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DaTizianoaRubens_IT

Catalogo della mostra Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe, a Palazzo Ducale, Venezia, 2019/2020

Catalogo della mostra Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe, a Palazzo Ducale, Venezia, 2019/2020

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Nel 2017 la Casa di Rubens ad Anversa ha ricevuto in prestito

da una collezione privata due eccezionali capolavori: L’angelo

annuncia il martirio a Santa Caterina d’Alessandria, un dipinto

generalmente noto come “il Tintoretto di David Bowie”, e il

Ritratto di dama con la figlia, uno dei rari doppi ritratti di Tiziano,

che raffigura una donna con la propria figlia.

Per dare il dovuto rilievo al ritorno di queste due opere iconiche

a Venezia, la loro città d’origine, la Fondazione Musei Civici di

Venezia, in collaborazione con la Flemish Community, la Città di

Anversa e VisitFlanders, ha organizzato una grande retrospettiva

sull’arte fiamminga. Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa e da

altre collezioni fiamminghe presenta una panoramica dettagliata su

quanto di meglio la pittura fiamminga ha da offrire. La mostra

accoglie prestiti importanti dai principali musei delle Fiandre che

dispongono di significative collezioni d’arte del XVII secolo. Viene

presentata inoltre una selezione di pregevoli dipinti provenienti

da collezioni private fiamminghe. Capita raramente che questi

capolavori, sia pubblici che privati, lascino le loro sedi e in questa

mostra molti di essi sono esposti al pubblico per la prima volta.

Da Tiziano a Rubens

Da Tiziano

a Rubens

Capolavori da Anversa e

da altre collezioni fiamminghe

9 789461 6 11123



Da Tiziano a Rubens


DaTiziano


a

Rubens

Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe


La nostra Città è orgogliosa di presentare la mostra Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa

e da altre collezioni fiamminghe nella prestigiosa sede di Palazzo Ducale. Attraverso un percorso

ricco di capolavori, la mostra narra la storia dei rapporti, gli scambi culturali, le reciproche

influenze tra due città solo apparentemente lontane: Venezia e Anversa, accomunate

dall’affaccio sul mare, dall’importante vocazione mercantile e dal fermento culturale.

Le due città si scambiarono artisti, opere, libri, manufatti e saperi sin dal Medioevo, quando

una rotta commerciale collegava i due porti dalla valle del fiume Reno al valico sulle Alpi.

La mostra porta a Venezia più di 80 capolavori provenienti dalle collezioni dei musei più

importanti della Regione delle Fiandre: primo fra tutti il Rubenshuis – la Casa di Rubens,

che ospita il museo a lui dedicato diretto dal curatore di questa mostra, Ben van Beneden.

Altri musei della città di Anversa hanno contribuito in modo determinante con grandi

capolavori : il Museo Reale delle Belle Arti di Anversa (KMSKA), il Museo Plantin-Moretus,

il Museo Mayer van den Bergh, il Museo Vleeshuis, il Museo della Casa di Snijders&Rockox

e il MAS, Museum aan de Stroom. Prestiti importanti sono giunti anche da altre città delle

Fiandre, come Gent, Bruges, Lovanio. Mai così tanti capolavori avevano lasciato le Fiandre

per trasferirsi presso un’unica sede all’estero. Una partecipazione eccezionale che Venezia

accoglie con gioia e con orgoglio.

Questa mostra nasce dalla felice collaborazione con le istituzioni fiamminghe nostre

partner in questo progetto: la città di Anversa, VisitFlanders e la Comunità fiamminga,

dipartimento della Cultura, Gioventù e Media. Il Comune di Venezia e la città Metropolitana

sono lieti di porsi come interlocutore attivo e propulsore di nuove idee, puntando a rafforzare

il ruolo di Venezia protagonista sul piano culturale in campo internazionale.

Il mio ringraziamento più vivo va dunque al sindaco di Anversa Bart De Wever,

convinto sostenitore dell’iniziativa, al Ministro del Turismo fiammingo, all’Ente del turismo

VisitFlanders e al Ministro della Cultura del governo fiammingo, che hanno coprodotto la

mostra e sostenuto il progetto con grande convinzione e generosità.

Luigi Brugnaro

Sindaco di Venezia


La cooperazione internazionale che la Fondazione Musei Civici di Venezia ha già avviato nel

corso delle passate esposizioni a Palazzo Ducale, da Tintoretto nell’inverno 2018 a Canaletto

nella primavera 2019, continua raccontando un altro interessante episodio dell’irradiarsi

della cultura veneziana nel mondo. Con la mostra Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa

e da altre collezioni fiamminghe viene portata alla conoscenza del grande pubblico una fase

straordinariamente felice dei rapporti tra Venezia e le Fiandre, quando un intenso scambio

di persone e idee portava molti artisti fiamminghi a intraprendere il viaggio attraverso le

Alpi per raggiungere la città lagunare. Venezia fu lo scenario tra fine Cinquecento e inizio

Seicento di un fitto scambio di professionalità in vari domini delle arti: dalla pittura alla

musica, dall’arte del vetro a quella della decorazione murale. Contribuisce alla messa in

scena della grande arte e cultura fiamminga del periodo la presenza di più di 80 capolavori

dai più importanti musei delle Fiandre riuniti per l’occasione in modo del tutto eccezionale

a Venezia. La mostra è stata realizzata e ideata con il Rubenshuis, museo della Casa di

Rubens, con il sostegno della città di Anversa, di VisitFlanders e della Comunità fiamminga,

dipartimento della Cultura, Gioventù e Media. La mostra sarà palcoscenico non solo per

grandi capolavori raramente visti in Italia, ma anche per tre grandi ritorni a Venezia. Siamo

lieti di poter dare l’opportunità ai visitatori di vedere nella loro città di origine tre icone

dell’arte veneziana: la grande pala votiva di Tiziano Jacopo Pesaro presentato a San Pietro da

papa Alessandro VI; la pala d’altare della chiesa perduta di San Geminiano, L’angelo annuncia

il martirio a Santa Caterina d’Alessandria di Tintoretto, già appartenuta a David Bowie; il

Ritratto di dama con la figlia di Tiziano, proveniente dalla collezione Barbarigo. Per questa

impresa corale desidero ringraziare il direttore della Fondazione Musei Civici, Gabriella

Belli, catalizzatore inarrestabile di idee che fanno cultura, e il direttore della Casa di Rubens,

Ben van Beneden, che ha curato la mostra. Il mio grazie più sentito anche a tutto lo staff

della Fondazione che con estrema professionalità e competenza permette sempre anche

ai progetti più ambiziosi di realizzarsi.

Mariacristina Gribaudi

Presidente Fondazione Musei Civici di Venezia



Anversa e Venezia, entrambe porti di primaria importanza, sono legate fin dal Medioevo.

La storia ci racconta, però, che le grandi città assumono un ruolo davvero rilevante solo

quando diventano centri di potere. È allora che iniziano ad esercitare la loro influenza

anche in ambito culturale. Nel corso del XVI secolo, Anversa sperimentò un crescente

sviluppo economico; una sorta di Età dell’Oro che produsse un’espansione culturale mai

verificatasi fino ad allora e il fiorire, in particolare, della pittura.

Il predominio internazionale di Anversa fu, tuttavia, breve. Dal 1550 in poi, il suo

ruolo di snodo per i commerci divenne via via sempre più marginale, come conseguenza

della divisione tra i Paesi Bassi e della chiusura della Schelda che favorì, invece, l’ascesa

di Amsterdam a nuovo polo commerciale. I Portoghesi smisero di fare riferimento alla

città belga come mercato principale per le spezie e diversi mercanti inglesi di tessuti si

trasferirono altrove. Ci fu un periodo di indigenza e carestia. Tanti commercianti anversesi,

ma anche molti artisti e scienziati, abbandonarono la città per trasferirsi in altri centri

europei più accoglienti, soprattutto nei Paesi Bassi.

La Controriforma aprì la strada a nuove importanti committenze artistiche, come la

Chiesa di San Carlo Borromeo. Con la Tregua dei dodici anni si delineò quasi immediatamente

per i Paesi Bassi meridionali la prospettiva di una ripresa economica. Durante

questo periodo, emerse un’altra generazione di grandi artisti anversesi, tra i quali Rubens,

Jordaens e Teniers. Fu grazie a loro che la città consolidò la propria fama di capitale culturale.

L’influsso di questi pittori è tangibile ancora oggi.

Peter Paul Rubens tornò ad Anversa dall’Italia nel 1608. La Repubblica Veneziana,

anche allora un centro artistico e culturale di spicco, accoglieva molti artisti fiamminghi e

del capoluogo delle Fiandre alla ricerca d’ispirazione. Se è a Venezia che si possono trovare

le radici del Barocco anversese, è vero anche che le opere di Rubens e dei suoi apprendisti

Jacques Jordaens e Anthony van Dyck diedero una spinta alla ripresa dei Paesi Bassi

meridionali. Il fatto, poi, che Anversa fosse la sede dell’impresa editoriale più importante

a livello internazionale contribuì ad irrobustirne la fama come divulgatrice globale di

sapere e di cultura.

Questa magnifica mostra vuole richiamare l’attenzione su quelle origini. Più che focalizzarsi

sull’influsso esercitato su Rubens dai maestri veneziani, l’esposizione sottolinea,

all’interno di uno scenario maestoso, la meraviglia provata da visitatori di tutto il mondo

davanti all’arte dei pittori fiamminghi e di Anversa.

Bart De Wever

Sindaco

Città di Anversa

Nabilla Ait Daoud

Vice sindaco con delega alla Cultura

Città di Anversa



10 Introduzione

Gabriella Belli

13 La pittura e le arti ad Anversa, 1500-1650

Ben van Beneden

37 Il vetro veneziano nelle nature morte fiamminghe e olandesi del XVII secolo

Fred G. Meijer

47 L’esibizione della ricchezza.

Clavicembali, spartiti e cabinet ad Anversa

Timothy De Paepe

61 La produzione libraria ad Anversa nel XVI e nel XVII secolo

Dirk Imhof

Catalogo

74 L’alba di un’età dell’oro

96 Bozzetti e modelli per la gloria

122 Dipingere per la Chiesa e per la Corte

154 Tintoretto e Tiziano

170 Un’esistenza circondata dal lusso

190 Oltre Anversa

202 Nuovi mercati

232 Bibliografia


Introduzione

La Fondazione Musei Civici di Venezia accoglie nelle splendide sale di Palazzo Ducale un

nucleo di straordinari dipinti provenienti dai musei di Anversa e da altre prestigiose collezioni

pubbliche e private fiamminghe. La mostra s’inaugura sotto gli auspici di una felice

collaborazione tra la Città di Venezia e la Città di Anversa, che con questo progetto hanno

voluto promuovere uno scambio culturale di alto livello. Arrivano cosi in Laguna, dopo molti

anni dalla memorabile esposizione curata da Bernard Aikema e Beverly Louise Brown nel

1999 a Palazzo Grassi, un nucleo eccezionale di dipinti che testimoniano il racconto di una

storia artistica condivisa, che ha segnato almeno due secoli di strette relazioni culturali tra i

nostri territori e che ha avuto come sigillo, tra gli altri, la firma di pittori del calibro di Tiziano

e Rubens, Tintoretto e Van Dyck, tutti artisti cresciuti in un contesto internazionale, pronti

ad affrontare lunghi viaggi attraverso l’Europa per incontrare e imparare da altri artisti,

ma anche pittori capaci di offrire il loro talento in uno scambio continuo di esperienze, di

confronti e conoscenze.

Il racconto, che si dipana con un bel ritmo narrativo nelle stanze dell’appartamento del

Doge, frutto della grande esperienza di Ben van Beneden direttore del Rubenshuis (Museo

della Casa di Rubens) di Anversa e curatore della mostra, si affida a confronti ed esempi

illustri di quanto avvenne nell’arte di ciascun Paese, mostrando al visitatore cosa volle dire

la contaminazione tra i rispettivi stili e le diverse tecniche e dando spiegazione non solo di

fatti pittorici, forse più noti, ma anche di importanti scambi e suggestioni nel campo delle

arti applicate, il vetro in primis.

Il racconto è anche storia del collezionismo, pubblico e privato, che nei secoli arricchì

con veri e propri capolavori le raccolte fiamminghe, dove oggi possiamo ammirare dipinti

rinascimentali superbi come la pala votiva eseguita da Tiziano Jacopo Pesaro presentato a San

Pietro da papa Alessandro VI, presente in mostra. Ma anche per l’Italia la fascinazione per la

pittura di dettaglio della tradizione nordica non fu da meno e a Venezia ne sono testimonianza

molti inventari patrimoniali di facoltose famiglie nobili in cui si registra, soprattutto dalla

metà del XVI secolo, l’affermarsi di un gusto sempre più diffuso per la pittura olandese e

fiamminga. Ne tennero conto perfino Tiziano e Tintoretto che, per non perdere il primato

in patria, presero a bottega apprendisti e assistenti che venivano dal nord. Certo per lo più

furono artisti anonimi e di cui non è rimasta documentazione precisa, ma su alcuni nomi

illustri come Lambert Sustris, Paolo Fiammingo e Frans Floris per ricordarne solo alcuni,

10


ancora si indaga per accertarne la sicura presenza nell’atelier di Tintoretto. Perfino il più

grande fiammingo del XVII secolo, Peter Paul Rubens, nel suo lungo soggiorno italiano si

confrontò con la pittura veneziana e, se in gioventù guardò all’esempio di Tiziano, nella piena

maturità fini per preferire Tintoretto, ovviamente con tutti i distinguo del caso, considerata

l’eccezionale statura artistica di Rubens. Pittori in cerca d’ispirazione e di contatti per

progredire nella propria arte, semplici apprendisti e assistenti abilitati presso gli atelier dei

grandi maestri, cultori dell’arte e collezionisti di razza, tanti furono i viaggiatori sulle tracce

della bellezza che percorsero da nord a sud e viceversa tutta l’Europa in una straordinaria

osmosi di culture pensieri e civiltà, che oggi potrebbe anche sembrare appartenere ad un

mondo scomparso se non fosse in noi ancora forte la convinzione che l’arte rimanga sempre

lo strumento più efficace per riunire in amicizia i popoli.

La mia più sincera gratitudine va a Marnix Neerman senza il cui aiuto questa mostra

non si sarebbe potuta realizzare. Un collezionista dal gusto raffinato che crede, come noi, che

la bellezza possa cambiare il mondo e gli uomini, e che con grande generosità ha condiviso

con la Fondazione Musei Civici di Venezia parte della sua preziosissima collezione, messa

a disposizione di tutti coloro che visitano Palazzo Ducale e entrano in queste straordinarie

stanze piene di storia, testimonianza del talento e della passione di quanti, artisti e cultori

d’arte, hanno fatto grande Venezia.

Gabriella Belli

Direttore Fondazione Musei Civici di Venezia

11



La pittura e le arti

ad Anversa, 1500-1650

Ben van Beneden

Jan van Hemessen,

Doppio ritratto di marito e moglie

mentre giocano a tavola reale.

The Phoebus Foundation

(dettaglio)

Situata strategicamente sull’estuario della Schelda, Anversa prosperò e fiorì come mai

prima d’allora all’inizio del XVI secolo. Nel giro di pochi decenni la città portuale divenne

un’importante metropoli commerciale, una superpotenza alla pari di Genova e Venezia, e il

centro artistico più prestigioso a nord delle Alpi.1 Entro la prima metà del secolo, era già tanto

famosa che Lodovico Guicciardini, un mercante fiorentino stabilitosi proprio ad Anversa,

la definiva nella sua Descrittione di tutti i Paesi Bassi come «la preclara et famosa città, la bella,

la nobilissima et amplissima città» (cat. 12).

La crescita fulminea della città sulla Schelda agì come un richiamo irresistibile, non

solo per i mercanti, ma anche per i pittori e altri artigiani altamente qualificati. Anversa

divenne il polo d’attrazione nei Paesi Bassi per giovani artisti ambiziosi che volevano stare

al passo con le ultime tendenze artistiche. Gli abitanti di questo centro cosmopolita avevano

la possibilità di apprezzare le stampe e i cibi prelibati italiani che riempivano i bastimenti

provenienti da Venezia, allora il porto principale per l’Oriente. Nel viaggio di ritorno, quegli

stessi bastimenti trasportavano i tesori del nord: splendide stoffe e dipinti. Molti degli artisti

che vivevano e lavoravano ad Anversa nel XVI secolo non erano originari del luogo. Alcuni,

come Jan Gossaert (conosciuto anche come Mabuse, dalla sua città natale, Maubeuge) e Lucas

van Leyden (di Leida), furono attivi in città per un periodo limitato di tempo.2 Altri – come

Anthonis Mor (o Antonio Moro, di Utrecht) e Hans Vredeman de Vries (originario della

Frisia) – trascorsero la vita in giro per l’Europa alla ricerca di nuovi stimoli artistici, ma la

città sulla Schelda restò sempre la loro base. La situazione, negli stessi anni, era identica

anche a Venezia: Carpaccio doveva il suo appellattivo alla regione montuosa dei Carpazi, da

dove arrivava la sua famiglia; Giorgione era nato a Castelfranco, nell’Italia settentrionale,

e Tiziano a Pieve di Cadore. In questo contesto è il caso di ricordare che Albrecht Dürer, dopo

aver visitato Venezia nel 1494 e nel 1505, fece un viaggio ad Anversa nel 1520, e le massime

autorità cittadine fecero tutto il possibile per non farlo andare via: «mi si prostrarono ai

piedi», scrisse Dürer nel suo diario.

La notevole concentrazione di artisti di primo piano diede una spinta al rinnovamento

e accelerò il fiorire di nuovi approcci artistici. Pittori innovativi arrivarono ad Anversa in

13


Fig. 1 Quinten Massys, Compianto sul Cristo morto. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA)

cerca di nuove opportunità e intrapresero lo studio degli esempi italiani. Le loro composizioni

diventarono più armoniose, le figure più naturali dal punto di vista anatomico. Fecero la loro

comparsa elementi dell’architettura classica e motivi ornamentali ispirati all’arte del Bel

Paese. La competizione sfrenata tra i pittori della città favorì senza dubbio la specializzazione.

Molto di quel che più tardi fu etichettato come “tipicamente olandese” – paesaggi realistici,

nature morte e scene di vita quotidiana – ebbe origine proprio ad Anversa. L’ampiezza della

domanda portò a una vasta produzione, diversificata per qualità: i dipinti, realizzati in

numero sempre crescente, andavano dalle commissioni più costose agli articoli prodotti in

serie, destinati sia al mercato domestico che all’esportazione in Italia, Spagna e Sud America.3

Si inziarono a sfornare in gran quantità copie di opere di maestri famosi.4 Ma oltre ai grandi

artisti, ad Anversa erano di casa anche una miriade di pittori minori, o addirittura anonimi,

sebbene altamente qualificati.5

Quinten Massys (1456 o 1466-1530) – originario di Lovanio, dove si formò probabilmente

presso Dirk Bouts − fu il primo artista famoso della città.6 Insieme al suo contemporaneo Joos

van Cleve (1485 ca.-1540 ca.)7 gettò un ponte fra la tradizione tardomedievale e il Rinascimento

del XVI secolo. Sotto molti punti di vista, Massys esemplificava il nuovo periodo artistico.

Sebbene dipingesse principalmente opere religiose (fig. 1), si cimentò anche in scene morali

e vivaci ritratti, che attestano un nuovo modo di guardare alla natura umana. Soprattutto

nella descrizione delle mani, che spesso parlano un linguaggio dei segni umanista, retorico,

Massys introdusse movimenti naturali, e fu anche uno dei primi a prestare attenzione

alla caratterizzazione dei suoi modelli. Nel 1517 eseguì il primo ritratto di Erasmo di cui

14

ben van beneden


Fig. 2 Jan van Hemessen, Doppio ritratto di marito e moglie mentre giocano a tavola reale.

The Phoebus Foundation

si abbia notizia.8 Di Massys oggi conosciamo

anche diversi tronies, che riflettono la sua familiarità

con i tipi umani abbozzati da Leonardo da

Vinci, con il quale condivideva evidentemente

l’interesse rinascimentale per la fisiognomica.

Una dimostrazione della sua fama sono le copie

tratte dalle sue opere, eseguite tra gli altri anche

da Rubens.9 Oltre a Massys e Van Cleve, altri due

pittori di soggetti storici contribuirono a definire

il panorama artistico di Anversa nella prima

metà del XVI secolo: Pieter Coecke van Aelst

(1502-1550) e Jan van Hemessen (1500 ca.-post

1575).10 Originario di Aalst, Coecke era un homo universalis: pittore, architetto e disegnatore

di stampe, vetrate policrome e arazzi, anche se è forse più conosciuto come traduttore degli

scritti dell’architetto italiano Sebastiano Serlio. Con le sue traduzioni, Coecke contribuì

notevolmente a diffondere la conoscenza del Rinascimento nell’Europa settentrionale. Jan van

Hemessen, nativo di Hemiksem vicino ad Anversa,11 negli anni Venti del XVI secolo viaggiò

in Italia, dove prese confidenza con l’arte rinascimentale della penisola. Le sue opere più

significative raffiguravano episodi tratti dalla Bibbia, come quello del Figliol prodigo. Si tratta

di composizioni non convenzionali, con le figure vigorosamente modellate che riempiono

l’intero spazio pittorico, estremamente originali per il loro tempo (fig. 2).

Joachim Patinir (1480 ca.-1524) e Herri met de Bles (1510 ca.-post 1555?), entrambi di

Dinant, furono i primi artisti a specializzarsi ad Anversa – e nei Paesi Bassi – nella pittura

paesaggistica.12 Produssero in genere vedute dall’alto di paesaggi immaginari dai colori brillanti,

che servivano come scenari per racconti biblici (fig. 3). Patinir ricorse spesso all’aiuto

di pittori come Massys e Van Cleve per aggiungere le figure nei suoi panorami. L’artista di

Amsterdam Pieter Aertsen (1508 ca.-1575) si assicurò una fetta del mercato di Anversa con

le sue scene di contadini, che precedono quelle di Pieter Bruegel; inoltre, i suoi mercati e le

sue cucine, presentati come ambientazioni bibliche, gettarono le fondamenta per il genere

della natura morta.13 Nel 1555 o nel 1556 Aertsen tornò nella sua città natale, ma Joachim

Beuckelaer (1533 ca.-1575), suo cugino più giovane oltreché allievo, con clienti nell’Italia del

nord, continuò lungo il sentiero da lui tracciato.14 Hans Vredeman de Vries (1526-1609) si

dedicò alle sperimentazioni prospettiche e fu il primo a specializzarsi nelle “prospettive”,

altro nome dato all’epoca alla pittura d’architettura.15

La pittura e le arti

15


Fig. 3 Joachim Patinir, Paesaggio con la fuga in Egitto. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA)

16


Fig. 4 Frans Floris, Il banchetto degli dei. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA)

A metà del XVI secolo, Frans Floris (1519/20-1570) era l’esponente di maggior successo

della pittura storica anversese.16 Di ritorno dal suo viaggio in Italia, fece scalpore con i suoi

dipinti dall’impostazione vigorosa, dove incorporava le conquiste più recenti dei colleghi

italiani. Ad Anversa faceva parte della Gilda dei Romanisti, un circolo esclusivo al cui

interno gli artisti viaggiatori dei Paesi Bassi meridionali si scambiavano informazioni sui

nuovi pittori romani e i loro dipinti, e sulle sculture antiche recentemente riscoperte. Floris

fu anche il primo ad introdurre temi mitologici nella pittura anversese (fig. 4). Come il suo

maestro Lambert Lombard (1505/6-1566), si definiva un pictor doctus, in possesso di una vasta

cultura umanistica. Anche i contemporenei di Floris, Anthonis Mor (1519-1576), Willem Key

(1516-1568) e Adriaen Thomasz Key (1545 ca.-1589 ca.)17 (cat. 2), si erano formati nel solco della

pittura storica, ma erano conosciuti soprattutto per i loro eccellenti ritratti. Willem Key e

Mor furono tra i primi artisti ad Anversa a specializzarsi esclusivamente nella ritrattistica

(cat. 1).18 In ogni caso il vero successore di Floris fu Maerten de Vos (1532-1603). Dopo aver

trascorso lunghi periodi a Roma e a Venezia negli anni Cinquanta del XVI secolo, De Vos fece

ritorno ad Anversa, dove in breve tempo si costruì una solida fama come pittore di soggetti

storici e ideatore di stampe (catt. 3-5, 7-11).

Il più grande talento artistico del Cinquecento nei Paesi Bassi meridionali fu senza dubbio

Pieter Bruegel (1525 ca.-1569), un artista rimasto impresso nella percezione collettiva grazie ai

suoi innumerevoli (e infinitamente copiati) matrimoni contadini, feste campestri, paesaggi

La pittura e le arti

17


Fig. 5 Pieter Bruegel, Margherita la pazza. Anversa, Museo Mayer van den Bergh

invernali e scene di bambini che giocano. Formatosi ad Anversa, Bruegel si iscrisse alla Gilda

dei Pittori nel 1551. L’anno dopo partì per l’Italia e si fermò per un periodo a Roma. Un disegno

con una veduta di Reggio Calabria attesta che si spinse fino all’estremità dello stivale. Il valico

delle Alpi dovette lasciargli una profonda impressione, perché questo panorama montano

torna più volte nei suoi paesaggi, sia disegnati che dipinti, e in entrambi compaiono spesso

delle figurine collocate sullo sfondo per enfatizzare la grandiosità della natura. Dopo il suo

ritorno ad Anversa nel 1555, Bruegel realizzò diversi progetti per incisioni a tema biblico,

allegorico, morale o satirico, poi pubblicate dal famoso editore Hieronymus Cock. Dal 1563,

l’anno in cui si trasferì a Bruxelles, fino alla sua morte nel 1569, si dedicò quasi completamente

alla pittura, e fu in quel periodo che produsse le sue opere più famose, compresa De Dulle

Griet (Margherita la pazza) (fig. 5).

Passando alle commesse per opere scultoree, ad Anversa tutti gli occhi erano puntati

su Cornelis II Floris (1514 ca.-1575), un artista versatile con una propensione internazionale

che, come suo fratello Frans Floris, aveva lavorato in Italia. Cornelis II Floris non era solo

uno scultore e uno stampatore, ma anche un architetto, i cui progetti includono quello per

18

ben van beneden


il Municipio di Anversa. Insieme a Pieter Coecke van Aelst, contribuì in maniera sostanziale

a introdurre lo stile del Rinascimento italiano. Un’altra personalità artistica ugualmente

affascinante fu quella di Willem van den Broecke (1530-1580), che si autodefiniva un “Paludanus”

per sottolineare la sua erudizione e il suo interesse umanistico per l’antichità classica.

Sebbene si sappia poco della sua vita e della sua carriera, sembra che fosse specializzato in

piccole sculture in alabastro, terracotta, bronzo e cera, destinate a studioli privati.19

La produzione artistica di Anversa nel XVI secolo sfoggiava una straordinaria varietà

tematica e stilistica, e non è quindi facile definire il carattere “locale” dell’arte di questo

periodo storico. Solo nel XVII secolo – il secolo di Rubens e di Van Dyck – la produzione

anversese iniziò a mostrare una maggiore omogeneità, anche se la città non sviluppò mai

un suo stile peculiare vero e proprio.20

Quando nel 1585 si arrese alla Spagna, Anversa, da calvinista che era, fu trasformata

nel giro di una notte in un centro del Cattolicesimo. Alla fine fu costretta a cedere il suo

primato economico ad Amsterdam, che grazie al commercio con l’Asia era diventata la

città più ricca d’Europa. L’esodo di massa da Anversa riguardò innumerevoli imprenditori,

professionisti dall’educazione raffinata ed esperti artigiani; anche molti giovani pittori si

trasferirono più a nord per evitare le persecuzioni religiose. Alcuni artisti, come Pauwels

Franck (Paolo Fiammingo, 1540/4 ca.-1605) e Lodewijk Toeput (Ludovico Pozzoserrato, 1550

ca.-1605), presero la strada del sud, per il Veneto, e altri, come i fratelli Matthijs (1550 ca.-1583) e

Paul Bril (1553-1602), cercarono impiego a Roma, dove contribuirono in maniera significativa

al precoce sviluppo del panorama romano. Nonostante questa emorragia di giovani talenti,

però, il commercio internazionale di Anversa, la sua prosperità e la sua cultura artistica

non finirono in maniera improvvisa e brutale. Anzi, non solo la pittura in città conservò la

sua esuberanza e la sua considerevole qualità, ma – in parte grazie a pittori brillanti come

Rubens e Van Dyck – ci fu un nuovo periodo di grande vitalità artistica.

È innegabile comunque che il declino di Anversa abbia segnato l’inizio involontario di una

divisione tra i due Paesi Bassi, non solo da un punto di vista religioso e politico, ma anche per

quanto riguarda le arti. Nei Paesi Bassi meridionali, la Chiesa della Controriforma, la corte

di Bruxelles, la nobiltà e la ricca borghesia garantirono un flusso costante di commesse.21

Sotto questo aspetto, la situazione era molto diversa da quella dei Paesi Bassi settentrionali,

dove la Chiesa e la Corte (ad eccezione di quella dello statolder Federico Enrico, principe

d’Orange e conte di Nassau) cessarono completamente le commissioni di opere d’arte. In

Olanda anche i borghesi smisero di richiedere ampie scene bibliche e mitologiche, preferendo

invece soggetti quotidiani.22 I pittori dei Paesi Bassi settentrionali andarono verso una

crescente specializzazione e la loro arte acquisì un ben definito carattere nazionale. Al sud,

La pittura e le arti 19



Fig. 6 Peter Paul Rubens, La deposizione dalla Croce. Anversa, Cattedrale di Nostra Signora

invece, l’arte conservò un orientamento più internazionale, e i dipinti a soggetto storico

dominarono la scena.

Il ritorno di Peter Paul Rubens (1577-1640) ad Anversa nel 1608, dopo otto anni estremamente

produttivi trascorsi in Italia, dove aveva suscitato un grande interesse, segnò

una svolta decisiva nella vita artistica della città. Sotto il suo energico influsso, molti artisti

iniziarono a dipingere con uno stile potente ed estremamente dinamico. Rubens eccelleva in

tutte le categorie: accanto alle scene bibliche (fig. 6), mitologiche e storiche, il suo repertorio

includeva ritratti, paesaggi, dipinti di animali e nature morte. In più, realizzava disegni per

frontespizi (catt. 27-28), arazzi (cat. 57) e sculture. Ma era molto di più che un brillante pittore.

Rubens era il pictor doctus per eccellenza, un artista erudito che spaziava in maniera disinvolta

dalla cultura antica all’arte contemporanea, si immergeva nella storia, ancorava il passato

al presente. Tra le qualità più notevoli, aveva senza dubbio una capacità impareggiabile di

adattarsi all’opera di altri e farla propria: i suoi dipinti sono pervasi dalla presenza dell’arte

venerata degli antichi e da quella dei grandi predecessori e contemporanei italiani.23 Per

eseguire le tante commesse che gli venivano affidate, Rubens dirigeva uno studio ampio e

indaffarato, la cui struttura organizzativa seguiva il modello delle botteghe italiane, dove

una mole enorme di lavoro veniva sbrigata con l’aiuto di numerosi assistenti.24 In Italia,

e in particolare a Venezia, Rubens deve aver fatto un’esperienza approfondita del modo

in cui alcuni suoi colleghi preparavano i loro affreschi e le pale d’altare con l’aiuto di studi

preparatori, che in alcune occasioni potevano anche mostrare ai committenti per dar loro

un’idea del lavoro finito. Pare che l’abitudine di dipingere bozzetti o modelli in preparazione

di un’opera, per istruire gli assistenti e come esempio da mostrare ai committenti, fosse più

La pittura e le arti 21


Fig. 7 Adriaen van Utrecht, Natura morta con verdure. Anversa, Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens

diffusa a Venezia che altrove. Rubens adottò questa pratica e divenne il primo pittore a fare

un uso sistematico di bozzetti a olio come parte integrante del processo creativo (catt. 21,

23, 25, 30). La sua fascinazione per gli studi preparatori eseguiti dai colleghi italiani risulta

evidente anche dalla sua abitudine di dipingere studi di teste,25 un metodo di lavoro che fu

presto adottato anche da Anthony van Dyck (fig. 8).

Ad Anversa lo studio di Rubens aveva un ruolo di spicco, e il suo predominio artistico e

sociale nei Paesi Bassi meridionali superò abbondantemente quello di Rembrandt, il suo pari

olandese. Le tracce dell’influsso rubensiano si trovano ovunque, non solo nei dipinti storici,

ma anche nelle nature morte e nelle scene di caccia. L’opera del talentuoso Frans Snijders

(1579-1657), pittore animalista e di nature morte, riflette chiaramente questa supremazia.26

Oltre ad ambiziose composizioni di frutta, ortaggi e trofei di caccia (cat. 87), dipinte spesso con

dinamismo barocco, Snijders eseguì scene di animali, di cucine e di mercati, soprattutto del

pesce, sia come opere a sé stanti che in serie.27 Su di li lui fu molto forte l’influsso di Rubens,

con il quale collaborò frequentemente a partire dal 1609;28 la sua reputazione era poi così

consolidata da permettergli di fare affidamento sulla collaborazione di influenti pittori di

soggetti storici di Anversa, anche se eseguì di persona alcune delle figure nei suoi dipinti.

Come Snijders, anche Adriaen van Utrecht (1599-1652) dipinse imponenti nature morte,

dispense di selvaggina e scene ambientate al mercato, anche se la sua opera è meno compiuta.

Seguendo le orme di una lunga serie di pittori olandesi, tra cui anche il suo influente collega

Snijders, Van Utrecht viaggiò in Italia agli inizi degli anni Venti del Seicento, dove pare sia

rimasto affascinato da Caravaggio e dal suo potente chiaroscuro (fig. 7). Attratto dall’opera

Fig. 8 Anthony van Dyck,

L’apostolo Matteo. Anversa,

Fondazione Re Badovino,

in prestito al Museo della Casa

di Rubens

22

ben van beneden



Fig. 9 Peter Paul Rubens, La caccia al leone. Londra, The National Gallery

pregevole di colleghi come Frans Snijders, che mantenne un contatto stretto con Rubens e

realizzò dipinti differenti da quelli che si producevano in Olanda, anche Jan Davidsz de Heem,

originario di Leida, si trasferì ad Anversa. Al suo ritorno in Olanda fu uno degli iniziatori

dei “Trionfi di natura morta” (cat. 88).29

Rubens dipinse trenta scene di caccia, molte delle quali gli furono commissionate da

sovrani e aristocratici come Filippo IV di Spagna e dalla coppia arciducale formata da Alberto

e Isabella. In questo genere pittorico si dimostrò un innovatore di primo piano, perché raffigurò

la caccia come una battaglia eroica tra uomo e animale (fig. 9).30 Aveva anche un talento

fuori dal comune nel descrivere il senso di aggressione e la paura nelle prede: molte delle sue

scene sono splendidi saggi di psicologia animale. Per alcuni di questi quadri, Rubens si fece

aiutare da pittori specializzati nella raffigurazione degli animali, come Snijders e il cognato

di quest’ultimo, Paul de Vos (1595-1678). A loro volta questi artisti adottarono il suo metodo

rappresentativo estremamente vivace nelle loro scene di caccia (cat. 60).

Rubens ebbe anche un ruolo guida nello sviluppo della pittura paesaggistica fiamminga.

Negli anni Trenta del XVII secolo, ispirato dalla bellezza dei dintorni della sua casa di campagna,

la “Het Steen” (La rocca), vicino a Mechelen, dipinse alcune impressioni atmosferiche

molto originali, che sembrano quasi anticipare le vedute romantiche dei grandi paesaggisti

inglesi John Constable e William Turner.31 Pochi artisti nel Seicento emularono i suoi

panorami del Brabante. Diversamente dai Paesi Bassi settentrionali, Anversa non partorì

24

ben van beneden


Fig. 10 Anthony van Dyck, Autoritratto. Anversa, Museo della Casa di Rubens

mai grandi maestri del paesaggio, a eccezione dello stesso

Rubens e, in misura minore, di Jan Wildens (1583/86-1653),

che con lui collaborò spesso.32

L’erede più famoso di Rubens – e sicuramente quello

con più talento – fu Anthony van Dyck (1599-1641), un enfant

prodige che eseguì una quantità di straordinari autoritratti

ancor prima di potersi definire pittore (fig. 10).33 Ad Anversa

divenne il primo vero rivale di Rubens, anche se per qualche

tempo rimase nella sfera d’influenza di quest’ultimo. Più

tardi, una volta che si fu imposto come pittore indipendente

a Genova, e dal 1632 come pittore di corte di Carlo I a Londra,

Van Dyck si rivelò un eccellente ritrattista con acute

capacità empatiche e una tecnica brillante che non aveva

niente da invidiare a quella di Velázquez (cat. 44).34 Anche

se ad Anversa visse all’ombra dell’intoccabile Rubens, i suoi

dipinti storici, così come i suoi ritratti, divennero una fonte

d’ispirazione importantissima per altri artisti.35

Van Dyck non era l’unico ritrattista di talento ad Anversa.

Prima di lui Rubens si era già fatto un nome (cat. 52) in questo campo. In cima alle preferenze

dei cittadini anversesi dai gusti più conservatori (e con minori disponibilità economiche)

c’era Cornelis de Vos (1584-1651), un prolifico pittore di soggetti storici che fece una rapida

carriera nella ritrattistica.36 Ad Anversa e nei Paesi Bassi meridionali era l’unico artista

specializzato in ritratti di bambini, un genere nel quale eccelleva.37 A metà del XVII secolo,

l’élite cittadina scelse invece come suo ritrattista Gonzales Coques (1614/18-1684),38 uno dei

pochi artisti di Anversa specializzato esclusivamente in questo genere e autore soprattutto di

quadri di piccole dimensioni, in genere ambientati in un giardino, in un paesaggio naturale

o su una terrazza.39 Coques fu inoltre uno dei due artisti – insieme a Philip Fruytiers (1610-

1660) – ad aprire la via alla “scena di conversazione”, un ritratto di gruppo informale nel

quale i protagonisti interagiscono tra loro.

Nonostante la supremazia di giganti come Rubens e Van Dyck, la pittura del XVII secolo

ad Anversa mostra una sorprendente varietà. Molti pittori di temi storici riuscirono a farsi

strada tra i due maestri, preservando allo stesso tempo uno stile individuale, che nasceva in

parte dalla loro personalità come artisti e in parte dall’ispirazione che qualcuno di loro aveva

trovato in Italia. È il caso soprattutto di Jacques Jordaens (1593-1678), l’artista più importante

di Anversa dopo la morte di Rubens e Van Dyck (catt. 38, 55),40 ma anche di Abraham

La pittura e le arti

25


Fig. 11 Abraham Janssens, Il fiume Schelda e la città di Anversa. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA)

Janssens (1575 ca.-1632) (fig. 11), Gerard Seghers (1591-1651),41 Cornelis Schut (1597-1655),42 e

Erasmus II Quellinus (1607-1678).43 Le opere prodotte ad Anversa non si limitavano, però,

ai grandiosi dipinti storici. Altri maestri – in particolare, per esempio, Hendrick van Balen

(1575-1632) e Frans II Francken (1581-1642) – realizzarono scene storiche alla maniera italiana

e allegorie in formati molto più piccoli,44 e di tanto in tanto Francken si cimentò anche nella

realizzazione di imponenti pale d’altare. Gli capitò di frequente, inoltre, di aggiungere piccole

figure negli interni o nei paesaggi eseguiti da altri maestri. La sua principale innovazione

restano i dipinti raffiguranti gallerie di opere d’arte (cat. 82), il cui esempio più antico finora

conosciuto risale al 1612.45

Jan I Brueghel (1568-1625), il figlio minore di Pieter Bruegel, si dedicò soprattutto a

panorami di piccole dimensioni, che possono essere considerati i diretti precursori del

puro paesaggio olandese, e fu anche un pioniere della natura morta floreale, un genere a cui

diede un notevole contributo in uno stadio iniziale.46 Nel solco della tradizione fiamminga,

Bruegel applicava strati opachi di colore con movimenti minimi del pennello per ottenere

immagini straordinariamente dettagliate. Difficile immaginare un contrasto più grande con

26

ben van beneden


l’opera del suo amico Rubens. Le nature morte in trompe l’œil, con ghirlande di fiori intorno

a un rilievo di pietra, erano il marchio di fabbrica di Daniël Seghers (1590-1661), un artista

gesuita che aveva imparato il mestiere da Jan I Brueghel. Come il maestro, anche Seghers si

affidava spesso a pittori di figure per corredare le sue scene. A questo riguardo, gli esempi

più famosi di collaborazione tra artisti sono i dipinti realizzati insieme da Jan I Brueghel e

da Rubens, ma anche altri maestri lavorarono spesso allo stesso modo (cat. 40).47 Motivati

dall’amicizia, dal reciproco rispetto e da una consumata abilità, Rubens e Brueghel – i cui

talenti avevano poco in comune – collaborarono a circa venticinque dipinti tra il 1598 e il

1625. La divisione del lavoro era netta: Brueghel dipingeva il paesaggio, la flora e la fauna,

mentre Rubens era responsabile per le figure. Per i contemporanei, l’esecuzione a due mani

rendeva questi capolavori speciali, e di conseguenza ancora più appetibili.

Una pittrice contemporanea di Brueghel, Clara Peeters (attiva dal 1607), introdusse ad

Anversa e nei Paesi Bassi la natura morta di soli pesci (catt. 85, 86), un genere che in città

aveva il suo esponente più prolifico in Alexander Adriaenssen (1587-1661), anche se in realtà

nella maggior parte delle sue composizioni i pesci sono raffigurati in mezzo ad altri oggetti,

per esempio i trofei di caccia48 (e spesso compare anche un gatto che si avvicina furtivo per

rubare un po’ di cibo). Joannes (Jan) Fyt (1611-1661), che aveva un tocco da maestro nel rendere

le superfici, si dedicò soprattutto alle nature morte con trofei di caccia di varie dimensioni

e formati. Come Adriaenssen, ravvivava le sue composizioni aggiungendo un gatto che

occhieggiava le prede, o un cane da caccia intento a fare la guardia. Un altro specialista

della natura morta fu Cornelis Mahu (1613-1689), le cui preferenze andavano alle ontbijtjes

(colazioni) sobriamente apparecchiate e ai banketjes (banchetti) nello stile di artisti olandesi

come Pieter Claesz e Willem Claesz Heda (fig. 12).49

Anche l’opera di Adriaen Brouwer (1605/06-1638) si può dire abbia avuto origine in

Olanda.50 Brouwer, che era nato a Oudenaarde, all’inizio dipingeva a Haarlem le sue scene

ambientate in taverne fumose, con rozzi villani che bevevano e si azzuffavano, ma poi portò

il suo stile olandese ad Anversa, dove si stabilì nel 1631 (cat. 75). In un primo momento il suo

allievo Joos van Craesbeeck (1606-1660 ca.) e David II Teniers (1610-1690) seguirono il suo

esempio, ma in seguito il secondo cambiò il proprio modo di vedere la vita contadina e le

sue scene diventarono meno severe, a volte assunsero perfino un tono affettuoso (cat. 76).

Più avanti Teniers assegnò più spazio al paesaggio.51 Nel 1650 divenne pittore di corte per

l’arciduca Leopoldo Guglielmo a Bruxelles, dove, tra il 1651 e il 1653, dipinse una decina di

composizioni che raffiguravano la collezione d’arte del reggente, nella quale spiccavano

La pittura e le arti 27


Fig. 12 Cornelis Mahu, Natura morta con ostriche. Anversa, Museo Mayer van den Bergh

soprattutto capolavori veneziani del XVI secolo, accanto a dipinti di maestri fiamminghi

contemporanei come Rubens e Van Dyck.52

Ad Anversa, Theodoor Rombouts (1597-1637) (cat. 80), Adam de Coster (1585/86-1643)

e Gerard Seghers erano gli esponenti di spicco del Caravaggismo, che godette di una breve

ondata di popolarità in tutta Europa, in particolare nella città olandese di Utrecht.53 Questi

pittori, ciascuno dei quali aveva soggiornato a Roma, traevano ispirazione dall’opera originale

di Caravaggio e del suo principale seguace, Bartolomeo Manfredi. Le composizioni di Caravaggio,

con le figure che riempivano completamete il quadro, sfidavano le convenzioni e i suoi

dipinti brillavano e splendevano di colore. Il maestro italiano infondeva forza drammatica

nei suoi dipinti attraverso spettacolari effetti di luce e un chiaroscuro tagliente: tecniche e

intuizioni poi sperimentate dai caravaggisti nelle loro opere. Seghers e De Coster, per esempio,

si concentrarono completamente sui cosiddetti notturni. Queste scene – a tematica religiosa

o con soggetti di genere – erano a tal punto considerate una specialità a parte che De Coster

finì per essere chiamato pictor noctium (cat. 79). Come Artemisia Gentileschi, Borgianni e

Ribera in Italia, e Vouet e Valentin de Boulogne in Francia, tutti questi pittori di Anversa

avevano preso “qualcosa” da Caravaggio, ma ciascuno qualcosa di diverso. Un dato di fatto

28

ben van beneden


Fig. 13 Willem van Haecht, La galleria di Cornelis van der Geest. Anversa, Museo della Casa di Rubens

ben evidente nell’opera di Jan Cossiers (1600-1671), pittore e disegnatore talentuoso che

produsse alcune scene caravaggesche, oltre a dipinti storici e ritratti (cat. 81).

Una categoria a parte spetta ai grandi ritratti moraleggianti di vita borghese di Jacques

Jordaens, i più famosi dei quali erano le scene dell’Epifania (“Il re ubriaco”) e la sua versione

di “Mentre il vecchio canta, il giovane suona”, un proverbio che aveva tratto dagli scritti di

Jacob Cats,54 un autore di successo dei Paesi Bassi settentrionali. In alcuni generi, come le

vedute marine e le architetture, Anversa non raggiunse mai l’eccellenza che caratterizzò

invece i Paesi Bassi Settentrionali. Gli scorci degli interni di chiese realizzati verso il 1650 a

Delft da Gerard Houckgeest ed Emanuel de Witte, con il loro incredibile senso della luce e

dello spazio, non sembrano aver avuto effetto sui pittori di architetture di Anversa. Nella

città belga non c’era niente di paragonabile alla semplicità degli interni con una o più figure

dipinti in Olanda da Pieter de Hooch e Johannes Vermeer. Nella pittura anversese del XVII

secolo non trovavano posto nemmeno i paesaggisti imitatori degli italiani, attratti soprattutto

dalla calda luce dorata del sud. Un genere, tuttavia, era quasi esclusivo di Anversa: le scene

ambientate nelle “stanze d’arte” o constcamer.55 In uno degli esempi più belli, La galleria di

Cornelis van der Geest, dipinto da Willem van Haecht (1593-1637) (fig. 14), il proprietario mostra

La pittura e le arti 29


Fig. 14 Willem van Haecht, La galleria di Cornelis van der Geest (dettaglio)

ai suoi distinti ospiti il pièce de resistance della sua collezione, la Madonna col Bambino di Quinten

Massys, mentre Rubens spiega l’opera del suo illustre predecessore (fig. 13).56 Tra i presenti

riconosciamo Anthony van Dyck e Frans Snijders: Anversa sapeva bene quali erano i suoi

pittori più brillanti, e il quadro regala un’immagine vivida della ricchezza e della straordinaria

versatilità della scuola pittorica anversese nel XVI e nel XVII secolo.

Fiorì anche la scultura, sebbene quest’arte nel suo insieme sia rimasta in secondo piano

rispetto alla pittura. La professione degli scultori era pesante, pericolosa, polverosa, e soprattutto

rumorosa, e le commissioni per le opere scultoree erano care. Sorprendentemente, gli

scultori fiamminghi più brillanti dell’epoca – Giambologna e François Du Quesnoy – trascorsero

quasi tutte le loro carriere in Italia. Giambologna o Giovanni da Bologna (1529-1608) si

chiamava in realtà Jehan de Boulogne, era nato a Douai in quelle che allora erano le Fiandre.57

Da giovane aveva soggiornato a Roma per studiare la famosa scultura rinascimentale e

l’antichità classica. Non tornò mai nella terra dov’era nato. Si stabilì invece a Firenze, dove

fece scalpore con le statue in marmo e in bronzo a grandezza naturale che creava per i palazzi

e le ville dei Medici. Di solito Giambologna realizzava modelli in legno o in pietra, invece

che di cera, più facile da modellare (fig. 15). Una piccola parte della sua produzione consiste

di bronzi di dimensioni ridotte, i più raffinati dei quali erano fusi dai suoi assistenti sotto

la sua supervisione. Queste opere mostrano, quindi, il virtuosismo sia dell’ideatore del

modello che del fonditore, ed erano molto ricercate dai collezionisti (fig. 14). Quando nel 1600

Rubens arrivò in Italia, Giambologna era ormai considerato il più celebre scultore vivente

d’Europa. Anche un suo collega di Bruxelles, François Du Quesnoy (1597-1643), trascorse la

parte più importante della sua carriera a Roma, che allora era il centro per eccellenza della

scultura barocca. Conosciuto come Francesco Fiammingo, Du Quesnoy era tra i migliori nella

sua professione, insieme al brillante scultore-architetto-pittore Gianlorenzo Bernini e ad

30

ben van beneden


Fig. 15 Giambologna, Giulio Cesare. Collezione privata

Alessandro Algardi. Du Quesnoy divenne famoso soprattutto per la giocosità e la tenerezza

che conferiva agli amorini paffuti che scolpiva nel marmo e nel bronzo (fig. 16).58

Ad Anversa nel campo della scultura dominavano artisti esperti come Robert (1570 ca.-

1636 ca.) e Andreas de Nole (1598-1638), Johannes van Mildert (1588-1638) e Hubrecht van

den Eynden (1594-1661/62 ca.), ciascuno dei quali collaborò occasionalmente con Rubens.

Tutti loro si concentrarono soprattutto su soggetti religiosi come sculture funerarie, pulpiti

e cibori,59 ma nel 1616-17 lo scultore di corte Van Mildert eseguì anche opere monumentali

per la decorazione scultorea della casa di Rubens, dove sopravvivono diversi busti e uno

splendido Satiro in terracotta di Servaes Cardon (1608-1649) (cat. 56). Dagli anni Venti del

XVII secolo, Rubens coordinava un gruppo di giovani scultori e intagliatori, che modellavano

statuine d’avorio da lui disegnate. Il pittore aveva un debole per questo materiale, spesso

associato al colore dell’incarnato umano. Alcuni degli esempi più belli di tali sculture sono

stati attribuiti al tedesco Georg Petel (1601/02-1634), uno scultore talentuoso che nell’avorio

sapeva intagliare di tutto (fig. 18).60 Come Petel, anche lo scultore-architetto di Mechelen

Lucas Faydherbe (1617-1697) modellò questo materiale, soprattutto su disegni di Rubens,

La pittura e le arti

31


Fig. 16 François Du Quesnoy, Sileno addormentato con putti. Anversa, Museo della Casa di Rubens

anche se ancora non si conosce esattamente il numero di piccole opere per studiolo da lui

realizzate. Faydherbe scolpì anche statue in marmo (cat. 43), e di lui ci restano inoltre dei

busti, incluso uno del pittore Gaspard de Crayer, così come splendide terracotte raffiguranti

temi mitologici (fig. 19). Il terzo giovane scultore protetto da Rubens fu Aert Quellien o

Artus I Quellinus (1609-1668), appartenente a una famiglia di artisti di Anversa. Dopo un

periodo passato a lavorare con il pittore, Quellien si recò a Roma, dove trovò un incarico

nello studio di François Du Quesnoy. Tornato ad Anversa, iniziò a farsi chiamare Artus

Quellinus e diventò lo scultore più importante della città. Oltre a servire i clienti anversesi,

Quellinus lavorò anche per committenti benestanti della Repubblica olandese. Tra il 1650 e

il 1665, per esempio, era il responsabile ad Amsterdam, insieme a dozzine di assistenti, di un

impressionante numero di sculture realizzate per le facciate e le sale di rappresentanza del

nuovo Municipio di piazza Dam (cat. 48), un progetto ambizioso di Jacob van Campen col

quale i reggenti di Amsterdam cercavano di misurarsi con la famosa Piazza San Marco di

Sansovino a Venezia. Le sculture realizzate per il Municipio di Amsterdam da Quellinus e

dal suo principale assistente, il fiammingo Rombout Verhulst (1624-1698), che si era formato

nello studio del maestro ad Amsterdam, possono competere con i migliori risultati artistici

dell’Europa del XVII secolo (fig. 17).

32

ben van beneden


Fig. 17 Artus Quellinus, Atlante.

Amsterdam, Municipio

Fig. 18 Georg Petel, Adamo ed

Eva. Anversa, Museo della Casa

di Rubens

Fig. 19 Lucas Faydherbe,

Ercole. Anversa, Fondazione

Re Baldovino, in prestito al

Museo della Casa di Rubens

La pittura e le arti

33


* Questa è una versione rivista e ampliata di Van Beneden

2011, qui ripubblicata per gentile concessione di Ermitage

Amsterdam.

1 Per un riepilogo recente, vedi Limberger 2001, pp. 39-62;

più in generale su Anversa come precoce metropoli moderna,

vedi Van der Stock 1993.

2 Per gli ultimi studi su Gossaert, vedi Ainsworth 2010,

pp. 9-29. Su Lucas van Leyden, vedi Vogelaar & Filedt Kok

2011.

3 Vermeylen 1999.

4 Sulla produzione di serie negli studi di Massys, Joos van

Cleve e Patinir, vedi Ewing 2007, pp. 81-95, 90-91.

5 Un’introduzione generale alla pittura dei Paesi Bassi nel XVII

si trova in Koldeweij, Hermesdorf & Huvenne 2006.

6 Silver 1984.

7 Su Van Cleve, vedi Hand 2004; Van den Brink 2011.

8 Su Massys ed Erasmo, vedi Van der Coelen et al. 2008.

9 Belkin 2009, I, pp. 234-238, n. 119, tav. 6; III, ill. 329.

10 Per Coecke van Aelst, vedi Cleland 2014. Per Van Hemessen,

vedi Wallen 1983.

11 Secondo Karel van Mander, biografo di Van Hemessen,

quest’ultimo si stabilì ad Haarlem dopo il 1550 per motivi

religiosi, ma non ci sono prove a riguardo (Van Mander 1604).

12 Su Patinir, vedi Vergara 2007.

13 Su Aertsen, vedi Lemmens 1989.

14 Su Beuckelaer, vedi Verbraeken et al. 1986.

15 Su Vredeman de Vries, vedi Borggrefe, Fusenig &

Uppenkamp 2002.

16 Van de Velde 1975; Wouk 2018.

17 Uno studio recente ha dimostrato che Adriaen non era

imparentato con Willem Key, ma da giovane si era formato

nella sua bottega, che continuò a mandare avanti alla morte

del maestro, assumendo anche il cognome di quest'ultimo;

see Jonckheere 2007.

18 Su Mor, vedi Woodall 2007.

19 Su Floris e Paludanus, vedi Woodall, Scholten & Kavaler 2017.

20 Balis 1993, p. 123.

21 Per un’indagine sull’arte nei Paesi Bassi meridionali durante

il XVII secolo, vedi Vlieghe 1998.

22 Per una pubblicazione recente sull’argomento, vedi Biesboer

2008. Samuel van Hoogstraten, allievo di Rembrandt e

biografo di artisti, si rammarica del fatto che dall’inizio

dell’iconoclastia nell’Olanda protestante fossero sparite le

migliori prospettive di carriera per i pittori, “vale a dire le

chiese”. Come risultato, la maggior parte dei pittori decise di

concentrarsi su “questioni minori, in alcuni casi, addirittura,

su vere e proprie facezie” come le nature morte; vedi

Hoogstraten 1678, p. 257.

23 Per il corpo di Cristo, Rubens utilizzò un disegno che aveva

realizzato a Roma nel 1605, sul modello di un’antica statua di

marmo raffigurante un Centauro e Cupido, che era stata da

poco riscoperta; vedi Jaffé 2005, nos 83-84 e Gruber et al. 2017.

24 Su Rubens e il suo studio, vedi Balis 2007, pp. 30-51.

25 Sui bozzetti a olio di Rubens, vedi Lammertse & Vergara

2018; sui suoi studi di teste, vedi Van Hout in corso di

pubblicazione.

26 Su Frans Snijders, vedi Koslow 1995.

27 Uno degli esempi più notevoli è un dipinto conservato

all’Ermitage (207 × 341 cm, inv. GE 604), che fa parte di una

serie di quattro scene di mercato rappresentanti i quattro

elementi.

28 Non solo Rubens ricorse all’aiuto di Snijders per dipingere le

figure nelle sue opere, ma realizzò anche dei bozzetti a olio

per composizioni con significativi dettagli di natura morta,

con l’intento che Snijders li eseguisse basandosi sui suoi

disegni.

29 Segal 1991.

30 Balis 1986.

31 Brown 1996.

32 Jan Siberechts (1627-1700) era un paesaggista dallo stile

assolutamente personale. Era considerato la controparte di

Aelbert Cuyp per quanto riguarda i Paesi Bassi meridionali;

vedi Vlieghe 1988, pp. 197-198.

33 Barnes et al. 2004.

34 Su Van Dyck ritrattista, vedi Alsteens & Eaker 2016.

35 Due indubitabili seguaci di Van Dyck furono Pieter Thys

(1624-1677) e Thomas Willeboirts Bosschaert (1613-1654),

che eseguirono innumerevoli opere a carattere mitologico,

allegorico e religioso per la corte della casata d’Orange a

L’Aia a partire dal 1641. Su Willeboirts Bosschaert e la corte a

L’Aia, vedi Van der Ploeg & Vermeeren 1998.

36 Van der Stighelen 1990.

37 Bedaux & Ekkart 2000.

34


38 Lisken-Pruss 2011.

39 Sorprende che ad Anversa i primi a realizzare ritratti

a grandezza naturale siano stati i pittori di soggetti

storici, i quali si avventurarono così, di tanto in tanto, in

un genere che era considerato meno prestigioso da una

teorica posizione di vantaggio artistico. Jan Boeckhorst

(1604-1668) eseguì occasionalmente ritratti, così come il

suo contemporaneo Theodoor van Thulden (1606-1669), e

Thomas Willeboirts Bosschaert e Pieter Thys, che erano

un po' più giovani. Il più dotato tra questi pittori storici

sconfinanti in altri generi fu senza dubbio Jan Cossiers

(1600-1671) (cat. 81), che aveva studiato con Cornelis de Vos,

e del quale ci restano alcuni ritratti straordinariamente

intensi che realizzò rendendo a modello i propri figli; vedi

Van der Stighelen 1990, pp. 144-47.

57 Su Giambologna, vedi Avery 1993; Seipel & Kryza Gersch

2006.

58 Boudon-Machuel 2005; Lingo 2007.

59 Sui progetti per sculture di Rubens, vedi Herremans 2019.

60 Sui progetti di Rubens per piccole sculture in avorio

e per oggetti decorativi, vedi Van Beneden in corso di

pubblicazione.

40 Per Jacques Jordaens, vedi d’Hulst, De Poorter & Vandenven

1993; Vander Auwera & Schaudies 2012. Sebbene Jordaens

fosse uno dei pochi pittori storici di Anversa a non aver mai

visitato l’Italia, aveva comunque familiarità con le opere

italiane grazie a Rubens e Van Dyck.

41 Van de Velde 1992.

42 Wilmers 1996.

43 De Bruyn 2014.

44 Per i dipinti storici di piccolo formato ad Anversa, vedi

Vlieghe 1998, pp. 105-114.

45 Filipczak 1987, pp. 62, 218, n. 19. Härting 1989, n. 455.

46 Ertz 2008-2010.

47 Collaborazioni di questo tipo tra due o più maestri

specializzati erano tipiche della scena di Anversa. Sulla

collaborazione tra Rubens e Brueghel, vedi Woollett & Van

Suchtelen 2006.

48 Su Adriaenssen, vedi Spiessens 1990.

49 Su Mahu, vedi Craft-Giepmans 2006, pp. 198-199.

50 Renger 1986; Lichtert 2017.

51 Su Teniers, vedi Vlieghe 2011.

52 Sulla collezione dell’arciduca, vedi il saggio recente di Haag

2014.

53 La pubblicazione di base sul Caravaggismo in Europa resta

Nicolson 1990; di più recente, vedi Ebert & Helmus 2018.

54 d’Hulst, De Poorter & Vandenven 1993.

55 Van Suchtelen & Van Beneden 2009.

56 Van Beneden 2009, p. 68.

La pittura e le arti

35



Il vetro veneziano nelle

nature morte fiamminghe

e olandesi del XVII secolo

Fred G. Meijer

La raffigurazione del vetro è una delle sfide più impegnative per un artista, e lo era ancora di

più nel XVII secolo per i pittori di nature morte che mettevano al centro della loro attenzione

gli oggetti che dipingevano. L’obiettivo principale di questi artisti era la somiglianza tra

l’immagine e l’oggetto rappresentato, cosa non sempre semplice da raggiungere, perché gli

oggetti di vetro, soprattutto se privi di colore, prendono forma sulla tela quasi esclusivamente

attraverso i riflessi della luce. Inoltre, dal momento che sono in gran parte trasparenti, non

è facile percepirli come solidi.

L’arte vetraria, con i suoi eleganti manufatti, poggiava su tecniche antiche e si sviluppò in

particolar modo nell’isola di Murano, dove soprattutto nel corso del XV e XVI secolo raggiunse

livelli degni di nota. Alcuni esemplari di vetri veneziani arrivarono presto nel nord Europa,

in particolare attraverso il porto di Anversa, e divennero beni di lusso per le classi più elevate.

Già intorno al 1535 alcuni maestri vetrai veneziani si trasferirono nelle città del nord – come

Anversa e Liegi – avviando botteghe dove iniziarono a riprodurre i modelli che avevano

imparato a forgiare in patria, conosciuti come vetri à la façon de Venise. Nel Seicento quasi

tutta l’industria vetraria si spostò da Anversa a Liegi e Bruxelles, periodo in cui la famiglia

Bonhomme di Liegi monopolizzò quasi tutta la produzione locale, non solo di bicchieri in

stile veneziano, ma anche di altri tipi molto usati come i römer verdi in Waldglas, tipici della

Germania. Manufatti quali bicchieri, bottiglie e vasi vitrei in stile veneziano compaiono

spesso rappresentati nelle nature morte del diciassettesimo secolo.

Osias Beert il Vecchio (1580 ca.-1623), iscritto nel 1602 come maestro nella Gilda di San

Luca ad Anversa, è stato nella prima decade del Seicento uno dei pionieri nel genere della

natura morta. Fu lui uno dei primi artisti a scegliere come soggetto un assortimento di oggetti

disposti su un tavolo. Di solito Beert dipingeva le sue nature morte su tavola o su lastre di rame

dal formato orizzontale; le firmava raramente e non le datava quasi mai. L’esempio in fig. 1 è

databile intorno al 1605-1610. La datazione relativamente antica del dipinto è avvalorata dal fatto

che la composizione sia inquadrata dall’alto. Nelle nature morte successive infatti, e non solo

in quelle di Beert, la prospettiva si abbassa mostrando solo una porzione del tavolo. In questo

37


Fig. 1 Osias i Beert, Natura morta con prelibatezze e bicchieri di vino. Collezione privata

dipinto, molto elaborato, l’artista dispiega un assortimento di prelibatezze culinarie: ostriche,

un pollo arrosto, dolci e frutta candita. Tra i vassoi di peltro che ostentano queste squisitezze,

spiccano degli splendidi goblet lavorati à la façon de Venise, che potrebbero, però, essere di manifattura

fiamminga. Bicchieri di questo tipo ricorrono con gran varietà in tutta l’opera di Beert.

David Rijckaert II (1589-1642), sebbene gran parte della sua opera sia stata più tardi

confusa con quella di Beert, suo contemporaneo più noto, fu un eccellente pittore di nature

morte, con una predilezione per la resa figurativa di vasellame metallico e di raffinati oggetti

in vetro. I brani di natura morta nel Sileno dormiente della Pinacoteca dell’Accademia di Belle

Arti di Vienna (fig. 2), dipinto insieme a Rubens, gli sono stati attribuiti solo di recente.1

La composizione include un clamoroso assortimento di bicchieri in stile veneziano, variegati

per forme per e dimensioni, assieme a diversi calici e perfino una tazza, ed è databile all’incirca

allo stesso periodo della piccola natura morta di Beert di collezione privata descritta

poc’anzi. I bicchieri dipinti da Rijckaert, però, ancor più di quelli di Beert, sono caratterizzati

da riflessi nitidi, brillanti sui profili esterni, mentre le loro forme sono definite soprattutto

dai contorni del vino bianco o rosso che contengono. Nell’opera di un altro genio precoce

della natura morta, Clara Peeters (attiva dal 1607 almeno fino al 1621) i bicchieri sono meno

abbondanti, sebbene nel suo primo dipinto conosciuto, datato 1607, se ne trovi uno in stile

veneziano, accanto a un römer tedesco in Waldglas verde (fig. 3). Nemmeno il grande maestro

Frans Snijders (1579-1657) attribuiva ai bicchieri un ruolo di spicco, però nei suoi quadri ne

compaiono regolarmente di diversi tipi, per esempio nella figura n. 87 del catalogo e in una

natura morta di frutta conservata presso il Museo Reale delle Belle Arti di Anversa (fig. 4).

38

Fred G. Meijer


Fig. 2 Peter Paul Rubens e David Rijckaert II, Sileno dormiente. Vienna, Accademia di Belle Arti

Fig. 3 Clara Peeters, Natura morta con bicchieri di vino, dolci e una candela. Collocazione ignota

Il vetro veneziano nelle nature morte fiamminghe e olandesi 39


Fig. 4 Frans Snijders, Natura morta con frutta e bicchieri. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti

Il genere principale della natura morta si differenziò presto in vari sottogeneri: nature

morte di fiori, di frutta, di banchetti, vanitas (ricche di simboli che ricordano allo spettatore la

caducità della vita), nature morte di selvaggina o di pesci, nature morte di cucine e di mercati.

Nelle composizioni di selvaggina o di pesci, i raffinati bicchieri da vino trovavano in genere

poco spazio, ma Alexander Adriaenssen (1587-1661), il più prolifico pittore di nature morte,

ogni tanto ne includeva uno, così come, sempre saltuariamente, abbandonava le composizioni

di pesci per dedicarsi a quelle di oggetti più lussuosi. In una di queste opere, datata 1646,

inserisce lo stesso goblet in stile veneziano già usato in alcune delle sue nature morte di pesci

(fig. 5). In questo dipinto il ruolo centrale spetta a un grande vassoio di granchi bolliti, attorno

al quale, a parte il goblet à la façon de Venise, sono disposti anche un römer in Waldglas verde e

una piccola caraffa deliziosamente lavorata alla maniera veneziana, contenente un mazzo

di fiori e decorata da fili di vetro blu con il bordo dorato. Il dipinto emana una sensazione di

lusso, che manca nelle altre nature morte di pesci di Adriaenssen.

40

Fred G. Meijer


Fig. 5 Alexander Adriaenssen, Natura morta con granchi e un vaso di fiori su un tavolo. Collocazione ignota

I fiori disposti in bottiglie di vetro, caraffe, o vasi in stile veneziano si trovano con

frequenza molto maggiore nei quadri del più famoso pittore di fiori, il prete gesuita Daniël

Seghers (1590-1661) e in quelli del suo allievo, Jan Philip Van Thielen (1618-1667) (fig. 6).

Il dipinto di Van Thielen, risalente probabilmente agli anni Cinquanta del XVII secolo,

raffigura un vaso con piede e scanalature verticali, un tipo di decorazione usato anche per i

bicchieri di vetro, come l’esemplare che compare nel quadro di Snijders alla figura 4.

La natura morta si ramificò quindi in molteplici direzioni, non solo nelle Fiandre ma

anche e in modo particolare nei Paesi Bassi settentrionali, per esempio a Haarlem, dove artisti

come Pieter Claesz (1597/98-1660) e Willem Claesz Heda (1594-1680) elaborarono composizioni

caratterizzate da tavole imbandite e da una ristretta gamma cromatica.2 Ad Anversa, Cornelis

Mahu (1613-1689) dirigeva una bottega che realizzava copie delle opere di Heda, forse destinate

almeno in parte all’esportazione. La natura morta dipinta nel 1638 (fig. 7) è una composizione

originale di Mahu, ma deve molto all’opera di Heda. Nel dipinto, un bicchiere di vino rosso

Il vetro veneziano nelle nature morte fiamminghe e olandesi 41


Fig. 6 Jan Philip van Thielen, Natura morta con fiori in un vaso à la façon de Venise.

Collocazione ignota

Fig. 7 Cornelis Mahu, Natura morta su un tavolo. Anversa, Museo Mayer van den Bergh

42

Fred G. Meijer


Fig. 8 Jan i van den Hecke, Natura morta con frutta, ostriche, bicchieri di vino e un calice in argento dorato. Collocazione ignota

à la façon de Venise è collocato vicino a un’elaborata coppa a spirale d’argento dorato che regge

un römer di Waldglas verde contenente vino bianco. Un impulso importante a questo genere

pittorico, nelle Fiandre, arrivò da Jan Davidsz De Heem (1606-1684), uno dei pittori di nature

morte più creativi ed apprezzati del Seicento. Nato nei Paesi Bassi settentrionali, dove fece

anche il suo apprendistato, a metà anni Trenta del XVII secolo De Heem si trasferì ad Anversa

e adottò un sontuoso stile barocco. Le sue nature morte, in un ampio ventaglio di formati,

sono straordinariamente dettagliate. Il n. 88 del catalogo riporta un esempio perfettamente

conservato della sua opera, databile più o meno al 1652. De Heem era solito accostare un

bicchiere à la façon de Vénise ad altri generi di lusso, per esempio una costosa porcellana cinese.

Qui fa lo stesso: sopra un tavolo traboccante di frutta succulenta, dentro un vassoio di peltro

lucente e una ciotola di porcellana cinese, si staglia maestoso un bicchiere di vino bianco

dalla lavorazione sofisticata. È evidente che l’artista amava giocare con i riflessi della luce,

come quello della finestra che notiamo sulla coppa e su diversi punti dello stelo del bicchiere,

o quelli sul peltro e sulla porcellana cinese. De Heem influenzò diversi pittori, per esempio i

suoi talentuosi seguaci Jan Van den Hecke il Vecchio (1619/20-1684) e Joris Van Son (1623-1667),

anche se entrambi manifestavano già un loro stile ben riconoscibile (figg. 8, 9). Il quadro di

Van den Hecke del 1643 (fig. 8) era chiaramente ispirato alla sfarzose nature morte che De

Il vetro veneziano nelle nature morte fiamminghe e olandesi 43


Fig. 9 Joris van Son, Natura morta con granchi, frutta e bicchieri di vino. Collocazione ignota

44

Fred G. Meijer


Heem aveva sviluppato negli anni precedenti, come la grande tela del 1640, ora al Louvre

di Parigi, che mostra una prospettiva simile dello sfondo architettonico, in parte celato da

un sontuoso tendaggio. Nel dipinto di Van den Hecke, la frutta succulenta, il piatto con le

ostriche e la ricca tazza con coperchio in argento dorato hanno il ruolo di protagonisti, ma

dietro di loro, in secondo piano, anche un bicchiere trasparente da birra e due raffinati calici

à la façon de Vénise contribuiscono alla sensazione di opulenza emanata dal dipinto.

Nella più piccola e modesta natura morta di Joris Van Son (fig. 9) della metà del XVII

secolo compare un bicchiere da vino in stile veneziano e, accanto, un römer verde. Come nel

quadro di Van den Hecke, anche qui i bicchieri sono collocati dietro i veri protagonisti del

dipinto: un vassoio di peltro lucente con il suo contenuto di granchi e gamberi circondati

da due pesche, grappoli di uva bianca e nera, e da un limone sbucciato a metà. Sia Van den

Hecke che Van Son erano pittori versatili e si misero alla prova anche con altri soggetti, ma

le loro specialità restarono comunque le nature morte di vari tipi e dimensioni.

Nell’ultimo quarto del XVII secolo i quadri di nature morte persero popolarità nelle

Fiandre, mentre nei Paesi Bassi settentrionali l’interesse per questo genere durò più a lungo.

Vennero in auge le composizioni di fiori o di frutta, ma continuarono ad essere apprezzate

anche le nature morte di cacciagione. I pittori che si dedicarono a questo genere di quadri

non erano particolarmente interessati a riprodurre delicati bicchieri di vetro, probabilmente

perché nel mercato dell’arte ne scarseggiava la richiesta.

In tutte le nature morte qui analizzate, la raffinatezza dei manufatti vitrei allude al lusso

e all’agiatezza delle classi dominanti che potevano permetterseli – sia dipinti che realizzati

a mano – in un secolo che viene giustamente chiamato età dell’oro.

1 Ho attribuito a Rijckaert i brani di natura morta di questo dipinto nel 2005. Sull’artista, vedi anche il mio articolo

“Herkend: Een stilleven van David Rijckaert II”, Magazine Rijksmuseum Twenthe 2009, n.1, pp.26-28.

2 Sui primi sviluppi della natura morta con tavola imbandita, vedi Buvelot et al. 2017.

Il vetro veneziano nelle nature morte fiamminghe e olandesi 45


46

Fig. 1 Cornelis Hagaerts, Virginale (spinetta), Anversa, 1636. Anversa, KBC, Museo della Casa di Snijders e Rockox


L’esibizione della ricchezza.

Clavicembali, spartiti e cabinet

ad Anversa

Timothy De Paepe

Lo scrittore e diarista inglese John Evelyn (1620-1706) trascorse qualche giorno ad Anversa

nell’ottobre del 1641. Visitò le chiese e le ditte commerciali più importanti, salì sulla torre della

cattedrale, restò estasiato di fronte ai dipinti di Rubens nella Chiesa dei Gesuiti e acquistò i

libri dei famosi editori Plantin-Moretus. Ricevette anche un invito dal mercante anversese

Gaspar Duarte (1584-1653 ca.), che viveva in una bella casa sulla Meir, la via principale della

città. La facciata relativamente semplice dell’edificio strideva con l’opulenza barocca che si

respirava appena entrati nel salone. Secondo Evelyn, la dimora era “arredata come quella

di un principe”.1 Vi erano esposti in bella mostra mobili costosi, spesse tappezzerie, libri su

ogni genere di argomento, spartiti a stampa o manoscritti e, alle pareti, dipinti di maestri

italiani e soprattutto fiamminghi, da Tiziano e Tintoretto a Rubens e Van Dyck. Gaspar e

tre delle sue figlie offrirono a Evelyn un concerto «di musica rara, vocale e strumentale»

eseguita con uno strumento, tra gli altri, che apparteneva alla famiglia dei clavicembali e

dei virginali, di cui i Duarte possedevano almeno cinque esemplari. Anversa non avrebbe

potuto desiderare ambasciatori culturali migliori di questa famiglia di collezionisti ed Evelyn

restò debitamente impressionato.

Il lusso e la raffinatezza artistica che Gaspar Duarte dispiegò col suo ospite furono davvero

straordinari, ma non unici nell’Anversa del XVII secolo. Il padre di Gaspar, di origini ebree,

era arrivato dal Portogallo circa settantacinque anni prima per sfuggire all’Inquisizione

e aveva avviato un’attività commerciale nel centro sulle rive della Schelda. A quel tempo

Anversa stava vivendo la sua età dell’oro (1500-1585) e la sua ascesa richiamava artisti, artigiani

e mercanti da ogni dove, che a loro volta contribuivano a questo fiorente sviluppo. Tale

successo economico determinò la nascita di un’élite commerciale e politica sicura di sé, che

iniziò a dare sempre più importanza, oltre al lavoro, anche a uno stile di vita confortevole

e culturalmente raffinato. Una volta raggiunta una certa posizione sociale, questa élite era

impaziente di esibirla attraverso i beni di lusso che riusciva facilmente a procurarsi.

47


Artisti, mobilieri, ceramisti, vetrai, stampatori di libri e artigiani di strumenti musicali

trovarono ad Anversa un terreno fertile per le loro attività e divennero così ulteriori catalizzatori

di questo sviluppo culturale. Al contempo, la città guadagnò una reputazione sul piano

internazionale: come porto di prima grandezza, rappresentava un crocevia tra l’Europa settentrionale

e quella meridionale e ospitava filiali importanti e depositi di comunità mercantili,

come quella anseatica e quella portoghese. Le rotte commerciali anversesi attraversavano

tutto il mondo allora conosciuto, incluso l’impero coloniale spagnolo; nella piazza dove si

concludevano le transazioni si potevano sentire ogni giorno dozzine di lingue straniere. Lungo

questa rete commerciale viaggiavano merci e conoscenze, la richiesta di beni di lusso era

alta sia a livello locale che internazionale. I conflitti religiosi (1568-1648) e l’assoggettamento

di Anversa, allora ribelle, da parte delle truppe spagnole nel 1585 provocarono un ristagno

economico e un drastico calo della popolazione. Sia la domanda che l’offerta di beni di lusso

rimasero, però, molto alte fin dopo la metà del XVII secolo.

Anversa, la città dei clavicembali

I Duarte sfruttarono al meglio le opportunità culturali ed economiche offerte da Anversa,

come dimostrano gli oggetti ammirati da Evelyn nella loro casa. Gaspar Duarte, a quanto

pare, non collezionava solo dipinti: con i suoi clavicembali e virginali, almeno cinque in tutto,

poteva evidentemente sfoggiare anche una notevole collezione di strumenti a tastiera. Per

acquistarli non dovette andare lontano, dal momento che Anversa era uno dei centri dove

se ne producevano di più e almeno due importanti cembalai rientravano nella cerchia di

conoscenze di Duarte.

Nel 1615, l’italiano Giovanni Maria Trabaci, compositore e virtuoso della tastiera, pubblicò

il suo famoso secondo volume di musica per clavicembalo, con queste parole di prefazione:

«Il Cimbalo è Signor di tutti l’istromenti del mondo». Forse aveva in mente i clavicembali

italiani, che ben conosceva: strumenti aggraziati e leggeri con pareti sottili in legno di cipresso

mediterraneo. Nel XVI e nel XVII secolo erano molti gli artigiani che li realizzavano, in particolare

a Venezia. Tra loro si contavano almeno quattro membri della famiglia Trasuntino,

oltre a “Dominicus Venetus”, Giovanni Celestini e Giovanni Antonio Baffo.

48

Timothy De Paepe


Eppure, non furono i clavicembali italiani ad avere il maggior seguito intorno al 1615:

mentre l’Italia restava fedele alla propria tradizione artigianale, il resto dell’Europa guardava

ad Anversa, che, in piena età dell’oro, attirava cembalai provenienti dalla Germania

ad aprire la loro attività in città. La prima notizia su uno di questi artigiani trapiantati ad

Anversa risale al 1512 e riguarda il tedesco Hans Süss (da “Cuelen” o Cologna), che proprio

in quell’anno costruì un “clavecenon” per Eleonora d’Austria, sorella del futuro imperatore

del Sacro Romano Impero Carlo V. Nei decenni successivi, la fama di Anversa come centro

per la produzione dei clavicembali continuò a crescere.

I primi strumenti di questo tipo realizzati in città rispecchiano l’influsso italiano, pur

se introdotto attraverso la Germania. Dalla metà del XVI secolo, però, iniziò a svilupparsi

ad Anversa un modello caratteristico di clavicembalo, che poi restò pressoché uguale anche

nel secolo seguente. Un tipico clavicembalo anversese della fine del Cinquecento o della

prima metà del Seicento era uno strumento robusto con pareti spesse in legno di pioppo e

una cassa armonica in legno di pino (cat. 63), che portava incorporata, come un marchio

di fabbrica, una rosetta dorata col monogramma del costruttore. La tastiera aveva circa

quarantacinque tasti, ciascuno dei quali dotato di due registri: uno su corde corte e l’altro

su corde lunghe. Le leve su un lato dello strumento permettevano all’esecutore di inserire

o disattivare uno dei due registri, o di farli suonare all’unisono, ottenendo così una varietà

di combinazioni acustiche.

Anche i virginali erano un prodotto presente nelle botteghe di Anversa (fig. 1). Questi

strumenti risalivano più o meno allo stesso periodo dei clavicembali e funzionavano all’incirca

allo stesso modo, ma la cassa aveva una forma diversa. La conformazione dei clavicembali

era ad ala con una fascia curva laterale e la tastiera sul lato stretto. La cassa dei virginali,

invece, aveva una forma poligonale, o rettangolare alla fine del XVI secolo, con la tastiera sul

lato lungo. I virginali avevano, poi, un solo registro di corde invece di due, il che ne limitava

notevolmente le possibilità. I materiali e i metodi di costruzione erano comunque identici

a quelli dei clavicembali.

L’esibizione della ricchezza 49


Fig. 2 Decorazione di un virginale (Anversa, 1611) di

Joannes Ruckers, con esterno (a sinistra) dipinto di

rosso con effetto marmorizzato e (a destra) strisce di

carta ornamentale nella parte interna. Anversa, Museo

Vleeshuis | Sound of the City

Fig. 3 Andreas I Ruckers, Clavicembalo (Anversa, 1615),

con le parole Concordia res parvæ crescunt, discordia maximæ

dilabuntur e Omnis spiritus laudet dominum sugli elementi

del coperchio. Anversa, Museo Vleeshuis | Sound of the

City

Fig. 4 Andreas Ruckers (I e/o II), Tasti di clavicembalo

(Anversa, 1646). Anversa, Museo Vleeshuis | Sound of

the City

50

Timothy De Paepe


La famiglia Ruckers-Couchet

Hans Ruckers (morto nel 1598), i suoi figli Joannes (1578-1642) e Andreas I (1579-1653 ca.) e i

nipoti Andreas II (1607-1654 ca.) e Joannes Couchet (1615-1650) ebbero un ruolo centrale nella

standardizzazione e nel successo dei clavicembali e dei virginali anversesi. La famiglia era

originaria della Germania. Hans era arrivato ad Anversa via Mechelen nel 1575 o poco prima

e si era iscritto alla Gilda di San Luca come maestro cembalaio nel 1579.

La sua bottega fiorì rapidamente; vi lavoravano parecchi dipendenti, ciascuno con

un compito ben preciso. Ruckers si costruì anche una rete di colleghi e di fornitori che

garantivano competenze tecniche e artistiche specializzate. Il risultato fu una linea di

produzione efficientissima, che permetteva di risparmiare tempo e denaro. I modelli di

clavicembalo e virginale, costruiti dalla maggior parte degli artigiani di Anversa, erano

relativamente semplici ed essenziali. L’uniformità riguardava sia la costruzione che la

decorazione, quest’ultima, almeno a un livello base, era assai schematica. La maggioranza

dei cembalai anversesi prediligeva all’esterno una decorazione marmorizzata, verde o

rossa, e rivestiva quasi tutto l’interno con carta ornamentale (fig. 2), che costava molto

meno e richiedeva un impegno minore rispetto alla pittura. Sulla carta del coperchio, gli

artigiani stampavano motti edificanti (fig. 3). La cassa armonica dei clavicembali anversesi

era invariabilmente dipinta con fiori, insetti, uccelli e, in alcuni casi, piccoli mammiferi,

tra cui spesso conigli. I tasti, infine, venivano ricoperti di osso oppure realizzati in legno di

quercia tinto di scuro e decorati sul davanti con pergamena o pelle incollata sopra (fig. 4),

o con semplice intaglio. La rifinitezza era secondaria rispetto alla solidità, all’affidabilità

e alla qualità del suono.

Hans Ruckers e i suoi figli erano anche intraprendenti uomini d’affari, non si affidavano

al solo mercato locale, una parte dei loro prodotti era destinata anche all’esportazione. I loro

strumenti musicali raggiunsero ogni angolo dell’Europa, i loro clavicembali e virginali

finirono addirittura nelle colonie spagnole del Sud America. Benché i Ruckers-Couchet non

fossero gli unici artigiani musicali di Anversa – la città ne contava a dozzine – riuscirono a

guadagnarsi una fama a livello internazionale, quando erano ancora in vita. Dopo la morte,

la loro reputazione divenne quasi leggendaria. Gli strumenti dei Ruckers furono aggiornati

L’esibizione della ricchezza 51


Fig. 5 Andreas I Ruckers, Ottavino (virginale “figlio”), Anversa, 1626 ca. Anversa, Museo Vleeshuis | Sound of the City

Fig. 6 Coperchio dipinto di clavicembalo di Andreas I Ruckers, Anversa, 1605 ca. Anversa, Museo Vleeshuis | Sound of the City

e talvolta perfino contraffatti da astuti costruttori, fino a buona parte del XVII secolo; soprattutto

in Francia, dove gli esemplari con la rosetta dei Ruckers valevano una fortuna.

La famiglia Ruckers-Couchet sviluppò un efficiente sistema produttivo e uniformò il

disegno dei suoi strumenti, ma si concesse anche di esplorare nuove possibilità nella creazione

di pezzi unici su richiesta. Oltre a quelli con tastiera singola, la famiglia costruì un tipo di

clavicembali a tastiera doppia, una sull’altra, una specialità che divenne il fiore all’occhiello

delle botteghe di Anversa. Quando nel 1604 i consiglieri comunali di Amsterdam decisero

di acquistare un clavicembalo municipale, scelsero un modello a due tastiere costruito dai

Ruckers.

Anche i virginali potevano avere diverse forme: oltre ai modelli con la tastiera collocata

a sinistra – il tipo “spinetta”, dal suono più alto e acuto – i Ruckers-Couchet ne costruirono

altri con la tastiera centrale o spostata a destra, il tipo “muselar”, che aveva un suono più

morbido e diffuso. Nel frattempo, il “virginale madre-e-figlio”, la cui invenzione è attribuita

a Hans Ruckers, impegnò i cembalai in un tour de force tecnico. Questo strumento era

formato da un virginale (la “madre”) che aveva uno scompartimento segreto vicino alla

tastiera per un secondo virginale più piccolo, chiamato ottavino (il “figlio”), dal suono più

alto e più cupo (fig. 5; cat. 61). Le tastiere potevano essere suonate in contemporanea da

due esecutori, oppure si poteva spostare il “figlio” in un’altra stanza. Una terza opzione

consisteva nel collocare il “figlio” sopra la “madre”, così, grazie a un meccanismo ingegnoso,

quando l’esecutore schiacciava un tasto dello strumento principale i due suonavano

52

Timothy De Paepe


Fig. 7 Maerten de Vos (bottega o seguace), Le tentazioni di Sant’Antonio Abate, fine del XVI secolo, coperchio dipinto di virginale. Anversa, Museo

Mayer van den Bergh

all’unisono, creando una gamma avanzata di possibilità tonali. Pare, però, che il virginale

madre-e-figlio sia stato inventato soprattutto per dare una dimostrazione dell’abilità

tecnica dei cembalai di Anversa.

Al momento di ordinare uno strumento, i clienti potevano scegliere tra un ampio

ventaglio di decorazioni. La carta ornamentale era pratica e non faceva lievitare i prezzi

dei clavicembali, ma ovviamente si poteva optare anche per una decorazione dipinta. In

questo caso, la parte più adatta era l’interno del coperchio: per deliziare gli ospiti, bastava

semplicemente aprire il clavicembalo – fino a quel momento un semplice arredo – e svelare

un autentico dipinto (fig. 6). Fonti del XVII secolo, come inventari patrimoniali e lettere,

menzionano clavicembali anversesi decorati da Jan I Brueghel e da Hendrick I van Balen,

Peter Paul Rubens, Pieter I Codde e Otto van Veen. In alcuni casi, quando lo strumento

restava inutilizzato, il coperchio veniva rimosso e conservato come un quadro a sé stante

(fig. 7). Quasi sempre, però, andava perduto insieme al clavicembalo. Un destino che toccò,

per esempio, a uno strumento Ruckers dipinto da Rubens per l’arciduca Alberto e l’infanta

Isabella, governatori dei Paesi Bassi meridionali, la cui corte aveva sede a Bruxelles.

L’esibizione della ricchezza 53


L’editoria musicale

È piuttosto strano, ma durante il XVI e il XVII secolo, la musica da tastiera dei Paesi Bassi

meridionali fu preservata solo raramente in edizioni a stampa. Sono i manoscritti, soprattutto,

a fornirci informazioni sul repertorio che si suonava ad Anversa. Eppure, in città il sorgere

di una scuola clavicembalistica si sviluppò in parallelo al diffondersi dell’editoria musicale

e all’emergere di una cultura borghese interessata alla musica.

Nel Seicento, Anversa non era né il primo né l’unico centro dove si stampavano edizioni

musicali, ma senza dubbio uno dei più importanti. Dopo l’invenzione della stampa intorno

al 1450, si iniziarono a cercare dei metodi anche per stampare la musica. Nel 1501, a Venezia,

Ottaviano Petrucci pubblicò la prima raccolta di musica polifonica, utilizzando la tecnica

a impressione multipla, che prevedeva tre stampe successive per ogni foglio: prima il testo,

poi il pentagramma, infine le note. Ogni elemento era realizzato in lega tipografica, con un

procedimento assai lungo e costoso, per quanto innovativo. Un ulteriore passo avanti nella

storia della stampa musicale fu compiuto a Parigi, attorno al 1528, quando lo stampatore

Pierre Attaingnant riuscì con un’unica impressione a stampare contemporaneamente il

testo, il pentagramma e le note.

Intorno al 1539-40, Simon Cock fu il primo ad Anversa a utilizzare il metodo Petrucci.

Poco dopo, nel 1542, il suo concittadino Willem van Vissenaecken stampò le sue Quatuor vocum

musicae modulationes usando la tecnica a impressione singola. Van Vissenaecken non era uno

stampatore di musica, ma di libri. Si rivolse perciò al giovane Tielman Susato (1510 ca.-1570

ca.), non solo per sistemare la musica prima della pubblicazione, ma anche per disegnare una

nuova collezione di note con le quali stamparla. Dopo aver litigato con Van Vissenaecken, Susato

utilizzò quelle stesse note per varare un’impresa tipografica tutta sua. Da quel momento in poi

Fig. 8 Tielman Susato, Premier

livre de chansons à deux ou à trois

parties, Anversa, 1544. Anversa,

Biblioteca del Conservatorio

Reale di Anversa

54

Timothy De Paepe


Fig. 9 Georges de la Hèle, Octo missae quinque, sex et septem vocum,

Anversa, Christophe Plantin, 1578. Anversa, Museo Plantin-Moretus

UNESCO World Heritage

pubblicò almeno cinquantacinque raccolte

di messe, mottetti, canzoni e musica

strumentale, che fecero di lui uno dei più

importanti stampatori musicali del nord

Europa. Nel frattempo, Susato contribuì

al successo di Anversa come uno dei centri

più importanti in questo settore, insieme

a Venezia, Parigi e, in misura minore,

a Norimberga (fig. 8).

Oltre a Susato, vi erano naturalmente

altri stampatori musicali. Nel 1545, per

esempio, Petrus I Phalesius (1510 ca.-

1573 ca.) iniziò a vendere libri a Lovanio

e poi fondò un’impresa tipografica. A partire

dal 1570 collaborò con l’editore musicale anversese Jean Bellère: un’alleanza, la loro, che

portò il figlio di Phalesius, Petrus II (1545 ca.-1629), a stabilirsi definitivamente ad Anversa nel

1581. La tipografia continuò ad avere un ruolo importante anche per i discendenti di Phalesius,

fino alla fine del Seicento. Padre e figlio avevano interessi molto ampi: tra l’uno e l’altro,

stamparono messe e mottetti, canzoni in olandese e in francese, intavolature per liuto e altri

strumenti di compositori dei Paesi Bassi, della Francia e dell’Italia. I Phalesius rifornivano

sia il mercato locale, sia quello estero (cat. 65). La posizione di Anversa come crocevia e snodo

nella rete del commercio internazionale garantì alla stampa musicale gli stessi vantaggi di cui

godeva l’esportazione di clavicembali e virginali: la musica arrivava da ogni angolo dell’Europa

e in ogni angolo dell’Europa veniva spedita.

Anche l’editore anversese più famoso in assoluto, Christophe Plantin (1520-1589), si

cimentò nel settore musicale. La sua prima pubblicazione in questo campo si attestava

già a un livello straordinario. Nel 1578 pubblicò una raccolta di messe in cinque, sei e sette

parti composte da Georges de La Hèle (fig. 9, cat. 64). A differenza dalle raccolte di Susato

e di Phalesius, quello di Plantin era un volume estremamente lussuoso, destinato a ricchi

collezionisti. Le pubblicazioni degli altri due editori si rivolgevano, invece, a musicisti

professionisti e amatoriali, appartenenti a quel genere di famiglie mercantili e patrizie per

le quali libri di questo tipo, insieme a clavicembali e virginali, erano entrati a far parte di un

raffinato stile di vita cittadino.

L’esibizione della ricchezza 55


Fig. 10 Anonimo (mobile) e Michiel II Coignet (dipinto), Cabinet, Anversa, 1640 ca. Anversa, KBC, Museo della

Casa di Snijders e Rockox

56

Timothy De Paepe


I cabinet

L’Anversa del XVII secolo era un centro internazionale per la produzione non solo dei clavicembali,

ma anche di cabinet per oggetti preziosi; in questo campo poteva competere solo con

Augusta. È nella città tedesca, infatti, che a metà del XVI secolo gli stipi di questo genere fecero

la loro prima comparsa come lussuosi elementi d’arredo e come opere d’arte. Dall’esterno, la

forma dei cabinet ricordava spesso quella di un cesto e alcuni erano perfino dotati di manici

per facilitarne il trasporto. All’interno, avevano un numero tale di cassetti e altri scomparti

da rendere evidente la loro funzione di contenitori di articoli da cancelleria e, soprattutto,

di piccoli oggetti da collezione. In questo senso, erano l’equivalente sotto forma di mobile

delle stanze – anch’esse note come cabinet – destinate alle collezioni private di opere d’arte e

“curiosità”. Gli stipi in legno potevano essere collocati su un tavolo o su un apposito supporto. Lo

splendore delle rifiniture ne faceva spesso delle opere d’arte a sé stanti, piuttosto che semplici

arredi; i cabinet erano dunque l’espressione del gusto e della ricchezza dei loro proprietari.

Gli stipi di Augusta si caratterizzavano per la complessità degli intarsi e degli intagli e per

l’utilizzo di un’ampia gamma di materiali, incluse diverse qualità di legno, metallo, avorio

e osso. Verso l’inizio del XVI secolo, i mobilieri di Anversa si resero conto del potenziale di

questi pezzi e svilupparono una variante locale specifica: dietro una facciata relativamente

insignificante, i cabinet anversesi celavano di solito un interno con piccole ante e cassetti dipinti

in maniera esuberante. Il proprietario, o i suoi fortunati ospiti, dovevano prima dischiudere

le ante per godere di questo splendore.2 Lo stipo anversese divenne immediatamente popolare

anche all’estero: una storia di successo parallela, più o meno nello stesso periodo, a quella

della produzione dei clavicembali. Come i cembalai locali, anche i mobilieri dei cabinet per

oggetti preziosi eccellevano nella manifattura rapida ed efficiente di un modello robusto e

duraturo, ma che i clienti, se lo desideravano, potevano adattare alle mode internazionali.

Una differenza notevole rispetto alla produzione di strumenti musicali riguarda i nomi

degli artigiani che realizzavano i mobili. Su clavicembali e virginali comparivano le firme dei

cembalai, come richiesto dalla Gilda di San Luca, alla quale appartenevano questi maestri.

I cabinet, al contrario, erano in pratica sempre anonimi. Una delle poche figure identificabili

coinvolte nella manifattura e nella vendita degli stipi è Melchior Forchondt (morto nel

1633), originario della regione di Breslavia e uno dei primi ebanisti ad Anversa. Col tempo,

L’esibizione della ricchezza 57


Fig. 11 Anonimo (mobile) e

Victor II Wolfvoet (dipinto),

Cabinet, Anversa, 1640 ca.

Anversa, Museo della Casa di

Rubens

divenne un importante fornitore di mobili e beni di lusso e il capostipite di una vera e propria

dinastia di mercanti e artisti (pittori, orefici),3 con una storia simile per molti versi a quella

della famiglia Ruckers-Couchet.

Anche i decoratori degli interni dei cabinet restarono spesso anonimi. Le loro opere in

miniatura rispecchiavano in genere i dipinti o le incisioni di Rubens e dei suoi colleghi

artisti di Anversa, come Jacques Jordaens o Frans II Francken. Tra i soggetti più amati,

spiccavano episodi biblici e scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio. Proprio come Rubens e

altri famosi maestri lasciavano ai loro lavoranti o ai loro imitatori la decorazione dei coperchi

dei clavicembali, anche quella dei cabinet era affidata spesso a maestri minori specializzati

in questo campo. Inoltre, dipingere su modelli preesistenti permetteva ai decoratori di stipi

di risparmiare molto tempo, riduceva i costi ed incrementava la produzione. Sicuramente è

vero che le decorazioni mostrano più di una volta i segni di un’esecuzione frettolosa, ma non

si può dire che i risultati fossero sempre mediocri. Il Museo della Casa di Snijders e Rockox di

Anversa possiede un cabinet arricchito da splendidi dipinti, attribuibili a Michiel II Coignet

(1618-1663 ca.) (fig. 10), il quale lavorò regolarmente per la famiglia Forchondt, forse anche

58

Timothy De Paepe


per questo stipo. Qui si basò su una serie di incisioni di Crispin I van de Passe (1564-1637)

relative a scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, su disegni di Maerten de Vos (1532-1603)

ed altri artisti. Il Rijksmuseum di Amsterdam e il Museo della Casa di Rubens ad Anversa

conservano ciascuno uno stipo con dipinti di una qualità eccezionale, attribuiti a Victor II

Wolfvoet (1612-1652) (fig. 11). Recentemente, Gregory Martin e Bert Schepers hanno indagato

il rapporto tra Wolfvoet e Rubens e sono giunti alla conclusione che Wolfvoet godesse di un

accesso privilegiato alla bottega di Rubens, per poterne studiare l’opera e adattarla o copiarla

direttamente nei dipinti per i cabinet. In altre parole, acquistando uno stipo anversese ci si

aggiudicava non solo un raffinato elemento d’arredo, ma anche un’intera galleria di dipinti

in miniatura eseguiti sul modello di Rubens o dei suoi contemporanei.

La manifattura di beni di lusso, che in molti casi nascevano dalla collaborazione tra artisti

e artigiani di diversa formazione – pittori, cembalai, stampatori, compositori, carpentieri,

e via dicendo – era uno dei punti forti di Anversa e, per tutto il XVII secolo, le garantì una

fama internazionale di centro capace di produrre ricchezza.

1 Dobson 2015, p. 53.

2 Uno studio approfondito sui cabinet anversesi si trova in Fabri 1991 e Fabri 1993.

3 Sulla famiglia Forchondt, vedi tra gli altri Van Ginhoven 2017.

L’esibizione della ricchezza 59



La produzione libraria ad Anversa

nel XVI e nel XVII secolo

Dirk Imhof

Nel XVI e nel XVII secolo Anversa ricoprì un ruolo di spicco in Europa per la stampa dei libri,

così come per molte altre arti. Il numero di volumi che vi si producevano era comparabile, in

termini relativi, a quello di centri importanti come Parigi e Venezia. Le pubblicazioni anversesi

erano rinomate anche per l’alta qualità dell’esecuzione tipografica e per l’accuratezza della

decorazione. Le basi di questa reputazione furono gettate nel XVI secolo, e per la prima metà

di quello successivo Anversa continuò a dimostrarsi all’altezza della sua fama di città dove

si stampavano edizioni di lusso magnificamente illustrate.

La produzione libraria anversese doveva molto del suo prestigio alla casa editrice Plantin,

spesso citata insieme alle migliori d’Europa, come quella di Aldo e Paolo Manuzio a Venezia e

di Robert e Henri Estienne a Parigi e a Ginevra. Il nome Plantin sul frontespizio garantiva la

qualità della carta, della tipografia e allo stesso tempo del progetto. Oltre a prestare un’attenzione

costante alla bellezza delle illustrazioni e all’accuratezza del testo, Christophe Plantin

e i suoi eredi si assicurarono che le loro edizioni fossero conosciute in tutta l’Europa (fig. 1).

Insieme all’Officina Plantiniana, ad Anversa erano attivi molti altri editori, e tutti cercavano

continuamente di fare concorrenza ai Plantin. Anche molti di questi editori lavoravano

per il mercato internazionale. I Verdussen, per esempio, che avevano debuttato alla fine

del XVI secolo, erano agguerriti concorrenti dei Plantin, insieme alle famiglie tipografiche

Van Keerberghen, Nutius e Bellerus. Anche loro stampavano libri che si facevano notare per

l’alta qualità tipografica e grafica. In questo breve saggio esplorerò in maniera più dettagliata

il mondo librario di Anversa, concentrandomi in particolare sulle illustrazioni che compaiono

nelle edizioni dell’epoca, e che sono state un elemento chiave del loro successo.

A metà del XVI secolo Anversa godette di uno straordinario periodo di fioritura economica

e culturale. Il commercio, che prosperava grazie al porto, generò una ricchezza

tale da permettere alla città di diventare la capitale della produzione libraria nei Paesi

Bassi. Come metropoli commerciale dell’Europa settentrionale, il centro sulla Schelda

attraeva moltissimi mercanti da altri paesi, tra i quali l’Italia, la Spagna, l’Inghilterra e

la Germania, e furono proprio loro a dare un contributo sostanziale alla diffusione dei

61


volumi stampati. I librai, di solito, erano abituati a

scambiarsi tra loro le pubblicazioni, ma le transazioni

con i mercanti facilitarono la circolazione di denaro

liquido. Le grandi ditte avevano agenti di commercio

o parenti in altre città, che si occupavano di ricevere

i pagamenti alla consegna dei libri. Anche i mercanti

si presero la responsabilità di trasportare i volumi

stampati, di assicurarli e di affrontare i rischi legati

alla vendita. Da questo punto di vista, i tanti uomini

d’affari internazionali che facevano base ad Anversa

offrivano svariate opportunità. È per questo che la

casa editrice Plantin preferiva in genere affidarsi a

loro per consegnare le sue pubblicazioni.

La prosperità economica di Anversa favorì anche

lo sviluppo di un solido settore finanziario, che si

rivelò estremamente importante per gli investimenti

nell’industria libraria. Quando gli editori pianificavano

il lancio sul mercato di una nuova edizione, prima di tutto dovevano investire in carta

(in assoluto il costo di produzione più alto) e pagare i salari dei tipografi e degli stampatori. La

vendita dei libri finiti, invece, era un processo lento, quindi le case editrici avevano bisogno

di liquidità per coprire il periodo tra la stampa e la vendita. Questo vuol dire che dovevano

ricorrere a prestiti o trovare partner finanziari.

Fig. 1 Peter Paul Rubens, Ritratto di Christophe Plantin. Anversa, Museo Plantin-Moretus

UNESCO World Heritage

Un altro fattore chiave per il successo della produzione libraria anversese fu la presenza

di un gran numero di artisti, che arrivavano in città da altre zone dei Paesi Bassi, attratti

dalla fama di centro editoriale del capoluogo delle Fiandre, e contribuivano ad illustrare i

volumi che vi si stampavano. Le correnti artistiche dall’Europa settentrionale e meridionale

convergevano nella città sulla Schelda, il cui florido commercio in dipinti, sculture e altri

beni di lusso portò all’editoria un ulteriore incremento. A metà del XVI secolo, Hieronymus

Cock si era costruito, come editore di stampe, una rete di relazioni estesa in tutta l’Europa.

Gli artisti che lavoravano per lui venivano non solo dai Paesi Bassi, ma anche dall’Italia, per

esempio il mantovano Giorgio Ghisi. Oltre a Cock, altri editori dello stesso genere ebbero un

62

Dirk Imhof


Fig. 2 Philips Galle, Virorum doctorum de disciplinis benemerentium effigies XLIIII, Anversa, 1572: frontespizio. Anversa, Museo Plantin-Moretus

UNESCO World Heritage

ruolo importante; tra questi, Gerard de Jode e Hans Liefrinck. Quando Cock morì nel 1570,

la vedova ne proseguì l'attività. Philips Galle, stabilitosi ad Anversa più o meno nello stesso

periodo, colse l’occasione al volo e occupò immediatamente il posto lasciato libero da Cock,

diventando l’editore di stampe più importante della città. Galle pubblicò diverse serie di

incisioni a tema religioso, e altre ispirate a opere d'arte dell'antichità, e poi ritratti e mappe

(fig. 2). Per quanto riguarda la cartografia, produsse il primo atlante tascabile della storia.

Dopo che nel 1570 Abraham Ortelius aveva fatto pubblicare il suo Theatrum orbis terrarum, in

assoluto il primo di tutti gli atlanti, (fig. 3), Galle commissionò versioni ridotte delle mappe,

che iniziò a far uscire in versione tascabile in olandese, francese, latino e italiano dal 1577

in poi (Miroir du monde o Epitome theatri). La versione italiana, in particolare, godette di un

successo prolungato e fu ristampata fino al 1697.

È in questo contesto che Christophe Plantin si stabilì ad Anversa nel 1549. In quel momento

la città aveva 140 editori-stampatori, che producevano libri su qualsiasi argomento, incluse le

scienze, edizioni di autori classici, trattati storici e legali, e ancora testi religiosi in quantità,

libri di ordinanze e pamphlet. Alcune ditte erano specializzate in generi specifici, come le

La produzione libraria ad Anversa 63


Fig. 3 Abraham Ortelius, Theatrum orbis terrarum, Anversa, Christophe Plantin, 1584: mappa del globo.

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage

famiglie Phalesius e Bellerus, che si concentravano sulle partiture musicali, o le case editrici

Nutius e Steelsius, che fornivano edizioni in spagnolo: nel Seicento solo a Salamanca si

pubblicava un numero più alto di libri in questa lingua. Al contrario di altri paesi, in genere

gli editori di Anversa stampavano e pubblicavano le loro edizioni, e in più erano gestori di

librerie. A Parigi, per fare un paragone, c’era una miriade di piccole stamperie, che lottavano

per sopravvivere lavorando per un gruppo ristretto di editori e librai, che detenevano il

controllo sul mercato librario.

All'inizio della sua attività, Plantin era dunque solo uno dei tanti editori anversesi.

Impiegò appena pochi anni, però, per diventare il più importante di tutti. In questo gli fu

d’aiuto la qualità della sua stampa. Per illustrare i suoi libri Plantin utilizzava le xilografie,

come era normale in quel periodo: le incisioni su legno erano più economiche da produrre

e potevano essere combinate con i caratteri tipografici e stampate con lo stesso torchio. Le

incisioni e le acqueforti restituivano un'immagine molto più dettagliata, con una varietà di

grigi al posto del semplice bianco e nero delle xilografie. Nonostante queste qualità, però,

nel XVI secolo erano usate di rado per le illustrazioni dei libri. Le immagini venivano incise,

con strumenti di metallo o con l’uso di acidi, su lastre di rame, che poi dovevano essere

stampate separatamente o con un torchio da intaglio, e questo faceva lievitare i costi di

64

Dirk Imhof


Fig. 4 Biblia regia, Anversa, Christophe Plantin, 1568-72, vol. I: frontespizio. Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage

produzione. Senza contare che le lastre erano soggette ad usura. Alcuni editori avevano già

messo in commercio libri illustrati con incisioni nel corso del XVI secolo, ma si era trattato di

esperimenti isolati. Anche Plantin si ostinò a lungo a usare solo xilografie per i suoi volumi.

Verso la metà degli anni Sessanta del Cinquecento, però, anche lui iniziò a convertirsi alle

incisioni. E non per edizioni limitate: Plantin usò sistematicamente le più raffinate tecniche

d'illustrazione in molte pubblicazioni di diverso tipo, inclusa la sua Biblia regia, una Bibbia in

otto volumi e cinque lingue, dove inserì incisioni a pagina intera (fig. 4). Fece lo stesso nelle

altre pubblicazioni liturgiche, differenziando però ciascuna tiratura in una serie di copie

illustrate con xilografie e destinate ai clienti comuni, e un'altra con incisioni per la clientela

più ricca. Plantin divenne così un pioniere in Europa nell’uso di illustrazioni realizzate con

incisioni e acqueforti. A questo scopo collaborò con disegnatori come Peter van der Borcht

e Crispijn van den Broeck, e con incisori come Frans e Peter Huys, i famosi fratelli Wierix,

Abraham de Bruin e Jan Sadeler (fig. 5). Plantin poteva permettersi un utilizzo su larga scala

di incisioni e acqueforti perché aveva un capitale sufficiente a coprire le spese di produzione

di un numero così elevato di lastre di rame. Per un’edizione della descrizione dei Paesi Bassi

scritta da Lodovico Guicciardini (cat. 12) ne occorsero, per esempio, non meno di sessanta.

Non tutti gli editori potevano affrontare un investimento così sostanzioso.

La produzione libraria ad Anversa 65


Fig. 5 Officium B. Mariae virginis, nuper reformatum, et Pii V pont. max. jussu editum, Anversa, Christophe Plantin, 1573.

Antwerp, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage

Fig. 6 Joannes David, Paradisus sponsi et sponsae, Anversa, Jan Moretus, 1607.

Anversa, Plantin-Moretus UNESCO World Heritage

66

Dirk Imhof


Prima del 1589, anno della sua morte, Plantin era già molto imitato sia nei Paesi Bassi

che fuori, e l’uso di incisioni e acqueforti per illustrare i libri era diventata una pratica

comune. Jan I Moretus, genero e successore di Plantin, proseguì sulla strada aperta dal

suocero. Continuò ad avvantaggiarsi del rapporto stretto da quest'ultimo con il rinomato

pittore Maerten de Vos, che forniva immagini alla casa editrice, ma la collaborazione più

valida iniziata da Moretus fu quella con Theodore Galle, figlio del commerciante di stampe

Philips Galle, subentrato al padre nell'attività. Molti altri artisti lavorarono nello studio di

Galle, incluso suo fratello Cornelis e Charles de Mallery. L’incisore sposò, inoltre, la figlia di

Moretus, Catherine, nel 1598. Il matrimonio divenne il simbolo della collaborazione tra la casa

editrice-tipografia di Jan Moretus e lo studio specializzato in stampe di Galle. Il successore di

quest’ultimo continuò a fornire lastre di rame e a eseguire tutte le stampe per le pubblicazioni

di Jan Moretus e dei suoi eredi fino all’ultimo quarto del XVI secolo. Questa collaborazione

speciale produsse, tra altri risultati, diverse edizioni dell’opera del gesuita Joannes David, per

esempio quella del Veridicus Christianus del 1601, di cui Moretus supervisionò il testo e Galle

l’incisione e la stampa di centinaia di illustrazioni (fig. 6).

Quando nel 1610, in seguito alla morte del padre, Balthasar I and Jan II Moretus subentrarono

alla guida dell’editrice Plantin, continuarono a lavorare con Theodore Galle per

l’incisione, la rielaborazione e la stampa delle immagini. Persuasero anche Peter Paul Rubens

a fornire disegni per illustrare i loro volumi. Rubens – “l’Apelle dei nostri giorni”, come lo

aveva soprannominato Balthasar, dal leggendario pittore greco del IV secolo a.C. – era appena

tornato dall’Italia nel 1608. Consegnò diversi disegni di monumenti che aveva fatto nel Bel

Paese per il libro scritto da suo fratello Philip sull'antichità classica. Furono i suoi primi

contributi all’illustrazione dei libri pubblicati dalle edizioni Plantin. Qualche anno dopo,

l’artista realizzò delle composizioni per le nuove immagini del Missale Romanum in-folio del

1613 (cat. 37) e per il Breviarium Romanum del 1614, nello stesso grande formato di stampa. Da

quel momento, fornì regolarmente nuovi disegni ai Moretus. Di tanto in tanto collaborò

anche con altri editori anversesi, ma la maggior parte dei suoi disegni fu sempre destinata ai

Plantin. Rubens introdusse una nuova freschezza nelle illustrazioni librarie: i suoi bozzetti

per frontespizi non erano semplicemente decorativi, ma contenevano anche una trasposizione

visiva del contenuto del volume. Per ottenere questo risultato, disegnò allegorie di ogni

tipo riferite all'antichità classica e alla Bibbia (fig. 7). Rubens fu il disegnatore perfetto per

La produzione libraria ad Anversa 67


Fig. 7 Peter Paul Rubens, Progetto grafico per Bernardus Baubusius, Epigrammata, 1634. Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage

Balthasar Moretus: questi due eruditi, entrambi in possesso di un’eccellente conoscenza della

mitologia classica e dell’iconografia cristiana, si completarono alla perfezione dal punto di

vista professionale. Il fatto che fossero anche grandi amici rese la loro collaborazione ancora

più straordinaria. Fatta eccezione per i periodi in cui era all’estero, Rubens continuò a fornire

disegni alle edizioni Plantin fino alla morte, nel 1640. Negli ultimi anni il suo apporto si limitò

quasi elusivamente alle idee, la cui esecuzione lasciava poi al suo allievo Erasmus Quellinus.

Quest’ultimo fu autore a sua volta di disegni per frontespizi e illustrazioni e per molti anni

continuò a lavorare per un gran numero di editori, sia ad Anversa che altrove nei Paesi Bassi

meridionali.

Il frontespizio e le illustrazioni giocavano senza dubbio un ruolo importante nella percezione

del libro da parte del lettore o del cliente, ma c’erano anche altri fattori utili a definirne

l’aspetto. Un volume prendeva forma attraverso piccoli elementi decorativi, come le iniziali,

i capopagina e i finalini, l’occhio e il punto del carattere, la disposizione in colonne e altri

aspetti compositivi. La cura dispiegata nell’eseguire alla perfezione tutti questi elementi fece

68

Dirk Imhof


dei libri pubblicati ad Anversa, e in particolare dai Plantin, preziosi oggetti d’arte diffusi in

tutta l’Europa.

Quella dei Moretus non era l’unica casa editrice anversese nel Seicento: già dalla fine

del secolo precedente, sempre più editori avevano iniziato a seguire l'esempio delle edizioni

Plantin e a usare le incisioni per illustrare i libri. Nel 1600, per esempio, Jan van Keerberghen

pubblicò il Rosarium sive psalterium beatae virginis Mariae del prete inglese Thomas Worthington,

con incisioni di Adriaen Collaert su disegni di Maerten de Vos. E nel 1599, Arnold Coninx

diede alle stampe un libro di preghiere inglese, The primer, or office of the blessed Virgin Mary,

con incisioni anonime. Un’opera influente pubblicata ad Anversa, che ispirò molti libri di

emblemi religiosi, fu l’Evangelicae historiae immagine, con le correlate Adnotationes et meditationes

in evangelia del gesuita spagnolo Hieronymus Natalis. Anche se le 153 illustrazioni del volume

erano state disegnate a Roma da Bernardino Passeri, i Gesuiti vollero che le lastre di rame

fossero incise ad Anversa. La commessa fu assegnata quasi per intero ai fratelli Wierix, ma

anche Adriaen e Hans Collaert e Charles de Mallery si occuparono di alcune lastre. Il testo

delle Adnotationes […], stampato da Martinus Nutius, apparve nel 1594, un anno dopo la

pubblicazione delle illustrazioni (fig. 8). I Gesuiti ne distribuirono centinaia di copie in tutta

l’Europa attraverso le loro fondazioni e, tramite le missioni, anche nell’Estremo Oriente e

nelle Americhe. Anche Jan I Moretus ne vendette dozzine di copie ai librai europei alla fiera

del libro di Francoforte. L’opera ebbe un tale successo che suo figlio Jan II acquistò tutte le

lastre di rame dai gesuiti nel 1607 e fece ristampare il testo.

La competizione più agguerrita tra gli editori di Anversa riguardava il controllo del

lucroso mercato dei libri liturgici. Il Concilio di Trento (1545-1563) aveva stabilito che questi

testi fossero standardizzati per tutte le chiese cattoliche d’Europa. La decisione risaliva al XVI

secolo, ma ci vollero molti anni prima che le chiese e i monasteri sostituissero i loro vecchi

libri con nuove edizioni approvate dal Vaticano. Non solo nei Paesi Bassi meridionali, ma

anche in altri paesi europei, gli editori fecero del loro meglio per assicurarsi le commesse.

Le edizioni Plantin riuscirono quasi a monopolizzare la stampa di questi libri e breviari,

anche se il clero si lamentava del fatto che non riuscivano a produrre abbastanza copie per

soddisfare la domanda e che i loro prezzi erano eccessivi. Gli altri editori anversesi passarono

gran parte della prima metà del XVII secolo a cercare di spezzare il monopolio dei Moretus,

spesso sostenuti dai vescovi. Jan van Keerberghen, per esempio, stampò diversi libri liturgici

con illustrazioni incise dalla famiglia Collaert. Ciononostante, non rappresentò mai una seria

La produzione libraria ad Anversa 69


Fig. 8 Hieronymus Natalis, Adnotationes et meditationes in evangelia – Evangelicae historiae imagines, Anversa, Martinus Nutius, 1593.

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage

minaccia per i Moretus. Ai suoi successori non andò meglio. Negli anni Venti del Seicento

Jan II van Keerberghen unì le proprie forze a quelle di un altro giovane editore, Hieronymus II

Verdussen, e insieme costituirono una “Societas librorum officii ecclesiastici” per stampare

alcuni dei messali e breviari necessari, ma neanche loro riuscirono a raggiungere il traguardo.

A dispetto di diverse cause legali, i Moretus continuarono per la loro strada.

Se l’editrice Plantin aveva bene o male saturato il mercato dei testi liturgici, altri editori

anversesi riuscirono a produrre edizioni estremamente attraenti in altri campi, attingendo ai

tanti artisti attivi in città nella produzione e nella vendita di stampe. Le edizioni di emblemi

religiosi erano particolarmente popolari. Hendrik Aertsen pubblicò diversi testi di questo

genere, contenenti dozzine di incisioni da Boëtius a Bolswert. Particolarmente diffuse erano le

ristampe delle opere devozionali dei gesuiti Hermannus Hugo (Pia desideria, 1624) e Antonius

Sucque (Via vitae aeternae, 1620).

Nel corso del XVII secolo, gli editori di Anversa si concentrarono in maniera sempre più

esclusiva sui libri religiosi. I volumi scolastici, storici e legali continuarono a essere pubblicati,

ma le opere su altri temi divennero via via più rare (per esempio, il Theatro militare di

Flaminio della Croce, edito da Hendrik Aertssen nel 1617). La Controriforma, che aveva già

posto il proprio marchio su altre arti visive, finì per dominare anche la produzione libraria.

A partire dalla seconda metà del XVII secolo, le edizioni Plantin si concentrarono a tal

punto su opere liturgiche e Bibbie da rinunciare quasi del tutto ad altri generi di pubblicazioni.

70

Dirk Imhof


Questo orientamento prevalse sotto la guida di Balthasar II Moretus. Negli anni Quaranta del

Seicento, il 70% della produzione complessiva delle case editrici era ormai rappresentato dalle

opere religiose e, tra queste, il 50% da quelle liturgiche. I numeri erano saliti, rispettivamente,

al 100% e al 92% entro gli anni Settanta dello stesso secolo. Quando nel 1674 Balthasar III

subentrò al padre, non solo bloccò la produzione di tutti i volumi non liturgici, ma smise

anche di vendere qualsiasi altro libro e liquidò migliaia di copie rimanenti delle pregevoli

edizioni del padre e del nonno. In questo modo, fece calare definitivamente il sipario sulla

fiorente produzione libraria anversese del XVI e XVII secolo.

Riferimenti bibliografici: Sabbe 1926; Voet 1975; Materné 1991; De Nave 1993; Bowen & Imhof 2008.

La produzione libraria ad Anversa 71


Autori del catalogo

ADN

ADV

BV

BVB

CB

CC

DI

EB

FGM

FS

GD

GVE

HV

JA

KJ

KVDS

MDH

MN

NB

RL

SJB

SVI

SVO

SVS

TDP

THB

Abigail D. Newman

Annemie De Vos

Brecht Vanoppen

Ben van Beneden

Christopher Brown

Caroline Campbell

Dirk Imhof

Elise Boutsen

Fred G. Meijer

Frits Scholten

Guy Delmarcel

Geert Van Eeckhout

Hans Vlieghe

Jaynie Anderson

Koen Jonckheere

Katlijne Van der Stighelen

Marieke D’Hooghe

Maja Neerman

Nils Büttner

Riccardo Lattuada

Susan J. Barnes

Steven Van Impe

Sarah Van Ooteghem

Sabine Van Sprang

Timothy De Paepe

Till-Holger Borchert


Catalogo

74 L’alba di un’età dell’oro

96 Bozzetti e modelli per la gloria

122 Dipingere per la Chiesa e per la Corte

154 Tintoretto e Tiziano

170 Un’esistenza circondata dal lusso

190 Oltre Anversa

202 Nuovi mercati


74


1. Willem Key (1516-1568)

Ritratto maschile

1560

Olio su tavola, 79,5 × 59,5 cm

Datato in alto a destra: “A° 1560”

Collezione privata

BIBL.: Jonckheere 2011, p. 88.

Willem Key fu uno dei più importanti ritrattisti di Anversa

a metà del XVI secolo. Originario di Breda, arrivò in città da

giovane per entrare nella bottega di Pieter Coecke van Aelst

nel 1529. Lui e Frans Floris trascorsero poi diversi anni con

Lambert Lombard a Liegi tra il 1538 e il 1541, per approfondire

la conoscenza dell’arte rinascimentale. Lombard aveva

soggiornato a lungo in Italia e, al ritorno, aveva creato un

centro per lo studio del Rinascimento nella sua città natale.

Dopo alcuni anni a Liegi, Willem Key tornò ad Anversa

come maestro indipendente. Si dedicò ai ritratti, ma di

tanto in tanto realizzava anche grandi dipinti storici e opere

devozionali in un formato più piccolo. La sua bottega divenne

una delle più rinomate di Anversa a metà del XVI secolo.

La città sulla riva della Schelda era ormai diventata uno dei

centri del commercio inter nazionale e vi lavoravano molti

artisti di primo piano. Pieter Bruegel, Pieter Aertsen e Frans

Floris erano tra i colleghi più vicini a Key, che, sebbene oggi

sia meno conosciuto, in quel periodo era al loro stesso livello.

Le doti eccezionali di Willem Key come ritrattista

non si possono attribuire alla formazione che ricevette da

Pieter Coecke o da Lambert Lombard. È probabile che per

un periodo abbia lavorato anche con Joos van Cleve, i cui

ritratti sono i più in linea con la sua opera. Key traspose la

monumentalità dei ritratti dell’ultima fase di Van Cleve in un

nuovo genere di ritratto che fondeva armoniosamente austerità,

grandeur (sia in termini compositivi che di dimensioni)

e realismo di dettagli. In questo modo, insieme ad Anthonis

Mor, gettò le basi per un nuovo corso della ritrattistica che

avrebbe prevalso nei Paesi bassi fino alla fine del XVII secolo.

Il Ritratto maschile qui in mostra ne è un esempio eccellente.

Grazie ai suoi meriti, Willem Key fu incluso nel

Pictorum Aliquot Celebrium Germaniae Inferioris Effigies (1572)

di Domenicus Lampsonius, l’elenco degli artisti più illustri

dei Paesi Bassi, e questo certifica il grado raggiunto dalla sua

fama e dalla sua influenza. KJ

L’alba di un’età dell’oro

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2. Adriaen Thomasz Key (1545 ca.-1589 ca.)

Ritratto di un donatore con un angelo

1558-1589

Olio su tavola, 60,2 × 49,3 cm (recto verso)

Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens

Adriaen Thomasz era un allievo di Willem Key e dopo

la morte del maestro, nel 1568, ne adottò il cognome e

continuò a dirigerne con successo la bottega nei primi,

turbolenti decenni del conflitto religioso nei Paesi Bassi.

Al pari di Key, si costruì una solida reputazione come

ritrattista, ma ci sono giunte anche diverse pale d’altare e

opere devozionali da lui eseguite.

Le notizie certe sulla sua vita sono scarse,

ma dall’opera risulta evidente un talento eccezionale e

un forte impatto visivo. Valgano come esempio i ritratti,

eseguiti nel 1579, di Guglielmo d’Orange-Nassau e dei suoi

familiari e le commesse ottenute da alcune delle famiglie

più influenti di Anversa, inclusi i De Smidt. L’aspetto più

affascinante della sua opera riguarda tuttavia il fatto che,

come pittore dalle simpatie calviniste in un periodo di

disordine religioso e di iconoclastia, abbia sperimentato la

mimesi e il decorum. I suoi ritratti naturalistici sono quasi

completamente privi di dettagli aneddotici e secondari,

decisamente focalizzati invece sul volto, caratterizzato da

un atteggiamento austero e inflessibile.

Il Ritratto di un donatore con un angelo è un frammento di

quella che in origine doveva essere una pala d’altare, o un

dipinto commemorativo. Non conosciamo l’identità del

modello, mostrato nell’atteggiamento caratteristico del

donatore: immerso nella preghiera, con lo sguardo rivolto

a una scena sconosciuta che un tempo doveva ornare il

pannello centrale del trittico. Dietro di lui vediamo una

colonna dorica, che ricorda gli elementi architettonici nella

Pala d’altare della famiglia di Gillis de Smidt e Maria de Deckere

(fig. 2a). KJ

Fig. 2a Adriaen Thomasz Key, Pala d’altare della famiglia di Gillis de Smidt

e Maria de Deckere, pannello di sinistra, 1575, olio su tavola, 181 × 118 cm.

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 228

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L’alba di un’età dell’oro


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3. Maerten de Vos (1532-1603)

Studio di testa

Olio su tavola, 40,4 × 36,3 cm

Collezione privata

Nella seconda metà del XVI secolo, nelle botteghe di alcuni

dei più importanti pittori di Anversa si verificò un fenomeno

interessante. Sull’esempio di Frans Floris, un numero sempre

crescente di maestri iniziò a dipingere studi di teste, o tronies

come vennero chiamati più avanti. Erano oli su tavola dipinti

“alla prima”, qualche volta dal vivo. In un secondo momento,

le tavole entravano a far parte di repertori di teste che

potevano essere usate e riusate in composizioni più grandi o

più piccole.

Fu proprio Frans Floris ad aprire la strada. Di lui e

dei suoi allievi, ma anche di artisti come Maerten de Vos

e Adriaen Thomasz Key, ci restano dozzine di studi di teste.

In seguito il tronie diventò un elemento importante della

pratica di studio nei Paesi Bassi meridionali e settentrionali

del XVII secolo, con Rubens, Jordaens, Van Dyck e Rembrandt

autori di diversi esempi “pittoreschi”.

I lineamenti del vecchio nello Studio di testa qui in mostra

si ritrovano nell’Incredulità di Tommaso, il pannello centrale

della pala d’altare dipinta da Maerten de Vos nel 1574 per la

Gilda dei Pellicciai di Anversa, adesso nel Museo Reale delle

Belle Arti della città (fig. 3a). Lo stesso uomo, con addosso

un mantello nero, si vede nella stessa pala d’altare a sinistra,

dietro l’incredulo Tommaso. Questa testa – una rarità nell’opera

conosciuta di Maerten de Vos – fu dipinta con pennellate

fluide ma vigorose. Gli abiti sono abbozzati grossolanamente.

Il volto, di profilo, è costruito attentamente con una varietà

di toni per l’incarnato, contorni marcati e zone in ombra.

La collana di semi (un rosario?) è un dettaglio interessante

che, insieme ai peli non rasati sul collo, suggerisce che lo

studio sia stato abbozzato dal vivo.

Maerten de Vos fu uno degli artisti di maggior successo

ad Anversa nella seconda metà del XVI secolo. Come figlio di

Pieter de Vos, appartenne all’élite della gilda dei pittori sin

da giovane. Dopo aver trascorso periodi in città come Roma

e Venezia negli anni Cinquanta, tornò ad Anversa, dove in

breve divenne noto come pittore e autore di stampe. KJ

Fig. 3a Maerten de Vos, L’incredulità di Tommaso, 1574, olio su tavola,

206,8 × 185 cm. Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 77

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L’alba di un’età dell’oro


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4. Maerten de Vos (1532-1603)

Maria Maddalena penitente

Olio su tavola, 105 × 75,4 cm

Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens (fino al 2019)

Maria Maddalena siede rapita in contemplazione, con lo

sguardo fisso al crocifisso che tiene nella mano sinistra,

dentro una grotta in mezzo al paesaggio. I suoi attribuiti

icono grafici, un teschio e un flagello, sono collocati su una

balaustra di pietra che crea una separazione netta tra lei e

lo spettatore, e vicino all’entrata della grotta si vede un vaso

d’unguento. I lunghi capelli biondi della donna ricadono sul

busto nudo, in una citazione della Maddalena Penitente dipinta

da Tiziano verso il 1530-35 e ora conservata a Palazzo Pitti

di Firenze. A richiamare l’attenzione, in entrambi i dipinti,

è l’estrema sensualità della santa.

Nonostante la modestia suggerita dal gesto del braccio

destro – col quale la protagonista del dipinto cerca invano di

coprirsi il seno – da entrambe le opere scaturisce infatti un

esplicito richiamo sensuale, che affascina e allo stesso tempo

ispira devozione.

La chioma bionda fluente, il collo candido e i piccoli seni

sodi, così come le guance rosee, gli occhi scuri, le sopracciglia

affusolate e la bocca piccola rispecchiano in pieno l’ideale di

bellezza femminile della Venezia del XVI secolo, che De Vos

fa suo e che resterà una costante del suo lavoro fino alla fine

della sua carriera.

Tiziano e la sua bottega crearono diverse copie e

variazioni di questa composizione, almeno sette delle quali

sono conosciute oggi. De Vos potrebbe aver visto in situ

la Maddalena del maestro veneziano, dal momento che

viaggiò in Italia tra il 1552 e il 1558 e trascorse un periodo

a Venezia. È più probabile, però, che conoscesse il modello

di Tiziano attraverso la stampa che ne fece Cornelis Cort.

Quest’ultimo infatti visse a Venezia e collaborò con Tiziano,

realizzando incisioni tratte dalle sue opere, tra le quali due

molto conosciute: San Gerolamo nel deserto e Maria Maddalena

penitente. MN

Fig. 4a Cornelis Cort, da una composizione di Tiziano, Maria Maddalena

Penitente, incisione. Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage,

inv. PK.OP.18347

L’alba di un’età dell’oro

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5. Maerten de Vos (1532-1603)

La Calunnia di Apelle

1594-1603 ca.

Olio su tavola, 111 × 180 cm

Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens (fino al 2019)

Dopo la riscoperta del testo dell’autore greco Luciano di

Samosata (120 d.C.-post 180 d.C.) che descrive La Calunnia,

il dipinto perduto di Apelle, diversi artisti – tra i quali Sandro

Botticelli, Andrea Mantegna, Federico Zuccaro e Raffaello –

crearono le loro versioni del tema, molto conosciuto da un

pubblico erudito ma scarsamente raffigurato nell’Europa settentrionale.

La Calunnia di De Vos è la prima interpretazione

visiva, oltre che l’unica conosciuta, nel sud dei Paesi Bassi.

È possibile che De Vos sia venuto a conoscenza di questo

soggetto durante il suo soggiorno in Italia, ma è più probabile

che a dargli l’input sia stata una stampa che circolava ad

Anversa e che Giorgio Ghisi aveva tratto da un’opera di Luca

Penni. De Vos si limitò a incorporare nel dipinto qualche

elemento della stampa, per facilitare l’identificazione delle

figure e l’interpretazione generale della scena.

Combinando due tradizioni, una letteraria e una visiva,

che avevano le loro radici nell’antichità, il soggetto della

Calunnia offriva agli artisti l’occasione perfetta per dimostrare

la loro conoscenza della letteratura classica. De Vos

aveva una conoscenza approfondita del retroterra letterario

e realizzò un dipinto sostanzialmente accurato, rispondente

al testo originale.

Il soggetto in sé – una rappresentazione allegorica

di tutti gli aspetti della calunnia, personificati dalle figure

di un re con le orecchie d’asino, e da Ignoranza, Sospetto,

Maldicenza, Inganno, Falsità, Invidia e Ingenuità, e della

redenzione attraverso Pentimento, Tempo e Verità – offre

l’opportunità di dispiegare una grande abilità artistica,

nel caso di De Vos potenziata dalle dimensioni dell’opera.

Con le sue graziose fanciulle adornate in maniera meravigliosa,

le vesti e i gioielli dalle fogge stravaganti ed elaborate,

e il paesaggio bucolico sulla sinistra, questa tavola, realizzata

dal pittore in una fase avanzata della sua carriera, si inserisce

perfettamente nell’opera di De Vos ed è un esempio della

sua capacità di coniugare lo stile italiano con quello

fiammingo. MN

L’alba di un’età dell’oro

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6. “Den Salm”, la bottega di Franchois Frans (1543-1560/61)

Attribuito

La conversione di Saulo

1547

Maiolica, 98 × 192 cm

Anversa, MAS – Museum aan de Stroom, Collection Vleeshuis,inv. AV.1571

BIBL.: Laurent 1922; Van Herck 1936, pp. 62-66; Douillez 1957; Groneman 1959a; Groneman 1959b; Donatone & Di Mauro 1981; Dumortier 1986, pp. 4-37; Van

Isacker & Van Uytven 1986, p. 159; Van der Stock et al. 1993, p. 253, n. 101; Caignie 1995, pp. 2-10; Dumortier 2002, pp. 27-32; Baeck 2008; Carvalho Dias 2013, p. 277;

Crepin-Leblond et al. 2016; De Vos et al. 2018.

Il prestigio internazionale di Anversa come centro del commercio

europeo di beni di lusso esercitò un forte richiamo sui

ceramisti italiani, che vi si stabilirono all’inizio del XVI secolo.

Le loro opere trasformarono la città sulla Schelda nella culla

della produzione della maiolica a nord delle Alpi.

La conversione di Saulo ne è un esempio. Realizzato nel

1547, è attribuito alla bottega “Den Salm”, famosa a livello

internazionale, fondata da Guido di Savino, conosciuto anche

come Guido Andries. Il ceramista italiano, originario di

Casteldurante (Urbania) nelle Marche, si stabilì ad Anversa

intorno al 1508. Nel periodo a cui risale La conversione di Saulo,

la bottega era diretta dal successore di Guido, Franchois

Frans (1543-1560/61), che subentrò al fondatore sposandone

la vedova nel 1543. Frans era un nipote di Jan Francisco da

Brescia, un esponente, insieme allo stesso Guido Andries e a

Janne Maria de Capua, della prima generazione di produttori

di maiolica italiani emigrati ad Anversa.

Sotto la guida di Franchois Frans, “Den Salm” produsse

su scala più ampia questo pannello dipinto con scene

narrative. Per dimensioni ed epoca, La conversione di Saulo,

composta da circa novanta piastrelle, è un raro esempio

sopravvissuto di pannello di maiolica anversese. La scena

centrale descrive il momento chiave nella vita dell’apostolo

Paolo prima di convertirsi al Cristianesimo, quando ancora si

chiamava Saulo di Tarso ed era uno spietato persecutore dei

cristiani. Saulo è raffigurato mentre cade da cavallo, accecato

da un fulmine che Dio gli ha scagliato contro. I soldati che lo

accompagnano a piedi e a cavallo sono presi dal panico.

Il pannello qui esposto è di una qualità eccezionale e

offre una brillante testimonianza di come la tecnica italiana

di pittura su maiolica, la luminosità dei colori e il linguaggio

formale elaborati in Italia e in Francia venissero assimilati

nella tradizione locale. ADV

L’alba di un’età dell’oro

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7. Maerten de Vos (1532-1603)

La salita al Calvario

1581

Penna, inchiostro bruno, acquerello, 229 × 202 mm

Collezione privata

Una processione apparentemente infinita scende serpeggiando

a sinistra e risale una collina a destra. Il contrasto

tra Gerusalemme, con la sua architettura imponente e

vagamente eccentrica, e il Golgota, un umile sito appena fuori

le mura della città, dove avverrà la Crocifissione, è sorprendente.

In primo piano al centro del quadro, a metà strada tra

il primo e il secondo luogo, vediamo Cristo che cade sotto il

peso della croce.

La processione avanza verso destra, ma Cristo,

in ginocchio e oppresso dalla croce, distoglie lo sguardo dalla

sua destinazione. Simone di Cirene, costretto dalle guardie,

lo aiuta a sollevare il pesante fardello. L’episodio di Simone

che solleva la croce è la quinta o settima stazione della

Via Crucis. Gli sguardi del Cireneo e di Cristo sono rivolti

all’uomo che tiene quest’ultimo incatenato alla sua mano

destra e che sta per colpirlo con un bastone.

Un uomo a cavallo, con la barba e un profilo austero,

la testa coperta da turbante, discute con un altro uomo che

indossa un berretto a punta. Gli ufficiali e i soldati a piedi

si dirigono verso la folla, in mezzo alla quale vediamo la

Vergine Maria e San Giovanni, di solito raffigurati molto

più vicini a Cristo, ma qui collocati discretamente in

alto a sinistra nel quadro. Questa disposizione distoglie

lo spettatore dal loro dolore, facendolo concentrare in

maniera più obiettiva sull’ingiustizia che viene fatta a Cristo,

e sull’indifferenza dei suoi aguzzini. La combinazione

efficace di inchiostro bruno e acquerello non contribuisce

semplicemente all’estetica generale del disegno, ma crea

anche splendidi effetti tonali e sottolinea la prospettiva

ingegnosa usata in questo foglio.

Una composizione simile si trova in una stampa

pubblicata da Gerard de Jode intorno al 1585. MN

Fig. 7a Antonie II Wierix, Maerten de Vos,

Christ Carrying the Cross, incisione de ‘Thesaurus novi

testamenti [...], Anversa, Gerard de Jode, 1585 ca..

Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-P-1988-312-317

L’alba di un’età dell’oro

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8. Maerten de Vos (1532-1603)

L’Assunzione di Maria

1587 ca.

Penna, inchiostro bruno, acquerello bruno,

lumeggiature bianche, cornice dipinta grigia, 187 × 143 mm

Collezione privata

La Vergine Maria, fluttuante tra le nuvole, viene condotta

in Paradiso dagli angeli che suonano vari strumenti. Ai suoi

piedi, sotto il muro di nubi, il sepolcro vuoto conferisce alla

composizione una modesta profondità. Il disegno è il modello

di un’incisione stampata da Sadeler come quattordicesima di

una serie sulla Vita di Cristo e della Vergine Maria.

La popolarità di quest’opera, di per sé abbastanza

tradizionale, scavalcò i confini dell’Europa quando una sua

versione dipinta fu collocata, intorno al 1582-83, sull’altare

maggiore della chiesa del convento francescano di San

Bonaventura, a Cuautitlán, in Messico, insieme ad altri tre

dipinti di San Pietro e di San Paolo, e dell’Arcangelo Michele.

Solo l’ultimo è firmato e datato 1581 e pare sia opera dello

stesso De Vos. La qualità degli altri tre dipinti è inferiore e fa

pensare a semplici studi.

La presenza delle opere di De Vos in un luogo tanto

lontano dalla città natale del pittore, Anversa, che in quel

periodo pativa la chiusura della Schelda e una complicata

situazione socio-politica che aveva spinto molti artisti a emigrare

al nord, testimonia la familiarità e i rapporti commerciali

di De Vos con i mercanti d’arte e la sua consapevolezza

delle opportunità migratorie dell’arte stessa. MN

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L’alba di un’età dell’oro


9. Maerten de Vos (1532-1603)

La riconciliazione di Giacobbe ed Esaù

1580-1585 ca.

Penna, inchiostro bruno, acquerello bruno, parziale cornice in inchiostro bruno, 270 × 375 mm

Collezione privata

Confuso in passato con una scena dalla vita di Alessandro

Magno, il disegno descrive più probabilmente la

riconciliazione tra Giacobbe ed Esaù. Il foglio è collegato

a un altro disegno firmato e datato 1581, conservato all’Art

Institute di Chicago. Da quest’ultimo, che descrive lo stesso

episodio, ma orientato in verticale, Johannes Sadeler ricavò

un’incisione che fa parte di una serie di scene dal Vecchio

Testamento e che reca un’iscrizione in latino sullo stesso tema.

Nel disegno in mostra, Esaù, che vent’anni prima è

stato defraudato dal fratello del suo diritto di primogenitura,

arriva all’incontro decisivo scortato da quello che sembra un

esercito. A sinistra, Giacobbe, ribattezzato Israele dopo aver

combattuto con un angelo, si prostra ai piedi del fratello e lo

implora di accettare il gregge e gli altri doni che ha portato

per chiedergli perdono. La folla che riempie il disegno

rappresenta le conseguenze dell’atto fraudolento di Giacobbe,

che non solo ha creato una spaccatura tra lui e il fratello,

ma anche tra le nazioni che da loro discendono.

La riappacificazione tra i fratelli è emozionante, perché

nel volto di Esaù, che aveva giurato di ucciderlo per vendicarsi

e ora gli mostra la tenerezza del suo perdono, Giacobbe

vede il volto di Dio. MN

L’alba di un’età dell’oro

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10. Maerten de Vos (1532-1603)

Giona inghiottito dalla balena

1585-1589 ca.

Penna, inchiostro bruno e acquerello, cornice bruna parzialmente mancante, 216 × 183 mm

Collezione privata

Maerten de Vos iniziò ad esplorare questo tema fin dal 1585.

Realizzò diversi disegni, progetti per incisioni e un grande

dipinto, tutti con lo stesso soggetto: Giona inghiottito dalla

balena. Un’incisione ricavata da questo modello in particolare

si deve a Crispin van de Passe e un’altra molto simile ad Antonio

Wierix, poi pubblicata da Jean Baptiste Vrints. Il dipinto,

datato 1589, fu distrutto durante la seconda guerra mondiale.

La storia avvincente dei mostri marini e della salvezza

finale offre opportunità pittoriche che De Vos sfruttò appieno.

Lo spettatore si trova di fronte una grande nave agitata con

violenza da un mare infuriato, che lotta per restare a galla in

mezzo alla tempesta, con onde tratteggiate con disinvoltura,

nuvole drammatiche e forti contrasti di luce e ombra. Il sacrificio

volontario di Giona è ormai inevitabile, mentre il suo

corpo sta per cadere in acqua. In primo piano, il grande pesce

spalanca la bocca, pronto a inghiottirlo, e intanto lo fissa con

uno sguardo selvaggio, terrificante.

I marinai cercano disperatamente di sciogliere le

vele, con movimenti eccessivi e teatrali, gesti sottolineati e

anatomie esagerate.

Questi elementi anticlassici, mutuati da Roma e Firenze,

sono combinati con un vocabolario pittorico scoperto nella

Venezia del XVII secolo e rimandano alla Tempesta attribuita a

Palma il Vecchio e conservata all’Accademia.

L’urgenza e la disperazione descritte nella storia biblica

dei marinai che lottano per rendere stabile la nave sovraffollata,

alleggerendola dal carico, sono raffigurate insieme al

barile spazzato via dal mare in burrasca. Nonostante il terrore

soverchiante del caos, il disegno di De Vos è eseguito con

grande raffinatezza e ricchezza di dettagli. La nave è ricca di

fantasia con il suo elegante ornamento della prua a forma di

proboscide di elefante e lo stemma araldico sulla poppa. MN

L’alba di un’età dell’oro

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11. Maerten de Vos (1532-1603)

Le virtù teologali e cardinali

1585-1603 ca.

Penna, inchiostro bruno, acquerello bruno, su due fogli giuntati, 62 × 241 mm

Firmato nella parte centrale in basso: “M D VOS”

Collezione privata

Le sette figure, che rappresentano le tre virtù teologali Speranza,

Fede e Carità, e quelle cardinali Prudenza, Giustizia,

Fortezza e Temperanza sono delineate con finezza e grande

sensibilità. In alcuni punti i contorni hanno una maggiore

evidenza, mentre un’ombreggiatura leggera suggerisce sottili

variazioni nei corpi e nello spazio che li circonda. Il foglio è

firmato ‘M D VOS’, accompagnato da iscrizioni con il nome

delle Virtù in fiammingo.

La collocazione delle figure allegoriche all’interno di

nicchie ricorda quella di un’altra serie di stampe morali di

De Vos,1 e le Virtù tornano anche in una terza serie.2 De Vos

era un disegnatore prolifico, e quasi certamente l’ideatore

di stampe più importante della sua generazione. A quanto

sappiamo, realizzò circa 500 disegni e più di 1600 modelli

originali per stampe. Era enciclopedico, passava dalle scene

del Vecchio e del Nuovo Testamento alle allegorie popolari

di Elementi, Pianeti, Continenti e Stagioni, oltre che di temi

morali.

Questo foglio rimanda a un album che contiene 70 piccoli

disegni di singole figure allegoriche, tracciate dall’artista

col proposito di utilizzarle per le decorazioni di Anversa

durante l’entrata trionfale di Ernesto d’Austria nel 1594, e oggi

conservate ad Anversa nella collezione Plantin-Moretus.

Anche le figure raccolte nell’album, come quelle in questo

92

L’alba di un’età dell’oro


disegno, sono identificabili grazie a note in fiammingo e a

precisi riferimenti iconografici, che testimoniano l’influenza

italiana sull’intera opera di Maerten de Vos. Gli attributi

assegnati dall’artista alle sue figure concordano, infatti, con le

guide compilate da autori italiani o italianizzati; tra queste

la Prosopographia di Philips I Galle e l’Iconologia di Cesare Ripa,

dove vengono codificate le allegorie e i loro simboli. MN

1 Hollstein 1169-1175.

2 Hollstein 1165-1168.

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12. Lodovico Guicciardini (1521-1589)

Descrittione di tutti i Paesi Bassi

Anversa, Christophe Plantin, 1581

2°: [24], 432, [20] p.

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. A MPM A 14

BIBL.: Voet 1980-1983, n. 1277; Deys, Franssen, van Hezik, te Raa & Walsmit 2001.

Per la sua descrizione Lodovico Guicciardini si basò, almeno

in parte, sulle informazioni raccolte durante i suoi viaggi

nelle varie provincie dei Paesi Bassi. Nipote dello storico

italiano Francesco Guicciardini, Ludovico, che era un

mercante, si stabilì da giovane ad Anversa, dove ebbe una

vita alquanto movimentata. Nel 1554, accusato di aver ucciso

un suo collega, fu costretto a lasciare momentaneamente la

città. Guicciardini fu poi messo in prigione nel 1569 per aver

criticato la politica del duca di Alba, il governatore dei Paesi

Bassi. Si ritrovò di nuovo in carcere nel 1582, questa volta per

le sue relazioni con un mercante spagnolo, in un periodo in

cui Anversa si era unita alla rivolta contro la Spagna.

Le prime edizioni della Descrittione di tutti i Paesi Bassi

furono pubblicate nel 1567 e nel 1568 dall’editore di Anversa

Willem Silvius. Quando anche Christophe Plantin decise di

far uscire un’edizione dell’opera, acquistò tutti i blocchi di

legno dalla vedova di Silvius, ufficialmente per aiutarla con

un po’ di denaro, ma probabilmente per ostacolare edizioni

concorrenti. Al contrario della versione pubblicata da Silvius,

che era illustrata con xilografie realizzate con quegli stessi

blocchi, Plantin fece incidere delle acqueforti su lastre di

rame, molto più dettagliate. Non sappiamo chi fossero gli

incisori, ma in una lettera l’editore accenna a «eccellenti

pittori e quattro incisori». Quel che sappiamo, invece, è che

al progetto prese parte anche il famoso cartografo Abraham

Ortelius.

Nel 1581 Plantin pubblicò un’edizione in italiano della

Descrittione, e l’anno seguente una in francese. Una nuova versione

italiana uscì nel 1588. La città di Anversa aveva un ruolo

di primo piano nel testo di Guicciardini e la sua descrizione

era accompagnata da illustrazioni di diversi edifici, come la

Cattedrale e il Municipio. Alle altre città, invece, era dedicata

un’unica immagine. Il libro di Guicciardini sui Paesi Bassi

ebbe un enorme successo, e oltre che in italiano e in francese

fu tradotto anche in tedesco (1580). La prima versione

olandese uscì ad Amsterdam nel 1612. DI

L’alba di un’età dell’oro

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13. Peter Paul Rubens (1577-1640)

Studio di busto romano: l’imperatore Galba (3 a.C.-69 d.C)

1605-1608 ca.

Gesso rosso, 233 × 155 mm

Anversa, Museo della Casa di Rubens, inv. RH.S.207

BIBL.: Jaffé 1968a, pp. 184-187; Anversa 1977, p. 271, n. 117; Logan 1977, p. 408; Limentani Verdis 1992, p. 145; Muller 1993, pp. 86-87.

Questo disegno in gesso rosso su carta color camoscio è stato

pubblicato per la prima volta come opera di Rubens nel 1968.1

L’attribuzione suscitò qualche perplessità, ma è ora largamente

accettata,2 così come l’identificazione del personaggio

ritratto con Servio Sulpicio Galba,3 diventato imperatore di

Roma dopo il suicidio di Nerone nel 68 dopo Cristo. Il popolo

gli si rivoltò subito contro, e Otone, che a sua volta mirava

a diventare imperatore dei romani, lo uccise. Iniziò così un

periodo caratterizzato da rapidi avvicendamenti al potere,

che sarebbe passato alla storia come l’“Anno dei quattro

imperatori”.4 Il ritratto di Galba compariva sulle monete

dell’epoca e in una serie di busti. Rubens studiò attentamente

uno di questi busti, disegnandolo da varie angolazioni.5

La forte somiglianza tra lo studio in gesso e i bozzetti tracciati

dall’artista sul suo taccuino, nei quali analizzava i lineamenti

del viso di Galba, avvalorano l’attribuzione del foglio a

Rubens e l’identificazione del soggetto. La maggior parte

di questi disegni, con l’unica eccezione quello conservato

a Chatsworth, sono sopravvissuti solo attraverso copie.6

Rubens studiò la testa dell’imperatore alla luce delle teorie

contemporanee sull’anatomia e la fisiognomica, incoraggiando

l’osservatore a ricollegare la biografia di Galba ai suoi

lineamenti estremamente spigolosi. L’interesse di Rubens per

Galba traspare anche da una serie di dipinti,7 e da un busto

dell’imperatore che, dopo essere appartenuto a Sir Dudley

Carleton, entrò a fare parte della collezione dell’artista nel

giugno del 1618.8 Non sappiamo se questo busto abbia fatto

da modello per i disegni eseguiti in precedenza, ma di sicuro

Rubens non usò lo studio in gesso rosso come modello per

un’altra opera. NB

1 Jaffé 1968a, pp. 184-187.

2 Logan, 1977, p. 408; Muller 1993, pp. 86-87.

3 Anversa 1977, p. 271, n. 117.

4 Svetonio, Vite dei Cesari, II, trad. Rolfe, 1997, pp. 201-205 (Galba, VII. 12-13).

5 Van der Meulen 1994, I, p. 78; III, fig. 245-246.

6 Jaffé 2002, I, p. 140, n. 1133. Per gli studi fisiognomici su Galba vedi

MS Johnson (Londra, The Courtauld Institute of Art), fols 66r, 71r; MS de

Ganay (Fondation Roi Baudouin) e MS Bordes (Madrid, Prado). Balis in corso

di pubblicazione.

7 Jonckheere 2016, pp. 95-96, 111-112, nos. 27 e 45.

8 Muller 1989, pp. 82-87.

96

Bozzetti e modelli per la gloria


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14. Anthony van Dyck (1599-1641)

da Tiziano (1488-1576)

Cristo e l’adultera

1622-1623 ca.

Penna, inchiostro ferrogallico, cornice a penna con inchiostro nero, 137 × 221 mm

Firmato in basso a sinistra, a penna con inchiostro bruno: ‘Anto. van Dyck F.’; iscrizione d’altra mano in basso a destra, a penna con inchiostro nero: ‘n.f.’

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.00120

BIBL.: d’Hulst & Vey 1960, pp. 92-93, cat. 56; De Nave 1988, pp. 183-184, cat. 37; Brown 1991, p. 170, cat. 46.

Questo disegno sciolto risale probabilmente al periodo

veneziano di Van Dyck, intorno al 1622-23. Da un punto di

vista stilistico è molto simile ai disegni che l’artista tracciò

sul suo album di schizzi durante i viaggi in Italia (Londra,

British Museum, inv. 1957,1214.207.1-121). Van Dyck impostò

la composizione, consistente in alcune figure a mezzo busto,

con linee decise a penna e inchiostro. La donna accusata di

adulterio è collocata al centro, circondata da cinque farisei,

e rivolge lo sguardo in basso, mentre Cristo – a sinistra –

si volta verso di lei e le porge la mano.

La linea orizzontale sotto il gruppo delle figure mostra

che non si tratta di una coincidenza se l’immagine termina

qui: Van Dyck stava copiando un dipinto di Tiziano sullo

stesso tema, oggi esposto al Kunsthistorisches Museum

di Vienna. Probabilmente vide il quadro – dipinto circa un

secolo prima e rimasto incompiuto – quando si trovava

ancora a Venezia. Come il suo maestro Rubens (vedi cat. 19),

nemmeno Van Dyck copiò esattamente il dipinto, ma fece

propria la composizione mentre la abbozzava. Il gesto forte di

Cristo che tende il braccio verso la donna è assente nell’opera

originale, mentre le pose e le espressioni del viso dei Farisei,

leggermente diverse, trasmettono un intenso coinvolgimento.

Lo sfondo aperto e la figura quasi completamente in ombra a

sinistra dell’adultera sottolineano ancora di più l’importanza

delle figure principali.

La firma di Van Dyck nell’angolo in basso a sinistra è un

elemento sorprendente: all’epoca era inusuale firmare così

un disegno preparatorio, e si è quindi pensato che l’artista

abbia regalato o venduto lo schizzo. La firma potrebbe aiutare

a spiegare come mai questo foglio sia sopravvissuto come un

raro disegno indipendente del periodo italiano. SVO

98

Bozzetti e modelli per la gloria


15. Anthony van Dyck (1599-1641)

La Cacciata dal Paradiso terrestre

1618-1621 ca.

Penna, pennello e inchiostro ferrogallico (recto). Penna e inchiostro ferrogallico (verso), 172 × 222 mm

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.00122

BIBL.: Lugt 1943, p. 109, fig. 19; d’Hulst & Vey 1960, p. 37, cat. 1; Brown 1991, p. 114, cat. 25; Galen 2012, p. 234, Z1

Questo studio esplorativo fuori dagli schemi, a penna e

pennello, regala uno sguardo eccezionale sul talento creativo

del giovane Van Dyck. All’interno di una cornice quadrata,

Adamo ed Eva sono raffigurati nell’atto di essere cacciati,

nudi, dal Paradiso terrestre dall’Arcangelo Gabriele che brandisce

una spada. Sullo sfondo, il serpente avvolge le sue spire

intorno all’albero della conoscenza del Bene e del Male. Come

suggerisce la cornice, il disegno, tracciato sul recto del foglio,

è probabilmente il risultato della ricerca della composizione

più adatta. Sul verso, Adamo ed Eva raminghi sono abbozzati

in quattro diverse pose (fig. 15a), forse disegnate prima della

composizione sul recto, nella quale il braccio sinistro di

Adamo riprende le ali dell’angelo.

Lo schizzo risale all’apprendistato di Van Dyck ad

Anversa. Anche Rubens incluse questa scena della Genesi,

molto in voga tra i pittori, nei suoi disegni preparatori per

gli affreschi del soffitto della Chiesa dei Gesuiti ad Anversa.

Dal contratto per quella commessa, firmato nel 1620, risulta

che si fece aiutare da Van Dyck. La fonte d’ispirazione più

immediata per quest’ultimo dev’essere stata, però, una xilografia

dell’artista svizzero Tobias Stimmer (1539-1584), forse

nota a Van Dyck attraverso una copia disegnata da Rubens.

Sembra che un bozzetto a olio su carta, attribuito all’artista

tedesco Jan Boeckhorst (1604-1668), attivo ad Anversa

dal 1626, sia stato tratto direttamente da questo disegno,

con finalità ancora da chiarire. SVO

Fig. 15a Anthony van Dyck, Quattro studi per Adamo ed Eva, 1618-21 ca.,

penna e inchiostro ferrogallico, 172 × 222 mm. Anversa, Museo Plantin-Moretus

UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.02267

Bozzetti e modelli per la gloria

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100


16. Jacques Jordaens (1593-1678)

Il martirio di Sant’Apollonia

1628

Penna, inchiostro marrone, acquerello bruno, acquerelli policromi, tempera, tracce di gesso nero, 510 × 275 mm. Foglio composto da quattro frammenti, centinato

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.00155

BIBL.: Jaffé 1968b, p. 170, n. 167; d’Hulst 1974, pp. 167-170, n. A73; d’Hulst 1993, pp. 26-27, n. B13; Merle du Bourg 2013, pp. 128-130, n. II-17

Questo disegno del martirio di Sant’Apollonia occupa un

posto importante nell’opera di Jordaens. Nel 1628 l’artista

collaborò con Rubens e Van Dyck a un progetto iconografico

dedicato alla Vergine Maria e a tutti i santi per gli altari

della Chiesa degli Agostiniani ad Anversa. Rubens realizzò

la pala per l’altare maggiore, mentre Van Dyck e Jordaens

dipinsero quelle per gli altari laterali. Per quanto ne sappiamo,

fu questa l’unica commessa che vide riuniti i tre grandi

capofila del Barocco anversese, probabilmente con Rubens

alla guida del gruppo.

In primo piano, un uomo su un cavallo marrone fa la

guardia mentre Sant’Apollonia viene condannata a morte.

Lei è inginocchiata su una predella tra un carnefice e un

sacerdote pagano. All’ordine di quest’ultimo, alla santa

vengono strappati tutti i denti, come punizione per essere

rimasta fedele al Cristianesimo invece di abbracciare il culto

di Giove, il cui simulacro è presente sullo sfondo. Il rogo sul

quale Apollonia finirà per gettarsi è già acceso in primo piano.

In cielo, gli angeli l’attendono con una corona di alloro e un

ramo di palma, attributi tradizionali dei martiri.

Il disegnò servì da modello per la pala d’altare e fu

eseguito secondo la tecnica caratteristica di Jordaens,

con acquerelli policromi e tempera. Evidentemente l’artista

stava ancora cercando una composizione che riscuotesse

l’approvazione del committente, perché il foglio è formato

da frammenti di carta sovrapposti, che coprono forse parti

originali dell’opera non rispondenti al gusto del cliente. A

questo proposito, sussistono anche varie differenze tra il

disegno e il dipinto definitivo, che potrebbero far pensare

che Jordaens abbia tratto da questo disegno un modello più

elaborato. BV

Bozzetti e modelli per la gloria

101


17. Jacques Jordaens (1593-1678)

Cristo tra i dottori

ante 1663

Pennello, inchiostro bruno, gesso rosso e nero, acquerelli policromi, lumeggiature bianche, cornice nera, su foglio prolungato sul fondo, 412 × 283 mm

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.00527

BIBL.: d’Hulst 1974, II, pp. 454-455, n. A395; Stampfle, Kraemer & Shoaf 1991, pp. 133-134, n. 288; d’Hulst 1993, pp. 104-105, n. B66.

Il giovane Gesù è in piedi di fronte a un leggio, in mezzo agli

scribi o “dottori” (Luca 2:41-50). Gli astanti, in abiti colorati,

reagiscono con stupore mentre Maria e Giuseppe, a destra,

guardano amorevolmente il Figlio. I disegni di Jordaens

spiccano per l’uso vivace del colore, come in questo caso,

con acquerello blu, giallo e di un marrone rossastro. Quando

ritoccava i suoi fogli, l’artista aggiungeva pezzi di carta come

la striscia incollata sul fondo di questo disegno.

La composizione era uno schizzo preparatorio per il

dipinto dell’altare maggiore della Chiesa di Santa Valburna a

Veurne (Mainz, Museo Statale, inv. 389). Il dipinto è firmato

e datato “Jc. Jor. Fec. 1663”, il che suggerisce che il disegno sia

stato eseguito poco prima di quella data. Un secondo schizzo

preparatorio, conservato alla Morgan Library & Museum

di New York (inv. III 170), mostra una composizione un po’

più stretta rispetto a quella dell’opera finale, ma nessuno dei

due fogli può essere considerato il progetto definitivo per il

dipinto. Jordaens prese elementi da entrambi: una dimostrazione

di come fosse solito dipingere i suoi quadri basandosi su

più di un progetto. EB

102

Bozzetti e modelli per la gloria


18. Jacques Jordaens (1593-1678)

Psiche consolata da Pan

1640 ca.

Gesso nero e rosso, acquerelli policromi, tempera, 282 × 367 mm. Foglio centrale ampliato sui quattro lati, vergato.

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.000163

BIBL.: d’Hulst 1974, II, pp. 323-324, n. A248; d’Hulst 1993, pp. 66-67, n. B41; McGrath 2009; Vander Auwera & Schaudies 2012, pp. 284-285, n. 106.

Il disegno ha un’origine insolita. Era un bozzetto preparatorio

per un dipinto che faceva parte di un ciclo sul mito di Amore

e Psiche. Intorno al 1639, la corte inglese decise di decorare la

Residenza della Regina a Greenwich con una serie sul tema.

Per ragioni economiche, l’identità del committente fu tenuta

segreta. Rubens e Jordaens furono contattati entrambi dal

diplomatico italiano Cesare Alessandro Scaglia. Dopo un

periodo di trattative e in seguito alla morte di Rubens nel

1640, l’incarico fu affidato a Jordaens.

All’artista fu chiesto di realizzare, come prova,

un dipinto con un elemento di paesaggio. Il risultato è questo

disegno di Pan che cerca di consolare Psiche, perché Amore è

fuggito dopo che la fanciulla ha scoperto la vera identità del

suo sposo. Psiche, in preda al dolore, aveva cercato di annegarsi,

ma la morte le era stata impedita dal fiume, personificato

della figura con la brocca, che l’adagia gentilmente sulla

riva. Qui viene trovata dal dio delle selve, Pan, che sta dando

lezioni di musica a Eco. Appena scorge Psiche, Pan smette di

suonare per consolarla e lei, seppure affranta, si mette alla

ricerca del suo amato.

Non deve stupire il fatto che Jordaens abbia scelto di

sottoporre questo episodio al committente, come esempio di

quanto avrebbe realizzato e delle sue abilità. Infatti, a partire

dagli anni Quaranta del XVII secolo, disegnò una gran varietà

di scene mitologiche in ambienti bucolici. Tra gli esempi

si possono annoverare le immagini di Diana e Callisto o il

Ratto d’Europa. Questa scena in particolare gli diede anche

l’opportunità di raffigurare degli animali, un soggetto che

amava e proponeva spesso.

Dopo aver delineato la composizione, Jordaens completò

il bozzetto con colori a acqua e tempera, secondo una tecnica

che gli era propria. Per il grado di finitezza dei suoi disegni,

questo artista merita un ruolo a parte rispetto ad altri maestri

del tempo. BV

Bozzetti e modelli per la gloria

103


19. Peter Paul Rubens (1577-1640)

Ercole strangola il leone di Nemea

1635-1638 ca.

Gesso rosso e nero, 363 × 498 mm

Annotazione in fondo al centro, a penna e inchiostro bruno: “I 18”

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. PK.OT.00110

BIBL.: De Nave 1988, pp. 114-116, cat. 17; Logan 2004, pp. 296-297, cat. 110; Van Hasselt 1974, pp. 135-137, cat. 101.

In questo disegno Peter Paul Rubens affronta un episodio

della mitologia greca dalla lunga tradizione storico-artistica.

Il re di Tirinto, Euristeo, ordinò a Ercole di compiere dodici

imprese eroiche, o “fatiche”, come punizione per aver sterminato

la sua famiglia. La prima consistette nello sconfiggere un

gigantesco leone nei dintorni della città di Nemea.

Rubens raffigura l’eroe greco mentre afferra alla gola

e sta per avere la meglio sulla belva che gli si è scagliata

contro. Il bozzetto preparatorio in gesso rosso e nero rivela

la ricerca, da parte dell’artista, della giusta posizione per il

protagonista e la sua preda. Ercole e il leone sono intrecciati al

centro del foglio nel vivo dell’azione. La forza muscolare dei

due avversari è rappresentata in maniera tanto convincente

che ci vuole un po’ per rendersi conto che sia l’eroe che la

belva hanno più arti del normale. Le due diverse posizioni

dell’eroe greco con la testa del leone tra le braccia sono

riprese succintamente a sinistra e a destra dell’immagine

centrale. Nonostante la spontaneità e l’espressività delle

linee, qui Rubens attinse sicuramente a rappresentazioni

precedenti del tema. Come di consueto, guardò sia ad esempi

antichi che contemporanei, ma, com’era tipico di questo

maestro, non si limitò a copiare i modelli.

Il disegno viene ascritto alla parte finale della vita

di Rubens, in parte anche per il modo di applicare il gesso

e per la scelta di una carta robusta. L’artista raffigurò più

volte la lotta di Ercole con il leone Nemeo, sia in altri disegni

che in bozzetti a olio e in dipinti, e questo rende ancora più

sorprendente l’evidente sperimentazione in corso in questo

disegno. SVO

104

Bozzetti e modelli per la gloria


20. Anthony van Dyck (1599-1641)

L’estasi di Sant’Agostino

1628

Olio su tavola, 44,5 × 27,5 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 5145

BIBL.: Martin & Feigenbaum 1979, n. 37; Wheelock, Barnes & Held 1990, n. 93;

Brown & Vlieghe 1999, n. 52; Barnes et al. 2004, n. III.40.

Quando era un giovane pittore ad Anversa, Van Dyck dipingeva

soggetti religiosi con passione, energia e forza inventiva.

Solo due di queste opere di grandi dimensioni gli furono

sicuramente commissionate da chiese (quella di San Paolo ad

Anversa e la Chiesa parrocchiale di Zaventem). Durante il suo

soggiorno in Italia (1621-27), Van Dyck riempì il suo album

di schizzi con motivi tratti da soggetti religiosi – soprattutto

gesti e espressioni di emozioni. Ai suoi clienti, però, interessavano

molto di più i suoi ritratti, e infatti i dipinti religiosi che

risalgono a quel periodo sono relativamente pochi.

Poco dopo il suo ritorno ad Anversa nel 1628, Van Dyck

fu incaricato di dipingere una pala d’altare da collocare

accanto a quelle di Jordaens e Rubens nella Chiesa di

Sant’Agostino. Quest’importante commessa lo consacrò

definitivamente come maestro ormai maturo, alla pari con

i suoi colleghi più anziani. Altri incarichi simili arrivarono

poco dopo: le pale d’altare per Gent, Dendermonde, Courtrai,

Mechelen, Lille, Bruxelles, e naturalmente Anversa.

Questo splendido bozzetto, dipinto con uno stile fluido,

è il primo di numerosi schizzi a olio realizzati da Van Dyck

in quel periodo, per la maggior parte destinati a pale d’altare.

Per lui, che all’inizio realizzava i suoi studi di composizione

con penna e inchiostro, si trattava di una tecnica nuova.

Il Concilio di Trento si era opposto con fermezza alle critiche

dei Protestanti al culto dei santi. Durante la Riforma cattolica,

però, la Chiesa intensificò il controllo sull’iconografia

religiosa, ed è possibile che questi bozzetti a olio servissero

come modelli da sottoporre all’approvazione dei committenti.

Il soggetto del dipinto non è un episodio specifico,

ma piuttosto la devozione di Agostino per la Trinità,

argomento sul quale il santo scrisse diffusamente. L’unico

cambiamento significativo tra il bozzetto e il dipinto

definitivo si trova nella posa della madre di Agostino,

Monica. Qui è inginocchiata accanto a lui ed è voltata di

schiena. Nella pala d’altare, invece, ha il viso rivolto verso

di noi, con un’espressione estatica simile a quella del figlio.

La spiritualità di Monica era stata un esempio per Agostino,

che nelle Confessioni racconta una visione avuta insieme a

lei ad Ostia, poco prima della morte della donna. Può darsi

che il dipinto alluda a quel ricordo, ma più semplicemente i

gesti e le espressioni di Agostino e di sua madre esprimono

la loro fede, la consacrazione a Dio delle loro vite e delle loro

volontà. SJB

Bozzetti e modelli per la gloria

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21. Peter Paul Rubens (1577-1640)

La crocifissione

1628

Olio su tavola, 51 x 38 cm, centinata e con bordi dipinti di marrone

Anversa, KBC Art Collection Belgium, Museo della Casa di Snijders e Rockox, Anversa, inv. 77.124

BIBL: Held 1980, I, pp. 485–486, n. 353, fig. 348; Jaffé 1989, p. 301, n. 886; Judson 2000, pp. 133–136, n. 34, ill. 104.

I cattolici più influenti, e non solo quelli dei Paesi Bassi

meridionali, ambivano a possedere pale d’altare dipinte da

Peter Paul Rubens (1577-1640). La Confraternita della Sacra

Croce della Chiesa di San Michele a Gent non faceva eccezione.

Dagli archivi diocesani risulta che i responsabili della

confraternita avevano deciso di decorare il transetto nord

della loro cappella appena restaurata con un’opera del grande

maestro di Anversa. A partire da un saggio scritto da Horst

Vey nel 1959,1 questo bozzetto a olio è stato posto in relazione

cronologica e iconografica con quella committenza.

Gli studi preparatori erano una fase essenziale nel

processo creativo di Rubens, in quanto gli consentivano di

elaborare lo stile e la composizione dei dipinti. A giudicare

dal livello di elaborazione, questo studio deve essere servito

anche come modello, in scala ridotta, da mostrare alla confraternita

per ottenere l’approvazione del progetto. Alla fine,

però, Rubens non poté ultimare la pala d’altare, probabilmente

a causa di impegni diplomatici all’estero, in particolare

a Madrid e a Londra tra l’autunno del 1628 e la primavera

del 1630. I committenti si rivolsero, allora, a Anthony van

Dyck (1599-1641), che presentò un nuovo modello, ispirato dalla

composizione rubensiana. 2

Con ampie pennellate e una gamma cromatica calda

e bilanciata, Rubens creò una composizione semplice e

compatta: Cristo sulla croce occupa la posizione centrale e ha

alla sua destra la madre devota e un protettivo San Giovanni,

a sinistra un gruppo di soldati zelanti. Maria Maddalena,

in ginocchio, abbraccia la base della croce e bacia un piede a

Gesù. Fa da sfondo all’azione un cielo annuvolato da un’eclissi

di sole. Sull’incisione che Jacob Neefs trasse dal modello di

Rubens si legge una scritta che conferma l’esatto momento

raffigurato.3 “Quando Gesù vide sua madre e accanto a lei il

discepolo prediletto, disse: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi si

rivolse al discepolo: «Ecco tua madre»”. (Giovanni 19:26-27).

Possiamo ipotizzare che la confraternita attraverso l’opera

volesse esprimere un messaggio di unione tra i credenti.

In questa versione della Crocifissione, Rubens seguì l’iconografia

tradizionale, ma, sull’esempio degli artisti italiani,

aggiunse dettagli realistici per aiutare i fedeli a immaginare

la scena nel modo più vivido possibile. Il dipinto, con la sua

valenza naturalistica ed emotiva, è dunque una trasposizione

perfetta dei precetti della Controriforma. MDH

1 Vey 1959, pp. 2, 9, 10, fig. 4.

2 Barnes et al. 2004, p. 263, nr. III.23, vedi anche pp. 263-264, n. III.24.

3 Voorhelm Schneevoogt 1873, p. 47, n. 324. Nella didascalia si legge: ‘ECCE

MATER TVA Ioan. 19’.

106

Bozzetti e modelli per la gloria


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22. Peter Paul Rubens (1577-1640)

L’Arco della Zecca (retro)

1634-1635

Olio su tavola, 104 × 71 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 317

BIBL. McGrath 1974, pp. 191-217; Martin 1972, pp. 19-203, n. 51; Held 1980, I, pp. 243-245, n. 164; II, fig. 165; Vervaert et al. 1990, pp. 82-85, n. 20; Van Hout & Balis

2010, p. 146; F.Lammertse, in Lammertse & Vergara 2018, pp. 176-178, n. 55.

L’arciduca Alberto d’Austria morì nel 1621, seguito qualche

anno dopo, nel 1633, dall’arciduchessa Isabella di Spagna,

sua vedova. Come loro successore col ruolo di reggente dei

Paesi Bassi meridionali, il re Filippo IV di Spagna (1605-1665)

nominò il Cardinale Infante Ferdinando (1609/10-1641) e in

suo onore, come richiedeva la tradizione, fece organizzare

una sfarzosa Entrata trionfale. I preparativi per la Pompa

Introitus Ferdinandi furono affidati al borgomastro Nicolaas

Rockox (1560-1640), che si fece aiutare da Jan Gaspar

Gevartius (1593-1666) e da Peter Paul Rubens.1 Gevartius ideò

l’architettura effimera e Rubens fu incaricato di decorarla.

In una lettera datata 18 dicembre 1634 il pittore si lamentava

dell’eccessivo carico di lavoro: «Sono così assorbito dai preparativi

per la nostra Entrata trionfale del Cardinale Infante

(che sarà alla fine di questo mese) che non ho il tempo né per

vivere né per scrivere […] perché i magistrati mi hanno messo

sulle spalle l’intero carico di questa festa, che a mio parere

non dispiacerebbe neanche a te per la fantasia e la varietà

dei soggetti, la novità della progettazione e l’accuratezza

dell’esecuzione».2

L’Arco trionfale pagato dalla Zecca di Anversa fu

progettato da Rubens in due diversi bozzetti a olio, nei quali

elaborò lo schema iconografico per il fronte e per il retro della

struttura. I temi e i motivi allegorici, che evocavano le passioni

dei maestri di zecca e del nuovo reggente, riguardavano

quasi esclusivamente l’estrazione e la lavorazione di metalli

preziosi. L’aspetto generale dell’arco alludeva alla celebre

montagna di Potosí, la più ricca e famosa delle miniere d’argento

della Spagna nel Nuovo Mondo. Nel livello più basso

della struttura, Rubens propose due diverse soluzioni per la

disposizione degli dei del fiume. Alla fine fu scelta quella a

sinistra, con la figura distesa in cima alla nicchia. Il portale

rustico fiancheggiato da erme è sormontato da un’altra nicchia,

all’interno della quale fa la sua comparsa Vulcano, il dio

fabbro, intento a forgiare una saetta d’oro sull’incudine. Alla

sinistra del dio, due uomini lavorano in una miniera, mentre

altri due alla sua destra portano fuori sacchi pieni d’oro.

La cima della montagna spicca al vertice della nicchia, che è

decorata con una collana di monete di rame, argento e oro.

Nel punto più alto cresce un albero, simbolo dell’albero delle

mele d’oro nel giardino delle Esperidi, e ai suoi piedi vediamo

Giasone, l’eroe greco che rubò il leggendario Vello d’oro, dopo

aver eluso la sorveglianza del terribile dragone, che Rubens

raffigura, sconfitto, ai piedi dell’albero. La figura sulla sinistra,

con in mano il modellino di una nave, è Felicitas, la personificazione

della fortuna. Jan Gaspar Gevartius spiegò tutti

dettagli di questa struttura allegorica in un erudito saggio in

latino, pubblicato dopo l’Entrata trionfale (cat.24) NB

Fig. 22a Peter Paul Rubens, L’Arco della Zecca, (retro), olio su tavola,

104 × 71 cm, Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 316

1 Berghaus 2005.

2 Martin 1972, p. 26; Rooses & Ruelens 1887-1909, I, p. 82.

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23. Peter Paul Rubens (1577-1640)

Carro trionfale di Kallo

1638

Olio su tavola, 103 × 71 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 318

BIBL.: Martin 1972, pp. 216-221, n. 56; Held 1980, I, pp. 388-390, n. 289; II, tav. 290; Vervaet et al. 1990, pp. 88-89, n. 21; Van Hout & Balis 2010, pp. 42-43, 59-61, 88-89,

125, 150; F. Lammertse, in Lammertse & Vergara 2018, p. 180, n. 56.

Il 21 giugno 1638 il Cardinale Infante Ferdinando (1609/10-

1641) riportò una schiacciante vittoria sugli eserciti delle

province olandesi ribelli. La battaglia si svolse a Kallo,

un villaggio delle Fiandre orientali, a nord di Anversa. Pochi

giorni dopo Ferdinando inflisse una pesante sconfitta anche

alle truppe francesi che assediavano Saint-Omer. Le autorità

di Anversa decisero di celebrare degnamente questi due trionfi

e commissionarono a Peter Paul Rubens il progetto di un carro

allegorico che doveva sfilare lungo le vie della città. Per un

bozzetto a olio, che nelle dimensioni e nell’esecuzione somiglia

al bozzetto per la Pompa Introitus Ferdinandi (cat.22),1 l’artista fu

pagato in vino per un valore di 84 fiorini.

Questo grande bozzetto raffigura lo sfarzoso carro e

le sue decorazioni allegoriche, che occupano quasi tutto lo

spazio della composizione. Le zampe posteriori dei cavalli

si intravvedono appena, davanti al gancio di trazione sulla

sinistra. A sinistra dell’esibizione centrale dei trofei, raggruppati

a formare l’albero di una nave, si vede il prospetto

del carro dall’alto. La struttura nel suo insieme ha la forma

di una barca, emblema della fortuna, o Felicitas, delle

vittoriose campagne militari, ed è pilotata dalla Providentia

Augusta, personificazione allegorica della lungimiranza

imperiale. Dietro di lei notiamo altre due figure femminili,

che rappresentano le città di Anversa e Saint-Omer, mentre

sopra le loro teste l’araldo che annuncia la vittoria suona

una fanfara gioiosa. Due dee della vittoria, con in mano serti

trionfali, stanno in piedi ai lati dell’albero, cinto da alloro e

decorato con un bottino di armi e trofei. I prigionieri poco

più sotto sono un classico simbolo di conquista.2 Completano

la composizione, a poppa della barca, la Virtù e la Fortuna,

di fronte a un blasone asburgico inghirlandato. Il complesso

schema visivo di questa composizione ricca di significati

simbolici è integrato ed esplicitato da una serie di iscrizioni.

Il 6 dicembre 1641 le autorità di Anversa decisero di includere

il progetto del carro trionfale nel libro del Pompa Introitus,

che non era ancora stato pubblicato (cat.24).3 Nel frattempo,

Rubens era morto. Theodoor van Thulden (1606-1669) realizzò

un’incisione non rovesciata del motivo centrale del disegno,

e Jan Gaspar Gevartius (1593-1666) scrisse un testo latino

d’accompagnamento che fornisce una spiegazione dettagliata

dei motivi nell’immagine. NB

1 Martin 1972, p. 217.

2 Büttner 2018, I, p. 226.

3 Van den Branden 1883, p. 571.

Bozzetti e modelli per la gloria

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24. Jan Gaspar Gevartius (1593-1666)

Pompa Introitus Ferdinandi

Anversa, Jan van Meurs, 1641-1642

560 × 415 mm

Anversa, Museo della Casa di Rubens, inv. RH.B.001

BIBL.: Arents 1950; Judson & Van de Velde 1977, pp. 327-334, n. 81; Uppenkamp & Van Beneden 2011, p. 165, n. 46; Knaap & Putnam 2013, p. 321; Bertram & Büttner

2018, pp. 174-179, n. 51; Manfré 2013, pp. 43-54.

Il Cardinale Infante Ferdinando (1609/10-1641), nuovo

reggente dei Paesi Bassi, fu accolto ad Anversa il 17 aprile

1635 con una cerimonia solenne. Questa Pompa Introitus,

o Entrata trionfale, non fu semplicemente una festa

sontuosa, ma anche un rituale politico carico di significati

simbolici, attraverso il quale le città dei Paesi Bassi

esprimevano la loro lealtà al reggente. In cambio, il nuovo

governatore riconosceva e rinnovava i diritti e i privilegi

locali già stabiliti.1 Anversa si aspettava grandi cose dal nuovo

governatore, lo straordinario vincitore della famosa battaglia

di Nördlingen. La situazione politica era tesa e la guerra

protratta con le province ribelli del nord aveva condotto la

città sull’orlo del baratro. Sotto questa luce, l’intero progetto

iconografico delle decorazioni celebrative può essere visto

come un accorato appello al re di Spagna e al suo nuovo viceré,

affinché aiutassero finanziariamente ed economicamente

Anversa mentre attraversava un periodo difficile.

Per sottolineare la natura dell’appello, la città pubblicò

un resoconto delle celebrazioni.2 Appena un mese dopo

l’accoglienza solenne, una copia del testo scritto da Jan Gaspar

Gevartius fu spedito a Bruxelles. Attraverso la vendita di un

lussuoso volume, le autorità comunali di Anversa speravano

di recuperare una parte delle ingenti spese sostenute per il

progetto, e a questo scopo avevano incaricato Theodoor van

Thulden (1606-1669) di realizzare venticinque acqueforti degli

archi trionfali e delle impalcature, oltre a quindici vedute

dettagliate dei dipinti più importanti che contenevano. Tutte

queste illustrazioni furono stampate insieme al testo di

Gevartius.3

La pubblicazione si rivelò complicata, e di conseguenza

il volume non fu presentato se non cinque anni dopo l’evento.

Il frontespizio era stato disegnato appositamente da Rubens e

inciso da Jacob Neefs. Delle seicento copie stampate, duecento

furono destinate alle autorità comunali di Anversa. Complessivamente,

duecento furono stampate su carta veneziana e

quattrocento su carta di Lione, mentre cinque copie furono

impresse su pergamena – sia il testo che le stampe – e tre

di queste colorate a mano.4 La lussuosa pubblicazione ci dà

almeno un’idea dell’intenzione sottesa al progetto iconografico,

mentre i frammenti superstiti delle decorazioni dipinte

ci restituiscono un’ombra dello splendore perduto. Tuttavia,

pur nella loro imponenza, le grandi acqueforti di Theodoor

van Thulden rendono senza dubbio solo un’impressione

parziale della magnificenza e dello splendore della produzione

complessiva. NB

1 Martin 1972, p. 23.

2 Arents 1950, pp. 82, 86-89, 126, 127.

3 Martin 1972, pp. 225-226.

4 Judson & Van de Velde 1977, I, pp. 117-118.

Bozzetti e modelli per la gloria

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25. Peter Paul Rubens (1577-1640)

Minerva sconfigge l’Ignoranza

1634-1635 ca.

Olio su tavola (supporto originario in legno trasferito su tela, poi applicato a un nuovo supporto in quercia e sughero), 62,4 × 48,4 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 802

BIBL.: Burchard 1950, p. 27, n. 24; Held 1980, I, pp. 213-214, n. 142; II, fig. 149; Vervaet et al. 1990, p. 74, n. 15; Martin 2005, I, pp. 256-262, n. 7b; II, fig. 115; Van Hout &

Balis 2010, p. 160.

Si tratta di un bozzetto preparatorio per un dipinto alto

più di cinque metri, che faceva parte di un grande ciclo

figurativo: l’unica commessa di grandi dimensioni eseguita

dalla bottega di Rubens che si trovi tuttora nella collocazione

originaria. Durante la fortunata missione diplomatica del

pittore in Inghilterra, il re Carlo I (1600-1649) gli aveva

commissionato un progetto per il soffitto della Banqueting

House di Whitehall Palace a Londra,1 un edificio maestoso

progettato dall’architetto Inigo Jones (1573-1652) e costruito

tra il 1619 e il 1622. A Rubens fu chiesto di decorare lo spazio

prima che fosse completato, ma non presentò i progetti fino

al 1633-34, dopo il suo ritorno a Londra.

Il potere degli Stuart si reggeva sull’unione delle

corone d’Inghilterra e di Scozia, e il ciclo di dipinti aveva

per tema questa unione. Da Rubens ci si aspettava anche

che raffigurasse l’impegno del monarca a portare avanti la

politica di pace iniziata dal padre e a instaurare la monarchia

assoluta, che Giacomo I aveva difeso in discorsi e trattati.

Queste dichiarazioni programmatiche dovevano essere

tradotte in un linguaggio allegorico adeguato, che sarebbe

risultato particolarmente efficace nella sala dei banchetti,

con il suo doppio ordine di colonne. Si trattava di un compito

impegnativo, soprattutto per l’altezza straordinaria dei

soffitti: più di sedici metri.

Nel progetto alquanto elaborato che glorificava la

dinastia Stuart, si vede una Minerva trionfante all’interno

di un dipinto ovale, collocato accanto alla rappresentazione

allegorica dell’unione tra Inghilterra e Scozia. Secondo

quanto si legge nella commissione, Rubens fu incaricato

di mostrare il trionfo della «saggezza che calpesta l’ignoranza».2

Per effigiare il sapere, o la saggezza, Rubens ricorse

all’iconografia tradizionale di Minerva, la dea corazzata della

scienza e delle arti. Mancava, invece, uno schema codificato

per raffigurare l’ignoranza, e infatti gli storici dell’arte si sono

trovati in difficoltà quando hanno cercato di interpretare

questa figura. Rubens optò per l’immagine di una donna dalla

bruttezza grottesca e lunghe orecchie asinine, segni tradizionali

di stupidità e ignoranza. Lo sfondo della composizione,

in origine abbozzato in modo sommario, fu rimaneggiato

nell’Ottocento. NB

1 Martin 2005, I, pp. 19-40; Martin 2011, pp. 101-119.

2 Martin 2005, I, p. 256.

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Bozzetti e modelli per la gloria


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26. Peter Paul Rubens (1577-1640)

La marca tipografica dello stampatore Jan van Meurs

1630-1631 ca.

Olio su tavola, 20,3 × 21,3 cm

Iscrizione sul un cartiglio: “NOCTV INCVBANDO DIVQVE” (“Notte e giorno covo”)

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM.V.IV.59

BIBL.: Judson & Van de Velde 1977, cat. 60a; Held 1980, cat. 307.

Rubens era molto coinvolto nel mondo dell’editoria di

Anversa, soprattutto per i suoi rapporti personali con la

famiglia Plantin-Moretus. Per loro, e per altri tipografi

della città, produsse i disegni per illustrazioni e frontespizi.

Jan van Meurs (1583-1652), anche lui di Anversa, divenne

socio dell’impresa dei Plantin nell’aprile del 1618, dopo la

morte di Jan II Moretus, uno dei due fratelli che dirigevano

la tipografia. La società tra Van Meurs e Balthasar Moretus

durò fino al 1629, quando i due litigarono e divisero le loro

strade. Van Meurs fondò allora una stamperia tutta sua,

conosciuta come De Vette Hinne (La chioccia grassa), in una

casa di Cammerstraat. Fu il nome dell’edificio a suggerirgli

l’idea di scegliere come marca una gallina che depone uova

notte e giorno, un’allusione alla sua incrollabile dedizione

al lavoro. E fu sempre Van Meurs, probabilmente, ad avere

l’idea iniziale, che poi Rubens elaborò e disegnò. La chioccia

ha appena deposto le uova ed è appollaiata tra due rami

di palma che reggono una lampada a olio, simbolo di

splendore e saggezza, e incorniciata dalle teste di profilo

di Minerva e Mercurio, che imitano due busti scolpiti e

simboleggiano la Conoscenza e il Commercio. Minerva

regge la testa della Gorgone e Mercurio un borsellino,

entrambi hanno accanto i loro animali simbolo: una civetta

per la dea, un gallo per il dio. Sia il gallo che la civetta

mettono in evidenza il motto sul cartiglio.

La marca tipografica dello stampatore fu adoperata

per la prima vota sul frontespizio dello Speculum Aureum

Vitae Moralis, seu Tobias ad vivum delineatus, explicatus et per

selectiora moralia illustratus, un saggio alquanto prolisso sul

Libro di Tobia, scritto da David van Mauden e stampato

da Van Meurs nel 1631: questo fu il primo volume ad avere

sul frontespizio la marca tipografica disegnata da Rubens

(fig. 26a). Il modello preparatorio, specchiato, è conservato al

Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo (la parte sottostante

in gesso nero è probabilmente opera di un assistente,

mentre quella a penna è dello stesso Rubens). È punzonato

per la trasposizione e fu utilizzato da Cornelis Galle il

Vecchio per l’incisione del disegno per Van Meurs. CB

Fig. 26a. David van Mauden, Speculum Aureum Vitae

Moralis, Anversa, Jan van Meurs, 1631: frontespizio.

Anversa, Museum Plantin-Moretus, UNESCO World

Heritage, inv. MPM A 1858.2

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Bozzetti e modelli per la gloria


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27. Peter Paul Rubens (?) (1577-1640)

Disegno per il frontespizio dei Poemata

di Urbano VIII

1634

Penna e matita, 198 × 147 mm

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM.TK.390

BIBL.: Judson & Van de Velde 1977, I, pp. 283-287, n. 68b.

Nel 1634 Balthasar Moretus pubblicò diversi volumi di poesia

religiosa con frontespizi ricavati da disegni di Peter Paul

Rubens. Stampò nel piccolo formato in-ventiquattresimo

una raccolta di poesie dei gesuiti Bernardus Bauhusius,

Balduinus Cabillavus e Carolus Malapertius e uno scritto del

gesuita tedesco Jakob Bidermann. Usò, invece, il formato più

grande in-quarto per un’antologia poetica del gesuita polacco

Mathias Casimir Sarbievius e per una raccolta di poesie

dell’allora papa Urbano VIII (fig. 27a).

Quest’ultimo – il cui nome era Maffeo Barberini –

era salito al soglio pontificio nel 1623. I suoi versi furono

pubblicati a Roma nel 1631 dalla Tipografia Vaticana, in una

lussuosa edizione che aveva per frontespizio un’incisione di

Claude Mellan tratta da un disegno di Gian Lorenzo Bernini.

Balthasar Moretus cercò di fare di meglio: in quel periodo

infatti era molto impegnato a consolidare le sue relazioni

col Vaticano, dopo essere venuto a conoscenza della morte

dei cardinali che fino ad allora lo avevano protetto. Questa

edizione di grande formato delle poesie di Urbano VIII

rientrava nella strategia dell’editore di Anversa per garantirsi

l’appoggio del papa e del suo entourage.

Il frontespizio fu disegnato da Peter Paul Rubens che,

come Bernini, attinse per il tema a una storia biblica su un

leone. Bernini aveva raffigurato il Re David, il presunto

autore dei Salmi, il quale, poco prima della battaglia col

gigante Golia, aveva rivelato al Re Saul di aver tratto in

salvo, in passato, gli agnelli di suo fratello dalle fauci di

un leone famelico. Rubens, per contrasto, scelse Sansone,

un altro eroe biblico che aveva sconfitto una fiera simile.

Mentre si recava a Timna, aveva infatti ucciso un leone a

mani nude. Quando poi era tornato sul posto, si era accorto

che uno sciame d’api aveva fatto il miele nella carcassa

dell’animale. Rubens scelse un racconto legato alle api in

omaggio allo stemma della famiglia Barberini, sul quale ne

comparivano tre. Nell’antichità si credeva che le uova degli

Fig. 27a Urbano VIII,

Poemata, Anversa, Balthasar I

Moretus, 1634. Anversa,

Museo Plantin-Moretus

UNESCO World Heritage,

inv. mpm B 932

insetti si schiudessero dentro i corpi degli animali morti e che

attraverso le api le anime giungessero in paradiso.

Nell’aprile del 1634, Balthasar Moretus spedì tre copie

del libro a Roma; due erano avvolte in velluto rosso: una per

il papa e l’altra per il cugino del papa, il potente cardinale

Francesco Barberini. DI

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Bozzetti e modelli per la gloria


28. Erasmus Quellinus (1607-1678)

Peter Paul Rubens (1577-1640)

Disegno per il frontespizio delle Icones

imperatorum di Hubertus Goltzius

1645

Penna, bistro e acquerello bistrato, lumeggiature bianche, 310 × 213 mm

In basso a sinistra l’iscrizione: “E. Quellinius Inuent”

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM TK 398

BIBL.: Judson & Van de Velde 1977, I, p. 340-343, sotto n. 83.

Nel 1631 Balthasar Moretus acquistò da Peter Paul Rubens

328 copie dei libri di Hubertus Goltzius sulle monete

antiche, insieme alle lastre di rame usate per illustrarli.

L’idea di Moretus era dare una nuova veste grafica ai volumi

e rimetterli sul mercato. Per arricchire i quattro tomi decise

anche di ripubblicare la vecchia opera di Goltzius con le

effigi degli imperatori romani. Le lastre di rame usate per

i ritratti non rientravano nel lotto che aveva acquistato da

Rubens, così Moretus commissionò all’intagliatore Christoffel

Jegher una nuova serie di xilografie. Per i frontespizi,

invece, fece realizzare a Erasmus Quellinus nuove incisioni

da idee di Rubens. Ci vollero diversi anni per portare a

termine l’intero progetto, che risultò troppo lungo perché

Balthasar potesse vederne la fine. La pubblicazione avvenne

sotto il suo successore, suo nipote Balthasar II, nel 1645.

Il frontespizio del libro mostra tre imperatori, ciascuno

dei quali rappresenta un momento particolare della

Storia: in alto vediamo Giulio Cesare, il primo imperatore

dei Romani, insieme al primo imperatore cristiano, Costantino,

a sinistra del titolo, e al primo imperatore asburgico,

Rodolfo I, a destra. Nel XIII secolo Rodolfo divenne il primo

di una lunga serie di Asburgo che regnarono sul Sacro

Romano Impero e che si consideravano discendenti diretti

degli imperatori romani. Nella parte inferiore dell’immagine

sono collocati diversi oggetti, che simboleggiano

l’esercizio dell’autorità: il timone rappresenta un governo

saggio, i fasci littori associati ai consoli romani sono un

emblema di potere, e il serpente che si morde la coda è un

simbolo dell’eternità così come, probabilmente, il sole e la

luna effigiati in alto. DI

Fig. 28a Hubertus Goltzius, Icones imperatorum ex priscis

numismatibus … delineatae & brevi narratione historicâ illustratae,

Anversa, Balthasar II Moretus, 1645. Anversa, Museo Plantin-

Moretus UNESCO World Heritage, inv. mpm K 398 V

Bozzetti e modelli per la gloria

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29. Anthony van Dyck (1599-1641)

Studio per il ritratto di un alto funzionario di Bruxelles

1634 ca.

Olio su tela, 55,3 × 45,1 cm

Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa (fino al 2019)

BIBL.: Barnes et al., 2004, cat. III. 169 (Parigi), cat. nos. 196 e 197 (Ashmolean); Alsteens & Eaker 2016, cat. 33.

Van Dyck dipinse due grandi ritratti di gruppo che restarono

esposti nel Municipio di Bruxelles finché questo non venne

distrutto durante il bombardamento da parte dei francesi

nell’agosto del 1695. Il primo gli era stato commissionato

nel 1628, poco dopo il suo ritorno da un lungo soggiorno in

Italia. Della composizione non restano testimonianze visive,

ma a giudicare dalle descrizioni dei contemporanei doveva

mostrare più di venti soggetti seduti e a grandezza naturale.

Van Dyck realizzò diversi ritratti preparatori tagliati all’altezza

del busto; oggi ne conosciamo cinque. Il primo ritratto

di gruppo ebbe sicuramente successo, perché a Van Dyck ne

fu commissionato un altro, nel 1634-35, quando si trovava

nelle Fiandre. Una volta finito, il quadro fu appeso nel

Municipio. L’unica testimonianza che ne resta è un bozzetto

a olio, conservato nella collezione della Scuola delle Belle

Arti di Parigi (fig. 29a). Il bozzetto mostra una composizione,

alquanto statica, di sette alti funzionari seduti in due file

– tre a sinistra e quattro a destra (il quarto è in piedi) – ai lati

di una Giustizia bendata. Si tratta di magistrati membri del

Vierschaar (tribunale), la corte di giustizia più antica della città.

Non sappiamo se il dipinto definitivo ricalcasse esattamente

il bozzetto a olio: è possibile, almeno a giudicare dalle descrizioni

del quadro fatte dai visitatori del Municipio (citate in

Barnes et al. 2004, cat. III. 169), ma nessuna è abbastanza

precisa da permetterci di esserne certi.

Prima di dipingere questo grande ritratto di gruppo,

Van Dyck, che in quel periodo visse per qualche tempo a

Bruxelles, realizzò diversi studi preparatori per ciascun

personaggio. Due di questi studi, straordinariamente vividi,

si trovano all’Ashmolean Museum di Oxford (fig. 29b). Questo

ritratto, scoperto di recente, appartiene allo stesso gruppo,

ed è immediato nel catturare efficacemente la somiglianza,

nonostante un tempo di posa che immaginiamo abbastanza

breve. CB

Fig. 29a Anthony van Dyck, La Giustizia affiancata da sette magistrati di Bruxelles,

1634 ca., olio su tavola, 26,3 × 58,5 cm. Parigi, École nationale supérieure des

Beaux-Arts (ENSBA)

Fig. 29b Anthony van Dyck, Studio di ritratto maschile, 1634 ca.,

olio su tela, 52 × 46 cm. Oxford, Ashmolean Museum, inv. WA1855.173

Bozzetti e modelli per la gloria

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30. Peter Paul Rubens (1577-1640)

La flagellazione di Cristo

1617 ca.

Olio su tavola, 37,4 × 35,1 cm

Gent, Museo di Belle Arti, inv. 1910-Z

BIBL.: Held 1980, pp. 469-470, n. 342, tav. 336; Judson 2000, pp. 62-63, n. 11a, fig.. 25.

Rubens dipinse questo bozzetto a olio in preparazione della

sua Flagellazione di Cristo (fig. 30a), una delle opere del ciclo

I quindici misteri del Rosario, che era stato commissionato

verso il 1617 per sottolineare l’acquisizione della Madonna del

Rosario di Caravaggio per la Chiesa di San Paolo ad Anversa.

La diffusione del culto del rosario era uno degli obiettivi

dei Domenicani, per il cui ordine la chiesa di Anversa era

particolarmente importante. Il culto aveva un ruolo chiave

nel trionfalismo romano cattolico del XVII secolo, riflettendo

in parte la convinzione secondo la quale grazie alla preghiera

del rosario una flotta cattolica agli ordini di don Giovanni

d’Austria era riuscita a sconfiggere i Turchi nel 1571. I quindici

dipinti non furono eseguiti tutti dallo stesso artista: oltre a

Rubens, collaborarono anche Van Dyck e Jordaens, insieme

a un gruppo di artisti meno conosciuti. A pagare i quadri

non fu la congregazione domenicana, ma singoli benefattori,

compresi i parenti dei monaci dell’abbazia anversese.

La tavola di Rubens fu donata alla chiesa da Louis Clarisse,

un prominente mercante di seta di Anversa.

Questa Flagellazione fu probabilmente ispirata dal dipinto

di Sebastiano del Piombo dal medesimo soggetto, che era

stato realizzato su un modello di Michelangelo per San Pietro

in Montorio a Roma. Rubens aveva sicuramente visto questa

famosa composizione, che influenzò profondamente le sue

successive raffigurazioni del Cristo flagellato, durante gli

anni di formazione in Italia, e in particolare nel lungo periodo

che trascorse a Roma. HV

Fig. 30a. Peter Paul Rubens, La flagellazione di Cristo, 1617 ca., olio su tavola,

220,5 × 163,5 cm. Anversa, Chiesa di San Paolo

122

Dipingere per la Chiesa e per la corte


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31. Tiziano (1488-1576)

Jacopo Pesaro presentato a San Pietro da papa Alessandro VI

1511-1513 ca.

Olio su tela, 145 × 185 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 357

BIBL.: Sinding-Larsen 1962, pp. 159-161; Hope 1980, pp. 23-26; Pedrocco 2000, p 85; A. Ballarin, in Laclotte 1993, pp. 368-375; Joannides 2001, pp. 151-155; C. Campbell,

in Falomir 2003, pp. 1-8; Campbell 2003b, pp. 144-145; Brown 2005, pp. 429-434; Humfrey 2007, pp. 70-71; Gentili 2012, pp. 14-17; Villa 2013, pp. 78-79; Brown 2013,

pp. 47-89; Brown 2015, pp. 85-105.

Jacopo Pesaro, qui ritratto in ginocchio davanti a San Pietro,

apparteneva a una delle più illustri famiglie veneziane.

Nato verso il 1465, aveva intrapreso la carriera ecclesiastica,

prima come frate domenicano e poi come prelato. Fu uno

dei luogotenenti di fiducia del famigerato papa Alessandro

VI Borgia, il cui pontificato durò dal 1492 al 1503. Nel 1495

Pesaro fu nominato vescovo titolare di Pafo, sull’isola di Cipro

controllata dai Veneziani. Nella tela è presentato a Pietro,

la “pietra” sulla quale Cristo edificò la sua Chiesa e il primo

papa della storia, da Alessandro VI, risplendente nella sua

tiara adorna di pietre preziose e nella sua veste sfolgorante

di verde e oro. San Pietro solleva la mano destra, come per

benedire Jacopo Pesaro. Il trono su cui siede è decorato con

bassorilievi all’antica, varianti di composizioni effigiate

su cammei, gemme incise e medaglie già note a Pesaro e ai

suoi sodali di Venezia. Il rilievo più grande, in basso, sembra

raffigurare un sacrificio ad Afrodite, la dea dell’amore, il cui

culto aveva le sue origini proprio a Pafo.

Jacopo Pesaro commissionò questo dipinto a Tiziano per

celebrare l’evento più importante della sua vita. Il 30 agosto

del 1502 aveva, infatti, piantato il vessillo di Alessandro

VI sulla fortezza più imponente dell’isola di Santa Maura,

adesso conosciuta come Leucade, nello Ionio. Pesaro era

il comandante dell’armata navale del papa, che – insieme

alle truppe alleate spagnole e veneziane (queste ultime al

comando di Benedetto, cugino di Jacopo) – aveva strappato

l’isola ai Turchi ottomani. Le imbarcazioni a sinistra nel

dipinto di Tiziano sono un’allusione a quella vittoria. Anche

se Jacopo Pesaro visse fino al 1547, la presa di Santa Maura

restò sempre il punto più alto della sua carriera pubblica,

una vittoria dalla quale trassero vantaggio Venezia e lo Stato

pontificio da lui servito.

Tiziano dipinse quest’opera più o meno dieci anni dopo.

La composizione adotta il formato tradizionale del ritratto

votivo veneziano, nel quale un committente (di solito un

governante della città, il Doge) è presentato dal santo di cui

porta il nome alla Vergine e al Bambino. Il dipinto di Tiziano

rimanda a questo genere di opere, ma ha un carattere più

personale, e fu probabilmente eseguito per una collocazione

privata. La notizia più antica che si ha del quadro risale al

1622, attraverso un disegno che Anthony van Dyck trasse dal

dipinto durante il suo wanderjahre in Italia. CC

124

Dipingere per la Chiesa e per la corte


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126


32. Cornelis de Vos (1584/5-1651)

La restituzione a San Norberto dei tesori provenienti dalla Chiesa di San Michele ad Anversa

1630

Olio su tela, 153 × 249 cm

Firmato e datato in fondo a destra: “C. DE VOS. FECIT/ A°. 1630”

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 107

BIBL.: Van der Stighelen 1990, pp. 144-150, n. 59, ill.

San Norberto, sulla sinistra, con indosso l’abito talare di arcivescovo

di Magdeburgo, è circondato dai monaci norbertini

dell’Abbazia di San Michele ad Anversa, da lui fondata, che si

scorge sullo sfondo. Dal personaggio inginocchiato davanti

a lui, il santo riceve un ostensorio d’argento splendidamente

cesellato. Sulla destra, sempre in ginocchio, vediamo una

famiglia intera con componenti di età diverse che osservano

con reverenza la solenne presentazione. Due bambini hanno

portato altri vasi liturgici.

I particolari della scena sono spiegati in un’iscrizione,

dove si legge che il dipinto fu commissionato in memoria

di Nicolaes Snoeck e di sua moglie Catharina van Uytrecht.

Quest’ultima morì nel 1630, l’anno di realizzazione del

quadro, secondo la data riportata sulla tela. Nicolaes Snoeck

e sua moglie sono sicuramente la coppia in ginocchio in testa

al gruppo familiare. L’iscrizione dice anche che il dipinto

commemora il ritorno di oggetti sacri – in particolare

l’ostensorio – nella loro sede originaria grazie all’intercessione

di San Norberto, dopo che erano stati portati in salvo

durante un focolaio d’eresia fomentato dal predicatore

Tanchelm nell’Anversa del XII secolo. La lotta contro l’eresia

di Tanchelm qui è senz’altro un’allusione al conflitto tra la

Controriforma e il Calvinismo.

Il dipinto fu commissionato per la Chiesa abaziale di

San Michele ad Anversa, dove rimase fino all’occupazione

francese nel 1793. La famiglia Snoeck godeva di un rapporto

speciale con l’abbazia, dal momento che Johannes Snoeck,

uno dei figli della coppia, fu lì un monaco norbertino e

rivestì un ruolo importante all’interno della comunità

monastica. HV

Dipingere per la Chiesa e per la corte

127


33. Peter Paul Rubens (1577-1640)

San Francesco d’Assisi riceve le stimmate

1630-1635 ca.

Olio su tela, 265,5 × 193 cm

Gent, Museo di Belle Arti, inv. S-9

BIBL.: Vlieghe 1972-1973, I, pp. 144-145, n. 92, ill. 161.

Il miracolo delle stimmate è l’episodio più famoso nella ricca

iconografia associata a San Francesco, il fondatore dell’Ordine

dei Frati Minori e, indirettamente, della sua propaggine

successiva, i Cappuccini. La storia è descritta nella Legenda

maior Sancti Francisci di Bonaventura da Bagnoregio – la

famosa cronaca della vita del Santo, compilata tra il 1260 e il

1263 – dove si racconta come Francesco e un suo compagno,

frate Leone, si recarono a meditare sul monte della Verna,

vicino ad Arezzo. Si narra che, mentre erano lì, Cristo crocifisso

sia apparso al Santo con le sembianze di un serafino con

sei ali. Fu allora che le cinque ferite inflitte a Cristo durante la

Crocifissione comparvero per miracolo sulle mani, sui piedi e

sul costato del Santo.

Francesco è raffigurato a destra nel dipinto, con frate

Leone dietro di lui sulla sinistra. Sempre a sinistra, ma in alto,

si può vedere Cristo con le sembianze di un serafino mentre

trasmette le stimmate. Tra i dettagli, sono inclusi un teschio e

un libro di preghiere, che qui alludono alla vita di mortificazione

e raccoglimento che Francesco si impose durante il suo

eremitaggio a La Verna.

Stilisticamente, il dipinto può essere ricondotto alla

prima metà degli anni Trenta del XVII secolo. Rubens

dipinse lo stesso soggetto in diverse occasioni, anche se

prevalentemente all’inizio della sua carriera, prima del 1620.

In quel periodo realizzò una serie di opere per la Chiesa dei

Cappuccini a Colonia e per quella dei Minoritani ad Arras,

e sempre in quel periodo fece realizzare una stampa sul tema

dall’incisore Lucas Vorsterman. HV

128

Dipingere per la Chiesa e per la corte


129


34. Anthony van Dyck (1599-1641)

Ritratto di Johannes Malderus

1628 ca.

Olio su tela, 112 × 87 cm

Collezione privata

BIBL.: Barnes et al. 2004, cat. III.A17 (versione di atelier).

Jan Van Malderen, latinizzato in Johannes Malderus, fu nominato

vescovo di Anversa nel 1611 e mantenne l’incarico fino

alla morte nel 1633. Era nato a Sint-Pieters-Leeuw nel 1563 e

aveva studiato filosofia a Douai e teologia a Lovanio. Dopo

essere diventato dottore in teologia nel 1594, dal 1596 insegnò

teologia a Lovanio fin quando divenne vescovo di Anversa.

Van Malderen era stimato per il suo impegno pastorale e

pubblicò importanti trattati teologici. Da questo ritratto,

Wenceslaus Hollar ricavò nel 1645, ad Anversa, un’acquaforte,

con immagine riflessa. Il formato è stato ridotto su entrambi i

lati e la composizione finisce appena sotto le mani del vescovo.

Nel 1779 furono realizzate delle incisioni non ribaltate da

Adrian Lommelin (con l‘iscrizione “Ant. Van Dijck pinxit”) e

da Andries de Quertenmont.

Van Dyck dipinse il ritratto del vescovo intorno al 1628,

poco dopo essere tornato dall’Italia. Esistono diverse versioni

dell’opera – la sua composizione è fissata nell’acquaforte

di Hollar – e si è a lungo discusso su quale sia l’originale.

In effetti, non ci possono essere dubbi sul fatto che questo

dipinto, recentemente riscoperto, sia l’originale. All’interno

di questa mostra viene esposto per la prima volta al pubblico.

L’abile pennellata e l’efficace caratterizzazione di Malderus

sono tratti distintivi dello stile ritrattistico del secondo

periodo anversese di Van Dyck. Un’altra versione, anche

questa nella medesima collezione privata di Anversa, è di

Van Dyck con la partecipazione dell’atelier, soprattutto nei

drappeggi. Le versioni al Museo Reale delle Belle Arti di

Anversa e alla Royal Collection di Londra sono probabilmente

copie precoci. Una di queste potrebbe essere il “Malderus van

Erasmus Quellinus naer van Dyck”, che compare nell’inventario

di Quellino nel 1678-79. Un’ulteriore copia è appesa nella

sacrestia della Cattedrale di Anversa insieme a una serie di

ritratti dei vescovi della città. CB

130

Dipingere per la Chiesa e per la corte


131


35. Graduale Romanum

Anversa, Jan I Moretus, 1599

2°: [24], 845, [1], CCXXII, [8] p.

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM R 38.8

(stampa su pergamena colorata a mano)

BIBL.: Imhof 2014, n. G-19; Bowen & Imhof 2001; Berkeley & Scotland 2017.

Questo imponente Graduale Romanum del 1599 consta di 1.100

pagine ed è per grandezza il secondo volume stampato da

Jan I Moretus. Raccoglie canti liturgici per la messa. L’ampiezza

del formato dipende dall’esigenza che il libro fosse letto

da molte persone nello stesso momento. Il frontespizio reca

un’incisione della messa e – a sinistra e a destra del titolo –

le figure di Re David e di Santa Cecilia, mentre la sezione con

gli spartiti è introdotta da un’incisione dell’Annunciazione.

Entrambe le illustrazioni furono disegnate da Maerten de Vos.

La seconda fu usata anche negli anni successivi per illustrare

il Missale Romanum.

Per stampare il libro Jan Moretus ricevette un acconto

di 1.000 fiorini da Vaast de Grenet, il priore dell’abbazia di

San Bertino a Saint-Omer, e altri 350 da Mathias Hovius,

l’arcivescovo di Mechelen. In cambio, ciascun prelato ebbe

un numero di copie corrispondente al valore della somma

anticipata.

Ci vollero quasi due anni e mezzo per completare la

stampa del libro, con il saldo finale per la sua produzione

datato al 21 novembre 1598. Negli anni precedenti l’uscita

del Graduale, l’abate di San Bertino spedì regolarmente fogli

di pergamena a Moretus, che li usò per stamparvi un’intera

copia del volume destinata all’uso personale del priore. DI

132

Dipingere per la Chiesa e per la corte


36. Officium Beatae Mariae Virginis, Pii V. Pont. Max. iussu editum.

Nunc pluribus quàm hactenus umquam figuris æneis illustratum

Anversa, Jan I Moretus, 1609

4°: [40], 696, [4] p.

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM R 56.2

BIBL.: Imhof 2014, n. O-40; Bowen 2014.

Jan Moretus dimostrò il suo acume commerciale con questo

Libro d’Ore, che avrebbe dovuto limitarsi a stampare e

invece trasformò in un’edizione di successo per la sua

casa editrice. Il volume in-quarto, del 1609, si basa su una

versione stampata da Moretus nel 1600 per l’arciduca Alberto.

Il governatore dei Paesi Bassi desiderava un libro di preghiere

dal formato grande e lussuoso e dai caratteri ben visibili,

da usare durante le funzioni private. L’editore stampò il libro

col supporto economico della Corte. Il volume consta di oltre

1.300 pagine illustrate, con 42 incisioni piuttosto ampie e 25

più piccole. Nonostante il costo elevato della pubblicazione,

Moretus non ebbe difficoltà a esaurire tutte le copie grazie ai

suoi ricchi clienti. Quando la tiratura stava per finire, decise

di far uscire una nuova edizione, dove ometteva il fatto che il

libro in origine fosse stato pubblicato su richiesta dell’arciduca.

Nella nuova tiratura il volume fu ridotto a 740 pagine,

per renderlo più maneggevole. Il numero delle illustrazioni,

al contrario, aumentò a 57 incisioni di grande formato e 38

più piccole. Moretus commissionò i disegni per le nuove

immagini a Pieter de Jode, mentre delle lastre si occuparono

incisori che lavoravano nella bottega di Theodore Galle e

Charles de Mallery.

Anche l’arciduca e l’infanta acquistarono diverse copie

della nuova edizione, una delle quali colorata interamente a

mano, con la rilegatura in velluto rosso e rifinita con nastri

variopinti. I Moretus continuarono a stampare questo Libro

d’Ore per decenni, con nuove versioni non modificate nel

1622, nel 1652, nel 1724 e nel 1759. DI

Dipingere per la Chiesa e per la corte

133


37. Missale Romanum

Anversa, Balthasar I e Jan II Moretus, 1613

2°: [64], 542, CIIII, [8] p.

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM 2-161

(copia a colori)

BIBL.: Judson & Van de Velde 1977, I, pp. 85-100, n. 6-9; Bowen 1996, pp. 37-51, cat. 32.

Jan I Moretus, cognato di Christophe Plantin, diresse la casa

editrice dei Plantin dal 1589. Quando morì, nel 1610, i suoi due

figli Balthasar I e Jan II Moretus decisero di rinnovare tutte

le illustrazioni per le pubblicazioni liturgiche della Officina

Plantiniana. L’aspetto dei messali e dei breviari editi da Jan I

era stato caratterizzato in modo particolare, negli anni Venti

del XVII secolo, dai progetti grafici di Maerten de Vos. I due

fratelli Moretus riuscirono a convincere nientedimeno che

Peter Paul Rubens a realizzare i nuovi disegni.

Il rinnovamento iconografico dei Moretus avvenne come

al solito in varie fasi. Il primo grande Missale Romanum in-folio,

pubblicato nel 1613, contiene due nuovi disegni di Rubens:

L’Adorazione dei magi e L’Ascensione di Cristo. Anche le due

cornici che corrono lungo le illustrazioni a piena pagina sono

opera di Rubens. Queste immagini, usate anche in messali

successivi, continuarono a tornare in altri lavori dei Plantin

per vari decenni.

Gli ecclesiastici dell’epoca ammiravano, in questi testi

liturgici, la combinazione di illustrazioni di grande formato

e cornici posta all’inizio di sezioni importanti. Il gesuita

spagnolo Philippus de Peralta, per esempio, ne restò tanto

colpito che, sotto la sua influenza, il clero spagnolo iniziò a

preferire le pubblicazioni sacre di Anversa a quelle prodotte

a Lione o a Venezia. Nemmeno i prezzi più alti imposti dai

Plantin servirono da deterrente. DI

134

Dipingere per la Chiesa e per la corte



38. Jacques Jordaens (1593-1678)

Nettuno e Anfitrite

1648 ca.

Olio su tela, 220 × 307 cm

Firmato e datato a un’estremità della conchiglia: “J. Jordaens fecit 164[?]” (ultima cifra illegibile]

Anversa, Museo della Casa di Rubens, inv. RH.S.094

BIBL.: Jaffé 1968b, p. 118, n. 80; d’Hulst 1974, pp. 521-522, n. C38; Vandenven 1978, pp. 62-63, n. 22; Balis 2010, p. 519.

Quest’opera monumentale raffigura Nettuno, in piedi su

una conchiglia, in primo piano. A sinistra del dio romano

vediamo la sua sposa, l’eternamente splendida Anfitrite,

figlia di Oceano e Teti. La coppia è attorniata da un gruppo

etero geneo di Tritoni, delfini e cavalli marini. Nettuno

stringe nella mano destra un tridente, il suo classico attributo,

con il quale esercita il potere sulle acque. Come si evince dallo

sfondo, il dio ha appena domato una tempesta; le nuvole

scure, al cui interno quattro piccole teste soffiano i venti,

cedono il passo a un sole splendente e all’arcobaleno.

Durante il recente restauro del quadro, sono venuti

alla luce pentimenti significativi da parte di Jordaens.

Il Tritone, che immobile soffia nella sua conchiglia, rivela

qualche indecisione da parte del pittore sulla composizione.

All’Albertina di Vienna (inv. 15.123) si conserva un disegno

attribuito allo studio di Jordaens, che potrebbe essere stato

eseguito a ridosso dell’esecuzione del quadro, dal momento

che ne riproduce fedelmente la struttura definitiva.

Sorprende che questo ricordo non contenga le due strisce a

lato dell’arcobaleno, che di conseguenza devono essere state

aggiunte in epoca successiva.

Jordaens firmò e datò il quadro lungo l’estremità della

conchiglia di Nettuno, il che ci dice che l’opera fu realizzata

negli anni Quaranta del Seicento, ma l’ultima cifra non

si legge, e una datazione più precisa è quindi impossibile.

Stilisticamente, il dipinto sembra rientrare meglio nella

seconda metà della decade, una datazione a quanto pare

supportata dall’iconografia che Arnout Balis ritiene collegata

al Trattato di Münster (1648). Il trattato mise fine alla Guerra

dei Trent’anni e segnò la ripresa dei traffici marittimi

per la Repubblica Danese, con conseguente vantaggio per

l’economia di Anversa. BV

136

Dipingere per la Chiesa e per la corte




39. Anthony van Dyck (1599-1641)

Compianto

1634-1635

Olio su tela, 115 × 208 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 404

BIBL.: Anversa 1899, n. 25; Anversa 1949, no 7; Genova 1955, n. 83; Wheelock, Barnes & Held 1990, n. 79 (Wheelock); Brown & Vlieghe 1999, n. 85; Barnes et al. 2004,

n. III.33 (Vey).

Già prima del viaggio in Italia, nei suoi ritratti e nei dipinti

a soggetto storico Van Dyck emulava le tecniche pittoriche

dei maestri veneziani, Tiziano in particolare: la loro luce

brillante e gli scintillanti effetti di superficie che creavano

col pennello carico di colore. Gli studi dalle opere di Tiziano

predominano nel taccuino di schizzi italiani sopravvissuti

di Van Dyck. Ma negli anni che trascorse in Italia vide anche

opere di maestri recenti, come Carracci, Procaccini e Guido

Reni. Le loro innovazioni nel campo della composizione,

del colore e della luce influenzarono più tardi lo stile dei suoi

dipinti religiosi.

Questo capolavoro, eseguito da Van Dyck in una fase avanzata

della sua carriera, raffigura la Vergine Maria sgomenta

di fronte alla morte di Cristo; fu commissionato all’artista

dall’abate Cesare Alessandro Scaglia, che poi lo lasciò in eredità

ai frati agostiniani di Anversa. Nel 1641 i frati lo collocarono nel

luogo dove è sepolto l’abate, sopra un altare della cappella della

Vergine dei Sette Dolori nella Chiesa degli Agostiniani.

Il corpo supino di Cristo riempie l’insolita composizione

orizzontale. Ai lati, Van Dyck collocò due figure, ciascuna delle

quali incarna un importante messaggio teologico. In Maria,

a sinistra, Van Dyck ha concentrato tutta la tragedia della

crocifissione. La sua posa straordinaria, distesa con il corpo

di Cristo che giace tra le sue gambe, è un riferimento esplicito

all’incarnazione. Nato da Maria, Dio si è fatto carne. Le braccia

distese della Madonna ricordano la croce sulla quale è morto

Gesù. Il gesto esprime allo stesso tempo la sua disperazione e

la volontà di restituire il figlio al Padre, verso il quale solleva

lo sguardo.

A destra, San Giovanni evangelista espone l’eredità di

Gesù ai suoi seguaci: l’eucaristia. Mentre mostra a due angeli

piangenti la ferita aperta nella mano di Gesù, Giovanni ne

rievoca le parole durante l’Ultima Cena, e ripete la preghiera

eucaristica: « Questo è il mio corpo … questo è il mio sangue ».

Il dipinto testimonia l’enfasi posta dalla Controriforma sul

tema della transustanziazione (Wheelock).

Al contrario di altri studiosi, che datano il dipinto

al 1634-35, Vey (2004) suggerisce la data del 1640, e indica

nell’opera l’estrema professione di fede di Van Dyck. SJB

Dipingere per la Chiesa e per la corte

139


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40. Daniël Seghers (1590-1661)

Cornelis I Schut (1597-1655)

La Vergine e il Bambino tra i fiori

Olio su tavola, 74,7 × 51,4 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 330

BIBL.: Vlieghe 1967, pp. 295, 298-299; Morel-Deckers 1978, pp. 176-179, cat. 4; Hairs 1985, pp. 184, 188, fig. 60, 439 n. 612, 494; Jones 1993, pp. 69, 77-78, 81-82, 86-87;

Wilmers 1996, pp. 53-56, 167-168, cat. A101; Hollstein LIII, pp. 122-123, cat. 12; Huvenne, Van Hout & Vergara 2002, pp. 114-115, 139, 156-157 (scheda di N. Van Hout);

Cataldi Gallo & Van Hout 2003, p. 136, cat. 50 (scheda di N. Schrijvers); Merriam 2012, p. 109, tav. XXIII; Van de Velde 2013, p. 32; Van Hout 2015, pp. 160-161, cat. 23.

Le volute di una balaustra si elevano fino a formare un elaborato

cartiglio di pietra ornato da tre festoni floreali, ai quali

si uniscono delicati tralci d’edera. Sui petali e le foglie sono

posati diversi insetti, tra cui una farfalla in alto a destra e una

coccinella poco più in basso. Al centro del cartiglio, su quella

che appare come la superficie di una lastra di pietra, sono

raffigurati la Vergine e il Bambino. La Vergine, dall’incarnato

roseo, coperta da un leggerissimo velo di garza quasi trasparente,

si sporge verso lo spettatore, reggendo il Figlio sopra

un decoro a spirale, con i piedi che sembrano oltrepassare il

confine del quadro per spingersi nello spazio reale.

Ornare le immagini – sia scolpite sia dipinte – con

ghirlande di fiori veri era stato a lungo un modo per rendere

omaggio a Cristo e ai santi. Già dal 1607-08 Jan Brueghel il

Vecchio creò un nuovo genere pittorico, includendo queste

ghirlande nei suoi quadri: da quel momento fiori dipinti

circondavano un’immagine centrale. Il genere fu adottato e

sviluppato da un discepolo di Brueghel, Daniël Seghers, nelle

cui mani le ghirlande di fiori si trasformarono in decorazioni

floreali per cartigli di pietra, come in questo esempio.

Brueghel eseguiva i suoi dipinti con ghirlande in

collaborazione con altri pittori, e anche Seghers collaborò in

genere con i suoi colleghi, incluso Cornelis Schut il Vecchio,

con il quale lavorò ad almeno 44 tele dal 1621 fino agli anni

Quaranta del XVII secolo. L’assistente di Schut, l’incisore

Hans Witdoeck, realizzò almeno dieci stampe di disegni

di Schut, compresi quelli eseguiti in collaborazione con

Seghers. L’incisione realizzata da questo dipinto riporta la

frase “c scut in / i witd scul”, che conferma l’attribuzione delle

figure a Schut. Nelle sue stampe, però, Witdoeck eliminò i

decori floreali. Forse lui e Schut temevano che, senza i colori

brillanti e la ricchezza di dettagli in cui Schut eccelleva,

una ghirlanda stampata avrebbe finito per distrarre lo

spettatore dall’immagine devozionale. Tuttavia, con il loro

splendore, le ghirlande di fiori dipinte da Seghers non erano

affatto una distrazione dalla fede: anzi, offrivano ai devoti

l’opportunità di contemplare le meraviglie della creazione

di Dio, come suggeriva il cardinale e arcivescovo di Milano

Federico Borromeo. ADN

Dipingere per la Chiesa e per la corte

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41. Daniël Seghers (1590-1661)

Natura morta di fiori in un vaso

Olio su rame, 41,6 × 28,5 cm

In basso a destro, scritta: “D. Seghers [Soctis JE]SV”

Anversa, Museo Mayer van den Bergh, inv. MMB.0078

BIBL.: Eeckhout 1960, p. 132, cat. 126; Burke-Gaffney 1961; Couvreur 1967, pp. 87-158; De Coo 1978, p. 158, cat. 485, tav. 55; Hairs 1985, pp. 134, 171-172, 174, 437 n. 518bis,

490; Merriam 2012, pp. 107-123; Van Hout 2015, pp. 158-159, cat. 22.

Un vaso di vetro su fondo scuro contiene fiori di diversi

tipi, tra cui rose, iris e un tulipano. Alcuni puntano verso

l’alto, altri invece sono curvi, gli steli troppo deboli per

reggere le corolle. Sul vaso, colpito dalla luce, si riflette una

finestra nello studio dell’artista. Daniël Seghers non era solo

straordinariamente abile nel descrivere le composizioni

floreali, ma eccelleva anche nel catturare le sfumature

luminose sul vetro e sull’acqua. La superficie del dipinto,

su supporto di rame, brilla grazie alle pennellate meticolose

dell’artista e al suo elegante senso del colore, che fa di questo

lavoro un piccolo gioiello, mentre l’uso audace della luce e lo

scorcio fanno sembrare il bouquet un elemento dello spazio

dello spettatore.

Nato ad Anversa nel 1590, Seghers trascorse parte

dell’infanzia in Olanda con la famiglia della madre, protestante,

prima di tornare nella sua città d’origine. Pare che

Jan Brueghel il Vecchio, il pittore di fiori più importante ad

Anversa, sia stato, oltre che il suo maestro a partire dal 1611,

anche il responsabile della sua conversione al Cattolicesimo.

Seghers si unì presto ai Gesuiti e visse negli istituti dell’ordine

a Mechelen, Bruxelles e Anversa. Nel 1625 fece un viaggio

a Roma, dove rimase per due anni. L’antichità e i maestri

del Rinascimento italiano, studiati abitualmente dai pittori

fiamminghi che visitavano la Città Eterna, non riuscirono

a distrarlo dal suo interesse per i fiori, anche se le forme

ornamentali dei suoi cartigli sono in parte debitrici delle

decorazioni classiche.

Come gesuita, Seghers non poteva vendere le sue opere,

e così le donò per conto dei Gesuiti a una serie di re, nobili

ed esponenti del clero. Le sue iscrizioni su molti di tali

dipinti, compreso questo, anche se scarsamente visibile in

basso a destra – “D. Seghers [Soctis JE]SV” – ricordavano

a chi li guardava le origini gesuitiche dei suoi quadri.

È interessante notare che Seghers conservava un inventario

dettagliato, nel quale registrava le tele insieme ai destinatari.

Sfortunatamente, però, a causa della concisione di molte delle

sue annotazioni, non è possibile identificare questo dipinto

all’interno della lista. ADN

Dipingere per la Chiesa e per la corte

143


42. Frans II Pourbus (1569-1622)

La principessa Elisabetta di Francia (1602-1644 ), poi Isabella regina di Spagna

1609-1612

Olio su tela, 54 × 46,5 cm

Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa

Questo ritratto a busto intero è probabilmente il primo di

una serie di ritratti dipinti da Pourbus intorno al 1610-15,

raffiguranti la figlia maggiore di Enrico IV e di Maria de’

Medici prima della sua partenza per la Spagna come regina.

Nel quadro, la principessa Elisabetta è una bambina tra i sette

e i dieci anni. Dopo l’assassinio del padre nel 1610 fuori dal

Palazzo del Louvre, Luigi XIII, fratello di Elisabetta, salì al

trono sotto la reggenza della madre. Fratello e sorella avevano

quasi la stessa età ed erano molto legati tra loro, come testimoniano

i loro ritratti, che spesso venivano dipinti insieme.

Durante il suo incarico alla corte di Francia, Pourbus effigiò

varie volte Elisabetta, ma questo dipinto pare sia un’opera

unica, non si conoscono altre versioni o copie.

Il quadro fissa un momento importantissimo nella vita

della principessina, all’inizio delle trattative per il doppio

matrimonio tra la famiglia reale francese e quella spagnola.

Elisabetta era promessa a suo cugino, il principe delle Asturie

(e futuro re di Spagna Filippo IV), mentre suo fratello Luigi

XIII avrebbe preso in moglie l’infanta di Spagna, Anna.

Non conosciamo l’esatta provenienza o la storia di questo

ritratto, ed è quindi impossibile dire per chi o per quale

finalità sia stato dipinto. Forse era destinato alla corte di

Spagna, ma le dimensioni ridotte farebbero pensare piuttosto

a una collocazione privata, ed è possibile che Maria de’ Medici

lo abbia inviato ai suoi parenti a Firenze. BvB

144

Dipingere per la Chiesa e per la corte


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43. Lucas Faydherbe (1617-1697)

Madonna col Bambino

1670-1675 ca.

Marmo di Carrara, 68 × 36 × 40 cm

KBC Art Collection Belgium, Museo della Casa di Snijders e Rockox, Anversa, inv. 77.16

BIBL.: De Nijn et al. 1997, p. 46, n. 47; De Nijn & De Greef 1997, pp. 10, 11.

Questa scultura in marmo è l’epitome dell’intimità. Maria

tiene amorevolmente in grembo Gesù Bambino, che solleva

lo sguardo verso di lei e le accarezza la guancia con la mano

destra. Il tema è in linea con un interesse crescente nel XVII

secolo per descrizioni più familiari, “quotidiane” di temi

biblici. Questa iconografia più personale si fece strada sotto

l’influenza della Riforma Cattolica, che incoraggiava una

spiritualità più accessibile.

Non è un caso che la scultura attinga a un’invenzione di

Rubens – la Sacra Famiglia1 – visto che fu realizzata da Lucas

Faydherbe, un importante scultore di Mechelen, che trascorse

tre anni nello studio del maestro.2 La mano di Faydherbe è

evidente in tratti come le pieghe piene, pastose del voluminoso

manto di Maria, nel suo volto, con gli occhi nitidamente

cesellati, e in quello del figlio. L’opera ricorda anche da vicino

un gruppo statuario in arenaria, ugualmente attribuito a

Faydherbe, con Sant’Ignazio in adorazione della Madonna e

del Bambino, nella Cattedrale di San Rombaldo a Mechelen

(1675 ca.).3

Purtroppo la destinazione originaria della scultura

non è nota, dal momento che circa un secolo dopo la sua

realizzazione fu trasferita in Inghilterra. Rimase per circa

duecento anni nella cappella di Brough Hall, una residenza

di campagna nello Yorkshire, prima di ritornare infine

nelle Fiandre nel 1971. Le sue dimensioni contenute fanno

pensare che fosse stata scolpita per una cappella privata di

una chiesa o di una grande casa. Anche il modello in terracotta

di Faydherbe, leggermente più piccolo, nel XVIII secolo finì

in Inghilterra4, dove esercitò una certa influenza intorno al

1780 grazie a una serie di copie realizzate da Enoch Wood in

erracotta smaltata. FS

1. De Nijn et al. 1997, p. 46, fig. 28.

2. Scholten 2004.

3. De Nijn et al. 1997, n. 55; De Nijn & De Greef 1997, pp. 10, 11;

Philippot et al. 2003, p. 880.

4. Londra, British Museum, inv. 1957,II-I,I, ma già in una collezione

londinese prima del 1761, vedere De Nijn et al. 1997, n. 46.

5. De Nijn et al. 1997, n. 48.

Dipingere per la Chiesa e per la corte

147


148


44. Anthony van Dyck (1599-1641)

Giovanni VIII, conte di Nassau-Siegen (1583-1638)

1628-1629

Olio su tela, 113 × 81,5 cm

Collezione privata (Courtesy of Christophe Janet)

BIBL.: Barnes et al. 2004, n. III.110, pp. 335-336 (ritratto a figura intera nelle Collezioni del Principe del Liechtenstein); nr. III.111, pp. 336-338 (ritratto di gruppo del

conte e della sua famiglia).

Giovanni VIII, del ramo protestante dei Nassau-Siegen,

prestò servizio militare combattendo per la causa

protestante nelle Province Unite e in altri luoghi dal 1605 al

1611. A Roma, nel 1612, si convertì al cattolicesimo, pare su

pressante richiesta della sua futura moglie, la principessa

Ernestina Iolanda di Ligne, che apparteneva al ben

più illustre casato dei Ligne, e che Giovanni VIII aveva

incontrato per la prima volta intorno al 1611, senza peraltro

sposarla fino al 1618. Nel 1614 il conte di Nassau-Siegen

aveva combattuto per il duca Carlo Emanuele I di Savoia

contro gli Spagnoli, e nel 1615-17 aveva abbracciato la causa

della reggente di Francia Maria de’ Medici per soffocare

una rivolta della nobiltà. Dal 1617 fino alla morte combatté

per la Spagna e per il Sacro Romano Impero, soprattutto

contro le Province Unite, e prese quindi le armi contro i

suoi stessi fratelli e cugini. Nel 1627 Filippo IV di Spagna lo

ammise nell’Ordine del Toson d’oro, una delle più antiche e

prestigiose istituzioni cavalleresche, e nel 1628 fu nominato

maresciallo imperiale di campo. Tre anni dopo fu promosso

a generale di cavalleria dei Paesi Bassi spagnoli.

Van Dyck eseguì questo ritratto di recente riscoperto

verso il 1628-29, quando il conte era all’apice della sua carriera

militare. Qui indossa la corazza e la collana dell’Ordine

del Toson d’oro; il lungo bastone lo identifica nel ruolo di

comandante. Nel 1781, durante il suo viaggio di due mesi nelle

Fiandre e in Olanda, il pittore inglese Joshua Reynolds (1723-

1792) vide questo quadro nello studiolo del principe di Ligne,

a Bruxelles: “Qui non c’è niente degno d’attenzione, a parte

un ritratto a figura intera del conte Giovanni di Nassau

realizzato da Van Dyck”. La provenienza precedente del

dipinto è confermata da una stampa di Adriaen Lommelin,

dedicata alla principessa di Ligne (fig. 44a). A un certo punto

la tela è stata ridotta al formato attuale. Viene mostrata al

pubblico per la prima volta in occasione di questa mostra.

Fig. 44a Adriaen Lommelin da Anthony van Dyck, Giovanni VIII, conte di Nassau-

Siegen (1583-1638), incisione. Collezione privata

Un ritratto a figura intera del conte con indosso la

corazza si trova nelle Collezioni del Principe del Liechtenstein

(Vaduz/Vienna), mentre un magnifico ritratto di gruppo

del nobile e della sua famiglia è conservato a Firle Place,

nel Sussex. BvB

Dipingere per la Chiesa e per la corte

149


45. Joannes Bochius (1555-1609)

Historica narratio profectionis et inaugurationis … Alberti et Isabellae

Anversa, Jan I Moretus, 1602

2°: 500, [12] p.

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM W 78

BIBL.: Imhof 2014, n. B-44.

Joannes Bochius (Jan Boghe) nacque a Bruxelles nel 1555.

Studiò a Lier e Ath, e poi legge all’università di Lovanio,

prima di partire per l’Italia per completare la sua formazione

con Roberto Bellarmino. Nel 1578, Bochius lasciò l’Italia

e visitò l’Europa nord-orientale. Il viaggio riuscì tutt’altro

che divertente: sulla strada per Mosca, Bochius fu colto alla

sprovvista da un freddo rigidissimo e si salvò per miracolo

dall’amputazione di entrambi i piedi. Prima di essersi completamente

ristabilito, ripartì per la Lituania, ma fu aggredito da

alcuni rapinatori che lo lasciarono per morto. Si salvò anche

questa volta e prese la via del ritorno per i Paesi Bassi. Dopo la

conquista di Anversa nel 1585 da parte delle truppe cattoliche

spagnole, fu nominato segretario municipale da Alessandro

Farnese e mantenne l’incarico fino alla morte nel 1609.

Bochius era un rinomato poeta neo-latino, ed ebbe

l’eccellente opportunità di coniugare il suo impegno civile

con la sua professione di scrittore redigendo i resoconti

delle Entrate trionfali allestite in onore dei nuovi governatori

dei Paesi Bassi. I festeggiamenti per celebrare questi eventi

furono registrati e pubblicati in libri commemorativi, due dei

quali Bochius poté compilare personalmente. Il volume

che riporta l’accoglienza cerimoniale di Ernesto d’Austria

ad Anversa nel 1594 – la Descriptio publicae gratulationis … in

adventu … principis Ernesti – fu pubblicato da Jan Moretus nel

1595. Nel 1599, anche l’arciduca Alberto e l’infanta Isabella

ebbero la loro Entrata trionfale. Tre anni dopo, nel 1602,

Jan Moretus diede alle stampe il solenne album commemorativo

Historica narratio profectionis et inaugurationis … Alberti et

Isabellae. Entrambe le opere furono illustrate con acqueforti e

incisioni in-folio. DI

150

Dipingere per la Chiesa e per la corte


46. Michiel Coignet (1549-1623)

El uso de las doze divisiones geometricas, puestas en las dos reglas pantometras

1618

Manoscritto

Anversa, Biblioteca del Patrimonio Hendrik Conscience, inv. EHC B 264708

BIBL.: Favaro 1908-1909, pp. 1-16; Drake 1978; Meskens 1998; Meskens 2005, pp. 64-65.

Michiel Coignet era il membro più illustre di una grande

famiglia di matematici e pittori di successo. Come suo padre

Gillis, anche lui costruiva strumenti di calcolo. Ancor prima

di diventare adulto fu ammesso nella Gilda degli Insegnanti

e aprì una scuola di matematica avanzata. Inoltre, revisionò

e ripubblicò diversi manuali scolastici. Verso il 1570 ereditò il

laboratorio del padre e iniziò a produrre astrolabi, goniometri,

sfere armillari e altri strumenti che vendeva nel negozio

di libri di Christopher Plantin. Nel 1580 Coignet pubblicò

un libro sull’uso della balestriglia e dell’astrolabio marino,

e propose dei miglioramenti a questi strumenti. Coignet era

in corrispondenza con Giovanni Keplero, e scrisse una lettera

anche a Galileo Galilei. Pare che quest’ultimo non gli abbia

mai risposto, ma doveva essere comunque al corrente della

reputazione del matematico fiammingo, perché nel 1611 cercò

di ottenere una copia delle tavole astronomiche di Coignet.

Dal 1596 in poi Coignet fu al servizio degli arciduchi

dei Paesi Bassi come ingegnere militare, disegnò piani per

nuove fortificazioni e calcolò l’angolo ottimale di lancio dai

cannoni, basandosi sui principi balistici di Niccolò Fontana

Tartaglia. Continuò a perfezionare strumenti già esistenti,

o a utilizzarli in maniera innovativa per risolvere problemi

matematici. Più o meno nello stesso periodo iniziò a lavorare

al settore, o compasso di proporzione, e a proporre strumenti

per calcoli geometrici. Questo manoscritto del 1618 contiene

la versione avanzata del compasso di proporzione di Coignet.

Questo strumento è spesso attribuito a Galileo, che ne

annunciò l’invenzione nel 1598, ma in realtà diversi ingegneri

stavano lavorando contemporaneamente in tutta Europa per

migliorare il compasso di riduzione che i pittori hanno usato

per secoli. SVI

Dipingere per la Chiesa e per la corte

151


47. Ferdinand Verbiest (1623-1688)

Compendium latinum proponens XII posteriores figuras libri observationum nec non priores

VII figuras libri organici

Pechino, 1678

Anversa, Biblioteca del Patrimonio Hendrik Conscience, inv. EHC G 4978

Il gesuita fiammingo Ferdinand Verbiest fu missionario in

Cina, e grazie alla sua eccellente conoscenza dell’astronomia,

alla quale era stato formato all’interno dell’ordine, divenne

un personaggio influente alla corte imperiale con il nome

di 南 怀 仁 (Nán Huáirén). Le predizioni occidentali infatti

erano molto più accurate di quelle degli astrologi cinesi,

che, per tradizione, godevano di una grande influenza come

consiglieri dell’imperatore. A Pechino Verbiest pubblicò una

dozzina di libri di astronomia e, per ottenere appoggio anche

in Europa, realizzò una versione in latino dei suoi scritti e

la fece diffondere in patria. Il volume, stampato con blocchi

di legno su carta di riso come tutti i libri tradizionali cinesi,

contiene illustrazioni dei grandi strumenti astronomici

che Verbiest progettava per l’imperatore. Questi strumenti

sono tuttora conservati a Pechino, dove attirano migliaia di

visitatori ogni anno.

Anche questa copia contiene una rara opera cinese di

Verbiest, con predizioni per l’eclissi solare del 29 aprile 1669.

Pubblicate in forma di rotolo, le previsioni furono diffuse

in tutto l’impero cinese per spiegare agli astrologi come

osservare il fenomeno celeste. Il rilegatore europeo non era

pratico di questo tipo di pubblicazione, così ripiegò il rotolo in

fogli e lo rilegò insieme al libro. SVI

152

Dipingere per la Chiesa e per la corte


48. Artus I Quellinus (1609-1668)

Bottega

Apollo uccide il serpente Pitone

1651 (invenzione), post 1651– ante 1664 (esecuzione)

Terracotta, con tracce di ingobbio bianco, 63,4 × 36,3 × 12,8 cm

Charles Van Herck coll., Fondazione Re Baldvino, in prestito al Museo Reale

delle Belle Arti (KMSKA), Anverda, inv. IB00.050

BIBL.: Baisier & Baudouin 2000, pp. 44-46; Scholten 2010, pp. 23, 24.

Lo scultore di Anversa Artus Quellinus trascorse gli anni tra il

1650 e il 1665 ad Amsterdam, dove diresse una grande bottega,

incaricata di realizzare le decorazioni scultoree per il nuovo

Municipio (l’attuale Palazzo Reale di piazza Dam). Per il

primo piano dell’edificio disegnò una serie di otto divinità

planetarie, inclusa questa figura del dio del sole Apollo, come

descritta da Cesare Ripa: «Il Sole si dovrà rappresentare con

figura di giovanetto ardito, ignudo, ornato con chioma dorata,

sparsa dai raggi, con il braccio destro disteso, & colla mano

aperta terrà tre figurine, che rappresentino le tre grazie. Nella

sinistra mano haverà l’arco, & le saette, & sotto li piedi il

serpente ucciso con li strali».1

Con Pitone sconfitto che giace ai suoi piedi, Apollo è

rappresentato anche come lo sterminatore del male ed è per

questo che nel Municipio vigila davanti alla porta dell’ufficio

del “Commissario agli affari minori”, che si occupava di

piccole dispute tra i cittadini.2

Quellinus realizzò il modello originale di Apollo, alto

tre piedi (circa 85 cm) e attualmente perduto, qualche giorno

prima del 24 ottobre 1651 e subito dopo scolpì l’opera in

marmo.3 Questa replica in terracotta di dimensioni minori,

così come un secondo modello ancora più piccolo conservato

al Rijksmuseum, rispecchia quasi fedelmente la versione in

marmo.4 Le due terrecotte differiscono leggermente per la

posa, le rifiniture e la modellatura intorno ai bordi.5 Versioni

ridotte furono prodotte dallo studio di Quellinus, destinate

probabilmente a fungere da souvenir del Municipo per i

collezionisti d’arte presenti tra i borgomastri di Amsterdam e

la loro cerchia.6 La versione del Rijksmuseum appartenne per

molti anni alla collezione municipale di Amsterdam; dunque,

la terracotta qui analizzata potrebbe essere uno degli Apollo

messi all’asta nel 1737 e nel 1819, provenienti dalla collezione

del borgomastro di Amsterdam, Joan de Vries, e da quella

della sua controparte di Delft, Emanuel Sandoz.7 FS

1 Ripa 1644, p. 272.

2 Fremantle & Halsema-Kubes 1977, p. 41.

3 Fremantle 1959, p. 48 (nota 3); Vreeken 1995, pp. 52-53.

4 Leeuwenberg 1973, n. 292; Baisier & Baudouin 2000, pp. 44-46; Scholten

2010, pp. 23, 24.

5 Baisier & Baudouin 2000, p. 46

6 Vreeken 1995, pp. 43, 44.

7 Catalogus van een cabinet van uytmuntende schilderijen […] Antique en moderne

beelden, en eenige antique penningen, merendeels by een verzamelt door wylen den Wel

Ed. Heer Joan de Vries, In zyn Wel ed. leven Burgermeester en raed der stad Amsterdam

[…], L’Aia (Nicolaas van Wouw), 13 ottobre 1738, p. 15, n. 51 en Catalogue d’une

très belle collection de livres en divers facultés et langues […] delaissé par feu Monsieur

mr. E. Sandoz, en son vivant Bourgemaistre de la Ville de Delft, L’Aia (B. Scheurleer)

20 dicembre 1819, p. 172, n. 143.

Dipingere per la Chiesa e per la corte

153


154


49. Jacopo Tintoretto (1519-1594)

L’angelo annuncia il martirio a Santa Caterina d’Alessandria

1560-1570

Olio su tela, 177 × 99,3 cm

Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa (fino al 2019)

Il primo a documentare il dipinto, fra i più citati di Tintoretto, in un’opera a stampa fu

Francesco Sansovino nel 1581. Commissionato dalla Scuola di Santa Caterina per l’altare

della Chiesa di San Geminiano in piazza San Marco a Venezia, il quadro fu trasferito nelle

Gallerie dell’Accademia in seguito alla distruzione della chiesa nel 1807. Venduto nel 1818 al

mercante d’arte Angelo Barbini, dopo aver fatto qualche apparizione sul mercato artistico,

approdò infine nel 1983 nella collezione di David Bowie.

Rodolfo Pallucchini fu il primo a riscoprire quest’opera nel 1959 e a riprodurre l’incisione

realizzata da Zucchi a partire da un disegno del dipinto fatto da Silvestro Manaigo (1720).1

Sempre a Pallucchini si deve la datazione del quadro intorno al 1557-60 e la messa in luce

dell’influsso di Paolo Veronese, già notato nel 1648 da Ridolfi.2 Pallucchini citava, inoltre,

il disegno del 1622 di Van Dyck conservato al British Museum e ispirato alla Visione di Santa

Caterina, prova evidente del successo di questo dipinto nel XVII secolo.3 L‘attribuzione a Tintoretto

è stata confermata da De Vecchi (1970),4 Pallucchini e Rossi (1982).5 Nel 2009 Echols

e Ilchman hanno proposto di datare L’angelo annuncia il martirio a Santa Caterina d’Alessandria

“verso la fine degli anni Settanta del Cinquecento”6 datazione ribadita nel 2016 da Ilchman,

che ha attribuito l’opera a Tintoretto “con la partecipazione della sua bottega”.7

Il dipinto fu eseguito tra il 1557, quando Jacopo Sansovino lavorava alla Chiesa di San

Geminiano, e il 1581, quando Francesco Sansovino registrò l’opera di Tintoretto in situ8 e scrisse

che la chiesa “anche se piccola, è forse la più ornata di tutte le altre della città”.9 Il giudizio

di Francesco pendeva in favore di suo padre Jacopo, tanto orgoglioso della propria opera da

esprimere il desiderio di essere sepolto in quella stessa chiesetta: prospiciente la basilica di San

Marco, San Geminiano era uno dei monumenti più prestigiosi della città, molto frequentato

anche per i concerti che vi si svolgevano.

Un esame tecnico del dipinto ha dimostrato che la sua esecuzione è conforme al metodo

di Tintoretto. Verso il 1560 Paolo Veronese realizzò le porte dipinte dell’organo di San Geminiano

(ora alle Gallerie Estensi di Modena). Dal momento che la pala d’altare di Tintoretto

era destinata alla stessa chiesa che ospitava anche le opere del suo rivale, è improbabile

Tintoretto e Tiziano

155


Andrea Zucchi da Tintoretto, L’angelo annuncia il martirio a Santa Caterina d’Alessandria, incisione da

un disegno di Silvestro Manaigo, ne Il Gran Teatro delle pitture & prospettive di Venezia, 1720, 54.5 × 34 cm

che Jacopo ne abbia delegato l’esecuzione ai suoi lavoranti. Nella visione di Santa Caterina,

un angelo annuncia alla santa che dovrà subire il supplizio con una ruota irta di punte

acuminate.10 I filosofi pagani sullo sfondo non sanno ancora che l’eloquenza di Caterina

li farà convertire alla fede cristiana e che alla fine anche loro saranno martirizzati: dietro

un episodio così originale dev’esserci stata per forza la regia della Scuola di Santa Caterina.

L’incedere leggero a mezz’aria dell’angelo è un’idea che deriva dall’Annunciazione di

Tiziano (Venezia, Scuola Grande di San Rocco, 1535 ca.); la struttura fisica del messaggero è la

stessa usata per il suo corrispettivo nella Visione della croce di San Pietro, sempre di Tintoretto,

nella chiesa veneziana della Madonna dell’Orto (1552-56).11

Ilchman ha notato che il volto della santa è simile per tipologia a quelli presenti nel Viaggio

di Sant’Orsola (Venezia, Chesa di San Lazzaro dei Mendicanti, 1554-55 ca.).12 La struttura fisica

di Caterina è identica (anche se speculare) a quella di Sant’Orsola nella pala d’altare di San

Lazzaro, mentre la testa di scorcio dell’angelo è basata sul disegno usato per la testa di San

156

Tintoretto e Tiziano


Anthony van Dyck, Studi da Tiziano e Tintoretto, fol. 6v del Taccuino italiano, 1621-1627, penna e inchiostro bruno,

Londra, British Museum (dettaglio)

Giorgio in San Giorgio e il drago (Londra, National Gallery, 1553 ca).13 La schiera dei filosofi

pagani trova corrispondenza nella serie dei Filosofi della Libreria Marciana (Venezia, entro

il 1572),14 per la quale Tintoretto collaborò con Battista Franco, Giuseppe Porta, Lambert

Sustris, Paolo Veronese e Andrea Meldolla.

I confronti qui proposti riguardano opere eseguite da Tintoretto verso il 1550-70: c’è

una forte somiglianza con San Giorgio e il drago della National Gallery di Londra. Il cartone

usato per la principessa è stato riutilizzato per la figura di Santa Caterina, pur con qualche

ovvia variante. L’angelo, concepito in origine come una figura nuda dai contorni indefiniti

e poi ricoperto con una tunica, è costruito secondo il metodo tipico di Tintoretto, al

pari di Santa Caterina. Le linee ampie che tracciano la prospettiva del pavimento e delle

colonne inquadrano la composizione all’interno di una griglia, come succede nel bozzetto

incompiuto del Doge Alvise Mocenigo al cospetto del Redentore (New York, Metropolitan Museum

of Art, 1571-74).15

Tintoretto e Tiziano

157



Le colonne doriche sulla destra riecheggiano quelle presenti nel Martirio di San Lorenzo di

Tiziano (Venezia, Chiesa dei Gesuiti, 1557 ca.), benché quest’ultime siano di ordine corinzio,

così come i pilastri nel frontespizio del terzo volume dei Sette libri di Architettura (1540) di

Sebastiano Serlio.

Le dimensioni della Visione di Santa Caterina di Alessandria (177 × 99,3 cm) si avvicinano

a quelle del San Giorgio e il drago della National Gallery di Londra (158,3 × 100,5 cm). Si tratta

di un formato abbastanza piccolo per una pala d’altare, scelto probabilmente perché si

adattasse alla scala ridotta della cappella di San Geminiano, dove il dipinto rimase fino al

1807. L’angelo annuncia il martirio a Santa Caterina d’Alessandria influì sull’evolversi successivo

dell’iconografia dell’annunciazione a Venezia, come dimostra quella eseguita dalla bottega

di Paolo Veronese e oggi al Blanton Museum of Art di Austin, Texas.16

Riccardo Lattuada

1 Pallucchini 1959-60, p. 52.

2 Ridolfi 1648, II, p. 30 in Grath 2009.

3 Pallucchini 1959-60, pp. 51, 52, ill. 6, p. 54, n. 10.

4 P. De Vecchi, in Bernari & De Vecchi 1970, p. 100, n. 126.

5 Pallucchini & Rossi 1982, I, p. 178, cat. 220; II, p. 433, tav. 286.

6 Echols & Ilchman 2009, p. 128, cat. 208.

7 Il contenuto della lettera di Robert Ilchman a Sotheby’s è stato fedelmente riportato nella scheda della casa d’aste

sul dipinto, che mi è stata gentilmente messa a disposizione dagli attuali proprietari.

8 Sansovino 1581, p. 43

9 Sansovino 1581, p.42

10 Questa iconografia non si trova né in Réau 1958, pp. 262-272; né in Balboni, Bronzini, Brandi 1963.

È stata analizzata da Di Monte 1999, pp. 118-120.

11 Il confronto è già stato proposto da Robert Ilchman nella già citata lettera a Sotheby’s.

12 M. Binotto in Sgarbi 2012, pp. 90-91, n. 6.

13 M. Binotto in Sgarbi 2012, pp. 86-89, cat. 5, con precedente bibliografia.

14 Cfr. P. De Vecchi in Bernari & De Vecchi 1970, pp. 112-113, cat. 189, con precedente bibliografia.

15 Falomir 2007, pp. 324-329.

16 Precedentemente alla Suida Manning Collection di New York; Pignatti 1976, I, p. 162, n. 315; II, ill. 678; Arasse

1990; Pignatti, Pedrocco 1995, I, p. 451, n. 346; Bober 1999, p. 448, ill. XI; Scarborough 2006, p. 39; Huber 2005,

p. 77; p. 429, n. 99; http://collection.blantonmuseum.org/Obj16449? sid=891254&x=14866000).

Tintoretto e Tiziano

159


50. Massimo Stanzione (1585 ca.-1656 ca.)

Attribuito

La meditazione di Maria Maddalena

Olio su tela, 102,3 x 76,2 cm

Collezione privata (Courtesy of Museo Nazionale di Arte e Storia, Lussemburgo)

BIBL.: Whitfield & Martineau 1982; Hilaire & Spinoza 2015.

Massimo Stanzione fu uno degli artisti napoletani più

importanti della prima metà del XVII secolo. Come molti

colleghi attivi a Napoli nello stesso periodo, incluso il suo

principale rivale Jusepe de Ribera (1591-1652), anche lui

subì l’influsso del Caravaggismo, ma il suo stile aveva una

raffinatezza e una grazia tanto peculiari da fargli guadagnare

il soprannome di ‘Guido Reni napoletano’. Le prime opere di

Stanzione sono in prevalenza profane – scene mitologiche e

ritratti – mentre quelle delle maturità hanno un carattere in

gran parte religioso.

Raffigurata come una santa eremita, Maria Maddalena

siede solitaria nella sua grotta, che la leggenda vuole a Sainte

Baume nella Francia meridionale, e guarda con occhi contriti

il teschio che tiene fra le mani. Nonostante il travaglio della

sua anima, ha l’aspetto di una giovane donna sensuale. Il vaso

di olio profumato di fronte a lei ricorda allo spettatore l’episodio

in cui, da prostituta pentita, pianse davanti a Cristo che

cenava nella casa di Simone il fariseo. Dopo aver asciugato

con i capelli i piedi di Gesù bagnati dalle sue lacrime, li baciò

e li unse con olio di mirra. Il teschio richiama la brevità

della vita e qui serve probabilmente a indurre chi guarda

a confessare i propri peccati e ottenere il perdono prima

che sia troppo tardi. Come archetipo della donna penitente,

Maria Maddalena era un soggetto popolare nell’arte della

Controriforma, rispecchiava gli sforzi della Chiesa cattolica

per diffondere la devozione ai sacramenti, soprattutto quello

della confessione, che i Protestanti non riconoscevano come

strumento per ottenere la Grazia divina.

Questo dipinto riscoperto recentemente è senza

dubbio uno dei capolavori di Stanzione. La tecnica pittorica,

con i suoi intensi effetti di chiaroscuro e la stesura densa del

colore, è tipica del periodo maturo dell’artista e ricorda lo

stile di Jusepe de Ribera. Il quadro è databile all’incirca al

1635-40. BVB

160

Tintoretto e Tiziano


Tintoretto e Tiziano 161


162


51. Tiziano (1488-1576)

Ritratto di dama con la figlia

1550 ca.

Olio su tela, 88,3 × 80,7 cm

Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa (fino al 2019)

Ritratto incompiuto di ‘Milia’, la donna amata da Tiziano, e della loro figlia

Emilia dalla Collezione Barbarigo di Venezia

L’incompiuto Ritratto di dama con la figlia, tornato a Venezia dopo quasi 500 anni, è una delle

tante opere non finite rimaste nella bottega di Tiziano alla sua morte. In seguito, forse appena

qualche anno dopo, l’opera fu ridipinta, presumibilmente da uno degli allievi del maestro,

con la composizione religiosa Tobia e l’arcangelo Raffaele: le teste sono state modificate e rese

leggermente più generiche, la madre è diventata l’arcangelo e la figlia il giovane Tobia. Sotto

queste sembianze religiose, le loro caratteristiche individuali non erano più riconoscibili. Le

modelle hanno acquisito un’acconciatura da ragazzo e i loro abiti sono stati mutati in una

foggia maschile. Sono spuntate ali policrome, rosa e bianche, ed è stata cambiata anche la

posizione del braccio destro di entrambe le figure per permettere a Tobia di sollevare in alto

un grande pesce e alla sua guida, Raffaele, un vaso contenente il fiele che restituisce la vista

al padre del ragazzo. I nuovi gesti e gli attributi sono stati aggiunti in maniera alquanto

maldestra, lasciando il dipinto a diversi livelli di finitura. Evidentemente un quadro religioso

finito era considerato più vendibile di un doppio ritratto incompiuto, nonostante quest’ultimo

fosse di gran lunga superiore per qualità.

La composizione originale sottostante fu riscoperta nel 1948, quando la tela fu sottoposta

a una radiografia al Courtauld Institute. I raggi X rivelarono il pregevole doppio ritratto di

una donna in compagnia della figlia, eseguito alla maniera energica di Tiziano. Nella stessa

occasione risultò anche una stretta affinità tra le radiografie della testa della bambina e la

testa di Lucrezia nel Tarquinio e Lucrezia, sempre di Tiziano, conservato al Fitzwilliam Museum

di Cambridge. Diversi anni dopo, il dipinto fu esaminato nello studio del restauratore Alec

Cobbe per capire se fosse possibile riportare alla luce il doppio ritratto sottostante, considerato

dagli esperti molto più importante del sovradipinto Tobia e l’arcangelo Raffaele. Alla fine

prevalse la decisione di rimuovere la composizione sovrastante nel corso di un estenuante

restauro durato vent’anni.

Tintoretto e Tiziano

163


Ritratto di dama con la figlia di Tiziano sotto forma di “Tobia e l’Arcangelo Raffaele”, raggi X e differenti fasi del restauro

Lo stato incompiuto, ora visibile, del dipinto originale ci permette di indagare la tecnica

ritrattistica di Tiziano. Anche lui, come molti altri pittori che si dedicarono a questo genere,

si concentrò all’inizio sulle teste e portò a un elevato grado di finitezza i lineamenti della

madre e della figlia, presumibilmente realizzati dal vivo. Una parte degli abiti mostra un

livello di esecuzione relativamente avanzato, per esempio il vestito di velluto tra il giallo e il

marrone della madre, mentre altre aree, soprattutto nelle maniche, sono poco risolte, come

anche la mano destra della donna, abbozzata con pennellate sommarie. C’è una maestria nel

tocco che fa presagire un risultato definitivo di invidiabile brillantezza; nonostante i diversi

gradi di finitezza sulle varie aree della superficie, la composizione nel suo insieme manifesta

un’armonia complessiva e una totale coerenza.

Il vestito della madre, di un’eleganza austera, è ben rifinito. La dama indossa una

sottoveste bianca, una camicia candida, lini dalle fantasie delicate e una sopravveste di un

marrone dorato, conosciuta a Venezia col nome di camora, dalle ampie maniche definite

164

Tintoretto e Tiziano


con diverse gradazioni di color lionato. Sulla spallina della manica sinistra sono inoltre

abbozzati tre bottoni; la donna porta come gioielli due splendidi fili di perle, mentre una

terza collana è parzialmente intrecciata alle prime due, con un effetto finale davvero

notevole. La figlia indossa un magnifico orecchino di ametista e un ornamento di perline

intrecciato ai capelli, fermato sulla testa da un elegante fermaglio. La madre regge un fiore

nella mano destra, da cui emergono una serie di pennellate bianche e grigie, che terminano

in uno svolazzo impastato. Un’interpretazione di questo passaggio sorprendente potrebbe

far pensare all’inizio di un ventaglio di piume di struzzo, o a una conocchia, oggetto che

farebbe riferimento al ramo matrilineare della famiglia, assai appropriato per questo doppio

ritratto. Risulta che Tiziano abbia eseguito il dipinto dal vivo, e l’apparente indecisione

in alcuni dettagli è una delle tante ambiguità che descrivono il suo processo compositivo

in maniera affascinante.

I ritratti femminili di Tiziano sono estremamente rari, si riducono più o meno a tredici.

Eppure fu un innovatore in questo genere, introducendo nei ritratti femminili il formato

di tre quarti, a partire da La Schiavona della National Gallery di Londra. Questa descrizione

familiare di una madre e di una figlia in un doppio ritratto è un caso unico nell’opera dell’artista,

come in quella della maggior parte dei pittori veneziani, dal momento che nella città

lagunare vigeva una regola non scritta che vietava l’iconografia dinastica. Da quando nel 2002

il doppio ritratto, che ora giunge a Venezia, è stato posto sotto la lente dei critici, è prevalsa

l’opinione che vede nella modella non un’esponente della nobiltà, ma un’appartenente alla

cerchia di Tiziano, dal momento che i sentimenti dell’artista per la donna e la bambina sono

messi in evidenza dalla stesura del colore, piena di fascino e sensualità. Della vita privata di

Tiziano sappiamo sorprendentemente poco, le uniche notizie giunte fino a noi sono sopravvissute

per caso in documenti notarili che riguardano i suoi figli. Come molti uomini che

amarono le donne, pare che Tiziano abbia tenuta segreta la loro identità. Pomponio, l’erede

legittimo, potrebbe aver distrutto qualsiasi prova dell’esistenza di queste donne (e dei loro

figli) che, dopo la morte di sua madre nel 1530, entrarono nella vita del padre. Tra il 1543 e il

1548, una misteriosa donna senza nome della cerchia di Tiziano gli diede una figlia, Emilia

Vecellio. La sua esistenza è nota grazie alla sopravvivenza fortuita di documenti, datati 10

marzo 1572, relativi alla dote di 750 ducati che Tiziano assegnò allo sposo della ragazza, il

mercante di grano Andrea di Giovanni Dossena. La coppia ebbe tre figli, Alcide, Zanetto e

Tintoretto e Tiziano

165



Cecilia. La madre di Emilia è descritta nel documento come “ignota di casa”, il che fa pensare

che potesse essere una domestica.

Tra tutte le possibilità che riguardano le donne di Tiziano, l’ipotesi più probabile è che

il doppio ritratto raffiguri la madre di Emilia, conosciuta come “Milia”, insieme alla stessa

Emilia all’età di dieci anni. Se si trattasse davvero di questa figlia di Tiziano, allora il ritratto

dovrebbe risalire più o meno al 1558. Emilia e sua madre devono aver vissuto in casa del pittore

insieme ai suoi legittimi figli – con i quali forse non mancò qualche frizione – nella parte

principale della casa o nelle stanze della servitù. Può darsi che Pomponio abbia censurato

l’immagine dopo la morte di Tiziano, ordinando che la tela fosse ridipinta, oltre a cancellare

qualsiasi riferimento a Milia dall’archivio di famiglia. Chiunque fosse questa bellissima donna,

ne resta una testimonianza straordinaria nel ritratto, così come della figlia.

Jaynie Anderson

1 Questa è una versione rivista e abbreviata di Anderson 2002, ripubblicata col consenso dell’editore, Michael Hall.

Il doppio ritratto è stato esposto per la prima volta a Kenwood House nel 2001 (Laing 2001, pp. 222-229). Dal 2002

è stato esposto in diverse occasioni: al Prado, Madrid (Anderson in Falomir 2003, pp. 206-207, 377); al Palais

du Luxemburg, Parigi (Nitti, Carratù & Costantini 2006, pp. 59-60); a Palazzo Crepadona, Belluno; a Palazzo

Magnifica Comunità, Pieve di Cadore (Biffis & Broch in Puppi 2007, pp. 201-202); al Metropolitan Museum of

Art, New York (Bayer in Baum, Bayer & Wagstaff 2016, p. 322).

2 Questa ipotesi è stata avanzata da Peter De Wilde.

3 Wethey 1969-1975, II.

4 Il miglior resoconto dei diversi tentativi di identificare la modella è quello di Francis Russell, nella sua scheda del

catalogo per la vendita degli Old Master Paintings, Christie’s, 8 dicembre 2005, p. 11.

5 Per una visione d’insieme sulla vita di Tiziano, vedi Puppi 2004, pp. 37-60.

6 Hope 2008.

7 Brunetti 1935.

8 Puppi ritiene che il nome della madre di Emilia sia stato deliberatamente rimosso dai documenti che riguardano

la dote, vedi Puppi 2004, p. 42.

9 Un’ipotesi avanzata da Francis Russell, op. cit. (nota 4), p. 12.

Tintoretto e Tiziano

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52. Peter Paul Rubens (1577-1640)

Ritratto di giovane donna con una catena

1605-1606

Olio su tela, 81,3 × 66 cm

Collezione privata, in prestito al Museo delle Belle Arti, Houston

BIBL.: Old Master & British Paintings, Evening Sale, Londra, 9 dicembre 2009, n. 11, pp. 38-40.

Questo ritratto elegante e insieme pieno di energia,

rinvenuto solo una decina d’anni fa, non era ancora stato

esposto al pubblico. Un disegno preliminare splendidamente

conservato, il tratto appena abbozzato, e gli strati di colore

sottostanti rimasti scoperti vicino agli angoli della tela

suggeriscono che si tratti di un’opera incompiuta, o di un

bozzetto dipinto dal vivo, che doveva servire come base per

un ritratto finito.

Il viso giovanile della donna – ravvivato dai grandi

e intensi occhi castani e dalle labbra rosse e carnose,

dischiuse quasi nell’atto di parlare – è sottolineato da una

caratteristica gorgiera che si solleva dietro e sopra la testa.

La presenza quasi palpabile è accentuata ancora di più

dall’incarnato luminoso e dai capelli raccolti con cura sul

capo. Ciò che colpisce di più è l’abilità tecnica d’esecuzione:

dipinto probabilmente in un solo giorno, il quadro mostra

un impasto color crema applicato con parsimonia su

un’imprimitura più scura tra il rosso corallo e il marrone,

e una stesura più decisa del colore sulla gorgiera e sulle

maniche, che con il loro ruvido sfarzo contrastano con la

descrizione delicata dei lineamenti. È un ritratto potente:

la donna volge confidenzialmente la testa per incrociare lo

sguardo dello spettatore, in contrapposto.

Il fatto che sia vestita sobriamente secondo la moda

spagnola dell’inizio del Seicento suggerisce che il ritratto sia

stato eseguito durante il primo viaggio di Rubens in Spagna

tra l’aprile del 1603 e il gennaio del 1604. Ancora giovane e

in ascesa come artista, Rubens era stato incaricato dal suo

committente e mecenate, il duca di Mantova Vincenzo I

Gonzaga, di consegnare un gruppo di dipinti come dono per

Filippo III. È più probabile, comunque, che questo quadro

risalga al suo periodo a Genova, dove Rubens soggiornò dal

dicembre 1605 fino alla metà dell’anno seguente, rivelandosi

per la prima volta un ritrattista brillante. Nonostante

l’apparente immediatezza, quest’opera reca i tratti distintivi

dei grandi dipinti di corte. Simili ritratti avrebbero potuto

essere commissionati dalla nobiltà genovese come segno di

potere e status sociale.

Sappiamo poco della storia precedente del quadro.

Sul retro della tela è apposto il sigillo della “Reale Accademia

delle Belle Arti in Venezia”. Ciò suggerisce che si tratti di un

dipinto proveniente da una collezione privata veneziana non

ancora identificata, poi entrata a far parte del patrimonio

statale dello Stato a inizio Ottocento. Il dipinto sarebbe

stato quindi mandato in deposito all’Accademia e in seguito

immesso sul mercato. BvB

Tintoretto e Tiziano

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53. Peter Paul Rubens (1577-1640)

Venere allatta gli Amorini (Crescetis Amores)

1616

Penna e inchiostro bruno, acquerello e gesso nero, inchiostro nero con lumeggiature bianche; 246 × 179 mm

Collezione privata

BIBL.: Rooses 1886-1892, III, p. 187, sotto n. 701; ibid. V, p. 171, n. 1356; F. Healy, in: McGrath et al. 2016, I, pp. 395, 401; ibid. II, fig. 332; Büttner 2018, I, pp. 361-368, n. 47;

II, figs 226, 229.

Molto tempo prima della scoperta di questo foglio,

che mostra una composizione a penna e inchiostro su un

disegno preparatorio in gesso nero, l’incisione che ne trasse

Cornelis Galle il Giovane (1615-1678) testimoniava già una

delle invenzioni pittoriche più famose di Rubens.1 Il titolo

Crescetis Amores – “Crescerete, Amori” –, usato anche per la

stampa, è apposto sul disegno. Sotto l’immagine si legge una

dedica, nella caratteristica grafia di Rubens, al borgomastro

di Anversa, Paulus Van Halmale (1562-1648 ca. ). La scritta,

che non compare nell’incisione, è datata 16 aprile 1616.2

Il disegno faceva probabilmente parte di un Album amicorum,

che in seguito fu smembrato e che conteneva anche un foglio,

ora a Parigi, con un’iscrizione dove si diceva che Paul Bril

(1554-1626) lo aveva regalato a Van Halmale nel 1604 a Roma.3

L’immagine dei nudi accovacciati si rifà al modello

antico di “Afrodite accovacciata”, citata da Plinio nella sua

Storia Naturale quando racconta che la statua si trovava nel

Tempio di Giove Statore ed era opera di Doidalsa, uno scultore

greco per il resto poco noto.4 Un osservatore colto

come Paulus Van Halmale poteva riconoscere nel disegno

di Rubens non solo i riferimenti figurativi all’antichità

classica, ma anche l’allusione letteraria contenuta nel titolo.

Quest’ultima fa riferimento a una scena molto famosa della

decima Egloga di Virgilio, nella quale un poeta innamorato

annuncia che inciderà la sua dichiarazione d’amore sulla

corteccia di un albero, così il suo amore crescerà insieme alla

pianta.5 Otto Van Veen (1556-1629), maestro di Rubens, citò

la stessa eloquente immagine metaforica nei suoi Amorum

Emblemata.6 La consuetudine di usare immagini ispirate alla

classicità per esprimere la costanza dei sentimenti trasformò

l’illustrazione metaforica di Rubens in un pegno perfetto

d’amicizia. Inoltre, il messaggio era così universale da

incoraggiare un’ampia diffusione di questo disegno di Rubens

per mezzo di stampe. NB

1 Incisione di Cornelis Galle il Giovane (1615-1678), 220 × 173 mm; titolo nel

margine inferiore: “Crescetis Amores” (“Crescerete, Amori”), firmato

nell’angolo destro in basso: “P.P.Rubens pinxit/Corn. Galle sculp[sit]”.

Hollstein VII, p.65, n. 145.

2 Büttner 2018, I, pp. 365-366.

3 L’episodio è documentato dall’iscrizione su un disegno di Paul Bril,

San Gerolamo, 1604; penna e inchiostro, acquerello grigio e bruno, con

lumeggiature bianche, e gesso nero, 218 × 145 mm; Paris, Lugt Collection, inv.

6814. L’iscrizione su questo disegno dice: ‘Paulus bril amico suo. sr. Paulo de

Halmale/ facebat. Romae ques di. 12. Aprilis-1604’. Vedi Wood Ruby 2013, non

impaginato (pubblicato online, DOI: 10.5092/jhna.2013.5.2.4).

4 Plinio, Storia Naturale, XXXVI, 35 (“Venerem lavantem sese Daedasa, stantem

Polycharmus”).

5 Virgilio, Egloghe, X, 52-54 (“Ibo et Chalcidico quae sunt mihi condita uersu/

carmina pastoris Siculi modulabor auena./ Certum est in siluis inter spelea

ferarum/malle pati tenerisque incidere Amores/ arboribus: crescent illae,

crescetis, Amores”).

6 Van Veen, Amorum Emblemata, 1608, p. 6. Per la copia di Rubens di questo libro,

vedi Arents 2001, p. 280, n. N8

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Un’esistenza circondata dal lusso


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54. Abraham Ortelius (1527-1598)

Theatri orbis terrarum parergon

Anversa, Balthasar I Moretus, 1624

2°: *4, folio doppio segnatura I-XLIX, 32, [4] p.

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM A 933

BIBL.: Van der Krogt 1997-2003, vol. IIIa, pp. 245-249, n. 31:771; Imhof 2015.

Il cartografo di Anversa Abraham Ortelius pubblicò questo

Theatrum orbis terrarum, il primo atlante vero e proprio che si

conosca, nel 1570. Consultò tutte le migliori mappe disponibili

in quegli anni in Europa e le fece incidere nuovamente in

un formato uniforme. Quasi tutte, poi, furono arricchite con

un testo di accompagnamento sul retro e raccolte in un unico

volume. Insieme all’atlante di Gerard Mercator, la pubblicazione

di Ortelius ebbe un impatto profondo sul modo di

vedere la Terra da parte di un gruppo considerevole di lettori.

La prima edizione del 1570 del Theatrum contiene testi

in latino; negli anni seguenti furono realizzate delle versioni

in olandese, tedesco e francese. Queste edizioni contengono

le stesse mappe di quella in latino, ma le parole che le

accompagnano differiscono in maniera sostanziale. I testi

nelle lingue nazionali erano molto più soggettivi e aneddotici,

il che indica che la versione in latino del Theatrum era

destinata soprattutto a un pubblico erudito, mentre quelle nel

linguaggio di tutti i giorni avevano meno pretese intellettuali.

Ortelius continuò ad aggiungere costantemente al suo

atlante nuove mappe aggiornate, fino alla sua morte nel 1598.

Mentre la prima edizione conteneva le stampe di 53 mappe,

il numero salì a 115 nell’ultima edizione pubblicata quando

Ortelius era ancora in vita. Dopo la sua morte, le lastre di

rame usate per l’atlante furono vendute a un altro editore di

Anversa, Jan Baptist Vrients, che stampò nuove edizioni del

volume in varie lingue, anche in italiano.

Il vero interesse di Ortelius era però la storia, che unì alla

cartografia inserendo mappe storiche nel suo Parergon. Quale

modo migliore per spiegare eventi della Bibbia o dell’antichità,

scrisse nel preambolo, che attraverso le carte geografiche?

Per lui la cartografia era «l’occhio della storia». Dopo

l’esordio nel 1579 con tre mappe in appendice al suo Theatrum,

l’atlante storico crebbe rapidamente fino ad arrivare a una

pubblicazione a sé stante con 32 mappe. Balthasar I Moretus

pubblicò un’ultima edizione del Parergon nel 1624. DI

Un’esistenza circondata dal lusso

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55. Jacques Jordaens (1593-1678)

Amore e Psiche

1645 ca.

Olio su tela, 160 × 260 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 5023

BIBL.: Jaffé 1968b, pp. 129-130, n. 98; d’Hulst 1993, pp. 224-227, n. A71; Merle du Bourg 2013, pp. 202-203, n. III-08.

Dire che Jordaens aveva una passione per le scene mitologiche

sarebbe riduttivo, considerando la serie quasi infinita

di episodi della mitologia classica da lui dipinti. Tra questi,

però, uno spicca in maniera particolare: quello di Amore e

Psiche, raccontato da Apuleio ne L’asino d’oro.

Figlia di un re, Psiche aveva una bellezza tanto

irresistibile da essere paragonata a Venere, la dea dell’amore.

In effetti, la venerazione della fanciulla da parte del popolo

scatenò la gelosia della dea, che reagì ordinando al proprio

figlio, Amore, di procurare a Psiche il compagno peggiore

che gli riuscisse di trovare. Appena Amore la vide, però,

si innamorò pazzamente della ragazza e la portò nel suo

palazzo. Quando Venere lo venne a sapere, fece di tutto per

spezzare quell’unione, ma Amore riuscì a convincere Giove e

alla coppia fu concesso di vivere sull’Olimpo.

La storia di Amore e Psiche era un tema molto popolare

nelle arti visive, come dimostrano in maniera eccellente gli

affreschi rinascimentali di Raffaello nella Loggia di Psiche a

Villa Farnesina, a Roma. Anche Rubens, contemporaneo di

Jordaens, dipinse diverse scene dal mito, e lo stesso Jordaens

lo riprese più volte, sia in opere uniche che all’interno di

serie. Il dipinto qui in mostra è uno splendido esempio del

primo caso. Amore trova Psiche addormentata sotto una

tenda, tra le sue due sorelle. Il Museo delle Belle Arti di

Lille conserva il bozzetto preparatorio del dipinto. Oltre a

quest’opera e ad altre indipendenti, Jordaens dipinse tre serie

complete sul mito. Intorno al 1639-40 gli fu commissionato

un ciclo per la corte inglese (vedi cat. 18), seguito poco dopo

da un altro per la regina Cristina di Svezia. Nessuno dei due è

sopravvissuto. Forse, però, furono proprio queste commesse

a spingere Jordaens a disegnare una terza serie per la sua

abitazione privata. Quest’ultimo ciclo è giunto fino a noi

ed è ora ufficialmente annoverato tra i capolavori dell’arte

fiamminga. BV

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Un’esistenza circondata dal lusso



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56. Servatius (‘Servaes’) (de) Cardon (1608-1649)

Attribuito

Busto di un Satiro

1625-1650

Terracotta, 77 × 65 ×32,5 cm

Anversa, Museo della Casa di Rubens, inv. RH.B.045

BIBL.: De Nijn et al. 1997, n. 29 (come “anonimo”); Philippot et al. 2003, p. 867.

Questo busto modellato con esuberanza evoca in maniera

eloquente l’ebbra concupiscenza di un satiro, simbolo della

sfrenatezza della natura, durante un tiaso o un baccanale.

La scultura ha chiaramente origine nell’ambiente artistico

di Rubens (1577-1640), che aveva a sua volta una passione per

i temi bacchici. La terracotta è tradizionalmente attribuita

allo scultore di Mechelen Lucas Faydherbe (1617-1697),

che si formò nella bottega di Rubens per tre anni. Sussiste,

però, qualche dubbio, e l’attribuzione richiede qualche

precisazione. Mentre si conoscono diversi busti correlati di

Faydherbe su temi mitologici, lo stile espressivo bozzettistico

del satiro, e soprattutto i baffi e la barba dall’eleganza fluente,

“pettinata”, farebbero pensare piuttosto al suo contemporaneo

Servaes Cardon. Di quest’ultimo ci restano molte opere

firmate, dove ritorna lo stesso tipo di modellato, per esempio

in un busto maschile del 1646, conservato al Rijksmuseum di

Amsterdam e al Louvre di Parigi.

Le opere attribuite con certezza a Cardon sono poche,

ma evidenze d’archivio dimostrano che dev’essere stato un

artista versatile. Trascorse un periodo a Roma prima del 1638,

probabilmente in compagnia del suo collega Artus Quellinus

il Giovane, e lì ebbe sicuramente modo di studiare satiri e baccanti

di questo tipo. Una volta tornato ad Anversa, si dedicò

con passione, tra altre cose, a scolpire l’avorio, come mostra

un inventario delle sue proprietà nel 1641, anche se questo

aspetto della sua opera ha finora ricevuto scarsa attenzione.

Insieme a suo fratello Johannes, anche lui scultore, Cardon

accettò numerose commesse monumentali per chiese e

realizzò diversi pulpiti e altari. FS

1 Scholten 2004.

2 De Nijn et al. 1997, n. 29 (come “anonimo”); Philippot et al. 2003, p. 86.

3 De Nijn et al. 1997, n. 23, 59-61, 67, 68.

4 Amsterdam, Rijksmuseum, inv. BK-2010-17, vedi Scholten 2014, pp. 298-299.

Parigi, Louvre, inv. RF 2325, vedi Philippot et al. 2003, p. 834, fig. 1.

5 Anversa, Archivio municipale, Archivio notarile, Notaio L. Nicola, N 2695

(17 gennaio 1641).

6 Vedi Philippot et al. 2003, pp. 834-835.

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57. Manifattura di Jan Raes (1574-1651)

da un disegno di Peter Paul Rubens (1577-1640)

Publio Decio Mure consulta l’oracolo

Post 1618

Arazzo, lana e seta, 404 × 512 cm

Anversa, Museo della Casa di Rubens, inv. RH.W.045

Nel 1616 due mercanti e tessitori, Jan Raes di Bruxelles e

Frans Sweerts di Anversa, commissionarono a Peter Paul

Rubens alcuni disegni per una serie di arazzi in sei quadri

sulla Vita di Publio Decio Mure, che dovevano essere tessuti per

il mercante genovese Franco Cattaneo. La storia è raccontata

da Tito Livio e riguarda i due consoli romani, Decio Mure e

Tito Manlio, che guidarono il loro popolo nella guerra contro

i Latini (340-338 a.C.). Un sogno profetico aveva annunciato

che uno dei due avrebbe sacrificato la propria vita per

garantire la vittoria alla sua gente. Questo arazzo mostra il

momento in cui i sacerdoti informano Publio Decio Mure

che l’oracolo ha indicato lui come quello destinato a morire.

L’aruspice espone il fegato dell’animale appena sacrificato,

mentre due servitori ne portano un altro. La scena si svolge di

fronte alla tenda del generale, nella quale vediamo le insegne

della legione romana.

Rubens trasse ispirazione per il disegno da Il sacrificio di

Listra, un arazzo disegnato da Raffaello nel 1515-17 per il ciclo

degli Atti degli Apostoli per la Cappella Sistina. Esiste un’edizione

precedente della serie a Palazzo Ducale di Mantova,

dove Rubens lavorò dal 1600 al 1608. Le figure allegoriche ai

lati sono state adattate da modelli precedenti.

Il ciclo di Publio Decio Mure fu il primo di una serie

disegnata da Rubens per l’industria degli arazzi. I modelli a

figura intera che dipinse su tela con l’aiuto dei suoi assistenti

sono sopravvissuti e ora si trovano nelle Collezioni del

Principe del Liechtenstein a Vienna. GD

Da un cartone di

Raffaello, Il Sacrificio di

Listra, arazzo, Mantova,

Palazzo Ducale

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58. Jan Boeckhorst (1604-1668)

Apollo e Diana uccidono i figli di Niobe

1665-1668 ca.

Olio su tela, 58,3 × 88,5 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 5157

BIBL: Galen 2012, pp. 346-347, n. Z69, ill.

Apollo e sua sorella Diana lanciano frecce contro i sette figli e

le sette figlie di Niobe. Le due divinità vogliono punire la figlia

del re per avere impudentemente proclamato la propria superiorità

rispetto alla loro madre, Latona, che ha avuto meno

figli di lei. Il racconto mitologico è narrato diffusamente nelle

Metamorfosi di Ovidio (VI: 204-312).

La scena fa parte di una serie di modelli dipinti per un

ciclo di sette arazzi dedicati alla storia di Apollo, che il ricco

intenditore e collezionista anversese Antonio van Leyen

(1628-1686) aveva commissionato per la propria casa. Per il

ciclo, Van Leyen si rivolse a Jan Boeckhorst, che era stato

uno dei tanti collaboratori di Rubens negli anni Trenta del

XVII secolo e la cui prima maniera tradiva un forte influsso

rubensiano, anche se più tardi passò ad ispirarsi allo stile

potentemente emotivo di Anthony van Dyck, come nel caso

dei modelli per la serie su Apollo, che l’artista dipinse poco

prima del 1668, anno della sua morte. L’influsso deciso di Van

Dyck è particolarmente evidente in questo dipinto, che porta

all’apice l’azione drammatica attraverso una gestualità

esasperata e ricca di pathos. HV

180

Un’esistenza circondata dal lusso


59. Theodoor I Rogiers (1602-1654)

Attribuito

Brocca e piatto con “Il Trionfo di Venere” e “Susanna e i vecchioni”

1635-1636

Argento dorato, brocca: alt. 37 cm, diam. 15 cm; piatto: larg. 60 cm. alt. 45 cm

Donato da Pierre e Colette Bauchau, coll. Fondazione Re Baldovino, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa

BIBL.: Führing 2001.

Questo set di brocca e piatto, ornato con scene mitologiche e

bibliche in argento sbalzato, è probabilmente opera di Theodoor

Rogiers il Vecchio, un rinomato argentiere di Anversa che annoverava

tra i suoi clienti anche Carlo I d’Inghilterra. Il corpo della

brocca descrive il Trionfo di Venere. In primo piano vediamo la dea

dell’amore, appena nata dalla schiuma del mare. Seduta su una

conchiglia, è sospinta a riva dagli aliti dei venti divini, attorniata

dalle sue fedeli ancelle, le Tre Grazie. La nascita di Venere e il

suo arrivo sulla terra portano al mondo bellezza e amore.

La scena centrale del piatto racconta, invece, la storia

della casta Susanna, spiata da due vecchi lascivi mentre fa

il bagno. Gli oggetti della toletta – un pettine e un catino sul

quale la fanciulla ha appoggiato una collana di perle – sono

stati gettati per terra. L’atmosfera di erotismo e di passione è

sottolineata da una magnifica fontana decorata con la figura

di Eros intrecciato a un delfino, che per il mondo antico era

un simbolo di amore e lussuria.

Il set di brocca e piatto – l’unica opera di Rogiers

sopravvissuta – è uno straordinario esempio di artigianato.

Le due scene, brillantemente eseguite, fanno pensare che

fossero intese come opere d’arte a sé stanti. Inoltre, la forma

degli oggetti lascia supporre che non fossero destinati a un uso

quotidiano. Entrambi sono decorati in una maniera troppo

ricca, oltre ad essere poco maneggevoli. Dovevano essere,

quindi, argenti “da parata o da esposizione”, fatti per essere

ammirati in ogni singolo dettaglio dall’occhio esperto di un

intenditore.

Gli studi sull’argomento hanno sistematicamente

collegato il set a Rubens. È possibile che l’artista non fosse

solo il disegnatore o inventor 1 di questa coppia di oggetti,

ma anche il proprietario. Sia la brocca che il piatto mostrano

una spiccata qualità pittorica e le scene sbalzate nell’argento

contengono riferimenti sorprendenti all’opera dello stesso

artista. Si è ipotizzato che quest’ultimo abbia ricevuto in

dono brocca e piatto da Ferdinando d’Austria in segno di

gratitudine per i disegni dei palchi e degli archi trionfali,

realizzati in occasione della sua trionfale Entrata ad Anversa

nel 1635 (vedi cat. 22-24). Secondo questa interpretazione,

le immagini dipinte sui due recipienti dovevano essere intese

come un’allusione garbata da parte del donatore alle seconde

nozze di Rubens con la giovane Helena Fourment (1614-1673),

celebrate pochi anni prima. BVB

1 Rubens deve aver realizzato diversi disegni per argenti, anche se ne è

sopravvissuto solo uno. Per questo disegno, vedi la recente pubblicazione di

Lammertse, Vergara 2018, cat. 59, pp. 189-91; per i progetti di Rubens di piccole

statue in avorio e oggetti decorativi, vedi Van Beneden, in corso di pubblicazione.

Un’esistenza circondata dal lusso

181


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60. Peter Paul Rubens (1577-1640) Paul de Vos (1595-1678) Jan Wildens (1586-1653)

Diana e le ninfe cacciatrici

1635-1640 ca.

Olio su tela, 155 × 199 cm

Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa, inv. RH.LBI.2019.001

BIBL.: Balis 1986, pp. 208-211, cat. 17, ill. 98; Ducos 2013, pp. 110-111, cat. 59; Newman 2016, pp. 56-58; Vézilier-Dussart 2016, pp. 122-123, cat. 4.4.

Incoronata da un diadema che raffigura una luna crescente,

la dea Diana insegue la sua preda. L’accompagnano due ninfe

e una muta famelica di cani da caccia. I denti scoperti, i nasi

puntati a guidare la carica, i segugi scattano e si avventano

su una leggiadra coppia di cervi che cercano di fuggire. In un

batter d’occhio la caccia sarà terminata. Eppure, in questo

momento, la vittoria non è ancora certa per i cacciatori.

Con una serie di dettagli quasi cinematografici – centinaia

d’anni prima dell’invenzione del cinema – i pittori dispongono

le persone e i cani in modo che sembrino entrare in

scena dagli angoli del dipinto, con i corpi parzialmente

tagliati dall’inquadratura, dando così l’impressione che la

scena prosegua nello spazio dello spettatore. Gli artisti hanno

catturato un’azione istantanea, caricandola di suspense.

Una descrizione così vivida del movimento – che sembra

estendersi oltre la cornice – dà alla scena una forte connotazione

narrativa.

Per realizzare questo dipinto, Peter Paul Rubens

collaborò con due suoi colleghi, oltre che amici. Lui eseguì

le figure, Paul de Vos gli animali e Jan Wildens il paesaggio

verdeggiante, incorniciato a sinistra dagli alberi, con un

cielo intensamente luminoso che risplende attraverso le

nuvole. Una simile collaborazione era normale nell’Anversa

del XVII secolo, soprattutto per una bottega ben organizzata

come quella di Rubens. Capitava che l’artista eseguisse un

bozzetto a olio e che i suoi assistenti lo aiutassero a trasporlo

a grandezza naturale, o che lo facessero autonomamente.

In alternativa, Rubens poteva provvedere alle figure e

coinvolgere specialisti esterni al suo studio per gli elementi

aggiuntivi. In questo caso, eseguiva un bozzetto a olio

dell’intera composizione, oppure delineava solo il suo contributo,

lasciando liberi i suoi colleghi di completare l’opera

come ritenevano più opportuno. È più o meno quel che si è

verificato qui, grazie alla lunga collaborazione tra gli artisti

iniziata molto tempo prima dell’esecuzione del quadro.

Commissionato senza dubbio da un ricco cliente,

il dipinto doveva essere destinato alla decorazione di

ambienti spaziosi, forse un palazzo o una residenza di

caccia. Può essere rintracciato, nel 1730, presso il marchese

Ferdinando de’ Conti Guidi di Bagno, che forse lo aveva

ereditato dal suo antenato, Gian Francesco Guidi di Bagno,

nunzio apostolico nei Paesi Bassi a partire dal 1621-27, il quale

conosceva Rubens. Il dipinto non è incluso nell’inventario

del 1641 di Gian Francesco, pertanto non è possibile affermare

con certezza che quest’ultimo ne fosse realmente in

possesso. ADN

Un’esistenza circondata dal lusso

183


61. Andreas I Ruckers (1579-1653 ca.)

Ottavino (“Virginale bambino”)

Anversa, 1626 ca.

Anversa, Museo Vleeshuis, Sound of the City, inv. AV.1999.002.028.1-2

BIBL.: Lambrechts-Douillez 1984; O’Brien 1990; De Paepe 2018.

Come suo padre Hans e suo fratello Joannes, anche Andreas I

Ruckers costruì virginali “madre e bambino”. Questi strumenti

erano stati inventati ad Anversa ed erano composti da

uno strumento grande (la “madre”), di solito del tipo muselaar

(un virginale con la tastiera a destra), provvisto di uno

scomparto nel quale trovava posto un virginale più piccolo

(il “bambino”), chiamato anche ottavino, perché accordato

un’ottava più in alto della madre.

Sfortunatamente, la madre di questo ottavino non

è sopravvissuta, ma lo strumento può essere suonato perfettamente

anche come “orfano”. La tastiera è stata ampliata nel

corso del tempo, ma il virginale non ha subito altre modifiche

sostanziali. Nella rosetta sono incorporate le iniziali “A R”

(Andreas Ruckers). Sullo strumento non è riportata la data

di costruzione, ma, basandosi sulle decorazioni della rosetta,

Grant O’Brien ha dedotto che questo ottavino sia stato

costruito intorno al 1626. TDP

184

Un’esistenza circondata dal lusso


62. Anonimo

Veduta di Anversa (Coperchio decorato di un virginale)

Anversa, 1600 ca.

Olio su tavola, 50 × 164 cm

Anversa, Museo Vleeshuis | Sound of the City, inv. AV.1897.010

BIBL.: O’Brien 1990; De Paepe 2018.

Sono giunti fino a noi circa ottanta clavicembali e cinquanta

virginali costruiti ad Anversa tra il 1500 e il 1800. Ciò significa

che molte centinaia, o perfino migliaia, sono invece andati

perduti. Inoltre, nell’Anversa del XVI e del XVII secolo devono

essere stati prodotti molti più virginali che clavicembali,

perché erano più facili da costruire e di conseguenza meno

costosi. Va anche detto che la maggior parte dei clavicembali

di quel periodo sopravvissuti sono stati convertiti alla fine del

XVII secolo, o nel XVIII, in strumenti con una tastiera più larga

e un ventaglio più ampio di possibilità tecniche. In questo

modo, almeno in alcuni casi, è stato possibile prolungarne

la vita fino all’inizio del XIX secolo. I virginali, al contrario,

non si prestavano a modifiche di questo tipo, e di conseguenza

non furono più usati a partire più o meno dal 1650.

Il più recente virginale anversese giunto fino a oggi fu

costruito da Joannes Couchet, un nipote di Hans Ruckers,

e risale appunto al 1650 (collezione del Museo Vleeshuis).

Negli anni, i virginali furono buttati via, oppure le loro parti

furono usate per costruire nuovi clavicembali (alcuni dei

quali messi in vendita come strumenti antichi). Qualche

coperchio ornamentale si è occasionalmente salvato finendo

appeso alle pareti come un quadro. Esattamente quello che è

successo a questo coperchio di virginale, sul cui lato interno

un artista sconosciuto ha dipinto una veduta di Anversa come

appariva intorno al 1600.

Sono chiaramente visibili le maestose mura della città,

completate nella seconda metà del XVI secolo. Sulla sinistra

della tavola, in corrispondenza dell’angolo più meridionale

della città, si distingue la Cittadella, una fortezza che aveva il

doppio compito di proteggere e di controllare Anversa. TDP

Un’esistenza circondata dal lusso

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186


63. Andreas I Ruckers (1579-1653 ca.)

Clavicembalo

Anversa, 1644

Anversa, Museo Vleeshuis, Sound of the City, inv. AV.2137

BIBL.: Lambrechts-Douillez 1984; O’Brien 1990; De Paepe 2018.

Andreas Ruckers era il figlio di Hans Ruckers, il capostipite

di una dinastia anversese di costruttori di clavicembali. Dopo

la morte del padre nel 1598, Andreas e suo fratello Joannes

continuarono a occuparsi della bottega in Jodenstraat, all’inizio

sotto lo sguardo vigile della madre e poi, dopo la morte

di lei nel 1604, in maniera indipendente. Per un periodo i

due fratelli lavorarono insieme sotto l’insegna paterna “H R”,

ma intorno al 1608 presero strade separate: Joannes proseguì

l’attività dei genitori, mentre Andreas aprì una nuova bottega

per conto suo.

Sebbene Joannes fosse più famoso di Andreas, è difficile

distinguere i suoi strumenti da quelli del fratello. Questo

in mostra risale al 1644 ed è, sotto tutti gli aspetti, un tipico

clavicembalo di Anversa della scuola Ruckers-Couchet,

sia per la costruzione che per la decorazione. La tastiera è

stata leggermente ampliata in un’epoca successiva e le corde

sono state modificate, ma lo strumento è comunque valido

come in origine. È un fatto che non si verifica spesso: molti

strumenti Ruckers, infatti, furono drasticamente ricostruiti

nel XVIII secolo, fino a far rimanere ben poco dell’originale.

Qui l’interno del coperchio è decorato con carta ornamentale

e il motto sic transit gloria mvndi. Il clavicembalo è

firmato sulla traversa: ANDREAS RUCKERS DEN OUDEN ME FECIT

ANTVERPIAE. La tavola armonica è decorata con fiori e uccelli,

e intorno alla rosetta è stata dipinta una ghirlanda che incorpora

le iniziali “A R” (Andreas Ruckers). Questo clavicembalo

è dotato di un registro di liuto, un meccanismo che permette

alle corde di simulare il suono di un liuto. TDP

Un’esistenza circondata dal lusso

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64. Georges de la Hèle (1547-1586)

Octo missae quinque, sex et septem vocum

Anversa, Christophe Plantin, 1578

In-folio

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM R.38.7

BIBL.: Guillo et al. 1996; Van Orden 2014.

Anche se pubblicare musica non era la sua attività principale,

Christophe Plantin (1520-1589) mandò in stampa comunque

splendide e importanti edizioni musicali. Plantin era stampatore

di corte e poco prima del 1578 il re Filippo II di Spagna gli

chiese di pubblicare un lussuoso antifonario. L’editore mise

insieme la carta, alquanto costosa, e tutto il materiale per

produrre questa raccolta di canti liturgici, ma il re tralasciò

di mandargli i fondi necessari. Per fortuna a Plantin si

presentò una nuova opportunità, quando Georges de la Hèle,

un compositore originario di Anversa, espresse il desiderio

di stampare sei messe da lui composte. Nacque così la prima

e anche una delle più importanti edizioni musicali di Plantin,

le Octo missae, che riunivano otto messe in cinque, sei e sette

parti, composte da de la Hèle e dedicate a Filippo II.

Il formato del libro è eccezionalmente grande – ogni

pagina misura più o meno cinquantacinque centimetri di

altezza e quaranta di larghezza – perché era destinato a un

leggio da coro, che permettesse a tutti i coristi di leggere la

musica nello stesso momento. Per Plantin fu un vero azzardo

produrre un simile volume con le musiche di un compositore

ancora inedito, ma arginò il rischio obbligando Georges

de la Hèle a comprare quaranta delle 375 copie stampate.

L’edizione non si rivelò comunque un successo economico,

e i successori di Plantin dovettero cercare di esaurire le

copie ancora per decenni. Le cose andarono meglio a de la

Hèle, che fu nominato maestro di coro alla corte di Filippo II.

La maggior parte della sua musica andò perduta durante

l’incendio nella biblioteca del Palazzo Reale di Madrid nel

1734, e quindi questo libro è un documento davvero unico.

De la Hèle, com’era d’uso tra i compositori polifonici del

Rinascimento, utilizzò come base opere vocali già esistenti.

In questo caso, di Orlando di Lasso, Cipriano de Rore, Josquin

Desprez e Thomas Crecquillon, quattro compositori della

tradizione polifonica franco-fiamminga che godevano di

prestigio internazionale. TDP

188

Un’esistenza circondata dal lusso


65. Il Trionfo di Dori

Anversa, Peter II Phalesius, 1628

In-quarto oblungo

Anversa, Museo Plantin-Moretus UNESCO World Heritage, inv. MPM A 1806 3

BIBL.: Powley 1974; Guillo et al. 1996.

Alla fine del XVI secolo lo stimato mercante veneziano

Leonardo Sanudo era così innamorato della sua sposa,

Elisabetta Zustinian, da commissionare a ventinove poeti

una poesia ciascuno. Tutte dovevano terminare con le parole

“Viva la bella Dori”, un riferimento alla ninfa marina Dori,

che a sua volta rappresentava l’amata del mercante. Sanudo

fece poi mettere in musica le poesie da ventinove compositori,

ai quali richiese madrigali in sei parti. Tra gli autori delle

musiche, figuravano i più rinomati compositori italiani

del tempo: Orazio Vecchi, Luca Marenzio, Giovanni Croce,

Giovanni Gastoldi, Alessandro Striggio, Giovanni Pierluigi

da Palestrina e Giovanni Gabrieli. Fu chiesto un madrigale

anche a Philippus de Monte, un compositore dei Paesi Bassi

meridionali che era stato Kapellmeister di Massimiliano II e

di altri imperatori. Nel 1592, il veneziano Angelo Gardano

pubblicò i ventinove madrigali d’amore con il titolo Il Trionfo

di Dori.

Si trattava di una raccolta profondamente veneziana

sotto tutti gli aspetti, ma fu ad Anversa che i madrigali

riscossero il successo maggiore. L’opera fu ripubblicata nel

1595 dallo stampatore musicale anversese Petrus ii Phalesius

(1545-1629 ca.); seguirono almeno altre quattro edizioni.

L’ultima nota è quella di Phalesius del 1628. Sfortunatamente

non si sa di preciso come mai il volume ebbe tanto successo

ad Anversa. TDP

Un’esistenza circondata dal lusso

189



66. Michaelina Wautier (1617-1689)

Ritratto di due fanciulle come Sant’Agnese e Santa Dorotea

1655 ca.

Olio su tela, 89,7 × 122 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 599

BIBL.: Bedaux & Ekkart 2000, pp. 204-205 (attrib. a Thomas Willeboirts Bosschaert); Van der Stighelen 2018, pp. 194-199.

Questo dipinto di Sant’Agnese e Santa Dorotea occupa un

posto speciale nell’opera di Michaelina Wautier, per la sua

atmosfera intima e i colori vividi. Vi compaiono i ritratti di

due fanciulle presentate come sante, un genere noto come

portraits historiés. Far posare due ragazze per un dipinto di

due giovani martiri era perfettamente in linea col pensiero

della Controriforma, che considerava la verginità il valore

più alto in assoluto. L’attributo di Sant’Agnese è un agnello,

metafora del suo desiderio di prendere in sposo Cristo,

l’Agnello di Dio (Agnus Dei); la vergine martire Dorotea,

invece, è rappresentata con il suo simbolico ramo di palma e

il cesto di rose e mele da lei inviato a Teofilo, un pagano che

la dileggiava ma che finì per convertirsi ed essere a sua volta

martirizzato. Le ragazze stanno una accanto all’altra, ma non

si guardano negli occhi. Non guardano nemmeno oltre la

cornice del dipinto. La loro espressione malinconica rivela la

condivisione di un identico destino. Fanno parte di una storia

all’interno della quale comunicano senza parole. Michaelina

le mostra mentre arrossiscono, per enfatizzarne la pudicizia.

Di solito la pittrice sceglieva le sue modelle tra le persone

che le erano più vicine, quindi è assolutamente plausibile

che queste due ragazze fossero sue parenti. Lo spazio scuro

è chiuso sul fondo da una tenda dalle ampie pieghe, contro

la quale le figure si stagliano splendidamente. Il rosso ha

un ruolo speciale nella scena, perché enfatizza il colore

del sangue e di conseguenza il martirio delle giovani sante.

La tonalità profonda del drappeggio sullo sfondo è ripresa

dalla tovaglia a sinistra in primo piano. Michaelina Wautier

dimostra in quest’opera il suo valore come ritrattista, per il

modo esperto e convincente con cui cattura sia la fisionomia

che la psicologia delle ragazze. Allo stesso tempo, è evidente

quanto il suo stile raffinato e spesso morbido contribuisca alla

delicatezza della scena. KVdS

Oltre Anversa

191


67. Gaspar de Crayer (1584–1669)

Studio di testa di un giovane moro

1631-1637 ca.

Olio su tela, 39,5 x 32,7 cm

Gent, Museo di Belle Arti, inv. 1914-DF

BIBL.: Vlieghe 1972, p. 131, n. A65, ill. 69; A. Merle du Bourg,

in Vézillier-Dusart & Merle du Bourg 2018, pp. 118-119, n. 5.3, ill.

Gaspar de Crayer era nato ad Anversa ma si trasferì a

Bruxelles poco prima del 1607. Apparteneva alla prima

generazione di pittori che iniziarono a farsi ispirare da

Rubens. Già intorno al 1615, la sua opera – che consisteva

soprattutto di pale d’altare monumentali e, in misura minore,

di ritratti – si basava su schemi compositivi e motivi presi

in prestito dal suo prestigioso collega. De Crayer era senza

dubbio consapevole dello stile barocco completamente nuovo

e dinamico che Rubens aveva portato dall’Italia, quando era

ritornato definitivamente ad Anversa nel 1608. Di Rubens,

però, De Crayer non adottò solo lo stile, ma anche la pratica di

bottega. Anche lui iniziò a progettare i suoi dipinti attraverso

piccoli bozzetti preparatori a olio e a creare studi di teste

che gli fornissero un repertorio di modelli dal quale poteva

attingere per dare alle sue figure l’espressione del volto

desiderata.

Lo studio qui in mostra è l’unico esempio sopravvissuto

della sua pratica di bottega, ma fa capire in maniera

eccellente fino a che punto De Crayer traesse ispirazione

dal grande maestro di Anversa quando ideava le sue grandi

composizioni. È possibile che conoscesse bene il famoso

studio rubensiano del volto di un giovane moro da differenti

angolazioni, adesso al Museo Reale delle Belle Arti del Belgio,

a Bruxelles. Comunque sia, allo stesso modo di Rubens,

anche lui rese il volto con un realismo notevole. In un primo

momento De Crayer realizzò lo studio in preparazione

di una Elevazione della croce dei primi anni Trenta del XVII

secolo – adesso al Museo delle Belle Arti di Rennes – nel

quale gli stessi identici lineamenti possono essere identificati

nell’assistente del carnefice che solleva lo sguardo mentre

aiuta a innalzare la croce sulla quale Cristo sarà crocifisso.

Studi di teste come questo erano una risorsa comune

nelle botteghe dei pittori del XVII secolo. Come Rubens, anche

De Crayer riutilizzò questa opera per preparare altre composizioni,

alcune delle quali furono ultimate molto più tardi.

Possiamo notare, per esempio, che costruì la figura che regge

lo stendardo nel suo Martirio di San Lorenzo (Gent, Museo di

Belle Arti) sulla base di questa espressiva testa di moro. HV

192

Oltre Anversa


68. Gaspar de Crayer (1584-1669)

Ritratto di Frederick van Marselaer

1617 ca.

Olio su tela, 103 × 79 cm

In alto a sinistra, l’emblema araldico del modello

Collezione privata

BIBL.: Vlieghe 2012; S. Vézilier-Dussart, in Cassel 2018, pp. 74-75, n. 3.2, ill.

Nato ad Anversa, il pittore Gaspar de Crayer si trasferì

a Bruxelles nel 1607. Nella capitale dei Paesi Bassi

meridionali sperava probabilmente di farsi una clientela

tra la ricca nobiltà e l’alta borghesia che ruotava attorno

alla corte dei governatori spagnoli della dinastia

asburgica. Di fatto, i suoi contatti con questa cerchia

gli permisero di ottenere alcuni incarichi prestigiosi

per una serie di ritratti, la maggior parte dei quali risale

al periodo tra la fine degli anni Dieci e gli anni Venti

del Seicento. De Crayer seppe rispondere in maniera

adeguata al bisogno dell’élite di sottolineare la propria

posizione sociale.

L’effigiato, Frederick van Marselaer (1586-1670),

era un politico importante a Bruxelles, dove ricoprì

per quindici volte l’incarico di consigliere municipale

e per cinque volte quello di borgomastro. Può darsi che

abbia commissionato questo ritratto nel 1617, l’anno in

cui fu elevato al rango nobiliare. Qui si mostra sicuro di

sé, con la mano sinistra sull’elsa della spada: una posa

mutuata dal ritratto dell’arciduca Alberto d’Austria eseguito

da Rubens solo qualche anno prima. In effetti, De Crayer

prendeva spesso ad esempio i ritratti realizzati dai suoi

colleghi più illustri. Il ritratto qui esposto rivela, in maniera

straordinaria, il carattere estremamente realistico della

prima maniera di De Crayer, come si evince dalla resa

altamente suggestiva e rispondente al vero della carnagione

e dei tessuti. Altrettanto eccezionale è l’effetto di spazialità

del dipinto, altro segno evidente dell’influsso esercitato sul

pittore da Rubens in quel periodo. HV

Oltre Anversa

193


194


69. Theodoor van Loon (1582 ca.-1649)

Pietà

1616-1621 ca.

Olio su tela, 153,8 × 124,6 cm

Collezione privata (Courtesy of Museo Nazionale di Arte e Storia, Lussemburgo)

BIBL.: Lussemburgo 2017, pp. 62-63; Van Sprang 2018, pp. 140-141, cat. 15.

Theodoor van Loon nacque intorno al 1582 a Erkelenz,

nell’allora Gheldria spagnola. Non sappiamo niente del suo

apprendistato o dell’inizio della sua carriera. Fu a Roma nel

1602 e vi rimase almeno fino al 1608, prima di ritornarvi nel

1617, nel 1628 e probabilmente ancora nel 1631. Negli intervalli

tra i suoi soggiorni in Italia, Van Loon visse a Bruxelles fino

al 1623, poi si trasferì brevemente a Lovanio, per poi stabilirsi

definitivamente a Maastricht, dove morì nel 1649. Per tutta

la sua carriera attinse alla pittura italiana. La Città Eterna

non era solo la sede del potere papale, ma anche una capitale

artistica. Più di ogni altra cosa, a Van Loon interessava

l’avanguardia della Roma post-tridentina.

Un interesse testimoniato da questa magnifica Pietà.

Potentemente modellate dalla luce, le figure sono caratterizzate

dalla loro monumentale compostezza. La dignità della

Vergine, il suo dolore e la tenerezza nei confronti del Figlio,

sono resi in maniera magistrale. La composizione è tratta

da un’incisione di identico soggetto realizzata da Hendrick

Goltzius nel 1596,1 ma la tavolozza e le espressioni del volto

di Maria e dell’angelo traggono ispirazione dalla scuola

bolognese di Annibale e Ludovico Carracci. La tonalità livida

del corpo giovane di Gesù, la testa con le palpebre pesanti e

la bocca semiaperta derivano invece dalla figura del Cristo

nella Deposizione dipinta da Caravaggio tra il 1602 e il 1604 per

la Cappella Vittrice nella Chiesa di Santa Maria in Vallicella

a Roma (Chiesa Nuova). Questa citazione non è sicuramente

casuale, dal momento che la stessa cappella gioca un ruolo

importante nello sviluppo del progetto iconografico delle pale

d’altare dipinte da Van Loon per la Basilica di Nostra Signora

di Montaigue, per la quale potrebbe essere stata eseguita la

Pietà qui in mostra.2 SVS

1 Questa stampa, dalla quale Caravaggio trasse ugualmente

ispirazione, si basava a sua volta sulla famosa Pietà di

Michelangelo, nella Basilica di San Pietro a Roma (1498-99). Vedi

Pericolo 2011, pp. 343-373

2 Una copia di scarsa qualità di quest’opera è tuttora esposta nella

prima cappella a destra subito dopo l’ingresso della basilica.

Ulteriori studi potranno permettere di capire se i due dipinti siano

stati trasferiti quando la basilica si trovò in difficoltà economiche.

Oltre Anversa

195


70. Theodoor van Loon (1582 ca.-1649)

Sacra Famiglia

1620 ca.

Olio su tela, 124 × 187 cm

Lovanio, M-Museum, inv. S/18/L

BIBL.: Lovanio 1881, n. 63; Van Even 1892, p. 903; Brughmans 1935, p. 23; Cornil 1936, p. 202; Carpreau, Vandekerchove & Van de Kerckhof 2009, pp. 66-67;

Van Sprang 2018, pp. 188-189, cat. 38.

Questo dipinto è un’opera matura di Theodoor van Loon.

La sua prima destinazione non è nota, ma sappiamo che a

Bruxelles faceva parte di una collezione privata nella prima

metà del XIX secolo. Le figure robuste, potentemente delineate,

e gli incarnati freddi, verdastri sono tipici dell’ultima fase

della carriera del pittore. Il dipinto può essere accostato in

particolare all’Adorazione dei pastori del Museo Reale delle Belle

Arti del Belgio, a Bruxelles, dove compare un San Giuseppe

dall’incarnato florido, identico al suo corrispettivo nel dipinto

di Lovanio. Anche la Vergine e Gesù Bambino sembrano aver

avuto gli stessi modelli in entrambe le tele.

Benché non si tratti di un dipinto strettamente

caravaggesco, la ristrettezza della composizione e l’inquadratura

ravvicinata delle figure di tre quarti contro uno sfondo

scuro derivano dall’opera del maestro italiano. Degni di

nota sono anche il mazzo di fiori alle spalle di Maria e l’uva

che Gesù tocca con tanta delicatezza; due elementi resi con

un naturalismo legato sia alla tradizione fiamminga che

all’esempio di Caravaggio.

Le connotazioni simboliche sono chiare: la rosa e il

mughetto simboleggiano la purezza di Maria, mentre la

calendula (in inglese “marygold”, “Maria” + “oro”) allude alla

benevolenza divina, evocata qui dai raggi di luce che cadono

sulla Sacra Famiglia. L’uva rappresenta il vino, una metafora

del sangue versato da Cristo per redimere l’umanità.

Giuseppe tiene in mano una pialla, che rimanda alla croce

sulla quale Cristo sarà crocifisso e perciò anche alla Salvezza.

Nel catalogo della mostra recentemente dedicata a Theodoor

van Loon (Bruxelles, BOZAR), Anne Delvingt evidenzia che

la figura distesa di Gesù è stata allineata di proposito con

l’asse del padre ed è parallela all’asse di composizione dello

strumento. SVS

196

Oltre Anversa



71. Jacob i Van Oost (1603-1671)

L’incoronazione di spine

1661

Olio su tela, 122 × 95 cm

Firmato e datato in basso a sinistra: “J. v. Oost 1661”

Bruges, Musea Brugge - Groeningemuseum, inv. 0000GRO0672.I

BIBL.: Pauwels 1960, n. 83; Meulemeester 1981, 287, n. A37; Vlieghe 1994,

pp. 196-197.

L’episodio dell’incoronazione di spine fa parte della Passione

e precede il momento in cui Gesù, imprigionato, viene

deriso (Matteo 27: 28-30). L’interpretazione di questo tema

popolare data da Van Oost focalizza l’attenzione sul viso

sofferente di Cristo, il cui sguardo pieno di tristezza sembra

fissare direttamente lo spettatore. È il viso, infatti, il centro

del dipinto, anche se non si trova esattamente al centro della

composizione. Con le braccia legate, e vestito dal suo aguzzino

con una tunica scarlatta per irridere il suo dichiararsi

“Re dei Giudei”, Cristo è circondato da tre figure. Due soldati,

che con il luccicare delle armature danno un tocco di luce allo

sfondo altrimenti buio, gli calcano una corona di spine sulla

fronte, mentre una terza persona, forse una guardia, gli mette

in mano un ramo sottile, come uno scettro.

La composizione e il contrasto di luce e ombre testimoniano

la duratura influenza di Caravaggio su Van Oost, che ne

aveva visto per la prima volta le opere durante un precedente

viaggio in Italia, dove aveva studiato i pittori barocchi, come,

appunto, Caravaggio e Carracci. Nonostante L’incoronazione

di spine sia stata realizzato solo nel 1661, e quindi relativamente

tardi nella carriera dell’artista, la principale fonte

di ispirazione per Van Oost rimase L’incoronazione di spine di

Caravaggio (Vienna, Kunsthistorisches Museum), ma nel

quadro del pittore fiammingo si possono trovare anche idee

prelevate da dipinti sullo stesso soggetto di Anthony Van

Dyck o Valentin de Boulogne.

Jacob Van Oost fu il pittore più importante del periodo

barocco a Bruges, dove dirigeva una bottega di successo.

Oltre ad accettare commesse per realizzare pale d’altare

per le chiese cattoliche di Bruges e dintorni, era anche un

apprezzato ritrattista. THB

198

Oltre Anversa


72. Jacob I van Oost (1603-1671)

Lo studio dell’artista

1666

Olio su tela, 111,5 × 150,6 cm

Firmato e datato in basso a destra sulla copertina del libro “J.V. Oost F. /1666”

Bruges, Musea Brugge – Groeningemuseum, inv. 0000.GRO0188.I

BIBL.: Meulemeester 1984, p. 203 (attrib. a Jacob I o Jacob II van Oost); Vlieghe 1994, pp. 197-198 (attrib. a Jacob I van Oost); Van der Stighelen 2018, pp. 236-237.

Nello studio dell’artista ci sono tre fanciulli. Uno di loro

solleva una tavoletta da disegno per mostrare allo spettatore

un busto che ha tracciato seguendo il calco in gesso posato

sul tavolo di fronte a lui. Tutt’attorno sono sparpagliati gli

strumenti e gli oggetti di studio. Vediamo modelli tratti da

sculture antiche, come la celebre Flora Farnese in rosso e il

Gladiatore Borghese, una xilografia di Ugo da Carpi del Diogene

di Parmigianino (1527 ca.), libri, disegni, penne e un astuccio

in pelle. Proprio come la stanza, anche la composizione

trasmette un certo disordine. L’attenzione è completamente

focalizzata sul giovane in primo piano: è vestito in maniera

ricercata, con degli appariscenti sandali all’antica, che alludono

sicuramente all’età classica cui appartiene la maggior

parte dei modelli utilizzati. Le scene ambientate nello studio

del pittore erano un tema molto amato a metà del XVII secolo.

Possono essere interpretate come un’allegoria dei metodi

dell’insegnamento accademico, che preparavano gli artisti

attraverso il disegno di prototipi antichi.

Jacob van Oost dipinse anche un altro quadro simile

a questo con due ragazzi di fronte a un cavalletto sul quale

è poggiata una scena biblica, mentre uno mostra allo

spettatore una tavoletta da disegno (Due ragazzi di fronte a un

cavalletto, Londra, National Gallery, 1645 ca.). Anche l’artista

di Bruxelles Michael Sweerts eseguì diverse immagini di studi

d’artista, con apprendisti raffigurati dal vivo (Lezioni di disegno,

Haarlem, Frans Hals Museum, 1655 ca.). Più o meno nello

stesso periodo fondò la sua Accademie van die teeckeninge naer het

leven (“Accademia di disegno dal vivo”), la prima istituzione di

questo tipo nei Paesi Bassi.

La passione di Van Oost per il tema riflette senza dubbio

l’esperienza fatta durante il suo periodo veneziano, negli anni

Venti del Seicento. Come in altri suoi dipinti, anche qui si

dimostra un maestro nel descrivere il carattere dei ragazzi e

nel creare scene piene di colore. KVdS

Oltre Anversa

199


200


73. Michael Sweerts (1618-1664)

Attribuito

Un giovane uomo sorridente, e Joseph Deutz allo specchio

1654-1660 ca.

Olio su tavola, 37 × 46,8 cm

Collezione privata (Courtesy of Christophe Janet)

BIBL.: Bikker 1998; Yeager-Crasselt 2015.

Le prime notizie sull’artista di Bruxelles Michael Sweerts

risalgono al 1646, quando lavorava a Roma. Il suo committente

più importante era il principe Camillo Pamphili (1622-

1666), nipote di Innocenzo X, nel cui palazzo Sweerts dirigeva

probabilmente un’accademia di pittura. Come molti altri

artisti del nord attivi nella Città Eterna, aveva una preferenza

per le scene quotidiane ispirate agli umili soggetti caravaggeschi,

ma eseguì anche diversi ritratti. Il contrasto drammatico

di luce e ombra e le atmosfere smorzate che circondano le sue

figure contribuiscono al mistero emanato dalle sue tele.

La clientela romana di Sweerts includeva anche mercanti

olandesi attivi nel commercio internazionale di tessuti,

tra cui membri della famiglia Deutz di Amsterdam. Verso il

1648-49 eseguì il ritratto di Joseph Deutz (fig. 74a). Sweerts fu

anche l’agente della famiglia in una serie di acquisti d’arte,

e nel 1651 i fratelli Sweerts lo autorizzarono a negoziare con i

funzionari doganali di Roma a proposito di un bastimento di

seta da Leida.

Tra il 1654 e il 1656 Sweerts tornò a Bruxelles, dove aprì

un’altra accademia. Ne 1656 pubblicò un manuale di disegno,

Diversae facies in usum iuvenum et aliorum delineatae, una serie

di dodici (o quattordici) acqueforti di studi di teste di sua

invenzione, forse eseguiti dal vivo. Una di queste figure,

un giovane sorridente, è il protagonista del dipinto qui in

mostra, riscoperto solo di recente. Il giovane indica con aria

beffarda un uomo che sembra completamente immerso in

una contemplazione estatica del proprio riflesso allo specchio,

e che può essere identificato in Joseph Deutz (1624-1684).

Potrebbe trattarsi di un’arguta allegoria della vanità.

Sweerts si trasferì ad Amsterdam verso il 1660. Il 2 gennaio

1662 si imbarcò su una nave a Marsiglia, con l’intenzione

di andare missionario in Cina. Neanche sei mesi dopo, però,

fu rispedito a casa per il suo atteggiamento indisciplinato.

Morì a Goa, in India. BvB

Fig. 74a Michael Sweerts, Ritratto di Joseph Deutz (1624-1684).

Amsterdam, Rijksmuseum, inv. SK-A-3855

Oltre Anversa

201



74. Andries van Eertvelt (1590-1652)

Tempesta sul mare (La Battaglia di Lepanto?)

1623

Olio su tela, 176 × 315 cm

Gent, Museo di Belle Arti, inv. S-88

BIBL.: Denucé 1934, pp. 57-58, 65-66; Hostyn, 1982, pp. 6, 8; Goedde 1989, pp. 93-95, ill. 61, 173, 227 n. 121, 229 n. 9; Devisscher 2004, pp. 248-49, cat. 83 (scheda

di U. Middendorf); Ertz, Wied, Schütz 2003, pp. 230-131, cat. 82 (scheda di U. Middendorf); De Geest & Van Cauteren 2007, pp. 86-87 (scheda di K. Van Cauteren);

Hoozee 2007, p. 85; Gaschke 2008, pp. 92 ss; Daalder 2008, pp. 13, 16, 21 n. 4; Sotheby’s Amsterdam, Old Master Paintings, 18 maggio 2010, p. 30 (lot. 35); Goedde,

2015, pp. 101-104; Laffon 2015, pp. 88-89; Vézillier-Dussart, Laffon 2015, p. 93, cat. 41, 94.

Sotto un cielo variabile, almeno sei barche sembrano

risucchiate da un mare in tempesta. A sinistra, un vascello

sventola il tricolore danese in acque meno vorticose. Linee

bianche indicano sommariamente le gorgiere dei marinai.

Un’imbarcazione più grande, sempre sulla sinistra, reca

l’iscrizione: “GODT SY MET ONS ALLEN ANNO 15[6?]23” (“Dio

sia con noi”) e la firma “VAN E[ER]TVELT [1]623”. Anche in

questo caso i passeggeri indossano abiti di foggia europea.

Al centro, in lontananza, altre tre barche ondeggiano al vento

e almeno una batte bandiera olandese. La luce che filtra dalle

nuvole a sinistra brilla con più forza sui vascelli dell’Olanda,

come un’allegorica benedizione, mentre a destra il cielo si fa

più scuro e minaccioso.

Una barca dalle decorazioni vivaci si è schiantata

contro uno scoglio. Alcuni marinai cercano di aggrapparsi al

relitto, mentre altri sono già caduti in mare. Molti indossano

turbanti e portano spade e frecce alla cintura. Qualcuno è

nudo, con i capelli raccolti sulla nuca. Le braccia sollevate in

alto e i contorcimenti delle figure richiamano l’agonia di un

Giudizio Universale.

Il dipinto rappresenta evidentemente un’epica battaglia

della natura contro l’uomo e di un nemico ottomano contro

l’Europa cristiana, che si appella alla benevolenza divina.

Non è chiaro, tuttavia, se raffiguri una battaglia navale generica

o una in particolare, come quella di Lepanto, combattuta

nel 1571 dalle forze congiunte del papa Pio V, di Venezia e

della Spagna insieme ad altri stati, contro i Turchi ottomani

e celebrata a lungo come simbolica vittoria della Chiesa. A

Van Eertvelt sono stati attribuiti diversi dipinti che si ritiene

rappresentino quello scontro navale (per esempio, Museo

del Mont-de-Piéte, Bergues, inv. 2010.0.5 e altri sul mercato

dell’arte). L’Olanda, però, non era presente a Lepanto.

Pertanto, appare più probabile che Van Eertvelt, come altri

vedutisti contemporanei, abbia voluto dipingere l’eterno

nemico ottomano senza riferirsi a una battaglia in particolare.

Tra i primi pittori di Anversa specializzati in paesaggi,

Andries van Eertvelt attinse dai modelli a stampa e dipinti

di Pieter I Bruegel, Paul Bril, Jan i Brueghel e Hendrick

Cornelisz Vroom. I panorami burrascosi divennero la sua

specialità, tanto che un artista anonimo lo ritrasse nel 1632

mentre dipingeva un paesaggio simile dal vivo (Monaco,

Collezioni statali d’arte della Baviera, inv. n. 4841). Pare

che Van Eertvelt abbia lavorato almeno in parte per il

mercato estero, dal momento che la presenza di molti suoi

dipinti è documentata in spedizioni per la penisola iberica

e le bandiere olandesi in questo, come in altri suoi quadri,

suggeriscono che abbia trovato clienti entusiasti nei Paesi

Bassi settentrionali. Godette di una certa fama anche nelle

sue terre: durante il XVII secolo questo dipinto era esposto

nell’abbazia di Baudelo a Gent. ADN

Nuovi mercati

203


204


75. Adriaen Brouwer (1605-1638)

Un vecchio alla taverna

1632-1635 ca.

Olio su tavola, 35 × 28 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. IB08.004

BIBL.: Salomon 1984, pp. 7-62; Cat. Sotheby’s Amsterdam (13 novembre 2007), Old Master Paintings, lotto 46; Van Bruaene 2018, pp. 168-187; Lichtert 2018, pp. 162-

163, cat. 20.

Un vecchio siede addormentato su una sedia di legno. Vestito

con cura, indossa un cappello a tesa larga e un cappotto nero,

calzoni al ginocchio e un mantello che gli copre le spalle.

Il lato destro del viso e il colletto bianco sono illuminati e

dipinti con pennellate decise. La testa gli ciondola sul petto,

con la bocca nascosta dalla barba grigia e folta. Le mani

sono intrecciate al bastone. Cenere e pezzi di carbone sono

sparsi per terra vicino a una stufa, un boccale di birra con un

coperchio di peltro è appoggiato ai piedi dell’uomo. Il calore

della stufa, per non parlare di quello sprigionato dalla birra

appena bevuta, sembrano i responsabili del suo torpore.

Sullo sfondo, una coppia vestita più modestamente

siede a un tavolo basso. Anche lì vediamo una brocca di

ceramica e qualcosa da mangiare. L’uomo stringe la donna

con un braccio e si sporge verso di lei, entrambi hanno il volto

arrossato. Sopra di loro, un altro uomo sporge la testa da una

finestra e li guarda. Questa taverna con le sue figure sparse fu

probabilmente dipinta in una fase avanzata della carriera di

Brouwer, durante il suo periodo ad Anversa, a giudicare dal

gruppo abbastanza ristretto che vi compare e dall’atteggiamento

e dalle espressioni dimesse delle figure.

I personaggi addormentati divennero estremamente

diffusi nei dipinti olandesi e fiamminghi del XVII secolo.

Gli ubriachi immersi nel sonno possono essere associati a

volte con i peccati di ingordigia e accidia. Ma la frequenza

e la varietà di contesti in cui compaiono queste figure

intorpidite ci ricordano che la loro interpretazione doveva

essere più ampia. Brouwer dipinse una quantità di personaggi

sonnecchianti dentro taverne, incluso uno – molto più

giovane di quello in questo dipinto – all’interno di un quadro

che ha una composizione sorprendentemente simile (Monaco,

Antica Pinacoteca, inv. n. 2014). Questi altri dormienti

sono vestiti più modestamente del vecchio nel dipinto, i cui

abiti sembrerebbero includerlo nella stessa classe sociale

dei possibili possessori dell’opera. Più che autorizzare lo

spettatore a considerare un comportamento inadeguato come

tipico di un ceto inferiore, questa figura potrebbe servire da

garbato promemoria dell’universalità di certe cadute di stile.

L’addormentato di Brouwer potrebbe aver esagerato con

l’alcol, e l’intimità della coppia suggerisce forse la loro morale

allentata, ma le dinamiche sociali qui messe in gioco possono

difficilmente essere riassunte con un semplice ammonimento

didascalico. ADN

Nuovi mercati

205


76. David II Teniers (1610-1690)

Contadini fuori da una locanda

1645-1650 ca.

Tavola, 36 × 48,5 cm

Firmato in fondo al centro: “D. TENIERS. FEC.”

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 345

BIBL.: Klinge 1991, pp. 172-173, n. 56, ill.

A sinistra in primo piano, un gruppo di contadini seduti o

in piedi beve, fuma e parla fuori da una locanda. Una donna,

forse la proprietaria, è ferma sulla soglia. A destra, un vasto

paesaggio si perde nell’orizzonte. Questo scenario, con le sue

imponenti montagne, non rievoca la regione del Brabante,

a differenza di altri simili dipinti di Teniers. Si ha piuttosto

l’impressione che qui l’artista stia seguendo le tracce delle

grandi vedute montane dipinte da artisti della generazione

precedente alla sua, come Joos de Momper, che erano rimasti

nel solco della tradizione tracciata da Pieter Bruegel il Vecchio.

Un tratto significativo è l’atmosfera luminosa, argentea

che bagna il paesaggio. Attorno al 1640 questa tonalità iniziò

ad assumere un ruolo decisivo nell’opera di Teniers ed è

proprio a quel decennio che va ascritto il dipinto. Nello stesso

periodo il pittore iniziò a sviluppare un maggiore interesse

per le scene all’aperto, come quella qui analizzata. Il carattere

calmo, quasi idilliaco della scena è altrettanto notevole: questi

contadini sono trattati con molta più benevolenza e simpatia

rispetto ai loro pari, ispirati da Adriaen Brouwer, che compaiono

nella fase iniziale della carriera di Teniers. HV

206

Nuovi mercati


77. David II Teniers (1610-1690)

I fumatori

1633

Tavola, 31,5 × 53 cm

Firmato e datato in alto a sinistra: “TENIER FEC/ AN 1633.”

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 5043

BIBL.: Klinge-Gross 1969, pp. 181-199; Klinge 1991, pp. 26-27, n. 1, ill.

Tre contadini, a destra in primo piano, fumano seduti

al tavolo di una locanda. Illuminati in maniera decisa,

formano una chiazza di colore in uno spazio altrimenti

monocromo e semibuio. Dietro a loro, una figura osserva

sorridendo. A sinistra sullo sfondo, davanti a un grande

camino, si scorgono altri quattro individui di spalle, dipinti

in maniera più approssimativa. L’aspetto rozzo di questi

personaggi risalta con particolare intensità. Teniers prese

a prestito questa caratterizzazione dal suo contemporaneo

Adriaen Brouwer, che, dopo essersi stabilito ad Anversa

nel 1631, si era rapidamente fatto un nome grazie alla

produzione di quadri di piccole dimensioni, raffiguranti

contadini e popolani mentre bevevano, fumavano o si

azzuffavano. All’epoca in cui furono eseguiti, dipinti come

questo erano considerati un’allusione a comportamenti

deprecabili. L’opera di Brouwer rinnovò notevolmente la

pittura fiamminga, sostituendo lo stile brugheliano, sempre

più datato, con una descrizione più diretta e realistica delle

classi popolari. Teniers iniziò ad imitare il nuovo stile di

Brouwer non appena si iscrisse alla Gilda dei Pittori anversesi

nel 1633. Copiò e studiò l’opera del suo collega e si fece subito

apprezzare, reinterpretandone le scene realistiche. La natura

brouweriana di questi fumatori è comprovata dal fatto che,

quando il Museo Reale delle Belle Arti di Anversa lo acquistò

nel 1949, si pensava che l’autore fosse Brouwer. Il quadro

venne correttamente attribuito solo nel 1969, quando si

scoprirono la firma di Teniers e la data 1633. HV

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207


78. Joos van Craesbeeck (1605/06-1660 ca.)

La morte è rapida e impietosa

1648-1649 ca.

Olio su tela, 73,7 × 103,2 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 850

BIBL.: Mai & Vlieghe 1993, pp. 424-425, cat. 74.1; Huvenne, Van Hout & Vergara 2002, pp. 62-63, 133, 150-151 (scheda di N. Van Hout); De Clippel 2006, pp. 243-247, 524,

cat. A102; Metzger 2010, pp. 180-182, 186.

In una radura boschiva di fronte a una taverna, si svolge una

scena sanguinosa. Un giovane damerino è caduto a terra, il suo

corpo privo di forze è afflosciato sulla destra. Il sangue gli esce

dal naso e dalla bocca e gli cola sul viso pallido, mentre due

donne e un ragazzo piangono per lui. In mezzo a una folla eterogenea

di uomini, donne e bambini, mani sollevate afferrano

quel che capita, una scopa o una brocca, e lo usano come arma

nella furia del momento. Le facce contorte esprimono rabbia,

paura e ubriachezza. L’uomo col berretto rosso afferra per il

colletto il suo avversario, mentre lui, in ginocchio, gli infila

un pugnale nel fianco. Dietro ai due, avvolta in un sudario

bianco, si staglia la Morte. Ha i piedi e la faccia ancora coperti

da carne putrescente, ma il braccio e la mano sinistra sono

puro scheletro. Brandendo un osso, si sporge verso l’uomo

col cappello rosso, mettendo in chiaro che la stilettata gli

sarà fatale. Il panorama idilliaco sullo sfondo offre un ironico

contrasto alla violenza della mischia in primo piano.

Da fornaio a Neerlinter nella regione di Hageland,

Joos van Craesbeeck si trasferì ad Anversa intorno al 1630 e

cambiò rapidamente carriera. Come il suo amico e maestro

Adriaen Brouwer, dipinse numerose scene di zuffe tra

contadini, come questa, che reca le sue iniziali “CB” e che,

a differenza di alcune delle altre, non ha un tono ambiguo.

I peccati legati all’ebbrezza, alle risse, e l’assassinio sono

remunerati in maniera adeguata dalla Morte, che non è solo

uno dei personaggi tra la folla, ma appare anche sotto forma

di scheletro in basso a destra, appollaiata su un boccale di

birra poggiato su una pietra su cui è scritto: “Die dood is fel

en snel/ wacht u van sonden, soo doedy wel/ En wilt niemant

vermaken/ Dat Godt u ’t selve niet en doet smaken/ En

neemt niemant syn/ soo hout ghy ’t u” (La Morte è rapida

è impietosa/ Se pecchi diventerà furiosa/ Non vivere in un

continuo errare/ E Dio ricordati di onorare). I versi derivano

da un famoso aforisma dell’epoca.

Come se il concetto non fosse abbastanza chiaro,

un’altra iscrizione ricavata da un proverbio è incisa nelle lenti

di un enorme paio di occhiali, in mezzo al mucchio di cocci

che i litiganti hanno buttato per terra: “Ten is myn schuld

niet dat den mensch niet beter en siet” (Non è colpa mia se gli

uomini sono miopi). Nonostante la grandezza degli occhiali,

il genere umano non sa ancora riconoscere i propri peccati,

ricorda Van Craesbeeck ai suoi spettatori. ADN

208

Nuovi mercati



210


79. Adam de Coster (1586 ca.-1643)

Un ragazzo serve da bere a un uomo a lume di candela

1620 ca.

Olio su tela, 69 × 51 cm

Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Rubens, Anversa

Questo quadro è un esempio emblematico dei notturni raffinati

e drammatici che formano il piccolo catalogo di opere

del pittore fiammingo “a lume di candela” Adam de Coster.

Il bagliore di un’unica fiamma, riflessa negli occhi dell’uomo,

illumina i lineamenti marcati delle figure stagliate contro

uno sfondo scuro. Le ombre vivide che attraversano la composizione

definiscono le facce assorte e i dettagli dei vestiti.

La luce della candela illumina le figure da dietro, generando

un’atmosfera tesa e drammatica. Anche se il dipinto testimonia

chiaramente l’influenza di Caravaggio, non è certo che

Adam de Coster sia mai stato in Italia. Sappiamo poco della

sua vita. Nato nel 1586 nella città fiamminga di Mechelen,

pare abbia trascorso gran parte della sua carriera ad Anversa,

diventando un maestro nella Gilda di San Luca verso il 1607.

Il suo ritratto fu riprodotto in un’incisione nell’Iconografia di

Van Dyck, dove è descritto come “pictor noctium” (fig. 79a),

segno evidente che la sua reputazione come pittore di scene

notturne era ben consolidata nell’Europa settentrionale a

partire dagli anni Trenta del XVII secolo.

Che abbia o meno attraversato i confini dei Paesi Bassi,

Adam de Coster subì indubbiamente l’influsso dello stile caravaggesco

diffuso in tutta l’Europa all’inizio del XVII secolo.

Particolarmente importanti sono le opere dei caravaggisti

del nord, come Gerard Seghers di Anversa, e Hendrick ter

Brugghen e Gerard van Honthorst di Utrecht, che divennero

famosi per le loro intense composizioni in chiaroscuro,

esaltate da una sorgente di luce artificiale come una candela o

un braciere. BvB

Fig. 79a Pieter de Jode, da una composizione di Anthony van Dyck,

Ritratto di Adam de Coster, incisione

Nuovi mercati

211


80. Theodoor Rombouts (1597-1637)

I giocatori di carte

1630 ca.

Olio su tela, 151,6 × 205 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 358

BIBL.: Van den Branden 1883, pp. 885-886; Roggen 1952, pp. 269-273; Peeters 1995, pp. 169-177.

Nelle raffigurazioni secentesche della parabola del Figliol

Prodigo compaiono regolarmente scene secondarie con

partite a tric-trac o a carte in case dalla dubbia reputazione

dove il giovane scapestrato scopre se stesso. A partire dal 1620,

queste partite divennero spesso il motivo centrale della pittura

di genere dei seguaci di Caravaggio. Theodoor Rombouts,

uno dei principali caravaggisti fiamminghi, combinò in

diverse opere partite a carte con scene musicali. Le prime

sono il tema principale del dipinto qui in mostra.

Due uomini con cappelli dalle piume sgargianti sono

concentrati sulla mano appena distribuita. A sinistra un

altro, più anziano, di profilo, guarda attentamente attraverso

le lenti che ha sul naso. A destra, una vecchia posa una

mano sulla spalla di un giovane, in un gesto che potrebbe

essere affettuoso, ma anche sottintendere una domanda o

un’esortazione.

Gli elementi tipici di Rombouts nel suo periodo caravaggesco

includono larghe aree di colori a contrasto, per lo più

rifinite dai contorni pastosi. Un’altra caratteristica ricorrente

nella sua opera è la sorprendente inversione delle linee

prospettiche. Il punto di fuga della carta più alta poggiata sul

tavolo a sinistra, per esempio, è collocato dietro lo spettatore,

non oltre come avverrebbe di solito.

Si avvertono ancora flebili echi della scena del postribolo

descritta nella parabola del Figliol Prodigo. Il giovane

giocatore modestamente vestito, nell’angolo più lontano

del tavolo, ha una freschezza ingenua, da pesce fuor d’acqua,

non rendendosi conto che sta per essere spennato. Le ottime

carte del suo avversario – un soldato, che serve magistralmente

da repoussoir – è un ulteriore indizio di quello che sta

per accadere. Non è probabilmente un caso se l’asso di cuori

compare in mezzo alle altre carte, fungendo da richiamo

amoroso, o perfino erotico. La vecchia a destra allude al tipo

della mezzana che si vede spesso in opere simili, anche se qui

manca la giovane donna discinta che di solito l’accompagna.

Il giovane è concentrato solo sugli altri giocatori, ma la donna

sta evidentemente cercando di distoglierlo dalla partita. Forse

lo vuole allontanare da quello che in genere era considerato

un passatempo inutile, se non addirittura peccaminoso.

Oppure forse sta cercando di sedurlo con un piacere che per

lei sarebbe più lucroso. Non sappiamo se sia realmente così,

il pittore non lo chiarisce: Rombouts lascia intendere più di

quanto mostri. GVE

212

Nuovi mercati




81. Jan Cossiers (1600-1671)

L’allegra compagnia (I cinque sensi)

Post 1650

Olio su tela, 132,9 × 198,3 cm

Collezione privata

BIBL.: Sutton 1993; Díaz Padrón 1999

Come molti dei suoi colleghi di Anversa, Jan Cossiers era un

pittore versatile, esperto in una grande varietà di generi e

stili. Dipingeva soprattutto scene di genere, ma eseguì anche

dipinti a tema storico e ritratti; tra questi ultimi, alcuni

delicati ed enfatici raffigurano i figli. Da giovane artista,

Cossiers viaggiò a Aix-en-Provence e a Roma, ma nel 1627

tornò ad Anversa, la sua città natale, dove trascorse il resto

della carriera. I suoi primi lavori mostrano l’influenza dei

pittori caravaggisti sia nel soggetto che nella composizione,

anche se le sue pennellate sono più libere. Come molti

suoi colleghi, anche Cossiers lavorò con Rubens ai progetti

per l’entrata trionfale ad Anversa del Cardinale Infante

Ferdinando nel 1635 (catt. 22-24) e alle decorazioni per la

Torre de la Parada, il padiglione di caccia di Filippo IV vicino a

Madrid, nel 1637-38.

Nell’Allegra compagnia Cossiers raggruppa sei mezze

figure intorno a un tavolo all’aperto: un giovane uomo che

bacia e accarezza una cameriera, una coppia di musicisti

e un ragazzo che serve un bicchiere di vino a un florido

uomo più anziano. La scena può essere interpretata quasi

sicuramente come un’allegoria dei sensi. A sinistra sullo

sfondo, il tatto è rappresentato dal giovane uomo che

accarezza lascivo il seno alla donna. La figura del liutista

incarna il senso dell’udito, mentre la ragazza con lo spartito

al centro della scena, che rivolge lo sguardo agli amanti,

interpreta la vista. Il gusto e l’olfatto sono rappresentati dal

ragazzo e soprattutto dal vecchio che si porta un calice di vino

alle labbra.

Nei Paesi Bassi, le allegre brigate riunite intorno a

un tavolo erano un soggetto popolare già nel XVI secolo. I

cinque sensi erano in particolare molto diffusi, forse grazie

all’interesse crescente per il sapere empirico raggiungibile

attraverso di essi. L’idea di incorporare i cinque sensi in

una compagnia di gaudenti fiorì nel XVII secolo e si può

riscontrare anche nell’opera di pittori di altro genere, incluso

Theodoor Rombouts (cat. 80). BvB

Nuovi mercati

215


216


82. Frans II Francken (1581-1642)

Studiolo d’arte con ritratto di famiglia

1615 ca.

Olio su tavola, 77 × 114 cm

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 669

BIBL.: Härting 1989, pp. 90, 373, cat. 461, fig. 79; Vandamme et al. 1988, p. 152; Herremans 2008, p. 90, cat. 32.; Van Suchtelen 2009, pp. 23, ill. 4, 48 nn. 22-23;

Van Suchtelen & Van Beneden 2009, p. 122, cat. 8; Van Hout 2011, pp. 113, 115, 118; Van de Velde 2014, pp. 50-51, 91, cat. 37; Buijsen, Van der Stighelen & Wytema 2017,

pp. 78-81, cat. 11, 135.

In una stanza elegantemente arredata vediamo tre figure,

verosimilmente una coppia di sposi col figlio. I personaggi

sono stati identificati con il farmacista ed elemosiniere di

Anversa, Sebastiaen Leerse, la sua seconda moglie e loro

figlio, ma questa identificazione si basava su un paragone

poco convincente con un ritratto di Leerse e dovrebbe essere

accantonata. Sulla cornice della parete in fondo spiccano

sette piccole sculture antiche, un’ottava statua si vede su

quella della camera da letto adiacente e una nona sul tavolo

rotondo a sinistra, accanto a un libro chiuso e a un grande

mazzo di fiori dentro un vaso di porcellana. Tra i quadri

appesi alle pareti o poggiati a terra sono inclusi paesaggi

rocciosi che ricordano quelli di Joos de Momper, una marina

echeggiante quelle di Bonaventura Peeters, l’interno di una

chiesa simile a quelle che compaiono nelle opere di Pieter

Neefs, una Susanna e i vecchioni, forse tratta da Jan Massys,

e diversi dipinti che rimandano ad altri dello stesso Francken.

Di fatto, sul quadro in basso a destra con il mito classico di

Apelle che ritrae Campaspe, Francken scrisse “F. FRANCK. IN.

ET. F.”, affermando così di essere l’autore di questa composizione

(una sua versione si trova nella Collezione Devonshire

a Chatsworth) e allo stesso tempo di tutto il dipinto. I tessuti

lussuosi, come i tappeti sul tavolo e sullo stipo, la tenda che

rivela un’Adorazione dei Magi e un arazzo raffigurante la

croce visibile nella stanza accanto, comunicano un’atmosfera

accogliente, così come i rivestimenti delle pareti in pelle

goffrata. Due pappagalli esotici, una scimmia e i gioielli

dentro uno stipo suggeriscono la ricchezza della famiglia.

Frans II Francken, insieme al suo collega più anziano

Jan I Brueghel, inventò il cosiddetto genere Kunstkamer

(stanza d’arte) all’inizio del XVII secolo, dipingendo ambienti

pieni di quadri e altre cose preziose, sia naturali (naturalia)

sia meraviglie finemente lavorate (artificialia). Molti di questi

dipinti raffigurano collezioni immaginarie, altri invece

giocano con i nessi tra realtà e finzione e includono ritratti di

persone, spazi reali o copie di quadri esistenti. Per quest’opera,

con i lineamenti personalizzati delle figure che fanno pensare

a ritratti, Francken impiegò la stessa struttura compositiva

usata in altri dipinti, per esempio nello Studio con sapienti

intorno a un mappamondo del 1612 (non se ne conosce la collocazione

attuale, ma è descritto in Van Suchtelen & Van Beneden

2009, p. 22, ill. 3). Non solo la struttura generale della stanza,

ma anche il motivo ripetuto dei pappagalli indicano che

l’artista fece affidamento su una formula, piuttosto che

riprodurre l’abitazione reale dei soggetti.

Francken collaborò spesso con i suoi colleghi e si è

ipotizzato che non solo nelle figure, ma anche nel mazzo di

fiori e negli animali compaia il contributo di un altro pittore

(per quanto riguarda i fiori, probabilmente quello di Jan i

Brueghel). ADN

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83. David II Teniers (1610-1690)

Ritratto di Maria de Heusch

1648

Olio su rame, 16,6 × 12,7 cm

Firmato in basso a sinistra: DT; iscrizione sul retro: ‘MARIA HEVSCH IOAN FIL. / ANTVERP VIDVA GODE F / SNYERS AETATIS SVAE / LXXXI AN SALVTIS / MDC. XLVIII.’

Collezione privata

BIBL.: Gemälde alter Meister und des 19. Jh., catalogo di vendita, Zürich (Koller), 18 settembre 2015, n. 3043, ill.

Questo ritratto ad altezza busto mostra una donna anziana

dallo sguardo vivace e il sorriso soddisfatto, rivolta a

sinistra. L’abito scuro è ravvivato solo dalla gorgiera bianca,

un accessorio già fuori moda nell’epoca a cui risale il dipinto,

ma indossato di tanto in tanto dagli anziani. Sul retro di

questo piccolo quadro è scritto che si tratta di un ritratto,

eseguito nel 1648, dell’ottantunenne Maria de Heusch, vedova

di Godevaert Snyers o Snijders, che era stato un membro

importante dell’“Oude Voetboog”, la più antica e la più

prestigiosa delle Gilde militari di Anversa. Teniers, che ne

faceva a sua volta parte, aveva già raffigurato il tributo

cerimoniale reso al defunto dalla compagnia militare riunita

al completo fuori dal Municipio anversese nel 1643. Il dipinto

in origine era esposto nella sala della “Oude Voetboog”; dopo

un tortuoso percorso nella collezione imperiale russa, giunse

all’Ermitage, dove può tuttora essere visto.

Il piccolo ritratto di Maria de Heusch faceva pendant

con il ritratto del marito Godevaert Snyers. I quadri

rimasero insieme fino al 1936-37, quando furono venduti

separatamente. HV

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84. Osias I Beert (1580 ca.-1623)

Natura morta con bicchieri di vino, un’arancia, nocciole e dolci dentro una nicchia

1610 ca.

Olio su rame, 22,5 × 18,1 cm

Collezione privata, in prestito al Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), Anversa, inv. IB07.001

Osias Beert fu uno dei pionieri della natura morta nel primo

decennio del XVII secolo. Nel 1602 risultava iscritto come

maestro nella Gilda di San Luca ad Anversa, e fu uno dei

primi artisti a scegliere come soggetto un assortimento di

oggetti disposti su un tavolo. In genere dipingeva le sue

nature morte su tavola o lastra di rame, non le firmava quasi

mai e non le datava, anche se alcuni dei supporti in rame su

cui dipingeva erano marcati e datati dal fabbro. L’esempio in

mostra, una nicchia contenente bicchieri e generi alimentari,

ha un’atmosfera insolitamente intima. Una falena

tigre ravviva la scena e indica, inoltre, le dimensioni degli

oggetti rappresentati. I pittori di nature morte del XVII

secolo dipingevano quasi sempre i loro soggetti a grandezza

naturale. Il quadro risale probabilmente agli anni intorno

al 1610 e include tre bicchieri per il vino in stile veneziano.

Nelle opere di Beert si trova una grande varietà di bicchieri di

questo tipo ed è possibile che alcuni, in realtà, non esistessero,

ma siano stati “fabbricati” dall’artista sulla base di esemplari

da lui visti e ritratti precedentemente. Beert suggerisce la

profondità nella nicchia dipinta attraverso variazioni di luce

sui bicchieri: quello davanti ne cattura una gran quantità e

sulla sua coppa si scorge il riflesso di una finestra, mentre

sul bicchiere di vino rosso più indietro ne arriva pochissima,

e infatti quasi svanisce nello sfondo. Se osserviamo

l’immagine da vicino, ci accorgiamo che la nicchia non è

abbastanza profonda per contenere tutti gli oggetti e questo

è senza dubbio il motivo per cui Beert ha nascosto le basi dei

bicchieri, per le quali non c’è abbastanza spazio. L’illusione

ottica, in ogni caso, risulta del tutto convincente. FGM

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85. Clara Peeters (attiva 1607-1621)

Natura morta con pesce, aragoste, gamberi e ostriche

1615 ca.

Olio su tavola, 35 × 48 cm

Firmato, in basso a sinistra, sull’angolo della tavola: “CLARA P.”

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 834

BIBL.: Decoteau 1992, pp. 39-41, 130, 131 (immagini a colori), 182; Vergara & Lenders 2016, pp. 100-103, cat. 9, immagini a colori; Bastiaensen 2016, pp. 17-31.

La pittrice Clara Peeters resta un enigma. Di lei non conosciamo

nessun dato biografico. Di recente è stato ipotizzato

che possa trattarsi di Clara Lamberts, nata a Mechelen in

una famiglia di pittori verso il 1587, sposata con l’artista di

Anversa Hendrick Peeters nel 1605 e probabilmente morta

a Gent intorno al 1637 (Bastiaensen 2017). Non è certo, però,

che questa Clara fosse una pittrice, e inoltre nei documenti

d’archivio è sempre indicata come Lamberts, non Peeters,

quindi si tratta solo di un’ipotesi. Di sicuro, però, Clara

Peeters era un’artista molto originale e creativa e produsse

opere di grande qualità. Nel 1611 dipinse la prima natura

morta con pesci che si conosca nei Paesi Bassi (Madrid, Prado).

L’esempio in mostra risale a un periodo abbastanza avanzato

della sua carriera, probabilmente intorno al 1615 o poco dopo.

Peeters realizzò almeno una dozzina di simili nature morte e

tutte mostrano soprattutto pesci d’acqua dolce molto comuni.

La carpa ha un ruolo principale anche in altre composizioni

di Peeters, e il luccio e il persico vi compaiono regolarmente.

Il pesce appena pescato si poteva portare a casa vivo dal mercato.

Le aragoste, a giudicare dal colore rosso, sono già state

cucinate per il pasto, mentre le aringhe, affumicate, sono

pronte per essere conservate. Gamberi e ostriche si pescavano

in gran quantità nelle acque costiere vicino ad Anversa.

A giudicare dalla sfumatura rossastra dei gamberi,

anche loro sono stati bolliti subito dopo la cattura. Il colino di

terracotta era probabilmente opera di un vasaio della provincia

del Brabante, della quale faceva parte anche Anversa, dove

quasi certamente Clara Peeters lavorava. È anche possibile

che questa natura morta fosse associata all’autunno, quando

gli scampi sono più saporiti e la pesca delle ostriche è più

diffusa. FGM

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86. Clara Peeters (attiva 1607-1621)

Natura morta con formaggi e burro, aragoste, gamberi, pane e vino

1615 ca.

Olio su tavola, 40,8 × 57,9 cm

Firmato

Collezione privata

BIBL.: pp. 100-103, cat. 9 2016, pp. 120-122, cat. 15, ill.

Si tratta di uno dei pochi dipinti firmati da Clara Peeters

con il suo nome completo, che appare inciso sul manico del

coltello d’argento a sinistra nel quadro. Più spesso, come in

cat. 85, si firmava “CLARA P.” e scriveva il nome sul ripiano

del tavolo. Il coltello raffigurato in questo dipinto torna in

diverse nature morte di Peeters, tra cui uno dei suoi quattro

capolavori (1611 ca.), conservato al Museo del Prado di Madrid.

Si tratta di un tipo di coltello che faceva parte dei set di posate

(coltello e forchetta) donati alle spose per le loro nozze, ed è

stato ipotizzato che possa trattarsi di quello personale di

Clara Peeters. Si tratta però solo di un’ipotesi, perché non

conosciamo nessuna data relativa alla sua vita privata.

Quel che è certo è che, come molti pittori di nature

morte del suo tempo, Clara Peeters ripeteva regolarmente gli

stessi motivi in due, o più, dei suoi dipinti, e questo dimostra

che per eseguire i suoi quadri utilizzava studi preliminari.

Una composizione quasi identica di tre aragoste su un vassoio

di peltro si trova in cat. 85, mentre una disposizione di formaggi

simile ritorna in molti lavori dell’artista. Il formaggio

era un alimento diffuso e prodotto in varie zone dei Paesi

Bassi. I formaggi che si vedono in questo dipinto erano probabilmente

importati nelle Fiandre dal nord dei Paesi Bassi,

in particolare da centri come Gouda ed Edam, rinomate

per la loro produzione. Il bicchiere di vino, forse riempito

col contenuto della caraffa in grès tedesco poco più indietro,

ha una forma abbastanza semplice; è possibile che si tratti di

un bicchiere prodotto ad Anversa secondo lo stile veneziano.

Anche questo oggetto ritorna in almeno altre cinque nature

morte di Clara Peeters, inclusa una datata 1612, conservata al

Poltava Art Museum di Poltava, in Ucraina. Fgm

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87. Frans Snijders (1579-1657)

Natura morta con una lepre, una tazza piena d’uva e un’aragosta

1613-1614 ca.

Olio su tavola, 106,4 × 75 cm

Collezione privata, in prestito al Museo della Casa di Snijders e Rockox, Anversa, inv. RH.LBI.2012.00

BIBL.: Van de Velde 2017, p. 150, ill.

Prima che la sua carriera decollasse, Frans Snijders trascorse

un periodo in Italia. All’inizio del 1608, forse anche prima,

viaggiò a Roma e a Milano, dove era stato raccomandato

al cardinale Borromeo da Jan Brueghel il Vecchio, il quale

scrisse al prelato che Snijders era «uno dei migliori pittori

di Anversa». Prima della fine del 1609, comunque, era già

tornato nella sua città natale. Brueghel non aveva esagerato,

Snijders era davvero un artista estremamente talentuoso

e abile e uno dei pittori fiamminghi di nature morte più

innovativi del suo tempo. Dipinse grandi bancarelle da

mercato, mobili da cucina, animali vivi e vari tipi di natura

morta. Fornì regolarmente motivi ai dipinti di Peter Paul

Rubens. Come molti dei suoi contemporanei, Snijders

ripeteva abitualmente gli elementi dei suoi quadri, e molti

di quelli presenti in questo esempio ritornano in altre opere,

soprattutto a partire dalla prima metà degli anni Dieci del

XVII secolo. In effetti, basandoci su accurate analisi comparative,

possiamo datare con sicurezza questo dipinto al 1613-1614.

La composizione elaborata da Snijders rappresenta una

novità: mostrando due ripiani e la parete di una dispensa o di

una cucina, mette in scena tre diverse nature morte riunite

in una sola. Nel dipinto vediamo una composizione di frutta

fresca, una lepre appena uccisa e un grande astice bollito,

in attesa di essere preparati e serviti. Sul ripiano più in basso,

dietro l’astice, si nota una caraffa in grès con un coperchio di

metallo e due bicchieri per il vino à la façon-de-Venise, uno con

il bordo dorato, l’altro con un nodo, sempre dorato, nello

stelo. Le prelibatezze e il sontuoso servizio indicano che qui

abita una famiglia agiata. Attraverso la scelta degli elementi,

Snijders esibisce la sua magnifica abilità pittorica, accostando

la pelliccia della lepre alla frutta, al metallo, al vetro e alla

porcellana. La prospettiva interna al dipinto colloca il ripiano

centrale ad altezza di sguardo, e questo fa pensare che la

natura morta sia stata dipinta per essere appesa in un punto

specifico. FGM

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88. Jan Davidsz de Heem (1606-1684)

Natura morta di frutta con un calice à la façon-de-Venise

1652 ca.

Olio su tavola, 33,3 × 48,5 cm

Firmato in basso a sinistra

Collezione privata (Courtesy of Museo Nazionale di Arte e Storia, Lussemburgo)

Questa sontuosa natura morta fu dipinta dall’artista in

uno dei periodi più produttivi della sua carriera, all’inizio

degli anni Cinquanta del XVII secolo. Simili composizioni

di frutta compaiono spesso nella sua opera, soprattutto in

questi anni. I frutti sono tutti di produzione locale, perfino i

limoni potevano essere coltivati nelle serre, anche se di solito

venivano importati dall’Europa meridionale e di sicuro erano

considerati un lusso. Non è casuale, nel dipinto, l’accostamento

del limone e del bicchiere di vino bianco. Quest’ultimo,

infatti, era piuttosto amaro, ma con qualche goccia di

limone il suo sapore diventava più fruttato. Accostando i due

elementi, forse De Heem voleva anche suggerire il valore della

moderazione. I pittori di nature morte amavano includere

questi frutti nelle loro composizioni perché regalavano al

quadro una splendida tonalità di giallo. Il bicchiere di vino è in

stile veneziano, ma potrebbe essere stato prodotto ad Anversa,

dove lavorava De Heem, da vetrai specializzati forse immigrati

dall’Italia. L’edera che incorona il bicchiere è forse un’allusione

alla credenza popolare secondo la quale questa pianta

proteggerebbe dall’ebbrezza alcolica, e un richiamo, con il

suo verde perenne, al ciclo continuo della vita. Si può dire lo

stesso anche per l’accostamento tra un bruco e una farfalla,

associati alla resurrezione. In primo piano, su un vassoio di

peltro lucidato fino a farlo brillare, è sistemato un piatto di

porcellana cinese del periodo Wanli. Anche se all’inizio del

XVII secolo veniva importato in grandi quantità, questo tipo

di porcellana rimaneva un bene di lusso. Forse De Heem lo

dipinse a memoria, perché la decorazione è troppo elaborata

per il fondo di un piatto Wanli – ci si aspetterebbe, piuttosto,

di trovarlo all’interno – e i campi decorati a punti in realtà non

sono mai doppi. La sua presenza contribuisce comunque alla

raffinatezza della scena. FGM

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89. Abraham van Beijeren (1620/21 ca.-1690)

Trionfo di natura morta con frutta e un astice

1660 ca.

Olio su tela, 88 × 107 cm

Firmato con un monogramma, a destra, sul tavolo: “AVB f”

Anversa, Museo Reale delle Belle Arti (KMSKA), inv. 5084

Abraham Van Beijeren era soprattutto un pittore di nature

morte, ma dipinse anche fiumi e vedute marine, soprattutto

all’inizio della sua carriera. La sua specialità, però, erano le

nature morte di pesci e ogni tanto realizzava composizioni

di fiori o frutta. Tra il 1653 e il 1667 dipinse un gruppo di

nature morte, come quella in mostra, ispirandosi, almeno in

parte, alle grandi e sontuose composizioni di Jan Davidsz de

Heem. In questo esempio, Van Beijeren mostra allo spettatore

diversi tipi di frutta e un astice bollito, in combinazione con

lussuosi oggetti di metallo, ceramiche e bicchieri. Tra questi

ultimi, i più comuni sono i tre römer di vetro verde sul vassoio

a destra, mentre i bicchieri à la façon de Venise sono pezzi di

ottima fabbricazione, soprattutto l’ampio goblet col coperchio

decorato dal complicato nodo formato dalle spire di un

“serpente” di vetro, sul quale sono applicati due fiori di vetro

blu. La nicchia sul fondo contiene un alto flûte e un goblet

poco profondo. È improbabile che Van Beijeren possedesse

gli oggetti raffigurati nel quadro. Forse li prese in prestito

da collezionisti o da commercianti. Lui, infatti, era spesso

tormentato dai debiti e il motivo principale per cui cambiava

frequentemente città era il tentativo di evitare i creditori.

Il formato orizzontale avvicina ancora di più questo dipinto

alle ricche nature morte di De Heem, anche se in passato la

tela è stata sicuramente ridotta in altezza. In origine doveva

mostrare per intero la nicchia e il bicchiere più alto e probabilmente

c’era più spazio anche alla base, come nella maggior

parte degli esempi di questo genere a noi noti. FGM

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90. Jacques van de Kerckhove, detto Giacomo da Castello (1637 ca.-1712 o post 1712)

Natura morta di frutta all’aperto

Olio su tela, 55,8 × 69 cm

Collezione privata

Molti pittori fiamminghi viaggiarono in Italia, sia per

studiare l’arte italiana alla fine del loro apprendistato, sia per

tentare la fortuna in campo artistico. La meta, per quasi

tutti, era Roma, ma alcuni visitarono Firenze e Napoli. Alle

volte, gli artisti del nord si spinsero anche in Veneto e a

Venezia. Jacques Van De Kerckhove fu uno dei pochi artisti

fiamminghi famosi ad aver avuto una carriera a Venezia, dove

arrivò nel 1663 alla fine del suo apprendistato con il celebre

pittore di nature morte e animali Joannes Fijt (1609/11-1661).

L’anno dopo si trasferì a Vicenza e qui lavorò fino al 1682,

prima di tornare a Venezia, dove gli ultimi documenti su

di lui risalgono al 1712: in quell’anno, infatti, fu ammesso

nella Fraglia dei pittori, e nella nota che accompagna la

sua iscrizione si legge che fu esonerato dal pagare la tassa

perché ormai anziano. A parte un autoritratto di cui siamo a

conoscenza (Firenze, Galleria degli Uffizi), dipinse numerose

nature morte, spesso su tele molto grandi. Queste opere

raffigurano cacciagione o pesci, ortaggi e frutta, a volte in

combinazione con animali vivi come piccioni, oche e tacchini.

L’esempio in mostra è una delle rare composizioni di sola

frutta di Van De Kerckhove. Qui il pittore dispiega la sua

ricca tavolozza di colori e uno stile definito nel delineare gli

oggetti, attenzione ai dettagli e, allo stesso tempo, alla qualità

pittorica. Un particolare interessante è la tela grezza su cui

l’artista ha sistemato i grappoli d’uva. Sappiamo che Van

De Kerckhove non datava i suoi dipinti. Il suo stile e il suo

modo di lavorare, inoltre, restarono omogenei per tutta la sua

carriera, e questo rende difficile datare con sicurezza i suoi

quadri. Come aiuto alla datazione di quest’opera, si noti che

l’artista sembra essere al corrente delle nature morte di frutta

dipinte da Abraham Brueghel (1631-1697) a Roma e a Napoli

verso gli anni Settanta del XVII secolo. FGM

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Da Tiziano a Rubens.

Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe

Venezia, Palazzo Ducale, Appartamento del Doge

5 settembre 2019 – 1 marzo 2020

Mostra organizzata dalla Fondazione Musei Civici di Venezia in collaborazione con la Flemish Community, la Città di Anversa e VisitFlanders

Fondazione Musei Civici di Venezia

Consiglio di amministrazione

Presidente

Mariacristina Gribaudi

Vicepresidente

Luigi Brugnaro

Consiglieri

Lorenza Lain

Bruno Bernardi

Roberto Zuccato

Direttore

Gabriella Belli

Segretario Organizzativo

Mattia Agnetti

Dirigente Area museale 2

Chiara Squarcina

Dirigente Area museale 3

Daniela Ferretti

Mostra

a cura di

Ben van Beneden

Direzione scientifica

Gabriella Belli

con Elena Marchetti

Progetto allestimento

Daniela Ferretti

con Francesca Boni

Georg Malfertheiner

Ufficio mostre (Città di Anversa)

Marieke D’Hooghe

con

Martine Maris

Veerle Allaert

Ufficio mostre (Fondazione Musei Civici)

Giulia Biscontin

Monica Vianello

Sofia Rinaldi

Silvia Toffano

Comunicazione operativa e strategica,

corporate identity

Mara Vittori

con Chiara Marusso

Andrea Marin

Silvia Negretti

Alessandro Paolinelli

Giulia Sabattini

Valentina Avon, Ufficio Stampa

e con

Liesbeth De Maeyer, Città di Anversa

Amministrazione, finanza e controllo

Maria Cristina Carraro

con Piero Calore

Elettra Cuoghi

Ludovica Fanti

Laura Miccoli

Francesca Rodella

Sicurezza e logistica

Lorenzo Palmisano

con Valeria Fedrigo

Servizi educativi

Monica da Cortà Fumei

con Riccardo Bon

Claudia Calabresi

Cristina Gazzola

Chiara Miotto

Progetto grafico e comunicazione coordinata

Sebastiano Girardi Studio

Si ringrazia Sotheby’s per il sostegno alla

comunicazione della mostra

Prestatori

Accademia Filarmonica di Verona

Biblioteca Museo Correr, Venezia

Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia

Gabinetto disegni e stampe Museo Correr, Venezia

KBC Art Collection Belgium, Museo della casa di

Snijders&Rockox, Anversa

King Baudouin Foundation, Bruxelles

M – Museum, Lovanio

Musea Brugge, Groeningemuseum, Bruges

Museo Correr, Venezia

Museo del Vetro, Venezia

Museo Internazionale e biblioteca della musica di Bologna

Museum Mayer van den Bergh, Anversa

Museum Plantin-Moretus, UNESCO World Heritage,

Anversa

Museum Vleeshuis, Sound of the City, Anversa

Museum voor Schone Kunsten, Gent

Royal Museum of Fine Arts (KMSKA), Anversa

Museo della Casa di Rubens, Anversa

Chiesa di San Paolo, Anversa

e

tutti i prestatori che hanno preferito rimanere anonimi

Si ringraziano

Ministero dei beni e delle attività culturali

Direzione generale Musei

Direttore generale

Antonio Lampis

Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio

per il Comune di Venezia e Laguna

Soprintendente

Emanuela Carpani

Il Patriarca di Venezia

S.E. Francesco Moraglia

La Basilica di San Marco

Delegato patriarcale

Mons. Antonio Senno

Primo procuratore

Carlo Alberto Tesserin

Arcidiacono

Mons. Angelo Pagan

Arciprete

Mons. Orlando Barbaro

Il Maestro di Cappella Marco Gemmani

con la Cappella Marciana

Un ringraziamento speciale a

Marnix Neerman, che ha contribuito in maniera

significativa alla riuscita del progetto, e Ben van Beneden,

senza il cui aiuto non sarebbe stato possibile realizzare

la mostra

e inoltre

Julie A. Bakke

Andrea Bellieni

Erika Bianchini

Annalisa Bruni

Valeria Cafà

Stefano Campagnolo

Dennis Cecchin

Morris Ceron

Alberto Craievich

Rossella Granziero

Riccardo Lattuada

Michele Magnabosco

Jenny Servino

Chiara Squarcina

Mauro Stocco

Luigi Tuppini

Monica Viero

Luigi Zanini

Luca Zuin


Catalogo

A cura di

Ben van Beneden

Saggi di

Ben van Beneden

Fred G. Meijer

Timothy De Paepe

Dirk Imhof

Schede di

Jaynie Anderson, Susan J. Barnes,

Till-Holger Borchert, Elise Boutsen,

Christopher Brown, Nils Büttner,

Caroline Campbell, Guy Delmarcel,

Timothy De Paepe, Annemie De Vos,

Marieke D’Hooghe, Dirk Imhof,

Koen Jonckheere, Riccardo Lattuada,

Fred G. Meijer, Maja Neerman,

Abigail A. Newman, Frits Scholten,

Ben van Beneden, Katlijne Van der Stighelen,

Geert Van Eeckhout, Steven Van Impe,

Sarah Van Ooteghem, Brecht Vanoppen,

Sabine Van Sprang, Hans Vlieghe

Coordinamento editoriale

Hans Devisscher

Ricerca iconografica

Marieke D’Hooghe

Progetto grafico e impaginazione

Cedric Verhelst

Casa editrice

Snoeck Publishers

Stampa e rilegatura

Graphius

© 2019, MUVE, Snoeck Publishers

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa

pubblicazione può essere riprodotta o utilizzata

in qualsivoglia forma o mezzo, elettronico e

meccanico, incluse fotocopie, registrazione o

riproduzione attraverso qualsiasi sistema di

elaborazione dati senza l’autorizzazione scritta

della casa editrice.

Deposito legale: D/2019/0012/51

ISBN: 978-94-6161-112-3

Crediti fotografici

Ogni sforzo è stato fatto per identificare i

dententori dei diritti delle immagini riprodotte in

questo volume. La casa editrice si rende disponibile

nel caso in cui alcuni crediti fotografici siano stati

involontariamente omessi.

Amsterdam, © Koninklijk Paleis: p. 33 (fig. 19)

Amsterdam, photo archive Fred G. Meijer: p. 36,

p. 41 (fig. 5), p. 39 (fig. 3), p. 42 (fig. 6), p. 43 (fig. 8),

p. 44 (fig. 9)

Amsterdam, Rijksmuseum: p. 87 (fig. 7a), p. 201

(fig. 74a), p. 211 (fig. 79a)

Antwerp, Cathedral of Our Lady, www.lukasweb.be

– Art in Flanders, photo Hugo Maertens: p. 20,

p. 21 (fig. 6)

Antwerp, Hendrik Conscience Library: cat. 46-47

Antwerp, KBC Art Collection Belgium, Museum

Snijders&Rockox House: p. 46 (fig. 1), p. 56

(fig. 10), cat. 21, cat. 43

Antwerp, MAS – Museum aan de Stroom, photo

Bart Huysmans & Michel Wuyts: p. 84, cat. 6

Antwerp, Museum Mayer van den Bergh, photo

Bart Huysmans & Michel Wuyts: p. 42 (fig. 7),

p. 53 (fig. 7)

Antwerp, Museum Mayer van den Bergh: cat. 41

Antwerp, Museum Mayer van den Bergh, photo

Hugo Maertens: p. 28 (fig. 12)

Antwerp, Museum Mayer van den Bergh, photo

KIK-IRPA: p. 18 (fig. 5)

Antwerp, Museum Plantin-Moretus, UNESCO

World Heritage: p. 55 (fig. 9), cat. 54, cat. 64-65

Antwerp, Museum Plantin-Moretus, UNESCO

World Heritage, photo Bart Huysmans & Michel

Wuyts: cat. 26

Antwerp, Museum Plantin-Moretus, UNESCO

World Heritage, © Peter Maes: p. 60, p. 62 (fig. 1),

p. 63 (fig. 2), p. 64 (fig. 3), p. 65 (fig. 4), p. 66 (fig. 5

and 6), p. 68 (fig. 7), p. 70 (fig. 8), p. 81 (cat. 4a),

cat. 12, cat. 14-19, p. 99 (fig. 15a), p. 116 (fig. 26a),

cat. 27, p. 118 (fig. 27a), cat. 28, p. 119 (fig. 28a),

cat. 35-37, cat. 45

Antwerp, Museum Vleeshuis – Sound of the City:

cat. 62

Antwerp, Museum Vleeshuis – Sound of the City,

photo Michel Wuyts: cat. 63

Antwerp, Museum Vleeshuis – Sound of the City,

photo Bart Huysmans & Michel Wuyts: p. 50

(fig. 2, 3 and 4), p. 52 (fig. 5 and 6), cat. 61

Antwerp, Royal Music Conservatory, Library:

p. 54, fig. 8

Antwerp, Royal Museum of Fine Arts – KMSKA,

photo Hugo Maertens: p. 8, p. 14 (fig. 1), p. 16

(fig. 3), p. 17 (fig. 4), p. 26 (fig. 11), p. 40 (fig. 4),

p. 76 (fig. 2a), p. 78 (fig. 3a), cat. 20, cat. 23, cat. 31,

cat. 39-40, cat. 58, cat. 66, cat. 75-77, cat. 80,

cat. 82, cat. 84-85, cat. 89

Antwerp, Royal Museum of Fine Arts – KMSKA,

photo Rik Klein Gotink: cat. 22, cat. 25, cat. 32,

cat. 55

Antwerp, Rubens House: p. 25 (fig. 10), cat. 78

Antwerp, Rubens House, photo Michel Wuyts: p. 33

(fig. 17 ), cat. 56

Antwerp, Rubens House, photo Michel Wuyts &

Louis De Peuter: p. 32 (fig. 16), cat. 13, cat. 24,

cat. 57

Antwerp, Rubens House, photo Bart Huysmans &

Michel Wuyts: p. 29 (fig. 13), p. 30 (fig. 15), p. 58

(fig. 11), cat. 38

Antwerp, St Paul’s Church, www.lukasweb.be –

Art in Flanders, photo Hugo Maertens: p. 122

(fig. 30a)

Antwerp, © The Phoebus Foundation: p. 12

Bruges, Musea Brugge, Groeningemuseum,

www.lukasweb.be – Art in Flanders, photo

Hugo Maertens: cat. 71-72

Brussels, King Baudouin Foundation, entrusted to

the Rubens House, Antwerp: cat. 59

Brussels, King Baudouin Foundation, entrusted to

the Rubens House, Antwerp, photo KIK-IRPA:

p. 23 (fig. 7)

Brussels, King Baudouin Foundation, entrusted

to the Rubens House, Antwerp, photo Bart

Huysmans & Michel Wuyts: p. 33 (fig. 18)

Brussels, King Baudouin Foundation, Charles Van

Herck Coll., entrusted to the Royal Museum

of Fine Arts, Antwerp, © Studio Philippe de

Formanoir: cat. 48

Ghent, Museum voor Schone Kunsten,

www.lukasweb.be – Art in Flanders, photo

Hugo Maertens: cat. 30, cat. 33, cat. 67, cat. 74

Leuven, M – Museum, www.lukasweb.be – Art in

Flanders, foto Dominique Provost: cat. 70

London, © Sotheby’s: p. 6, cat. 52

London, © The National Gallery: p. 24 (fig. 9)

Luxemburg, Musée national d’histoire et d’art –

MNHA, photo Tom Lucas: cat. 50, cat. 69, cat. 88

Mantua, Ducal Palace, © Photo Scala Florence –

courtesy of the Ministero Beni e Att. Culturali e

del Turismo: p. 179 (fig. 57a)

Oxford, © Ashmolean Museum, University of

Oxford: p. 121 (fig. 29b)

Paris, École nationale supérieure des Beaux-Arts

© Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN-Grand Palais:

p. 121 (fig. 29a)

Private Collection: p. 38 (fig. 1), cat. 60, cat. 68,

cat. 87

Private Collection, Courtesy of Christophe Janet:

cat. 44

Private Collection, © Tomasso Brothers Fine Art,

photo Doug Currie: p. 31 (fig. 14)

Private Collection, © Haboldt Pictura: cat. 3, cat. 81

Private Collection, © Cedric Verhelst: cat. 1, cat. 34,

p. 149 (fig. 44a), cat. 53, cat. 79

Private Collection, © Christian Baraja: cat. 73

Private Collection, © Koller Auktionen AG: cat. 83

Private Collection, photo Carla van de Puttelaer:

cat. 90

Private Collection, photo Dominique Provost:

cat. 49, cat. 51

Private Collection, photo Erwin Donvil: cat. 86

Private Collection, photo KIK-IRPA: p. 22 (fig. 8),

cat. 2, cat. 4, p. 82, cat. 5, cat. 7-11, cat. 29, cat. 42,

p. 164,

Vienna, Gemäldegalerie der Akademie der

bildenden Künste: p. 39 (fig. 2)


Mai un ringraziamento è stato più appropriato di quello che desidero esprimere qui, per questo

libro e su questo progetto. Come curatore della mostra provo un debito di gratitudine per tutti

coloro – prestatori, coautori, colleghi e cari amici – che mi hanno sostenuto in questa impresa.

Ringrazio di cuore anche: Alexander Bell, Annemie Breëns, Lies Buyse, Anne De Breuck, George

Gordon, Christophe Janet, Marlies Kleiterp (Hermitage Amsterdam), Thomas Leysen, Madeleine

Manderyck, Michel Polfer (Musée national d’histoire et d’art Luxembourg), Madison Rendall and

Jennifer Levy (The Museum of Fine Arts, Houston)

Ben van Beneden

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