madre e di una figlia in un doppio ritratto è un caso unico nell’opera dell’artista,
come in quella della maggior parte dei pittori veneziani, dal momento che nella città
lagunare vigeva una regola non scritta che vietava l’iconografia dinastica. Da quando nel 2002
il doppio ritratto, che ora giunge a Venezia, è stato posto sotto la lente dei critici, è prevalsa
l’opinione che vede nella modella non un’esponente della nobiltà, ma un’appartenente alla
cerchia di Tiziano, dal momento che i sentimenti dell’artista per la donna e la bambina sono
messi in evidenza dalla stesura del colore, piena di fascino e sensualità. Della vita privata di
Tiziano sappiamo sorprendentemente poco, le uniche notizie giunte fino a noi sono sopravvissute
per caso in documenti notarili che riguardano i suoi figli. Come molti uomini che
amarono le donne, pare che Tiziano abbia tenuta segreta la loro identità. Pomponio, l’erede
legittimo, potrebbe aver distrutto qualsiasi prova dell’esistenza di queste donne (e dei loro
figli) che, dopo la morte di sua madre nel 1530, entrarono nella vita del padre. Tra il 1543 e il
1548, una misteriosa donna senza nome della cerchia di Tiziano gli diede una figlia, Emilia
Vecellio. La sua esistenza è nota grazie alla sopravvivenza fortuita di documenti, datati 10
marzo 1572, relativi alla dote di 750 ducati che Tiziano assegnò allo sposo della ragazza, il
mercante di grano Andrea di Giovanni Dossena. La coppia ebbe tre figli, Alcide, Zanetto e
Tintoretto e Tiziano
165
Cecilia. La madre di Emilia è descritta nel documento come “ignota di casa”, il che fa pensare
che potesse essere una domestica.
Tra tutte le possibilità che riguardano le donne di Tiziano, l’ipotesi più probabile è che
il doppio ritratto raffiguri la madre di Emilia, conosciuta come “Milia”, insieme alla stessa
Emilia all’età di dieci anni. Se si trattasse davvero di questa figlia di Tiziano, allora il ritratto
dovrebbe risalire più o meno al 1558. Emilia e sua madre devono aver vissuto in casa del pittore
insieme ai suoi legittimi figli – con i quali forse non mancò qualche frizione – nella parte
principale della casa o nelle stanze della servitù. Può darsi che Pomponio abbia censurato
l’immagine dopo la morte di Tiziano, ordinando che la tela fosse ridipinta, oltre a cancellare
qualsiasi riferimento a Milia dall’archivio di famiglia. Chiunque fosse questa bellissima donna,
ne resta una testimonianza straordinaria nel ritratto, così come della figlia.
Jaynie Anderson
1 Questa è una versione rivista e abbreviata di Anderson 2002, ripubblicata col consenso dell’editore, Michael Hall.
Il doppio ritratto è stato esposto per la prima volta a Kenwood House nel 2001 (Laing 2001, pp. 222-229). Dal 2002
è stato esposto in diverse occasioni: al Prado, Madrid (Anderson in Falomir 2003, pp. 206-207, 377); al Palais
du Luxemburg, Parigi (Nitti, Carratù & Costantini 2006, pp. 59-60); a Palazzo Crepadona, Belluno; a Palazzo
Magnifica Comunità, Pieve di Cadore (Biffis & Broch in Puppi 2007, pp. 201-202); al Metropolitan Museum of
Art, New York (Bayer in Baum, Bayer & Wagstaff 2016, p. 322).
2 Questa ipotesi è stata avanzata da Peter De Wilde.
3 Wethey 1969-1975, II.
4 Il miglior resoconto dei diversi tentativi di identificare la modella è quello di Francis Russell, nella sua scheda del
catalogo per la vendita degli Old Master Paintings, Christie’s, 8 dicembre 2005, p. 11.
5 Per una visione d’insieme sulla vita di Tiziano, vedi Puppi 2004, pp. 37-60.
6 Hope 2008.
7 Brunetti 1935.
8 Puppi ritiene che il nome della madre di Emilia sia stato deliberatamente rimosso dai documenti che riguardano
la dote, vedi Puppi 2004, p. 42.
9 Un’ipotesi avanzata da Francis Russell, op. cit. (nota 4), p. 12.
Tintoretto e Tiziano
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168
52. Peter Paul Rubens (1577-1640)
Ritratto di giovane donna con una catena
1605-1606
Olio su tela, 81,3 × 66 cm
Collezione privata, in prestito al Museo delle Belle Arti, Houston
BIBL.: Old Master & British Paintings, Evening Sale, Londra, 9 dicembre 2009, n. 11, pp. 38-40.
Questo ritratto elegante e insieme pieno di energia,
rinvenuto solo una decina d’anni fa, non era ancora stato
esposto al pubblico. Un disegno preliminare splendidamente
conservato, il tratto appena abbozzato, e gli strati di colore
sottostanti rimasti scoperti vicino agli angoli della tela
suggeriscono che si tratti di un’opera incompiuta, o di un
bozzetto dipinto dal vivo, che doveva servire come base per
un ritratto finito.
Il viso giovanile della donna – ravvivato dai grandi
e intensi occhi castani e dalle labbra rosse e carnose,
dischiuse quasi nell’atto di parlare – è sottolineato da una
caratteristica gorgiera che si solleva dietro e sopra la testa.
La presenza quasi palpabile è accentuata ancora di più
dall’incarnato luminoso e dai capelli raccolti con cura sul
capo. Ciò che colpisce di più è l’abilità tecnica d’esecuzione:
dipinto probabilmente in un solo giorno, il quadro mostra
un impasto color crema applicato con parsimonia su
un’imprimitura più scura tra il rosso corallo e il marrone,
e una stesura più decisa del colore sulla gorgiera e sulle
maniche, che con il loro ruvido sfarzo contrastano con la
descrizione delicata dei lineamenti. È un ritratto potente:
la donna volge confidenzialmente la testa per incrociare lo
sguardo dello spettatore, in contrapposto.
Il fatto che sia vestita sobriamente secondo la moda
spagnola dell’inizio del Seicento suggerisce che il ritratto sia
stato eseguito durante il primo viaggio di Rubens in Spagna
tra l’aprile del 1603 e il gennaio del 1604. Ancora giovane e
in ascesa come artista, Rubens era stato incaricato dal suo
committente e mecenate, il duca di Mantova Vincenzo I
Gonzaga, di consegnare un gruppo di dipinti come dono per
Filippo III. È più probabile, comunque, che questo quadro
risalga al suo periodo a Genova, dove Rubens soggiornò dal
dicembre 1605 fino alla metà dell’anno seguente, rivelandosi
per la prima volta un ritrattista brillante. Nonostante
l’apparente immediatezza, quest’opera reca i tratti distintivi
dei grandi dipinti di corte. Simili ritratti avrebbero potuto
essere commissionati dalla nobiltà genovese come segno di
potere e status sociale.
Sappiamo poco della storia precedente del quadro.
Sul retro della tela è apposto il sigillo della “Reale Accademia
delle Belle Arti in Venezia”. Ciò suggerisce che si tratti di un
dipinto proveniente da una collezione privata veneziana non
ancora identificata, poi entrata a far parte del patrimonio
statale dello Stato a inizio Ottocento. Il dipinto sarebbe
stato quindi mandato in deposito all’Accademia e in seguito
immesso sul mercato. BvB
Tintoretto e Tiziano
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53. Peter Paul Rubens (1577-1640)
Venere allatta gli Amorini (Crescetis Amores)
1616
Penna e inchiostro bruno, acquerello e gesso nero, inchiostro nero con lumeggiature bianche; 246 × 179 mm
Collezione privata
BIBL.: Rooses 1886-1892, III, p. 187, sotto n. 701; ibid. V, p. 171, n. 1356; F. Healy, in: McGrath et al. 2016, I, pp. 395, 401; ibid. II, fig. 332; Büttner 2018, I, pp. 361-368, n. 47;
II, figs 226, 229.
Molto tempo prima della scoperta di questo foglio,
che mostra una composizione a penna e inchiostro su un
disegno preparatorio in gesso nero, l’incisione che ne trasse
Cornelis Galle il Giovane (1615-1678) testimoniava già una
delle invenzioni pittoriche più famose di Rubens.1 Il titolo
Crescetis Amores – “Crescerete, Amori” –, usato anche per la
stampa, è apposto sul disegno. Sotto l’immagine si legge una
dedica, nella caratteristica grafia di Rubens, al borgomastro
di Anversa, Paulus Van Halmale (1562-1648 ca. ). La scritta,
che non compare nell’incisione, è datata 16 aprile 1616.2
Il disegno faceva probabilmente parte di un Album amicorum,
che in seguito fu smembrato e che conteneva anche un foglio,
ora a Parigi, con un’iscrizione dove si diceva che Paul Bril
(1554-1626) lo aveva regalato a Van Halmale nel 1604 a Roma.3
L’immagine dei nudi accovacciati si rifà al modello
antico di “Afrodite accovacciata”, citata da Plinio nella sua
Storia Naturale quando racconta che la statua si trovava nel
Tempio di Giove Statore ed era opera di Doidalsa, uno scultore
greco per il resto poco noto.4 Un osservatore colto
come Paulus Van Halmale poteva riconoscere nel disegno
di Rubens non solo i riferimenti figurativi all’antichità
classica, ma anche l’allusione letteraria contenuta nel titolo.
Quest’ultima fa riferimento a una scena molto famosa della
decima Egloga di Virgilio, nella quale un poeta innamorato
annuncia che inciderà la sua dichiarazione d’amore sulla
corteccia di un albero, così il suo amore crescerà insieme alla
pianta.5 Otto Van Veen (1556-1629), maestro di Rubens, citò
la stessa eloquente immagine metaforica nei suoi Amorum
Emblemata.6 La consuetudine di usare immagini ispirate alla
classicità per esprimere la costanza dei sentimenti trasformò
l’illustrazione metaforica di Rubens in un pegno perfetto
d’amicizia. Inoltre, il messaggio era così universale da
incoraggiare un’ampia diffusione di questo disegno di Rubens
per mezzo di stampe. NB
1 Incisione di Cornelis Galle il Giovane (1615-1678), 220 × 173 mm; titolo nel
margine inferiore: “Crescetis Amores” (“Crescerete, Amori”), firmato
nell’angolo destro in basso: “P.P.Rubens pinxit/Corn. Galle sculp[sit]”.
Hollstein VII, p.65, n. 145.
2 Büttner 2018, I, pp. 365-366.
3 L’episodio è documentato dall’iscrizione su un disegno di Paul Bril,
San Gerolamo, 1604; penna e inchiostro, acquerello grigio e bruno, con
lumeggiature bianche, e gesso nero, 218 × 145 mm; Paris, Lugt Collection, inv.
6814. L’iscrizione su questo disegno dice: ‘Paulus bril amico suo. sr. Paulo de
Halmale/ facebat. Romae ques di. 12. Aprilis-1604’. Vedi Wood Ruby 2013, non
impaginato (pubblicato online, DOI: 10.5092/jhna.2013.5.2.4).
4 Plinio, Storia Naturale, XXXVI, 35 (“Venerem lavantem sese Daedasa, stantem
Polycharmus”).
5 Virgilio, Egloghe, X, 52-54 (“Ibo et Chalcidico quae sunt mihi condita uersu/
carmina pastoris Siculi modulabor auena./ Certum est in siluis inter spelea
ferarum/malle pati tenerisque incidere Amores/ arboribus: crescent illae,
crescetis, Amores”).
6 Van Veen, Amorum Emblemata, 1608, p. 6. Per la copia di Rubens di questo libro,
vedi Arents 2001, p. 280, n. N8
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Un’esistenza circondata dal lusso
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172
54. Abraham Ortelius (1527-1598)
Theatri orbis terrarum parergon
Anversa, Balthasar I Moretus, 1624
2°: *4, folio doppio segnatura I-XLIX, 32, [4] p.
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM A 933
BIBL.: Van der Krogt 1997-2003, vol. IIIa, pp. 245-249, n. 31:771; Imhof 2015.
Il cartografo di Anversa Abraham Ortelius pubblicò questo
Theatrum orbis terrarum, il primo atlante vero e proprio che si
conosca, nel 1570. Consultò tutte le migliori mappe disponibili
in quegli anni in Europa e le fece incidere nuovamente in
un formato uniforme. Quasi tutte, poi, furono arricchite con
un testo di accompagnamento sul retro e raccolte in un unico
volume. Insieme all’atlante di Gerard Mercator, la pubblicazione
di Ortelius ebbe un impatto profondo sul modo di
vedere la Terra da parte di un gruppo considerevole di lettori.
La prima edizione del 1570 del Theatrum contiene testi
in latino; negli anni seguenti furono realizzate delle versioni
in olandese, tedesco e francese. Queste edizioni contengono
le stesse mappe di quella in latino, ma le parole che le
accompagnano differiscono in maniera sostanziale. I testi
nelle lingue nazionali erano molto più soggettivi e aneddotici,
il che indica che la versione in latino del Theatrum era
destinata soprattutto a un pubblico erudito, mentre quelle nel
linguaggio di tutti i giorni avevano meno pretese intellettuali.
Ortelius continuò ad aggiungere costantemente al suo
atlante nuove mappe aggiornate, fino alla sua morte nel 1598.
Mentre la prima edizione conteneva le stampe di 53 mappe,
il numero salì a 115 nell’ultima edizione pubblicata quando
Ortelius era ancora in vita. Dopo la sua morte, le lastre di
rame usate per l’atlante furono vendute a un altro editore di
Anversa, Jan Baptist Vrients, che stampò nuove edizioni del
volume in varie lingue, anche in italiano.
Il vero interesse di Ortelius era però la storia, che unì alla
cartografia inserendo mappe storiche nel suo Parergon. Quale
modo migliore per spiegare eventi della Bibbia o dell’antichità,
scrisse nel preambolo, che attraverso le carte geografiche?
Per lui la cartografia era «l’occhio della storia». Dopo
l’esordio nel 1579 con tre mappe in appendice al suo Theatrum,
l’atlante storico crebbe rapidamente fino ad arrivare a una
pubblicazione a sé stante con 32 mappe. Balthasar I Moretus
pubblicò un’ultima edizione del Parergon nel 1624. DI
Un’esistenza circondata dal lusso
173
55. Jacques Jordaens (1593-1678)
Amore e Psiche
1645 ca.
Olio su tela, 160 × 260 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 5023
BIBL.: Jaffé 1968b, pp. 129-130, n. 98; d’Hulst 1993, pp. 224-227, n. A71; Merle du Bourg 2013, pp. 202-203, n. III-08.
Dire che Jordaens aveva una passione per le scene mitologiche
sarebbe riduttivo, considerando la serie quasi infinita
di episodi della mitologia classica da lui dipinti. Tra questi,
però, uno spicca in maniera particolare: quello di Amore e
Psiche, raccontato da Apuleio ne L’asino d’oro.
Figlia di un re, Psiche aveva una bellezza tanto
irresistibile da essere paragonata a Venere, la dea dell’amore.
In effetti, la venerazione della fanciulla da parte del popolo
scatenò la gelosia della dea, che reagì ordinando al proprio
figlio, Amore, di procurare a Psiche il compagno peggiore
che gli riuscisse di trovare. Appena Amore la vide, però,
si innamorò pazzamente della ragazza e la portò nel suo
palazzo. Quando Venere lo venne a sapere, fece di tutto per
spezzare quell’unione, ma Amore riuscì a convincere Giove e
alla coppia fu concesso di vivere sull’Olimpo.
La storia di Amore e Psiche era un tema molto popolare
nelle arti visive, come dimostrano in maniera eccellente gli
affreschi rinascimentali di Raffaello nella Loggia di Psiche a
Villa Farnesina, a Roma. Anche Rubens, contemporaneo di
Jordaens, dipinse diverse scene dal mito, e lo stesso Jordaens
lo riprese più volte, sia in opere uniche che all’interno di
serie. Il dipinto qui in mostra è uno splendido esempio del
primo caso. Amore trova Psiche addormentata sotto una
tenda, tra le sue due sorelle. Il Museo delle Belle Arti di
Lille conserva il bozzetto preparatorio del dipinto. Oltre a
quest’opera e ad altre indipendenti, Jordaens dipinse tre serie
complete sul mito. Intorno al 1639-40 gli fu commissionato
un ciclo per la corte inglese (vedi cat. 18), seguito poco dopo
da un altro per la regina Cristina di Svezia. Nessuno dei due è
sopravvissuto. Forse, però, furono proprio queste commesse
a spingere Jordaens a disegnare una terza serie per la sua
abitazione privata. Quest’ultimo ciclo è giunto fino a noi
ed è ora ufficialmente annoverato tra i capolavori dell’arte
fiamminga. BV
174
Un’esistenza circondata dal lusso
176
56. Servatius (‘Servaes’) (de) Cardon (1608-1649)
Attribuito
Busto di un Satiro
1625-1650
Terracotta, 77 × 65 ×32,5 cm
Anversa, Museo della Casa di Rubens, inv. RH.B.045
BIBL.: De Nijn et al. 1997, n. 29 (come “anonimo”); Philippot et al. 2003, p. 867.
Questo busto modellato con esuberanza evoca in maniera
eloquente l’ebbra concupiscenza di un satiro, simbolo della
sfrenatezza della natura, durante un tiaso o un baccanale.
La scultura ha chiaramente origine nell’ambiente artistico
di Rubens (1577-1640), che aveva a sua volta una passione per
i temi bacchici. La terracotta è tradizionalmente attribuita
allo scultore di Mechelen Lucas Faydherbe (1617-1697),
che si formò nella bottega di Rubens per tre anni. Sussiste,
però, qualche dubbio, e l’attribuzione richiede qualche
precisazione. Mentre si conoscono diversi busti correlati di
Faydherbe su temi mitologici, lo stile espressivo bozzettistico
del satiro, e soprattutto i baffi e la barba dall’eleganza fluente,
“pettinata”, farebbero pensare piuttosto al suo contemporaneo
Servaes Cardon. Di quest’ultimo ci restano molte opere
firmate, dove ritorna lo stesso tipo di modellato, per esempio
in un busto maschile del 1646, conservato al Rijksmuseum di
Amsterdam e al Louvre di Parigi.
Le opere attribuite con certezza a Cardon sono poche,
ma evidenze d’archivio dimostrano che dev’essere stato un
artista versatile. Trascorse un periodo a Roma prima del 1638,
probabilmente in compagnia del suo collega Artus Quellinus
il Giovane, e lì ebbe sicuramente modo di studiare satiri e baccanti
di questo tipo. Una volta tornato ad Anversa, si dedicò
con passione, tra altre cose, a scolpire l’avorio, come mostra
un inventario delle sue proprietà nel 1641, anche se questo
aspetto della sua opera ha finora ricevuto scarsa attenzione.
Insieme a suo fratello Johannes, anche lui scultore, Cardon
accettò numerose commesse monumentali per chiese e
realizzò diversi pulpiti e altari. FS
1 Scholten 2004.
2 De Nijn et al. 1997, n. 29 (come “anonimo”); Philippot et al. 2003, p. 86.
3 De Nijn et al. 1997, n. 23, 59-61, 67, 68.
4 Amsterdam, Rijksmuseum, inv. BK-2010-17, vedi Scholten 2014, pp. 298-299.
Parigi, Louvre, inv. RF 2325, vedi Philippot et al. 2003, p. 834, fig. 1.
5 Anversa, Archivio municipale, Archivio notarile, Notaio L. Nicola, N 2695
(17 gennaio 1641).
6 Vedi Philippot et al. 2003, pp. 834-835.
Un’esistenza circondata dal lusso
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57. Manifattura di Jan Raes (1574-1651)
da un disegno di Peter Paul Rubens (1577-1640)
Publio Decio Mure consulta l’oracolo
Post 1618
Arazzo, lana e seta, 404 × 512 cm
Anversa, Museo della Casa di Rubens, inv. RH.W.045
Nel 1616 due mercanti e tessitori, Jan Raes di Bruxelles e
Frans Sweerts di Anversa, commissionarono a Peter Paul
Rubens alcuni disegni per una serie di arazzi in sei quadri
sulla Vita di Publio Decio Mure, che dovevano essere tessuti per
il mercante genovese Franco Cattaneo. La storia è raccontata
da Tito Livio e riguarda i due consoli romani, Decio Mure e
Tito Manlio, che guidarono il loro popolo nella guerra contro
i Latini (340-338 a.C.). Un sogno profetico aveva annunciato
che uno dei due avrebbe sacrificato la propria vita per
garantire la vittoria alla sua gente. Questo arazzo mostra il
momento in cui i sacerdoti informano Publio Decio Mure
che l’oracolo ha indicato lui come quello destinato a morire.
L’aruspice espone il fegato dell’animale appena sacrificato,
mentre due servitori ne portano un altro. La scena si svolge di
fronte alla tenda del generale, nella quale vediamo le insegne
della legione romana.
Rubens trasse ispirazione per il disegno da Il sacrificio di
Listra, un arazzo disegnato da Raffaello nel 1515-17 per il ciclo
degli Atti degli Apostoli per la Cappella Sistina. Esiste un’edizione
precedente della serie a Palazzo Ducale di Mantova,
dove Rubens lavorò dal 1600 al 1608. Le figure allegoriche ai
lati sono state adattate da modelli precedenti.
Il ciclo di Publio Decio Mure fu il primo di una serie
disegnata da Rubens per l’industria degli arazzi. I modelli a
figura intera che dipinse su tela con l’aiuto dei suoi assistenti
sono sopravvissuti e ora si trovano nelle Collezioni del
Principe del Liechtenstein a Vienna. GD
Da un cartone di
Raffaello, Il Sacrificio di
Listra, arazzo, Mantova,
Palazzo Ducale
Un’esistenza circondata dal lusso
179
58. Jan Boeckhorst (1604-1668)
Apollo e Diana uccidono i figli di Niobe
1665-1668 ca.
Olio su tela, 58,3 × 88,5 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 5157
BIBL: Galen 2012, pp. 346-347, n. Z69, ill.
Apollo e sua sorella Diana lanciano frecce contro i sette figli e
le sette figlie di Niobe. Le due divinità vogliono punire la figlia
del re per avere impudentemente proclamato la propria superiorità
rispetto alla loro madre, Latona, che ha avuto meno
figli di lei. Il racconto mitologico è narrato diffusamente nelle
Metamorfosi di Ovidio (VI: 204-312).
La scena fa parte di una serie di modelli dipinti per un
ciclo di sette arazzi dedicati alla storia di Apollo, che il ricco
intenditore e collezionista anversese Antonio van Leyen
(1628-1686) aveva commissionato per la propria casa. Per il
ciclo, Van Leyen si rivolse a Jan Boeckhorst, che era stato
uno dei tanti collaboratori di Rubens negli anni Trenta del
XVII secolo e la cui prima maniera tradiva un forte influsso
rubensiano, anche se più tardi passò ad ispirarsi allo stile
potentemente emotivo di Anthony van Dyck, come nel caso
dei modelli per la serie su Apollo, che l’artista dipinse poco
prima del 1668, anno della sua morte. L’influsso deciso di Van
Dyck è particolarmente evidente in questo dipinto, che porta
all’apice l’azione drammatica attraverso una gestualità
esasperata e ricca di pathos. HV
180
Un’esistenza circondata dal lusso
59. Theodoor I Rogiers (1602-1654)
Attribuito
Brocca e piatto con “Il Trionfo di Venere” e “Susanna e i vecchioni”
1635-1636
Argento dorato, brocca: alt. 37 cm, diam. 15 cm; piatto: larg. 60 cm. alt. 45 cm
Donato da Pierre e Colette Bauchau, coll. Fondazione Re Baldovino, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa
BIBL.: Führing 2001.
Questo set di brocca e piatto, ornato con scene mitologiche e
bibliche in argento sbalzato, è probabilmente opera di Theodoor
Rogiers il Vecchio, un rinomato argentiere di Anversa che annoverava
tra i suoi clienti anche Carlo I d’Inghilterra. Il corpo della
brocca descrive il Trionfo di Venere. In primo piano vediamo la dea
dell’amore, appena nata dalla schiuma del mare. Seduta su una
conchiglia, è sospinta a riva dagli aliti dei venti divini, attorniata
dalle sue fedeli ancelle, le Tre Grazie. La nascita di Venere e il
suo arrivo sulla terra portano al mondo bellezza e amore.
La scena centrale del piatto racconta, invece, la storia
della casta Susanna, spiata da due vecchi lascivi mentre fa
il bagno. Gli oggetti della toletta – un pettine e un catino sul
quale la fanciulla ha appoggiato una collana di perle – sono
stati gettati per terra. L’atmosfera di erotismo e di passione è
sottolineata da una magnifica fontana decorata con la figura
di Eros intrecciato a un delfino, che per il mondo antico era
un simbolo di amore e lussuria.
Il set di brocca e piatto – l’unica opera di Rogiers
sopravvissuta – è uno straordinario esempio di artigianato.
Le due scene, brillantemente eseguite, fanno pensare che
fossero intese come opere d’arte a sé stanti. Inoltre, la forma
degli oggetti lascia supporre che non fossero destinati a un uso
quotidiano. Entrambi sono decorati in una maniera troppo
ricca, oltre ad essere poco maneggevoli. Dovevano essere,
quindi, argenti “da parata o da esposizione”, fatti per essere
ammirati in ogni singolo dettaglio dall’occhio esperto di un
intenditore.
Gli studi sull’argomento hanno sistematicamente
collegato il set a Rubens. È possibile che l’artista non fosse
solo il disegnatore o inventor 1 di questa coppia di oggetti,
ma anche il proprietario. Sia la brocca che il piatto mostrano
una spiccata qualità pittorica e le scene sbalzate nell’argento
contengono riferimenti sorprendenti all’opera dello stesso
artista. Si è ipotizzato che quest’ultimo abbia ricevuto in
dono brocca e piatto da Ferdinando d’Austria in segno di
gratitudine per i disegni dei palchi e degli archi trionfali,
realizzati in occasione della sua trionfale Entrata ad Anversa
nel 1635 (vedi cat. 22-24). Secondo questa interpretazione,
le immagini dipinte sui due recipienti dovevano essere intese
come un’allusione garbata da parte del donatore alle seconde
nozze di Rubens con la giovane Helena Fourment (1614-1673),
celebrate pochi anni prima. BVB
1 Rubens deve aver realizzato diversi disegni per argenti, anche se ne è
sopravvissuto solo uno. Per questo disegno, vedi la recente pubblicazione di
Lammertse, Vergara 2018, cat. 59, pp. 189-91; per i progetti di Rubens di piccole
statue in avorio e oggetti decorativi, vedi Van Beneden, in corso di pubblicazione.
Un’esistenza circondata dal lusso
181
182
60. Peter Paul Rubens (1577-1640) Paul de Vos (1595-1678) Jan Wildens (1586-1653)
Diana e le ninfe cacciatrici
1635-1640 ca.
Olio su tela, 155 × 199 cm
Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa, inv. RH.LBI.2019.001
BIBL.: Balis 1986, pp. 208-211, cat. 17, ill. 98; Ducos 2013, pp. 110-111, cat. 59; Newman 2016, pp. 56-58; Vézilier-Dussart 2016, pp. 122-123, cat. 4.4.
Incoronata da un diadema che raffigura una luna crescente,
la dea Diana insegue la sua preda. L’accompagnano due ninfe
e una muta famelica di cani da caccia. I denti scoperti, i nasi
puntati a guidare la carica, i segugi scattano e si avventano
su una leggiadra coppia di cervi che cercano di fuggire. In un
batter d’occhio la caccia sarà terminata. Eppure, in questo
momento, la vittoria non è ancora certa per i cacciatori.
Con una serie di dettagli quasi cinematografici – centinaia
d’anni prima dell’invenzione del cinema – i pittori dispongono
le persone e i cani in modo che sembrino entrare in
scena dagli angoli del dipinto, con i corpi parzialmente
tagliati dall’inquadratura, dando così l’impressione che la
scena prosegua nello spazio dello spettatore. Gli artisti hanno
catturato un’azione istantanea, caricandola di suspense.
Una descrizione così vivida del movimento – che sembra
estendersi oltre la cornice – dà alla scena una forte connotazione
narrativa.
Per realizzare questo dipinto, Peter Paul Rubens
collaborò con due suoi colleghi, oltre che amici. Lui eseguì
le figure, Paul de Vos gli animali e Jan Wildens il paesaggio
verdeggiante, incorniciato a sinistra dagli alberi, con un
cielo intensamente luminoso che risplende attraverso le
nuvole. Una simile collaborazione era normale nell’Anversa
del XVII secolo, soprattutto per una bottega ben organizzata
come quella di Rubens. Capitava che l’artista eseguisse un
bozzetto a olio e che i suoi assistenti lo aiutassero a trasporlo
a grandezza naturale, o che lo facessero autonomamente.
In alternativa, Rubens poteva provvedere alle figure e
coinvolgere specialisti esterni al suo studio per gli elementi
aggiuntivi. In questo caso, eseguiva un bozzetto a olio
dell’intera composizione, oppure delineava solo il suo contributo,
lasciando liberi i suoi colleghi di completare l’opera
come ritenevano più opportuno. È più o meno quel che si è
verificato qui, grazie alla lunga collaborazione tra gli artisti
iniziata molto tempo prima dell’esecuzione del quadro.
Commissionato senza dubbio da un ricco cliente,
il dipinto doveva essere destinato alla decorazione di
ambienti spaziosi, forse un palazzo o una residenza di
caccia. Può essere rintracciato, nel 1730, presso il marchese
Ferdinando de’ Conti Guidi di Bagno, che forse lo aveva
ereditato dal suo antenato, Gian Francesco Guidi di Bagno,
nunzio apostolico nei Paesi Bassi a partire dal 1621-27, il quale
conosceva Rubens. Il dipinto non è incluso nell’inventario
del 1641 di Gian Francesco, pertanto non è possibile affermare
con certezza che quest’ultimo ne fosse realmente in
possesso. ADN
Un’esistenza circondata dal lusso
183
61. Andreas I Ruckers (1579-1653 ca.)
Ottavino (“Virginale bambino”)
Anversa, 1626 ca.
Anversa, Museo Vleeshuis, Sound of the City, inv. AV.1999.002.028.1-2
BIBL.: Lambrechts-Douillez 1984; O’Brien 1990; De Paepe 2018.
Come suo padre Hans e suo fratello Joannes, anche Andreas I
Ruckers costruì virginali “madre e bambino”. Questi strumenti
erano stati inventati ad Anversa ed erano composti da
uno strumento grande (la “madre”), di solito del tipo muselaar
(un virginale con la tastiera a destra), provvisto di uno
scomparto nel quale trovava posto un virginale più piccolo
(il “bambino”), chiamato anche ottavino, perché accordato
un’ottava più in alto della madre.
Sfortunatamente, la madre di questo ottavino non
è sopravvissuta, ma lo strumento può essere suonato perfettamente
anche come “orfano”. La tastiera è stata ampliata nel
corso del tempo, ma il virginale non ha subito altre modifiche
sostanziali. Nella rosetta sono incorporate le iniziali “A R”
(Andreas Ruckers). Sullo strumento non è riportata la data
di costruzione, ma, basandosi sulle decorazioni della rosetta,
Grant O’Brien ha dedotto che questo ottavino sia stato
costruito intorno al 1626. TDP
184
Un’esistenza circondata dal lusso
62. Anonimo
Veduta di Anversa (Coperchio decorato di un virginale)
Anversa, 1600 ca.
Olio su tavola, 50 × 164 cm
Anversa, Museo Vleeshuis | Sound of the City, inv. AV.1897.010
BIBL.: O’Brien 1990; De Paepe 2018.
Sono giunti fino a noi circa ottanta clavicembali e cinquanta
virginali costruiti ad Anversa tra il 1500 e il 1800. Ciò significa
che molte centinaia, o perfino migliaia, sono invece andati
perduti. Inoltre, nell’Anversa del XVI e del XVII secolo devono
essere stati prodotti molti più virginali che clavicembali,
perché erano più facili da costruire e di conseguenza meno
costosi. Va anche detto che la maggior parte dei clavicembali
di quel periodo sopravvissuti sono stati convertiti alla fine del
XVII secolo, o nel XVIII, in strumenti con una tastiera più larga
e un ventaglio più ampio di possibilità tecniche. In questo
modo, almeno in alcuni casi, è stato possibile prolungarne
la vita fino all’inizio del XIX secolo. I virginali, al contrario,
non si prestavano a modifiche di questo tipo, e di conseguenza
non furono più usati a partire più o meno dal 1650.
Il più recente virginale anversese giunto fino a oggi fu
costruito da Joannes Couchet, un nipote di Hans Ruckers,
e risale appunto al 1650 (collezione del Museo Vleeshuis).
Negli anni, i virginali furono buttati via, oppure le loro parti
furono usate per costruire nuovi clavicembali (alcuni dei
quali messi in vendita come strumenti antichi). Qualche
coperchio ornamentale si è occasionalmente salvato finendo
appeso alle pareti come un quadro. Esattamente quello che è
successo a questo coperchio di virginale, sul cui lato interno
un artista sconosciuto ha dipinto una veduta di Anversa come
appariva intorno al 1600.
Sono chiaramente visibili le maestose mura della città,
completate nella seconda metà del XVI secolo. Sulla sinistra
della tavola, in corrispondenza dell’angolo più meridionale
della città, si distingue la Cittadella, una fortezza che aveva il
doppio compito di proteggere e di controllare Anversa. TDP
Un’esistenza circondata dal lusso
185
186
63. Andreas I Ruckers (1579-1653 ca.)
Clavicembalo
Anversa, 1644
Anversa, Museo Vleeshuis, Sound of the City, inv. AV.2137
BIBL.: Lambrechts-Douillez 1984; O’Brien 1990; De Paepe 2018.
Andreas Ruckers era il figlio di Hans Ruckers, il capostipite
di una dinastia anversese di costruttori di clavicembali. Dopo
la morte del padre nel 1598, Andreas e suo fratello Joannes
continuarono a occuparsi della bottega in Jodenstraat, all’inizio
sotto lo sguardo vigile della madre e poi, dopo la morte
di lei nel 1604, in maniera indipendente. Per un periodo i
due fratelli lavorarono insieme sotto l’insegna paterna “H R”,
ma intorno al 1608 presero strade separate: Joannes proseguì
l’attività dei genitori, mentre Andreas aprì una nuova bottega
per conto suo.
Sebbene Joannes fosse più famoso di Andreas, è difficile
distinguere i suoi strumenti da quelli del fratello. Questo
in mostra risale al 1644 ed è, sotto tutti gli aspetti, un tipico
clavicembalo di Anversa della scuola Ruckers-Couchet,
sia per la costruzione che per la decorazione. La tastiera è
stata leggermente ampliata in un’epoca successiva e le corde
sono state modificate, ma lo strumento è comunque valido
come in origine. È un fatto che non si verifica spesso: molti
strumenti Ruckers, infatti, furono drasticamente ricostruiti
nel XVIII secolo, fino a far rimanere ben poco dell’originale.
Qui l’interno del coperchio è decorato con carta ornamentale
e il motto sic transit gloria mvndi. Il clavicembalo è
firmato sulla traversa: ANDREAS RUCKERS DEN OUDEN ME FECIT
ANTVERPIAE. La tavola armonica è decorata con fiori e uccelli,
e intorno alla rosetta è stata dipinta una ghirlanda che incorpora
le iniziali “A R” (Andreas Ruckers). Questo clavicembalo
è dotato di un registro di liuto, un meccanismo che permette
alle corde di simulare il suono di un liuto. TDP
Un’esistenza circondata dal lusso
187
64. Georges de la Hèle (1547-1586)
Octo missae quinque, sex et septem vocum
Anversa, Christophe Plantin, 1578
In-folio
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM R.38.7
BIBL.: Guillo et al. 1996; Van Orden 2014.
Anche se pubblicare musica non era la sua attività principale,
Christophe Plantin (1520-1589) mandò in stampa comunque
splendide e importanti edizioni musicali. Plantin era stampatore
di corte e poco prima del 1578 il re Filippo II di Spagna gli
chiese di pubblicare un lussuoso antifonario. L’editore mise
insieme la carta, alquanto costosa, e tutto il materiale per
produrre questa raccolta di canti liturgici, ma il re tralasciò
di mandargli i fondi necessari. Per fortuna a Plantin si
presentò una nuova opportunità, quando Georges de la Hèle,
un compositore originario di Anversa, espresse il desiderio
di stampare sei messe da lui composte. Nacque così la prima
e anche una delle più importanti edizioni musicali di Plantin,
le Octo missae, che riunivano otto messe in cinque, sei e sette
parti, composte da de la Hèle e dedicate a Filippo II.
Il formato del libro è eccezionalmente grande – ogni
pagina misura più o meno cinquantacinque centimetri di
altezza e quaranta di larghezza – perché era destinato a un
leggio da coro, che permettesse a tutti i coristi di leggere la
musica nello stesso momento. Per Plantin fu un vero azzardo
produrre un simile volume con le musiche di un compositore
ancora inedito, ma arginò il rischio obbligando Georges
de la Hèle a comprare quaranta delle 375 copie stampate.
L’edizione non si rivelò comunque un successo economico,
e i successori di Plantin dovettero cercare di esaurire le
copie ancora per decenni. Le cose andarono meglio a de la
Hèle, che fu nominato maestro di coro alla corte di Filippo II.
La maggior parte della sua musica andò perduta durante
l’incendio nella biblioteca del Palazzo Reale di Madrid nel
1734, e quindi questo libro è un documento davvero unico.
De la Hèle, com’era d’uso tra i compositori polifonici del
Rinascimento, utilizzò come base opere vocali già esistenti.
In questo caso, di Orlando di Lasso, Cipriano de Rore, Josquin
Desprez e Thomas Crecquillon, quattro compositori della
tradizione polifonica franco-fiamminga che godevano di
prestigio internazionale. TDP
188
Un’esistenza circondata dal lusso
65. Il Trionfo di Dori
Anversa, Peter II Phalesius, 1628
In-quarto oblungo
Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM A 1806 3
BIBL.: Powley 1974; Guillo et al. 1996.
Alla fine del XVI secolo lo stimato mercante veneziano
Leonardo Sanudo era così innamorato della sua sposa,
Elisabetta Zustinian, da commissionare a ventinove poeti
una poesia ciascuno. Tutte dovevano terminare con le parole
“Viva la bella Dori”, un riferimento alla ninfa marina Dori,
che a sua volta rappresentava l’amata del mercante. Sanudo
fece poi mettere in musica le poesie da ventinove compositori,
ai quali richiese madrigali in sei parti. Tra gli autori delle
musiche, figuravano i più rinomati compositori italiani
del tempo: Orazio Vecchi, Luca Marenzio, Giovanni Croce,
Giovanni Gastoldi, Alessandro Striggio, Giovanni Pierluigi
da Palestrina e Giovanni Gabrieli. Fu chiesto un madrigale
anche a Philippus de Monte, un compositore dei Paesi Bassi
meridionali che era stato Kapellmeister di Massimiliano II e
di altri imperatori. Nel 1592, il veneziano Angelo Gardano
pubblicò i ventinove madrigali d’amore con il titolo Il Trionfo
di Dori.
Si trattava di una raccolta profondamente veneziana
sotto tutti gli aspetti, ma fu ad Anversa che i madrigali
riscossero il successo maggiore. L’opera fu ripubblicata nel
1595 dallo stampatore musicale anversese Petrus ii Phalesius
(1545-1629 ca.); seguirono almeno altre quattro edizioni.
L’ultima nota è quella di Phalesius del 1628. Sfortunatamente
non si sa di preciso come mai il volume ebbe tanto successo
ad Anversa. TDP
Un’esistenza circondata dal lusso
189
66. Michaelina Wautier (1617-1689)
Ritratto di due fanciulle come Sant’Agnese e Santa Dorotea
1655 ca.
Olio su tela, 89,7 × 122 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 599
BIBL.: Bedaux & Ekkart 2000, pp. 204-205 (attrib. a Thomas Willeboirts Bosschaert); Van der Stighelen 2018, pp. 194-199.
Questo dipinto di Sant’Agnese e Santa Dorotea occupa un
posto speciale nell’opera di Michaelina Wautier, per la sua
atmosfera intima e i colori vividi. Vi compaiono i ritratti di
due fanciulle presentate come sante, un genere noto come
portraits historiés. Far posare due ragazze per un dipinto di
due giovani martiri era perfettamente in linea col pensiero
della Controriforma, che considerava la verginità il valore
più alto in assoluto. L’attributo di Sant’Agnese è un agnello,
metafora del suo desiderio di prendere in sposo Cristo,
l’Agnello di Dio (Agnus Dei); la vergine martire Dorotea,
invece, è rappresentata con il suo simbolico ramo di palma e
il cesto di rose e mele da lei inviato a Teofilo, un pagano che
la dileggiava ma che finì per convertirsi ed essere a sua volta
martirizzato. Le ragazze stanno una accanto all’altra, ma non
si guardano negli occhi. Non guardano nemmeno oltre la
cornice del dipinto. La loro espressione malinconica rivela la
condivisione di un identico destino. Fanno parte di una storia
all’interno della quale comunicano senza parole. Michaelina
le mostra mentre arrossiscono, per enfatizzarne la pudicizia.
Di solito la pittrice sceglieva le sue modelle tra le persone
che le erano più vicine, quindi è assolutamente plausibile
che queste due ragazze fossero sue parenti. Lo spazio scuro
è chiuso sul fondo da una tenda dalle ampie pieghe, contro
la quale le figure si stagliano splendidamente. Il rosso ha
un ruolo speciale nella scena, perché enfatizza il colore
del sangue e di conseguenza il martirio delle giovani sante.
La tonalità profonda del drappeggio sullo sfondo è ripresa
dalla tovaglia a sinistra in primo piano. Michaelina Wautier
dimostra in quest’opera il suo valore come ritrattista, per il
modo esperto e convincente con cui cattura sia la fisionomia
che la psicologia delle ragazze. Allo stesso tempo, è evidente
quanto il suo stile raffinato e spesso morbido contribuisca alla
delicatezza della scena. KVdS
Oltre Anversa
191
67. Gaspar de Crayer (1584–1669)
Studio di testa di un giovane moro
1631-1637 ca.
Olio su tela, 39,5 x 32,7 cm
Gent, Museo di Belle Arti, inv. 1914-DF
BIBL.: Vlieghe 1972, p. 131, n. A65, ill. 69; A. Merle du Bourg,
in Vézillier-Dusart & Merle du Bourg 2018, pp. 118-119, n. 5.3, ill.
Gaspar de Crayer era nato ad Anversa ma si trasferì a
Bruxelles poco prima del 1607. Apparteneva alla prima
generazione di pittori che iniziarono a farsi ispirare da
Rubens. Già intorno al 1615, la sua opera – che consisteva
soprattutto di pale d’altare monumentali e, in misura minore,
di ritratti – si basava su schemi compositivi e motivi presi
in prestito dal suo prestigioso collega. De Crayer era senza
dubbio consapevole dello stile barocco completamente nuovo
e dinamico che Rubens aveva portato dall’Italia, quando era
ritornato definitivamente ad Anversa nel 1608. Di Rubens,
però, De Crayer non adottò solo lo stile, ma anche la pratica di
bottega. Anche lui iniziò a progettare i suoi dipinti attraverso
piccoli bozzetti preparatori a olio e a creare studi di teste
che gli fornissero un repertorio di modelli dal quale poteva
attingere per dare alle sue figure l’espressione del volto
desiderata.
Lo studio qui in mostra è l’unico esempio sopravvissuto
della sua pratica di bottega, ma fa capire in maniera
eccellente fino a che punto De Crayer traesse ispirazione
dal grande maestro di Anversa quando ideava le sue grandi
composizioni. È possibile che conoscesse bene il famoso
studio rubensiano del volto di un giovane moro da differenti
angolazioni, adesso al Museo Reale delle Belle Arti del Belgio,
a Bruxelles. Comunque sia, allo stesso modo di Rubens,
anche lui rese il volto con un realismo notevole. In un primo
momento De Crayer realizzò lo studio in preparazione
di una Elevazione della croce dei primi anni Trenta del XVII
secolo – adesso al Museo delle Belle Arti di Rennes – nel
quale gli stessi identici lineamenti possono essere identificati
nell’assistente del carnefice che solleva lo sguardo mentre
aiuta a innalzare la croce sulla quale Cristo sarà crocifisso.
Studi di teste come questo erano una risorsa comune
nelle botteghe dei pittori del XVII secolo. Come Rubens, anche
De Crayer riutilizzò questa opera per preparare altre composizioni,
alcune delle quali furono ultimate molto più tardi.
Possiamo notare, per esempio, che costruì la figura che regge
lo stendardo nel suo Martirio di San Lorenzo (Gent, Museo di
Belle Arti) sulla base di questa espressiva testa di moro. HV
192
Oltre Anversa
68. Gaspar de Crayer (1584-1669)
Ritratto di Frederick van Marselaer
1617 ca.
Olio su tela, 103 × 79 cm
In alto a sinistra, l’emblema araldico del modello
Collezione privata
BIBL.: Vlieghe 2012; S. Vézilier-Dussart, in Cassel 2018, pp. 74-75, n. 3.2, ill.
Nato ad Anversa, il pittore Gaspar de Crayer si trasferì
a Bruxelles nel 1607. Nella capitale dei Paesi Bassi
meridionali sperava probabilmente di farsi una clientela
tra la ricca nobiltà e l’alta borghesia che ruotava attorno
alla corte dei governatori spagnoli della dinastia
asburgica. Di fatto, i suoi contatti con questa cerchia
gli permisero di ottenere alcuni incarichi prestigiosi
per una serie di ritratti, la maggior parte dei quali risale
al periodo tra la fine degli anni Dieci e gli anni Venti
del Seicento. De Crayer seppe rispondere in maniera
adeguata al bisogno dell’élite di sottolineare la propria
posizione sociale.
L’effigiato, Frederick van Marselaer (1586-1670),
era un politico importante a Bruxelles, dove ricoprì
per quindici volte l’incarico di consigliere municipale
e per cinque volte quello di borgomastro. Può darsi che
abbia commissionato questo ritratto nel 1617, l’anno in
cui fu elevato al rango nobiliare. Qui si mostra sicuro di
sé, con la mano sinistra sull’elsa della spada: una posa
mutuata dal ritratto dell’arciduca Alberto d’Austria eseguito
da Rubens solo qualche anno prima. In effetti, De Crayer
prendeva spesso ad esempio i ritratti realizzati dai suoi
colleghi più illustri. Il ritratto qui esposto rivela, in maniera
straordinaria, il carattere estremamente realistico della
prima maniera di De Crayer, come si evince dalla resa
altamente suggestiva e rispondente al vero della carnagione
e dei tessuti. Altrettanto eccezionale è l’effetto di spazialità
del dipinto, altro segno evidente dell’influsso esercitato sul
pittore da Rubens in quel periodo. HV
Oltre Anversa
193
194
69. Theodoor van Loon (1582 ca.-1649)
Pietà
1616-1621 ca.
Olio su tela, 153,8 × 124,6 cm
Collezione privata (Courtesy of Museo Nazionale di Arte e Storia, Lussemburgo)
BIBL.: Lussemburgo 2017, pp. 62-63; Van Sprang 2018, pp. 140-141, cat. 15.
Theodoor van Loon nacque intorno al 1582 a Erkelenz,
nell’allora Gheldria spagnola. Non sappiamo niente del suo
apprendistato o dell’inizio della sua carriera. Fu a Roma nel
1602 e vi rimase almeno fino al 1608, prima di ritornarvi nel
1617, nel 1628 e probabilmente ancora nel 1631. Negli intervalli
tra i suoi soggiorni in Italia, Van Loon visse a Bruxelles fino
al 1623, poi si trasferì brevemente a Lovanio, per poi stabilirsi
definitivamente a Maastricht, dove morì nel 1649. Per tutta
la sua carriera attinse alla pittura italiana. La Città Eterna
non era solo la sede del potere papale, ma anche una capitale
artistica. Più di ogni altra cosa, a Van Loon interessava
l’avanguardia della Roma post-tridentina.
Un interesse testimoniato da questa magnifica Pietà.
Potentemente modellate dalla luce, le figure sono caratterizzate
dalla loro monumentale compostezza. La dignità della
Vergine, il suo dolore e la tenerezza nei confronti del Figlio,
sono resi in maniera magistrale. La composizione è tratta
da un’incisione di identico soggetto realizzata da Hendrick
Goltzius nel 1596,1 ma la tavolozza e le espressioni del volto
di Maria e dell’angelo traggono ispirazione dalla scuola
bolognese di Annibale e Ludovico Carracci. La tonalità livida
del corpo giovane di Gesù, la testa con le palpebre pesanti e
la bocca semiaperta derivano invece dalla figura del Cristo
nella Deposizione dipinta da Caravaggio tra il 1602 e il 1604 per
la Cappella Vittrice nella Chiesa di Santa Maria in Vallicella
a Roma (Chiesa Nuova). Questa citazione non è sicuramente
casuale, dal momento che la stessa cappella gioca un ruolo
importante nello sviluppo del progetto iconografico delle pale
d’altare dipinte da Van Loon per la Basilica di Nostra Signora
di Montaigue, per la quale potrebbe essere stata eseguita la
Pietà qui in mostra.2 SVS
1 Questa stampa, dalla quale Caravaggio trasse ugualmente
ispirazione, si basava a sua volta sulla famosa Pietà di
Michelangelo, nella Basilica di San Pietro a Roma (1498-99). Vedi
Pericolo 2011, pp. 343-373
2 Una copia di scarsa qualità di quest’opera è tuttora esposta nella
prima cappella a destra subito dopo l’ingresso della basilica.
Ulteriori studi potranno permettere di capire se i due dipinti siano
stati trasferiti quando la basilica si trovò in difficoltà economiche.
Oltre Anversa
195
70. Theodoor van Loon (1582 ca.-1649)
Sacra Famiglia
1620 ca.
Olio su tela, 124 × 187 cm
Lovanio, M-Museum, inv. S/18/L
BIBL.: Lovanio 1881, n. 63; Van Even 1892, p. 903; Brughmans 1935, p. 23; Cornil 1936, p. 202; Carpreau, Vandekerchove & Van de Kerckhof 2009, pp. 66-67;
Van Sprang 2018, pp. 188-189, cat. 38.
Questo dipinto è un’opera matura di Theodoor van Loon.
La sua prima destinazione non è nota, ma sappiamo che a
Bruxelles faceva parte di una collezione privata nella prima
metà del XIX secolo. Le figure robuste, potentemente delineate,
e gli incarnati freddi, verdastri sono tipici dell’ultima fase
della carriera del pittore. Il dipinto può essere accostato in
particolare all’Adorazione dei pastori del Museo Reale delle Belle
Arti del Belgio, a Bruxelles, dove compare un San Giuseppe
dall’incarnato florido, identico al suo corrispettivo nel dipinto
di Lovanio. Anche la Vergine e Gesù Bambino sembrano aver
avuto gli stessi modelli in entrambe le tele.
Benché non si tratti di un dipinto strettamente
caravaggesco, la ristrettezza della composizione e l’inquadratura
ravvicinata delle figure di tre quarti contro uno sfondo
scuro derivano dall’opera del maestro italiano. Degni di
nota sono anche il mazzo di fiori alle spalle di Maria e l’uva
che Gesù tocca con tanta delicatezza; due elementi resi con
un naturalismo legato sia alla tradizione fiamminga che
all’esempio di Caravaggio.
Le connotazioni simboliche sono chiare: la rosa e il
mughetto simboleggiano la purezza di Maria, mentre la
calendula (in inglese “marygold”, “Maria” + “oro”) allude alla
benevolenza divina, evocata qui dai raggi di luce che cadono
sulla Sacra Famiglia. L’uva rappresenta il vino, una metafora
del sangue versato da Cristo per redimere l’umanità.
Giuseppe tiene in mano una pialla, che rimanda alla croce
sulla quale Cristo sarà crocifisso e perciò anche alla Salvezza.
Nel catalogo della mostra recentemente dedicata a Theodoor
van Loon (Bruxelles, BOZAR), Anne Delvingt evidenzia che
la figura distesa di Gesù è stata allineata di proposito con
l’asse del padre ed è parallela all’asse di composizione dello
strumento. SVS
196
Oltre Anversa
71. Jacob i Van Oost (1603-1671)
L’incoronazione di spine
1661
Olio su tela, 122 × 95 cm
Firmato e datato in basso a sinistra: “J. v. Oost 1661”
Bruges, Musea Brugge - Groeningemuseum, inv. 0000GRO0672.I
BIBL.: Pauwels 1960, n. 83; Meulemeester 1981, 287, n. A37; Vlieghe 1994,
pp. 196-197.
L’episodio dell’incoronazione di spine fa parte della Passione
e precede il momento in cui Gesù, imprigionato, viene
deriso (Matteo 27: 28-30). L’interpretazione di questo tema
popolare data da Van Oost focalizza l’attenzione sul viso
sofferente di Cristo, il cui sguardo pieno di tristezza sembra
fissare direttamente lo spettatore. È il viso, infatti, il centro
del dipinto, anche se non si trova esattamente al centro della
composizione. Con le braccia legate, e vestito dal suo aguzzino
con una tunica scarlatta per irridere il suo dichiararsi
“Re dei Giudei”, Cristo è circondato da tre figure. Due soldati,
che con il luccicare delle armature danno un tocco di luce allo
sfondo altrimenti buio, gli calcano una corona di spine sulla
fronte, mentre una terza persona, forse una guardia, gli mette
in mano un ramo sottile, come uno scettro.
La composizione e il contrasto di luce e ombre testimoniano
la duratura influenza di Caravaggio su Van Oost, che ne
aveva visto per la prima volta le opere durante un precedente
viaggio in Italia, dove aveva studiato i pittori barocchi, come,
appunto, Caravaggio e Carracci. Nonostante L’incoronazione
di spine sia stata realizzato solo nel 1661, e quindi relativamente
tardi nella carriera dell’artista, la principale fonte
di ispirazione per Van Oost rimase L’incoronazione di spine di
Caravaggio (Vienna, Kunsthistorisches Museum), ma nel
quadro del pittore fiammingo si possono trovare anche idee
prelevate da dipinti sullo stesso soggetto di Anthony Van
Dyck o Valentin de Boulogne.
Jacob Van Oost fu il pittore più importante del periodo
barocco a Bruges, dove dirigeva una bottega di successo.
Oltre ad accettare commesse per realizzare pale d’altare
per le chiese cattoliche di Bruges e dintorni, era anche un
apprezzato ritrattista. THB
198
Oltre Anversa
72. Jacob I van Oost (1603-1671)
Lo studio dell’artista
1666
Olio su tela, 111,5 × 150,6 cm
Firmato e datato in basso a destra sulla copertina del libro “J.V. Oost F. /1666”
Bruges, Musea Brugge – Groeningemuseum, inv. 0000.GRO0188.I
BIBL.: Meulemeester 1984, p. 203 (attrib. a Jacob I o Jacob II van Oost); Vlieghe 1994, pp. 197-198 (attrib. a Jacob I van Oost); Van der Stighelen 2018, pp. 236-237.
Nello studio dell’artista ci sono tre fanciulli. Uno di loro
solleva una tavoletta da disegno per mostrare allo spettatore
un busto che ha tracciato seguendo il calco in gesso posato
sul tavolo di fronte a lui. Tutt’attorno sono sparpagliati gli
strumenti e gli oggetti di studio. Vediamo modelli tratti da
sculture antiche, come la celebre Flora Farnese in rosso e il
Gladiatore Borghese, una xilografia di Ugo da Carpi del Diogene
di Parmigianino (1527 ca.), libri, disegni, penne e un astuccio
in pelle. Proprio come la stanza, anche la composizione
trasmette un certo disordine. L’attenzione è completamente
focalizzata sul giovane in primo piano: è vestito in maniera
ricercata, con degli appariscenti sandali all’antica, che alludono
sicuramente all’età classica cui appartiene la maggior
parte dei modelli utilizzati. Le scene ambientate nello studio
del pittore erano un tema molto amato a metà del XVII secolo.
Possono essere interpretate come un’allegoria dei metodi
dell’insegnamento accademico, che preparavano gli artisti
attraverso il disegno di prototipi antichi.
Jacob van Oost dipinse anche un altro quadro simile
a questo con due ragazzi di fronte a un cavalletto sul quale
è poggiata una scena biblica, mentre uno mostra allo
spettatore una tavoletta da disegno (Due ragazzi di fronte a un
cavalletto, Londra, National Gallery, 1645 ca.). Anche l’artista
di Bruxelles Michael Sweerts eseguì diverse immagini di studi
d’artista, con apprendisti raffigurati dal vivo (Lezioni di disegno,
Haarlem, Frans Hals Museum, 1655 ca.). Più o meno nello
stesso periodo fondò la sua Accademie van die teeckeninge naer het
leven (“Accademia di disegno dal vivo”), la prima istituzione di
questo tipo nei Paesi Bassi.
La passione di Van Oost per il tema riflette senza dubbio
l’esperienza fatta durante il suo periodo veneziano, negli anni
Venti del Seicento. Come in altri suoi dipinti, anche qui si
dimostra un maestro nel descrivere il carattere dei ragazzi e
nel creare scene piene di colore. KVdS
Oltre Anversa
199
200
73. Michael Sweerts (1618-1664)
Attribuito
Un giovane uomo sorridente, e Joseph Deutz allo specchio
1654-1660 ca.
Olio su tavola, 37 × 46,8 cm
Collezione privata (Courtesy of Christophe Janet)
BIBL.: Bikker 1998; Yeager-Crasselt 2015.
Le prime notizie sull’artista di Bruxelles Michael Sweerts
risalgono al 1646, quando lavorava a Roma. Il suo committente
più importante era il principe Camillo Pamphili (1622-
1666), nipote di Innocenzo X, nel cui palazzo Sweerts dirigeva
probabilmente un’accademia di pittura. Come molti altri
artisti del nord attivi nella Città Eterna, aveva una preferenza
per le scene quotidiane ispirate agli umili soggetti caravaggeschi,
ma eseguì anche diversi ritratti. Il contrasto drammatico
di luce e ombra e le atmosfere smorzate che circondano le sue
figure contribuiscono al mistero emanato dalle sue tele.
La clientela romana di Sweerts includeva anche mercanti
olandesi attivi nel commercio internazionale di tessuti,
tra cui membri della famiglia Deutz di Amsterdam. Verso il
1648-49 eseguì il ritratto di Joseph Deutz (fig. 74a). Sweerts fu
anche l’agente della famiglia in una serie di acquisti d’arte,
e nel 1651 i fratelli Sweerts lo autorizzarono a negoziare con i
funzionari doganali di Roma a proposito di un bastimento di
seta da Leida.
Tra il 1654 e il 1656 Sweerts tornò a Bruxelles, dove aprì
un’altra accademia. Ne 1656 pubblicò un manuale di disegno,
Diversae facies in usum iuvenum et aliorum delineatae, una serie
di dodici (o quattordici) acqueforti di studi di teste di sua
invenzione, forse eseguiti dal vivo. Una di queste figure,
un giovane sorridente, è il protagonista del dipinto qui in
mostra, riscoperto solo di recente. Il giovane indica con aria
beffarda un uomo che sembra completamente immerso in
una contemplazione estatica del proprio riflesso allo specchio,
e che può essere identificato in Joseph Deutz (1624-1684).
Potrebbe trattarsi di un’arguta allegoria della vanità.
Sweerts si trasferì ad Amsterdam verso il 1660. Il 2 gennaio
1662 si imbarcò su una nave a Marsiglia, con l’intenzione
di andare missionario in Cina. Neanche sei mesi dopo, però,
fu rispedito a casa per il suo atteggiamento indisciplinato.
Morì a Goa, in India. BvB
Fig. 74a Michael Sweerts, Ritratto di Joseph Deutz (1624-1684).
Amsterdam, Rijksmuseum, inv. SK-A-3855
Oltre Anversa
201
74. Andries van Eertvelt (1590-1652)
Tempesta sul mare (La Battaglia di Lepanto?)
1623
Olio su tela, 176 × 315 cm
Gent, Museo di Belle Arti, inv. S-88
BIBL.: Denucé 1934, pp. 57-58, 65-66; Hostyn, 1982, pp. 6, 8; Goedde 1989, pp. 93-95, ill. 61, 173, 227 n. 121, 229 n. 9; Devisscher 2004, pp. 248-49, cat. 83 (scheda
di U. Middendorf); Ertz, Wied, Schütz 2003, pp. 230-131, cat. 82 (scheda di U. Middendorf); De Geest & Van Cauteren 2007, pp. 86-87 (scheda di K. Van Cauteren);
Hoozee 2007, p. 85; Gaschke 2008, pp. 92 ss; Daalder 2008, pp. 13, 16, 21 n. 4; Sotheby’s Amsterdam, Old Master Paintings, 18 maggio 2010, p. 30 (lot. 35); Goedde,
2015, pp. 101-104; Laffon 2015, pp. 88-89; Vézillier-Dussart, Laffon 2015, p. 93, cat. 41, 94.
Sotto un cielo variabile, almeno sei barche sembrano
risucchiate da un mare in tempesta. A sinistra, un vascello
sventola il tricolore danese in acque meno vorticose. Linee
bianche indicano sommariamente le gorgiere dei marinai.
Un’imbarcazione più grande, sempre sulla sinistra, reca
l’iscrizione: “GODT SY MET ONS ALLEN ANNO 15[6?]23” (“Dio
sia con noi”) e la firma “VAN E[ER]TVELT [1]623”. Anche in
questo caso i passeggeri indossano abiti di foggia europea.
Al centro, in lontananza, altre tre barche ondeggiano al vento
e almeno una batte bandiera olandese. La luce che filtra dalle
nuvole a sinistra brilla con più forza sui vascelli dell’Olanda,
come un’allegorica benedizione, mentre a destra il cielo si fa
più scuro e minaccioso.
Una barca dalle decorazioni vivaci si è schiantata
contro uno scoglio. Alcuni marinai cercano di aggrapparsi al
relitto, mentre altri sono già caduti in mare. Molti indossano
turbanti e portano spade e frecce alla cintura. Qualcuno è
nudo, con i capelli raccolti sulla nuca. Le braccia sollevate in
alto e i contorcimenti delle figure richiamano l’agonia di un
Giudizio Universale.
Il dipinto rappresenta evidentemente un’epica battaglia
della natura contro l’uomo e di un nemico ottomano contro
l’Europa cristiana, che si appella alla benevolenza divina.
Non è chiaro, tuttavia, se raffiguri una battaglia navale generica
o una in particolare, come quella di Lepanto, combattuta
nel 1571 dalle forze congiunte del papa Pio V, di Venezia e
della Spagna insieme ad altri stati, contro i Turchi ottomani
e celebrata a lungo come simbolica vittoria della Chiesa. A
Van Eertvelt sono stati attribuiti diversi dipinti che si ritiene
rappresentino quello scontro navale (per esempio, Museo
del Mont-de-Piéte, Bergues, inv. 2010.0.5 e altri sul mercato
dell’arte). L’Olanda, però, non era presente a Lepanto.
Pertanto, appare più probabile che Van Eertvelt, come altri
vedutisti contemporanei, abbia voluto dipingere l’eterno
nemico ottomano senza riferirsi a una battaglia in particolare.
Tra i primi pittori di Anversa specializzati in paesaggi,
Andries van Eertvelt attinse dai modelli a stampa e dipinti
di Pieter I Bruegel, Paul Bril, Jan i Brueghel e Hendrick
Cornelisz Vroom. I panorami burrascosi divennero la sua
specialità, tanto che un artista anonimo lo ritrasse nel 1632
mentre dipingeva un paesaggio simile dal vivo (Monaco,
Collezioni statali d’arte della Baviera, inv. n. 4841). Pare
che Van Eertvelt abbia lavorato almeno in parte per il
mercato estero, dal momento che la presenza di molti suoi
dipinti è documentata in spedizioni per la penisola iberica
e le bandiere olandesi in questo, come in altri suoi quadri,
suggeriscono che abbia trovato clienti entusiasti nei Paesi
Bassi settentrionali. Godette di una certa fama anche nelle
sue terre: durante il XVII secolo questo dipinto era esposto
nell’abbazia di Baudelo a Gent. ADN
Nuovi mercati
203
204
75. Adriaen Brouwer (1605-1638)
Un vecchio alla taverna
1632-1635 ca.
Olio su tavola, 35 × 28 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. IB08.004
BIBL.: Salomon 1984, pp. 7-62; Cat. Sotheby’s Amsterdam (13 novembre 2007), Old Master Paintings, lotto 46; Van Bruaene 2018, pp. 168-187; Lichtert 2018, pp. 162-
163, cat. 20.
Un vecchio siede addormentato su una sedia di legno. Vestito
con cura, indossa un cappello a tesa larga e un cappotto nero,
calzoni al ginocchio e un mantello che gli copre le spalle.
Il lato destro del viso e il colletto bianco sono illuminati e
dipinti con pennellate decise. La testa gli ciondola sul petto,
con la bocca nascosta dalla barba grigia e folta. Le mani
sono intrecciate al bastone. Cenere e pezzi di carbone sono
sparsi per terra vicino a una stufa, un boccale di birra con un
coperchio di peltro è appoggiato ai piedi dell’uomo. Il calore
della stufa, per non parlare di quello sprigionato dalla birra
appena bevuta, sembrano i responsabili del suo torpore.
Sullo sfondo, una coppia vestita più modestamente
siede a un tavolo basso. Anche lì vediamo una brocca di
ceramica e qualcosa da mangiare. L’uomo stringe la donna
con un braccio e si sporge verso di lei, entrambi hanno il volto
arrossato. Sopra di loro, un altro uomo sporge la testa da una
finestra e li guarda. Questa taverna con le sue figure sparse fu
probabilmente dipinta in una fase avanzata della carriera di
Brouwer, durante il suo periodo ad Anversa, a giudicare dal
gruppo abbastanza ristretto che vi compare e dall’atteggiamento
e dalle espressioni dimesse delle figure.
I personaggi addormentati divennero estremamente
diffusi nei dipinti olandesi e fiamminghi del XVII secolo.
Gli ubriachi immersi nel sonno possono essere associati a
volte con i peccati di ingordigia e accidia. Ma la frequenza
e la varietà di contesti in cui compaiono queste figure
intorpidite ci ricordano che la loro interpretazione doveva
essere più ampia. Brouwer dipinse una quantità di personaggi
sonnecchianti dentro taverne, incluso uno – molto più
giovane di quello in questo dipinto – all’interno di un quadro
che ha una composizione sorprendentemente simile (Monaco,
Antica Pinacoteca, inv. n. 2014). Questi altri dormienti
sono vestiti più modestamente del vecchio nel dipinto, i cui
abiti sembrerebbero includerlo nella stessa classe sociale
dei possibili possessori dell’opera. Più che autorizzare lo
spettatore a considerare un comportamento inadeguato come
tipico di un ceto inferiore, questa figura potrebbe servire da
garbato promemoria dell’universalità di certe cadute di stile.
L’addormentato di Brouwer potrebbe aver esagerato con
l’alcol, e l’intimità della coppia suggerisce forse la loro morale
allentata, ma le dinamiche sociali qui messe in gioco possono
difficilmente essere riassunte con un semplice ammonimento
didascalico. ADN
Nuovi mercati
205
76. David II Teniers (1610-1690)
Contadini fuori da una locanda
1645-1650 ca.
Tavola, 36 × 48,5 cm
Firmato in fondo al centro: “D. TENIERS. FEC.”
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 345
BIBL.: Klinge 1991, pp. 172-173, n. 56, ill.
A sinistra in primo piano, un gruppo di contadini seduti o
in piedi beve, fuma e parla fuori da una locanda. Una donna,
forse la proprietaria, è ferma sulla soglia. A destra, un vasto
paesaggio si perde nell’orizzonte. Questo scenario, con le sue
imponenti montagne, non rievoca la regione del Brabante,
a differenza di altri simili dipinti di Teniers. Si ha piuttosto
l’impressione che qui l’artista stia seguendo le tracce delle
grandi vedute montane dipinte da artisti della generazione
precedente alla sua, come Joos de Momper, che erano rimasti
nel solco della tradizione tracciata da Pieter Bruegel il Vecchio.
Un tratto significativo è l’atmosfera luminosa, argentea
che bagna il paesaggio. Attorno al 1640 questa tonalità iniziò
ad assumere un ruolo decisivo nell’opera di Teniers ed è
proprio a quel decennio che va ascritto il dipinto. Nello stesso
periodo il pittore iniziò a sviluppare un maggiore interesse
per le scene all’aperto, come quella qui analizzata. Il carattere
calmo, quasi idilliaco della scena è altrettanto notevole: questi
contadini sono trattati con molta più benevolenza e simpatia
rispetto ai loro pari, ispirati da Adriaen Brouwer, che compaiono
nella fase iniziale della carriera di Teniers. HV
206
Nuovi mercati
77. David II Teniers (1610-1690)
I fumatori
1633
Tavola, 31,5 × 53 cm
Firmato e datato in alto a sinistra: “TENIER FEC/ AN 1633.”
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 5043
BIBL.: Klinge-Gross 1969, pp. 181-199; Klinge 1991, pp. 26-27, n. 1, ill.
Tre contadini, a destra in primo piano, fumano seduti
al tavolo di una locanda. Illuminati in maniera decisa,
formano una chiazza di colore in uno spazio altrimenti
monocromo e semibuio. Dietro a loro, una figura osserva
sorridendo. A sinistra sullo sfondo, davanti a un grande
camino, si scorgono altri quattro individui di spalle, dipinti
in maniera più approssimativa. L’aspetto rozzo di questi
personaggi risalta con particolare intensità. Teniers prese
a prestito questa caratterizzazione dal suo contemporaneo
Adriaen Brouwer, che, dopo essersi stabilito ad Anversa
nel 1631, si era rapidamente fatto un nome grazie alla
produzione di quadri di piccole dimensioni, raffiguranti
contadini e popolani mentre bevevano, fumavano o si
azzuffavano. All’epoca in cui furono eseguiti, dipinti come
questo erano considerati un’allusione a comportamenti
deprecabili. L’opera di Brouwer rinnovò notevolmente la
pittura fiamminga, sostituendo lo stile brugheliano, sempre
più datato, con una descrizione più diretta e realistica delle
classi popolari. Teniers iniziò ad imitare il nuovo stile di
Brouwer non appena si iscrisse alla Gilda dei Pittori anversesi
nel 1633. Copiò e studiò l’opera del suo collega e si fece subito
apprezzare, reinterpretandone le scene realistiche. La natura
brouweriana di questi fumatori è comprovata dal fatto che,
quando il Museo Reale delle Belle Arti di Anversa lo acquistò
nel 1949, si pensava che l’autore fosse Brouwer. Il quadro
venne correttamente attribuito solo nel 1969, quando si
scoprirono la firma di Teniers e la data 1633. HV
Nuovi mercati
207
78. Joos van Craesbeeck (1605/06-1660 ca.)
La morte è rapida e impietosa
1648-1649 ca.
Olio su tela, 73,7 × 103,2 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 850
BIBL.: Mai & Vlieghe 1993, pp. 424-425, cat. 74.1; Huvenne, Van Hout & Vergara 2002, pp. 62-63, 133, 150-151 (scheda di N. Van Hout); De Clippel 2006, pp. 243-247, 524,
cat. A102; Metzger 2010, pp. 180-182, 186.
In una radura boschiva di fronte a una taverna, si svolge una
scena sanguinosa. Un giovane damerino è caduto a terra, il suo
corpo privo di forze è afflosciato sulla destra. Il sangue gli esce
dal naso e dalla bocca e gli cola sul viso pallido, mentre due
donne e un ragazzo piangono per lui. In mezzo a una folla eterogenea
di uomini, donne e bambini, mani sollevate afferrano
quel che capita, una scopa o una brocca, e lo usano come arma
nella furia del momento. Le facce contorte esprimono rabbia,
paura e ubriachezza. L’uomo col berretto rosso afferra per il
colletto il suo avversario, mentre lui, in ginocchio, gli infila
un pugnale nel fianco. Dietro ai due, avvolta in un sudario
bianco, si staglia la Morte. Ha i piedi e la faccia ancora coperti
da carne putrescente, ma il braccio e la mano sinistra sono
puro scheletro. Brandendo un osso, si sporge verso l’uomo
col cappello rosso, mettendo in chiaro che la stilettata gli
sarà fatale. Il panorama idilliaco sullo sfondo offre un ironico
contrasto alla violenza della mischia in primo piano.
Da fornaio a Neerlinter nella regione di Hageland,
Joos van Craesbeeck si trasferì ad Anversa intorno al 1630 e
cambiò rapidamente carriera. Come il suo amico e maestro
Adriaen Brouwer, dipinse numerose scene di zuffe tra
contadini, come questa, che reca le sue iniziali “CB” e che,
a differenza di alcune delle altre, non ha un tono ambiguo.
I peccati legati all’ebbrezza, alle risse, e l’assassinio sono
remunerati in maniera adeguata dalla Morte, che non è solo
uno dei personaggi tra la folla, ma appare anche sotto forma
di scheletro in basso a destra, appollaiata su un boccale di
birra poggiato su una pietra su cui è scritto: “Die dood is fel
en snel/ wacht u van sonden, soo doedy wel/ En wilt niemant
vermaken/ Dat Godt u ’t selve niet en doet smaken/ En
neemt niemant syn/ soo hout ghy ’t u” (La Morte è rapida
è impietosa/ Se pecchi diventerà furiosa/ Non vivere in un
continuo errare/ E Dio ricordati di onorare). I versi derivano
da un famoso aforisma dell’epoca.
Come se il concetto non fosse abbastanza chiaro,
un’altra iscrizione ricavata da un proverbio è incisa nelle lenti
di un enorme paio di occhiali, in mezzo al mucchio di cocci
che i litiganti hanno buttato per terra: “Ten is myn schuld
niet dat den mensch niet beter en siet” (Non è colpa mia se gli
uomini sono miopi). Nonostante la grandezza degli occhiali,
il genere umano non sa ancora riconoscere i propri peccati,
ricorda Van Craesbeeck ai suoi spettatori. ADN
208
Nuovi mercati
210
79. Adam de Coster (1586 ca.-1643)
Un ragazzo serve da bere a un uomo a lume di candela
1620 ca.
Olio su tela, 69 × 51 cm
Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa
Questo quadro è un esempio emblematico dei notturni raffinati
e drammatici che formano il piccolo catalogo di opere
del pittore fiammingo “a lume di candela” Adam de Coster.
Il bagliore di un’unica fiamma, riflessa negli occhi dell’uomo,
illumina i lineamenti marcati delle figure stagliate contro
uno sfondo scuro. Le ombre vivide che attraversano la composizione
definiscono le facce assorte e i dettagli dei vestiti.
La luce della candela illumina le figure da dietro, generando
un’atmosfera tesa e drammatica. Anche se il dipinto testimonia
chiaramente l’influenza di Caravaggio, non è certo che
Adam de Coster sia mai stato in Italia. Sappiamo poco della
sua vita. Nato nel 1586 nella città fiamminga di Mechelen,
pare abbia trascorso gran parte della sua carriera ad Anversa,
diventando un maestro nella Gilda di San Luca verso il 1607.
Il suo ritratto fu riprodotto in un’incisione nell’Iconografia di
Van Dyck, dove è descritto come “pictor noctium” (fig. 79a),
segno evidente che la sua reputazione come pittore di scene
notturne era ben consolidata nell’Europa settentrionale a
partire dagli anni Trenta del XVII secolo.
Che abbia o meno attraversato i confini dei Paesi Bassi,
Adam de Coster subì indubbiamente l’influsso dello stile caravaggesco
diffuso in tutta l’Europa all’inizio del XVII secolo.
Particolarmente importanti sono le opere dei caravaggisti
del nord, come Gerard Seghers di Anversa, e Hendrick ter
Brugghen e Gerard van Honthorst di Utrecht, che divennero
famosi per le loro intense composizioni in chiaroscuro,
esaltate da una sorgente di luce artificiale come una candela o
un braciere. BvB
Fig. 79a Pieter de Jode, da una composizione di Anthony van Dyck,
Ritratto di Adam de Coster, incisione
Nuovi mercati
211
80. Theodoor Rombouts (1597-1637)
I giocatori di carte
1630 ca.
Olio su tela, 151,6 × 205 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 358
BIBL.: Van den Branden 1883, pp. 885-886; Roggen 1952, pp. 269-273; Peeters 1995, pp. 169-177.
Nelle raffigurazioni secentesche della parabola del Figliol
Prodigo compaiono regolarmente scene secondarie con
partite a tric-trac o a carte in case dalla dubbia reputazione
dove il giovane scapestrato scopre se stesso. A partire dal 1620,
queste partite divennero spesso il motivo centrale della pittura
di genere dei seguaci di Caravaggio. Theodoor Rombouts,
uno dei principali caravaggisti fiamminghi, combinò in
diverse opere partite a carte con scene musicali. Le prime
sono il tema principale del dipinto qui in mostra.
Due uomini con cappelli dalle piume sgargianti sono
concentrati sulla mano appena distribuita. A sinistra un
altro, più anziano, di profilo, guarda attentamente attraverso
le lenti che ha sul naso. A destra, una vecchia posa una
mano sulla spalla di un giovane, in un gesto che potrebbe
essere affettuoso, ma anche sottintendere una domanda o
un’esortazione.
Gli elementi tipici di Rombouts nel suo periodo caravaggesco
includono larghe aree di colori a contrasto, per lo più
rifinite dai contorni pastosi. Un’altra caratteristica ricorrente
nella sua opera è la sorprendente inversione delle linee
prospettiche. Il punto di fuga della carta più alta poggiata sul
tavolo a sinistra, per esempio, è collocato dietro lo spettatore,
non oltre come avverrebbe di solito.
Si avvertono ancora flebili echi della scena del postribolo
descritta nella parabola del Figliol Prodigo. Il giovane
giocatore modestamente vestito, nell’angolo più lontano
del tavolo, ha una freschezza ingenua, da pesce fuor d’acqua,
non rendendosi conto che sta per essere spennato. Le ottime
carte del suo avversario – un soldato, che serve magistralmente
da repoussoir – è un ulteriore indizio di quello che sta
per accadere. Non è probabilmente un caso se l’asso di cuori
compare in mezzo alle altre carte, fungendo da richiamo
amoroso, o perfino erotico. La vecchia a destra allude al tipo
della mezzana che si vede spesso in opere simili, anche se qui
manca la giovane donna discinta che di solito l’accompagna.
Il giovane è concentrato solo sugli altri giocatori, ma la donna
sta evidentemente cercando di distoglierlo dalla partita. Forse
lo vuole allontanare da quello che in genere era considerato
un passatempo inutile, se non addirittura peccaminoso.
Oppure forse sta cercando di sedurlo con un piacere che per
lei sarebbe più lucroso. Non sappiamo se sia realmente così,
il pittore non lo chiarisce: Rombouts lascia intendere più di
quanto mostri. GVE
212
Nuovi mercati
81. Jan Cossiers (1600-1671)
L’allegra compagnia (I cinque sensi)
Post 1650
Olio su tela, 132,9 × 198,3 cm
Collezione privata
BIBL.: Sutton 1993; Díaz Padrón 1999
Come molti dei suoi colleghi di Anversa, Jan Cossiers era un
pittore versatile, esperto in una grande varietà di generi e
stili. Dipingeva soprattutto scene di genere, ma eseguì anche
dipinti a tema storico e ritratti; tra questi ultimi, alcuni
delicati ed enfatici raffigurano i figli. Da giovane artista,
Cossiers viaggiò a Aix-en-Provence e a Roma, ma nel 1627
tornò ad Anversa, la sua città natale, dove trascorse il resto
della carriera. I suoi primi lavori mostrano l’influenza dei
pittori caravaggisti sia nel soggetto che nella composizione,
anche se le sue pennellate sono più libere. Come molti
suoi colleghi, anche Cossiers lavorò con Rubens ai progetti
per l’entrata trionfale ad Anversa del Cardinale Infante
Ferdinando nel 1635 (catt. 22-24) e alle decorazioni per la
Torre de la Parada, il padiglione di caccia di Filippo IV vicino a
Madrid, nel 1637-38.
Nell’Allegra compagnia Cossiers raggruppa sei mezze
figure intorno a un tavolo all’aperto: un giovane uomo che
bacia e accarezza una cameriera, una coppia di musicisti
e un ragazzo che serve un bicchiere di vino a un florido
uomo più anziano. La scena può essere interpretata quasi
sicuramente come un’allegoria dei sensi. A sinistra sullo
sfondo, il tatto è rappresentato dal giovane uomo che
accarezza lascivo il seno alla donna. La figura del liutista
incarna il senso dell’udito, mentre la ragazza con lo spartito
al centro della scena, che rivolge lo sguardo agli amanti,
interpreta la vista. Il gusto e l’olfatto sono rappresentati dal
ragazzo e soprattutto dal vecchio che si porta un calice di vino
alle labbra.
Nei Paesi Bassi, le allegre brigate riunite intorno a
un tavolo erano un soggetto popolare già nel XVI secolo. I
cinque sensi erano in particolare molto diffusi, forse grazie
all’interesse crescente per il sapere empirico raggiungibile
attraverso di essi. L’idea di incorporare i cinque sensi in
una compagnia di gaudenti fiorì nel XVII secolo e si può
riscontrare anche nell’opera di pittori di altro genere, incluso
Theodoor Rombouts (cat. 80). BvB
Nuovi mercati
215
216
82. Frans II Francken (1581-1642)
Studiolo d’arte con ritratto di famiglia
1615 ca.
Olio su tavola, 77 × 114 cm
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 669
BIBL.: Härting 1989, pp. 90, 373, cat. 461, fig. 79; Vandamme et al. 1988, p. 152; Herremans 2008, p. 90, cat. 32.; Van Suchtelen 2009, pp. 23, ill. 4, 48 nn. 22-23;
Van Suchtelen & Van Beneden 2009, p. 122, cat. 8; Van Hout 2011, pp. 113, 115, 118; Van de Velde 2014, pp. 50-51, 91, cat. 37; Buijsen, Van der Stighelen & Wytema 2017,
pp. 78-81, cat. 11, 135.
In una stanza elegantemente arredata vediamo tre figure,
verosimilmente una coppia di sposi col figlio. I personaggi
sono stati identificati con il farmacista ed elemosiniere di
Anversa, Sebastiaen Leerse, la sua seconda moglie e loro
figlio, ma questa identificazione si basava su un paragone
poco convincente con un ritratto di Leerse e dovrebbe essere
accantonata. Sulla cornice della parete in fondo spiccano
sette piccole sculture antiche, un’ottava statua si vede su
quella della camera da letto adiacente e una nona sul tavolo
rotondo a sinistra, accanto a un libro chiuso e a un grande
mazzo di fiori dentro un vaso di porcellana. Tra i quadri
appesi alle pareti o poggiati a terra sono inclusi paesaggi
rocciosi che ricordano quelli di Joos de Momper, una marina
echeggiante quelle di Bonaventura Peeters, l’interno di una
chiesa simile a quelle che compaiono nelle opere di Pieter
Neefs, una Susanna e i vecchioni, forse tratta da Jan Massys,
e diversi dipinti che rimandano ad altri dello stesso Francken.
Di fatto, sul quadro in basso a destra con il mito classico di
Apelle che ritrae Campaspe, Francken scrisse “F. FRANCK. IN.
ET. F.”, affermando così di essere l’autore di questa composizione
(una sua versione si trova nella Collezione Devonshire
a Chatsworth) e allo stesso tempo di tutto il dipinto. I tessuti
lussuosi, come i tappeti sul tavolo e sullo stipo, la tenda che
rivela un’Adorazione dei Magi e un arazzo raffigurante la
croce visibile nella stanza accanto, comunicano un’atmosfera
accogliente, così come i rivestimenti delle pareti in pelle
goffrata. Due pappagalli esotici, una scimmia e i gioielli
dentro uno stipo suggeriscono la ricchezza della famiglia.
Frans II Francken, insieme al suo collega più anziano
Jan I Brueghel, inventò il cosiddetto genere Kunstkamer
(stanza d’arte) all’inizio del XVII secolo, dipingendo ambienti
pieni di quadri e altre cose preziose, sia naturali (naturalia)
sia meraviglie finemente lavorate (artificialia). Molti di questi
dipinti raffigurano collezioni immaginarie, altri invece
giocano con i nessi tra realtà e finzione e includono ritratti di
persone, spazi reali o copie di quadri esistenti. Per quest’opera,
con i lineamenti personalizzati delle figure che fanno pensare
a ritratti, Francken impiegò la stessa struttura compositiva
usata in altri dipinti, per esempio nello Studio con sapienti
intorno a un mappamondo del 1612 (non se ne conosce la collocazione
attuale, ma è descritto in Van Suchtelen & Van Beneden
2009, p. 22, ill. 3). Non solo la struttura generale della stanza,
ma anche il motivo ripetuto dei pappagalli indicano che
l’artista fece affidamento su una formula, piuttosto che
riprodurre l’abitazione reale dei soggetti.
Francken collaborò spesso con i suoi colleghi e si è
ipotizzato che non solo nelle figure, ma anche nel mazzo di
fiori e negli animali compaia il contributo di un altro pittore
(per quanto riguarda i fiori, probabilmente quello di Jan i
Brueghel). ADN
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83. David II Teniers (1610-1690)
Ritratto di Maria de Heusch
1648
Olio su rame, 16,6 × 12,7 cm
Firmato in basso a sinistra: DT; iscrizione sul retro: ‘MARIA HEVSCH IOAN FIL. / ANTVERP VIDVA GODE F / SNYERS AETATIS SVAE / LXXXI AN SALVTIS / MDC. XLVIII.’
Collezione privata
BIBL.: Gemälde alter Meister und des 19. Jh., catalogo di vendita, Zürich (Koller), 18 settembre 2015, n. 3043, ill.
Questo ritratto ad altezza busto mostra una donna anziana
dallo sguardo vivace e il sorriso soddisfatto, rivolta a
sinistra. L’abito scuro è ravvivato solo dalla gorgiera bianca,
un accessorio già fuori moda nell’epoca a cui risale il dipinto,
ma indossato di tanto in tanto dagli anziani. Sul retro di
questo piccolo quadro è scritto che si tratta di un ritratto,
eseguito nel 1648, dell’ottantunenne Maria de Heusch, vedova
di Godevaert Snyers o Snijders, che era stato un membro
importante dell’“Oude Voetboog”, la più antica e la più
prestigiosa delle Gilde militari di Anversa. Teniers, che ne
faceva a sua volta parte, aveva già raffigurato il tributo
cerimoniale reso al defunto dalla compagnia militare riunita
al completo fuori dal Municipio anversese nel 1643. Il dipinto
in origine era esposto nella sala della “Oude Voetboog”; dopo
un tortuoso percorso nella collezione imperiale russa, giunse
all’Ermitage, dove può tuttora essere visto.
Il piccolo ritratto di Maria de Heusch faceva pendant
con il ritratto del marito Godevaert Snyers. I quadri
rimasero insieme fino al 1936-37, quando furono venduti
separatamente. HV
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84. Osias I Beert (1580 ca.-1623)
Natura morta con bicchieri di vino, un’arancia, nocciole e dolci dentro una nicchia
1610 ca.
Olio su rame, 22,5 × 18,1 cm
Collezione privata, in prestito al Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), Anversa, inv. IB07.001
Osias Beert fu uno dei pionieri della natura morta nel primo
decennio del XVII secolo. Nel 1602 risultava iscritto come
maestro nella Gilda di San Luca ad Anversa, e fu uno dei
primi artisti a scegliere come soggetto un assortimento di
oggetti disposti su un tavolo. In genere dipingeva le sue
nature morte su tavola o lastra di rame, non le firmava quasi
mai e non le datava, anche se alcuni dei supporti in rame su
cui dipingeva erano marcati e datati dal fabbro. L’esempio in
mostra, una nicchia contenente bicchieri e generi alimentari,
ha un’atmosfera insolitamente intima. Una falena
tigre ravviva la scena e indica, inoltre, le dimensioni degli
oggetti rappresentati. I pittori di nature morte del XVII
secolo dipingevano quasi sempre i loro soggetti a grandezza
naturale. Il quadro risale probabilmente agli anni intorno
al 1610 e include tre bicchieri per il vino in stile veneziano.
Nelle opere di Beert si trova una grande varietà di bicchieri di
questo tipo ed è possibile che alcuni, in realtà, non esistessero,
ma siano stati “fabbricati” dall’artista sulla base di esemplari
da lui visti e ritratti precedentemente. Beert suggerisce la
profondità nella nicchia dipinta attraverso variazioni di luce
sui bicchieri: quello davanti ne cattura una gran quantità e
sulla sua coppa si scorge il riflesso di una finestra, mentre
sul bicchiere di vino rosso più indietro ne arriva pochissima,
e infatti quasi svanisce nello sfondo. Se osserviamo
l’immagine da vicino, ci accorgiamo che la nicchia non è
abbastanza profonda per contenere tutti gli oggetti e questo
è senza dubbio il motivo per cui Beert ha nascosto le basi dei
bicchieri, per le quali non c’è abbastanza spazio. L’illusione
ottica, in ogni caso, risulta del tutto convincente. FGM
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85. Clara Peeters (attiva 1607-1621)
Natura morta con pesce, aragoste, gamberi e ostriche
1615 ca.
Olio su tavola, 35 × 48 cm
Firmato, in basso a sinistra, sull’angolo della tavola: “CLARA P.”
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 834
BIBL.: Decoteau 1992, pp. 39-41, 130, 131 (immagini a colori), 182; Vergara & Lenders 2016, pp. 100-103, cat. 9, immagini a colori; Bastiaensen 2016, pp. 17-31.
La pittrice Clara Peeters resta un enigma. Di lei non conosciamo
nessun dato biografico. Di recente è stato ipotizzato
che possa trattarsi di Clara Lamberts, nata a Mechelen in
una famiglia di pittori verso il 1587, sposata con l’artista di
Anversa Hendrick Peeters nel 1605 e probabilmente morta
a Gent intorno al 1637 (Bastiaensen 2017). Non è certo, però,
che questa Clara fosse una pittrice, e inoltre nei documenti
d’archivio è sempre indicata come Lamberts, non Peeters,
quindi si tratta solo di un’ipotesi. Di sicuro, però, Clara
Peeters era un’artista molto originale e creativa e produsse
opere di grande qualità. Nel 1611 dipinse la prima natura
morta con pesci che si conosca nei Paesi Bassi (Madrid, Prado).
L’esempio in mostra risale a un periodo abbastanza avanzato
della sua carriera, probabilmente intorno al 1615 o poco dopo.
Peeters realizzò almeno una dozzina di simili nature morte e
tutte mostrano soprattutto pesci d’acqua dolce molto comuni.
La carpa ha un ruolo principale anche in altre composizioni
di Peeters, e il luccio e il persico vi compaiono regolarmente.
Il pesce appena pescato si poteva portare a casa vivo dal mercato.
Le aragoste, a giudicare dal colore rosso, sono già state
cucinate per il pasto, mentre le aringhe, affumicate, sono
pronte per essere conservate. Gamberi e ostriche si pescavano
in gran quantità nelle acque costiere vicino ad Anversa.
A giudicare dalla sfumatura rossastra dei gamberi,
anche loro sono stati bolliti subito dopo la cattura. Il colino di
terracotta era probabilmente opera di un vasaio della provincia
del Brabante, della quale faceva parte anche Anversa, dove
quasi certamente Clara Peeters lavorava. È anche possibile
che questa natura morta fosse associata all’autunno, quando
gli scampi sono più saporiti e la pesca delle ostriche è più
diffusa. FGM
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86. Clara Peeters (attiva 1607-1621)
Natura morta con formaggi e burro, aragoste, gamberi, pane e vino
1615 ca.
Olio su tavola, 40,8 × 57,9 cm
Firmato
Collezione privata
BIBL.: pp. 100-103, cat. 9 2016, pp. 120-122, cat. 15, ill.
Si tratta di uno dei pochi dipinti firmati da Clara Peeters
con il suo nome completo, che appare inciso sul manico del
coltello d’argento a sinistra nel quadro. Più spesso, come in
cat. 85, si firmava “CLARA P.” e scriveva il nome sul ripiano
del tavolo. Il coltello raffigurato in questo dipinto torna in
diverse nature morte di Peeters, tra cui uno dei suoi quattro
capolavori (1611 ca.), conservato al Museo del Prado di Madrid.
Si tratta di un tipo di coltello che faceva parte dei set di posate
(coltello e forchetta) donati alle spose per le loro nozze, ed è
stato ipotizzato che possa trattarsi di quello personale di
Clara Peeters. Si tratta però solo di un’ipotesi, perché non
conosciamo nessuna data relativa alla sua vita privata.
Quel che è certo è che, come molti pittori di nature
morte del suo tempo, Clara Peeters ripeteva regolarmente gli
stessi motivi in due, o più, dei suoi dipinti, e questo dimostra
che per eseguire i suoi quadri utilizzava studi preliminari.
Una composizione quasi identica di tre aragoste su un vassoio
di peltro si trova in cat. 85, mentre una disposizione di formaggi
simile ritorna in molti lavori dell’artista. Il formaggio
era un alimento diffuso e prodotto in varie zone dei Paesi
Bassi. I formaggi che si vedono in questo dipinto erano probabilmente
importati nelle Fiandre dal nord dei Paesi Bassi,
in particolare da centri come Gouda ed Edam, rinomate
per la loro produzione. Il bicchiere di vino, forse riempito
col contenuto della caraffa in grès tedesco poco più indietro,
ha una forma abbastanza semplice; è possibile che si tratti di
un bicchiere prodotto ad Anversa secondo lo stile veneziano.
Anche questo oggetto ritorna in almeno altre cinque nature
morte di Clara Peeters, inclusa una datata 1612, conservata al
Poltava Art Museum di Poltava, in Ucraina. Fgm
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87. Frans Snijders (1579-1657)
Natura morta con una lepre, una tazza piena d’uva e un’aragosta
1613-1614 ca.
Olio su tavola, 106,4 × 75 cm
Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Snijders e Rockox, Anversa, inv. RH.LBI.2012.00
BIBL.: Van de Velde 2017, p. 150, ill.
Prima che la sua carriera decollasse, Frans Snijders trascorse
un periodo in Italia. All’inizio del 1608, forse anche prima,
viaggiò a Roma e a Milano, dove era stato raccomandato
al cardinale Borromeo da Jan Brueghel il Vecchio, il quale
scrisse al prelato che Snijders era «uno dei migliori pittori
di Anversa». Prima della fine del 1609, comunque, era già
tornato nella sua città natale. Brueghel non aveva esagerato,
Snijders era davvero un artista estremamente talentuoso
e abile e uno dei pittori fiamminghi di nature morte più
innovativi del suo tempo. Dipinse grandi bancarelle da
mercato, mobili da cucina, animali vivi e vari tipi di natura
morta. Fornì regolarmente motivi ai dipinti di Peter Paul
Rubens. Come molti dei suoi contemporanei, Snijders
ripeteva abitualmente gli elementi dei suoi quadri, e molti
di quelli presenti in questo esempio ritornano in altre opere,
soprattutto a partire dalla prima metà degli anni Dieci del
XVII secolo. In effetti, basandoci su accurate analisi comparative,
possiamo datare con sicurezza questo dipinto al 1613-1614.
La composizione elaborata da Snijders rappresenta una
novità: mostrando due ripiani e la parete di una dispensa o di
una cucina, mette in scena tre diverse nature morte riunite
in una sola. Nel dipinto vediamo una composizione di frutta
fresca, una lepre appena uccisa e un grande astice bollito,
in attesa di essere preparati e serviti. Sul ripiano più in basso,
dietro l’astice, si nota una caraffa in grès con un coperchio di
metallo e due bicchieri per il vino à la façon-de-Venise, uno con
il bordo dorato, l’altro con un nodo, sempre dorato, nello
stelo. Le prelibatezze e il sontuoso servizio indicano che qui
abita una famiglia agiata. Attraverso la scelta degli elementi,
Snijders esibisce la sua magnifica abilità pittorica, accostando
la pelliccia della lepre alla frutta, al metallo, al vetro e alla
porcellana. La prospettiva interna al dipinto colloca il ripiano
centrale ad altezza di sguardo, e questo fa pensare che la
natura morta sia stata dipinta per essere appesa in un punto
specifico. FGM
Nuovi mercati
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88. Jan Davidsz de Heem (1606-1684)
Natura morta di frutta con un calice à la façon-de-Venise
1652 ca.
Olio su tavola, 33,3 × 48,5 cm
Firmato in basso a sinistra
Collezione privata (Courtesy of Museo Nazionale di Arte e Storia, Lussemburgo)
Questa sontuosa natura morta fu dipinta dall’artista in
uno dei periodi più produttivi della sua carriera, all’inizio
degli anni Cinquanta del XVII secolo. Simili composizioni
di frutta compaiono spesso nella sua opera, soprattutto in
questi anni. I frutti sono tutti di produzione locale, perfino i
limoni potevano essere coltivati nelle serre, anche se di solito
venivano importati dall’Europa meridionale e di sicuro erano
considerati un lusso. Non è casuale, nel dipinto, l’accostamento
del limone e del bicchiere di vino bianco. Quest’ultimo,
infatti, era piuttosto amaro, ma con qualche goccia di
limone il suo sapore diventava più fruttato. Accostando i due
elementi, forse De Heem voleva anche suggerire il valore della
moderazione. I pittori di nature morte amavano includere
questi frutti nelle loro composizioni perché regalavano al
quadro una splendida tonalità di giallo. Il bicchiere di vino è in
stile veneziano, ma potrebbe essere stato prodotto ad Anversa,
dove lavorava De Heem, da vetrai specializzati forse immigrati
dall’Italia. L’edera che incorona il bicchiere è forse un’allusione
alla credenza popolare secondo la quale questa pianta
proteggerebbe dall’ebbrezza alcolica, e un richiamo, con il
suo verde perenne, al ciclo continuo della vita. Si può dire lo
stesso anche per l’accostamento tra un bruco e una farfalla,
associati alla resurrezione. In primo piano, su un vassoio di
peltro lucidato fino a farlo brillare, è sistemato un piatto di
porcellana cinese del periodo Wanli. Anche se all’inizio del
XVII secolo veniva importato in grandi quantità, questo tipo
di porcellana rimaneva un bene di lusso. Forse De Heem lo
dipinse a memoria, perché la decorazione è troppo elaborata
per il fondo di un piatto Wanli – ci si aspetterebbe, piuttosto,
di trovarlo all’interno – e i campi decorati a punti in realtà non
sono mai doppi. La sua presenza contribuisce comunque alla
raffinatezza della scena. FGM
Nuovi mercati
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89. Abraham van Beijeren (1620/21 ca.-1690)
Trionfo di natura morta con frutta e un astice
1660 ca.
Olio su tela, 88 × 107 cm
Firmato con un monogramma, a destra, sul tavolo: “AVB f”
Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 5084
Abraham Van Beijeren era soprattutto un pittore di nature
morte, ma dipinse anche fiumi e vedute marine, soprattutto
all’inizio della sua carriera. La sua specialità, però, erano le
nature morte di pesci e ogni tanto realizzava composizioni
di fiori o frutta. Tra il 1653 e il 1667 dipinse un gruppo di
nature morte, come quella in mostra, ispirandosi, almeno in
parte, alle grandi e sontuose composizioni di Jan Davidsz de
Heem. In questo esempio, Van Beijeren mostra allo spettatore
diversi tipi di frutta e un astice bollito, in combinazione con
lussuosi oggetti di metallo, ceramiche e bicchieri. Tra questi
ultimi, i più comuni sono i tre römer di vetro verde sul vassoio
a destra, mentre i bicchieri à la façon de Venise sono pezzi di
ottima fabbricazione, soprattutto l’ampio goblet col coperchio
decorato dal complicato nodo formato dalle spire di un
“serpente” di vetro, sul quale sono applicati due fiori di vetro
blu. La nicchia sul fondo contiene un alto flûte e un goblet
poco profondo. È improbabile che Van Beijeren possedesse
gli oggetti raffigurati nel quadro. Forse li prese in prestito
da collezionisti o da commercianti. Lui, infatti, era spesso
tormentato dai debiti e il motivo principale per cui cambiava
frequentemente città era il tentativo di evitare i creditori.
Il formato orizzontale avvicina ancora di più questo dipinto
alle ricche nature morte di De Heem, anche se in passato la
tela è stata sicuramente ridotta in altezza. In origine doveva
mostrare per intero la nicchia e il bicchiere più alto e probabilmente
c’era più spazio anche alla base, come nella maggior
parte degli esempi di questo genere a noi noti. FGM
Nuovi mercati
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90. Jacques van de Kerckhove, detto Giacomo da Castello (1637 ca.-1712 o post 1712)
Natura morta di frutta all’aperto
Olio su tela, 55,8 × 69 cm
Collezione privata
Molti pittori fiamminghi viaggiarono in Italia, sia per
studiare l’arte italiana alla fine del loro apprendistato, sia per
tentare la fortuna in campo artistico. La meta, per quasi
tutti, era Roma, ma alcuni visitarono Firenze e Napoli. Alle
volte, gli artisti del nord si spinsero anche in Veneto e a
Venezia. Jacques Van De Kerckhove fu uno dei pochi artisti
fiamminghi famosi ad aver avuto una carriera a Venezia, dove
arrivò nel 1663 alla fine del suo apprendistato con il celebre
pittore di nature morte e animali Joannes Fijt (1609/11-1661).
L’anno dopo si trasferì a Vicenza e qui lavorò fino al 1682,
prima di tornare a Venezia, dove gli ultimi documenti su
di lui risalgono al 1712: in quell’anno, infatti, fu ammesso
nella Fraglia dei pittori, e nella nota che accompagna la
sua iscrizione si legge che fu esonerato dal pagare la tassa
perché ormai anziano. A parte un autoritratto di cui siamo a
conoscenza (Firenze, Galleria degli Uffizi), dipinse numerose
nature morte, spesso su tele molto grandi. Queste opere
raffigurano cacciagione o pesci, ortaggi e frutta, a volte in
combinazione con animali vivi come piccioni, oche e tacchini.
L’esempio in mostra è una delle rare composizioni di sola
frutta di Van De Kerckhove. Qui il pittore dispiega la sua
ricca tavolozza di colori e uno stile definito nel delineare gli
oggetti, attenzione ai dettagli e, allo stesso tempo, alla qualità
pittorica. Un particolare interessante è la tela grezza su cui
l’artista ha sistemato i grappoli d’uva. Sappiamo che Van
De Kerckhove non datava i suoi dipinti. Il suo stile e il suo
modo di lavorare, inoltre, restarono omogenei per tutta la sua
carriera, e questo rende difficile datare con sicurezza i suoi
quadri. Come aiuto alla datazione di quest’opera, si noti che
l’artista sembra essere al corrente delle nature morte di frutta
dipinte da Abraham Brueghel (1631-1697) a Roma e a Napoli
verso gli anni Settanta del XVII secolo. FGM
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Nuovi mercati
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5 settembre 2019 – 1 marzo 2020
Mostra organizzata dalla Fondazione Musei Civici di Venezia in collaborazione con la Flemish Community, la Città di Anversa e VisitFlanders
Fondazione Musei Civici di Venezia
Consiglio di amministrazione
Presidente
Mariacristina Gribaudi
Vicepresidente
Luigi Brugnaro
Consiglieri
Lorenza Lain
Bruno Bernardi
Roberto Zuccato
Direttore
Gabriella Belli
Segretario Organizzativo
Mattia Agnetti
Dirigente Area museale 2
Chiara Squarcina
Dirigente Area museale 3
Daniela Ferretti
Mostra
a cura di
Ben van Beneden
Direzione scientifica
Gabriella Belli
con Elena Marchetti
Progetto allestimento
Daniela Ferretti
con Francesca Boni
Georg Malfertheiner
Ufficio mostre (Città di Anversa)
Marieke D’Hooghe
con
Martine Maris
Veerle Allaert
Ufficio mostre (Fondazione Musei Civici)
Giulia Biscontin
Monica Vianello
Sofia Rinaldi
Silvia Toffano
Comunicazione operativa e strategica,
corporate identity
Mara Vittori
con Chiara Marusso
Andrea Marin
Silvia Negretti
Alessandro Paolinelli
Giulia Sabattini
Valentina Avon, Ufficio Stampa
e con
Liesbeth De Maeyer, Città di Anversa
Amministrazione, finanza e controllo
Maria Cristina Carraro
con Piero Calore
Elettra Cuoghi
Ludovica Fanti
Laura Miccoli
Francesca Rodella
Sicurezza e logistica
Lorenzo Palmisano
con Valeria Fedrigo
Servizi educativi
Monica da Cortà Fumei
con Riccardo Bon
Claudia Calabresi
Cristina Gazzola
Chiara Miotto
Progetto grafico e comunicazione coordinata
Sebastiano Girardi Studio
Si ringrazia Sotheby’s per il sostegno alla
comunicazione della mostra
Prestatori
Accademia Filarmonica di Verona
Biblioteca Museo Correr, Venezia
Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia
Gabinetto disegni e stampe Museo Correr, Venezia
KBC Art Collection Belgium, Museo della casa di
Snijders&Rockox, Anversa
King Baudouin Foundation, Bruxelles
M – Museum, Lovanio
Musea Brugge, Groeningemuseum, Bruges
Museo Correr, Venezia
Museo del Vetro, Venezia
Museo Internazionale e biblioteca della musica di Bologna
Museum Mayer van den Bergh, Anversa
Museum Plantin-Moretus, UNESCO World Heritage,
Anversa
Museum Vleeshuis, Sound of the City, Anversa
Museum voor Schone Kunsten, Gent
Royal Museum of Fine Arts (KMSKA), Anversa
Museo della Casa di Rubens, Anversa
Chiesa di San Paolo, Anversa
e
tutti i prestatori che hanno preferito rimanere anonimi
Si ringraziano
Ministero dei beni e delle attività culturali
Direzione generale Musei
Direttore generale
Antonio Lampis
Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio
per il Comune di Venezia e Laguna
Soprintendente
Emanuela Carpani
Il Patriarca di Venezia
S.E. Francesco Moraglia
La Basilica di San Marco
Delegato patriarcale
Mons. Antonio Senno
Primo procuratore
Carlo Alberto Tesserin
Arcidiacono
Mons. Angelo Pagan
Arciprete
Mons. Orlando Barbaro
Il Maestro di Cappella Marco Gemmani
con la Cappella Marciana
Un ringraziamento speciale a
Marnix Neerman, che ha contribuito in maniera
significativa alla riuscita del progetto, e Ben van Beneden,
senza il cui aiuto non sarebbe stato possibile realizzare
la mostra
e inoltre
Julie A. Bakke
Andrea Bellieni
Erika Bianchini
Annalisa Bruni
Valeria Cafà
Stefano Campagnolo
Dennis Cecchin
Morris Ceron
Alberto Craievich
Rossella Granziero
Riccardo Lattuada
Michele Magnabosco
Jenny Servino
Chiara Squarcina
Mauro Stocco
Luigi Tuppini
Monica Viero
Luigi Zanini
Luca Zuin
Catalogo
A cura di
Ben van Beneden
Saggi di
Ben van Beneden
Fred G. Meijer
Timothy De Paepe
Dirk Imhof
Schede di
Jaynie Anderson, Susan J. Barnes,
Till-Holger Borchert, Elise Boutsen,
Christopher Brown, Nils Büttner,
Caroline Campbell, Guy Delmarcel,
Timothy De Paepe, Annemie De Vos,
Marieke D’Hooghe, Dirk Imhof,
Koen Jonckheere, Riccardo Lattuada,
Fred G. Meijer, Maja Neerman,
Abigail A. Newman, Frits Scholten,
Ben van Beneden, Katlijne Van der Stighelen,
Geert Van Eeckhout, Steven Van Impe,
Sarah Van Ooteghem, Brecht Vanoppen,
Sabine Van Sprang, Hans Vlieghe
Coordinamento editoriale
Hans Devisscher
Ricerca iconografica
Marieke D’Hooghe
Progetto grafico e impaginazione
Cedric Verhelst
Casa editrice
Snoeck Publishers
Stampa e rilegatura
Graphius
© 2019, MUVE, Snoeck Publishers
Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa
pubblicazione può essere riprodotta o utilizzata
in qualsivoglia forma o mezzo, elettronico e
meccanico, incluse fotocopie, registrazione o
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elaborazione dati senza l’autorizzazione scritta
della casa editrice.
Deposito legale: D/2019/0012/51
ISBN: 978-94-6161-112-3
Crediti fotografici
Ogni sforzo è stato fatto per identificare i
dententori dei diritti delle immagini riprodotte in
questo volume. La casa editrice si rende disponibile
nel caso in cui alcuni crediti fotografici siano stati
involontariamente omessi.
Amsterdam, © Koninklijk Paleis: p. 33 (fig. 19)
Amsterdam, photo archive Fred G. Meijer: p. 36,
p. 41 (fig. 5), p. 39 (fig. 3), p. 42 (fig. 6), p. 43 (fig. 8),
p. 44 (fig. 9)
Amsterdam, Rijksmuseum: p. 87 (fig. 7a), p. 201
(fig. 74a), p. 211 (fig. 79a)
Antwerp, Cathedral of Our Lady, www.lukasweb.be
– Art in Flanders, photo Hugo Maertens: p. 20,
p. 21 (fig. 6)
Antwerp, Hendrik Conscience Library: cat. 46-47
Antwerp, KBC Art Collection Belgium, Museum
Snijders&Rockox House: p. 46 (fig. 1), p. 56
(fig. 10), cat. 21, cat. 43
Antwerp, MAS – Museum aan de Stroom, photo
Bart Huysmans & Michel Wuyts: p. 84, cat. 6
Antwerp, Museum Mayer van den Bergh, photo
Bart Huysmans & Michel Wuyts: p. 42 (fig. 7),
p. 53 (fig. 7)
Antwerp, Museum Mayer van den Bergh: cat. 41
Antwerp, Museum Mayer van den Bergh, photo
Hugo Maertens: p. 28 (fig. 12)
Antwerp, Museum Mayer van den Bergh, photo
KIK-IRPA: p. 18 (fig. 5)
Antwerp, Museum Plantin-Moretus, UNESCO
World Heritage: p. 55 (fig. 9), cat. 54, cat. 64-65
Antwerp, Museum Plantin-Moretus, UNESCO
World Heritage, photo Bart Huysmans & Michel
Wuyts: cat. 26
Antwerp, Museum Plantin-Moretus, UNESCO
World Heritage, © Peter Maes: p. 60, p. 62 (fig. 1),
p. 63 (fig. 2), p. 64 (fig. 3), p. 65 (fig. 4), p. 66 (fig. 5
and 6), p. 68 (fig. 7), p. 70 (fig. 8), p. 81 (cat. 4a),
cat. 12, cat. 14-19, p. 99 (fig. 15a), p. 116 (fig. 26a),
cat. 27, p. 118 (fig. 27a), cat. 28, p. 119 (fig. 28a),
cat. 35-37, cat. 45
Antwerp, Museum Vleeshuis – Sound of the City:
cat. 62
Antwerp, Museum Vleeshuis – Sound of the City,
photo Michel Wuyts: cat. 63
Antwerp, Museum Vleeshuis – Sound of the City,
photo Bart Huysmans & Michel Wuyts: p. 50
(fig. 2, 3 and 4), p. 52 (fig. 5 and 6), cat. 61
Antwerp, Royal Music Conservatory, Library:
p. 54, fig. 8
Antwerp, Royal Museum of Fine Arts – KMSKA,
photo Hugo Maertens: p. 8, p. 14 (fig. 1), p. 16
(fig. 3), p. 17 (fig. 4), p. 26 (fig. 11), p. 40 (fig. 4),
p. 76 (fig. 2a), p. 78 (fig. 3a), cat. 20, cat. 23, cat. 31,
cat. 39-40, cat. 58, cat. 66, cat. 75-77, cat. 80,
cat. 82, cat. 84-85, cat. 89
Antwerp, Royal Museum of Fine Arts – KMSKA,
photo Rik Klein Gotink: cat. 22, cat. 25, cat. 32,
cat. 55
Antwerp, Rubens House: p. 25 (fig. 10), cat. 78
Antwerp, Rubens House, photo Michel Wuyts: p. 33
(fig. 17 ), cat. 56
Antwerp, Rubens House, photo Michel Wuyts &
Louis De Peuter: p. 32 (fig. 16), cat. 13, cat. 24,
cat. 57
Antwerp, Rubens House, photo Bart Huysmans &
Michel Wuyts: p. 29 (fig. 13), p. 30 (fig. 15), p. 58
(fig. 11), cat. 38
Antwerp, St Paul’s Church, www.lukasweb.be –
Art in Flanders, photo Hugo Maertens: p. 122
(fig. 30a)
Antwerp, © The Phoebus Foundation: p. 12
Bruges, Musea Brugge, Groeningemuseum,
www.lukasweb.be – Art in Flanders, photo
Hugo Maertens: cat. 71-72
Brussels, King Baudouin Foundation, entrusted to
the Rubens House, Antwerp: cat. 59
Brussels, King Baudouin Foundation, entrusted to
the Rubens House, Antwerp, photo KIK-IRPA:
p. 23 (fig. 7)
Brussels, King Baudouin Foundation, entrusted
to the Rubens House, Antwerp, photo Bart
Huysmans & Michel Wuyts: p. 33 (fig. 18)
Brussels, King Baudouin Foundation, Charles Van
Herck Coll., entrusted to the Royal Museum
of Fine Arts, Antwerp, © Studio Philippe de
Formanoir: cat. 48
Ghent, Museum voor Schone Kunsten,
www.lukasweb.be – Art in Flanders, photo
Hugo Maertens: cat. 30, cat. 33, cat. 67, cat. 74
Leuven, M – Museum, www.lukasweb.be – Art in
Flanders, foto Dominique Provost: cat. 70
London, © Sotheby’s: p. 6, cat. 52
London, © The National Gallery: p. 24 (fig. 9)
Luxemburg, Musée national d’histoire et d’art –
MNHA, photo Tom Lucas: cat. 50, cat. 69, cat. 88
Mantua, Ducal Palace, © Photo Scala Florence –
courtesy of the Ministero Beni e Att. Culturali e
del Turismo: p. 179 (fig. 57a)
Oxford, © Ashmolean Museum, University of
Oxford: p. 121 (fig. 29b)
Paris, École nationale supérieure des Beaux-Arts
© Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN-Grand Palais:
p. 121 (fig. 29a)
Private Collection: p. 38 (fig. 1), cat. 60, cat. 68,
cat. 87
Private Collection, Courtesy of Christophe Janet:
cat. 44
Private Collection, © Tomasso Brothers Fine Art,
photo Doug Currie: p. 31 (fig. 14)
Private Collection, © Haboldt Pictura: cat. 3, cat. 81
Private Collection, © Cedric Verhelst: cat. 1, cat. 34,
p. 149 (fig. 44a), cat. 53, cat. 79
Private Collection, © Christian Baraja: cat. 73
Private Collection, © Koller Auktionen AG: cat. 83
Private Collection, photo Carla van de Puttelaer:
cat. 90
Private Collection, photo Dominique Provost:
cat. 49, cat. 51
Private Collection, photo Erwin Donvil: cat. 86
Private Collection, photo KIK-IRPA: p. 22 (fig. 8),
cat. 2, cat. 4, p. 82, cat. 5, cat. 7-11, cat. 29, cat. 42,
p. 164,
Vienna, Gemäldegalerie der Akademie der
bildenden Künste: p. 39 (fig. 2)
Mai un ringraziamento è stato più appropriato di quello che desidero esprimere qui, per questo
libro e su questo progetto. Come curatore della mostra provo un debito di gratitudine per tutti
coloro – prestatori, coautori, colleghi e cari amici – che mi hanno sostenuto in questa impresa.
Ringrazio di cuore anche: Alexander Bell, Annemie Breëns, Lies Buyse, Anne De Breuck, George
Gordon, Christophe Janet, Marlies Kleiterp (Hermitage Amsterdam), Thomas Leysen, Madeleine
Manderyck, Michel Polfer (Musée national d’histoire et d’art Luxembourg), Madison Rendall and
Jennifer Levy (The Museum of Fine Arts, Houston)
Ben van Beneden