Grandi maestri piccole sculture
da Depero a Beverly Pepper a cura di Lara Vinca Masini
da Depero a Beverly Pepper
a cura di Lara Vinca Masini
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GRANDI MAESTRI, PICCOLE SCULTURE<br />
DA DEPERO A BEVERLY PEPPER<br />
a cura di<br />
Lara Vinca Masini
Volume realizzato in occasione della mostra<br />
GRANDI MAESTRI, PICCOLE SCULTURE<br />
DA DEPERO A BEVERLY PEPPER<br />
a cura di Lara Vinca Masini<br />
Selezione di opere provenienti dalla collezione di Loriano Bertini, Prato<br />
Pistoia, Palazzo Sozzifanti<br />
6 aprile – 30 giugno 2013<br />
Realizzazione del volume<br />
Gli Ori, Pistoia<br />
Referenze fotografiche<br />
Aurelio Amendola<br />
Giuseppe Marraccini 40, 113, 345, 350-351, 381, 391<br />
Fabrizio Zollo 348<br />
Redazione e impaginazione<br />
Gli Ori Redazione<br />
Annamaria Iacuzzi<br />
Prestampa e stampa<br />
Bandecchi & Vivaldi, Pontedera<br />
Per gli artisti tutelati è stata richiesta alla SIAE<br />
l’autorizzazione alla pubblicazione delle opere<br />
© Copyright 2013, Fondazione Caript, Pistoia<br />
per l’edizione, Gli Ori, Pistoia<br />
per i testi e le foto, gli autori<br />
ISBN 978-88-7336-509-9<br />
Tutti i diritti riservati<br />
Mostra promossa da<br />
Presidente<br />
Ivano Paci<br />
Vice Presidente<br />
Luca Iozzelli<br />
Consiglio di Amministrazione<br />
Giuseppe Alibrandi<br />
Roberto Cadonici<br />
Giulio Masotti<br />
Giovanni Palchetti<br />
Cristina Pantera<br />
Collegio dei Revisori<br />
Presidente<br />
Alessandro Michelotti<br />
Alessandro Pratesi<br />
Gino Spagnesi<br />
Organizzata da<br />
Coordinamento generale<br />
Roberto Cadonici<br />
Umberto Guiducci<br />
Segreteria organizzativa<br />
Elena Ciompi<br />
Annamaria Iacuzzi<br />
Progetto di allestimento<br />
Marco Bernardi<br />
Realizzazione allestimento<br />
Salvadori R. & C. s.n.c., Pistoia<br />
Illuminazione<br />
ZR Light s.r.l, Campi Bisenzio<br />
Cartellonistica e segnaletica<br />
Multideco, Pistoia<br />
Servizi di biglietteria<br />
e sorveglianza<br />
Ad Astra srl, Massa<br />
Assicurazione<br />
Syncronos Italiana Assicurazioni, Milano<br />
Ufficio stampa<br />
Delos servizi per la cultura, Milano<br />
Comunicazione in mostra<br />
e visite guidate<br />
Artemisia Associazione Culturale, Pistoia
Siamo arrivati a presentare al pubblico questa mostra dopo un lungo e<br />
accidentato percorso.<br />
A me tocca solo il gradito compito di ringraziare di cuore coloro che l’hanno<br />
resa possibile.<br />
Il signor Loriano Bertini, appassionato collezionista, la professoressa Lara<br />
Vinca Masini, nota esperta e critica d’arte, Giuliano Gori, nostro Vice Presidente<br />
al tempo in cui la mostra venne decisa.<br />
L’architetto Marco Bernardi che ne ha curato l’allestimento.<br />
L’editore “Gli Ori” che ha stampato il catalogo con la consueta cura.<br />
Un grazie particolare al prof. Roberto Cadonici, nostro consigliere, che alla<br />
realizzazione della mostra ha dedicato tempo, competenza e impegno.<br />
Il vascello della mostra è ormai messo in acqua: l’auspicio è che faccia una<br />
buona navigazione, con pieno gradimento dei visitatori, a ripagare l’iniziativa<br />
della Fondazione e il lavoro di chi ha concorso a realizzarla.<br />
Ivano Paci<br />
Presidente Fondazione<br />
Cassa di Risparmio<br />
di Pistoia e Pescia<br />
Una delle motivazioni, tra le altre, che ci spinse alcuni anni addietro all’acquisto<br />
dei locali a piano terra del Palazzo Sozzifanti, fu sicuramente quella<br />
di dotare la Fondazione di spazi di ricovero e di esposizione per la nostra<br />
collezione di arte pistoiese.<br />
Di fatto non c’era mai stata finora, per un accavallarsi di ragioni, l’occasione<br />
giusta per mettere alla prova questi spazi, che saltuariamente hanno<br />
invece assolto ad altre funzioni.<br />
Un po’ di tempo prima, ma all’incirca nello stesso periodo, avevamo favorevolmente<br />
accolto la proposta di Loriano Bertini, uno sperimentato collezionista,<br />
di organizzare una mostra con una selezione delle <strong>sculture</strong> di<br />
piccolo formato di artisti del XX secolo che un’antica vocazione gli aveva<br />
consentito di mettere insieme.<br />
Incaricammo allora Lara-Vinca Masini, nota esperta d’arte, di provvedere<br />
alla selezione e alla impostazione critica del percorso, cosa che la stessa<br />
realizzò con la consueta passione e con la competenza che la contraddistingue.<br />
Tuttavia, in massima parte proprio per la difficoltà di trovare gli<br />
spazi adatti per l’esposizione, la mostra è rimasta nel cassetto per un bel<br />
po’ di tempo.
Oggi le due premesse si incrociano, dandoci modo di portare a compimento<br />
due distinti propositi. Finalmente la mostra si può realizzare, finalmente<br />
avremo l’occasione di mettere alla prova questi spazi con finalità<br />
espositive.<br />
“<strong>Grandi</strong> <strong>maestri</strong>, <strong>piccole</strong> <strong>sculture</strong>” si presenta come lo spaccato significativo<br />
di una collezione assai singolare, dedicata a <strong>sculture</strong> del Novecento;<br />
la provenienza delle opere è la più varia, i materiali e le tecniche sono<br />
egualmente assai dissimili: l’unico requisito comune è quello del formato,<br />
che si iscrive rigorosamente nella categoria del “piccolo”.<br />
Il percorso è stato predisposto dalla curatrice secondo un criterio che prevede<br />
il raggruppamento delle opere esposte in base al movimento di appartenenza.<br />
Grazie alla ricchezza della collezione, la mostra si viene così configurando<br />
come un autentico viaggio nelle arti figurative del secolo scorso: si va dalle<br />
avanguardie del primo Novecento, come Espressionismo e Futurismo,<br />
fino alla Transavanguardia o all’Arte Post concettuale, toccando anche<br />
esperienze come lo Spazialismo o la Poesia visiva.<br />
I testi di supporto alla mostra, rapide sintesi che fotografano i diversi movimenti<br />
artistici, restituiscono quasi per intero il panorama del secolo. In<br />
questo modo la visita potrà configurarsi come occasione che offre due prospettive<br />
integrate tra di loro: da una parte come fruizione diretta di opere<br />
di grandi <strong>maestri</strong> del XX secolo; dall’altra come un interessante excursus<br />
che tocca in modo didattico, ovviamente per campionatura, tutti i passaggi<br />
significativi delle arti figurative di quel periodo.<br />
Così, assieme al piacere di incontrare una serie cospicua di autentiche star<br />
(da Modigliani a Picasso, da Léger a Moore, da Dérain a De Chirico, da<br />
Botero a Karavan, da Max Ernst a Salvatori Dalì), la visita potrà offrire<br />
anche l’occasione per un’immersione nell’universo artistico di un intero<br />
secolo.<br />
Roberto Cadonici<br />
Consigliere Fondazione<br />
Cassa di Risparmio<br />
di Pistoia e Pescia<br />
BARLACH•BELLING•LEHMBRUCK•MARCKS•MATARÉ•SCHARF<br />
F•VIANI•DERAIN•PICASSO•LÉGER•ARCHIPENKO•DUCHAMP-V<br />
ILLON•GONZALES•LAURENS•ZADKINE•DEPERO•SEVERINI•R<br />
OSSO•RAY•ERNST•DALÌ•DECHIRICO•GIACOMETTI•LAM•MAT<br />
TA•BILL•CALDER•ARP•BÉÖTHY•RICHTER•MELOTTI•FONTA<br />
NA•BONALUMI•UNCINI•FAUTRIER•VEDOVA•NOVELLI•BLOC<br />
•NEVELSON•FERBER•BAJ•DANGELO•KLEIN•ARMAN•CHRIST<br />
O•CÉSAR•DE•SAINT-PHALLE•SPOERRI•HAINS•RAYMOND•JON<br />
ES•MOORMAN•VAUTIER•VOSTELL•CHIARI•RAUCHENBERG•J<br />
OHNS•TILSON•LICHTENSTEIN•WESSELMANN•ALINARI•MAR<br />
OTTA•DELPEZZO•BUSCIONI•KOLÀR•MARTINI•LORATOTINO<br />
•BENTIVOGLIO•MUNARI•SOTO•VIGO•NANNUCCI•CORNELI•<br />
KOUNELLIS•PISTOLETTO•LEWITT•MORRIS•MELANI•POIRIE<br />
R•PARADISO•PARMIGGIANI•SALVADORI•RUFFI•RAYNAUD•RAN<br />
ALDI•CECCOBELLI•CHIA•PALADINO•LÜPERTZ•BISTOLFI•AN<br />
DREOTTI•CIUSA•CONTI•LIPPI•LIPCHITZ•RAPHAEL•MANZÙ•<br />
MARINI•MODIGLIANI•NOGUCHI•MARTINI•CHADWICK•RICHI<br />
ER•WOTRUBA•MARTIN•HEPWORTH•STAHLY•MOORE•CONSA<br />
GRA•CASCELLA•GILIOLI•CASCELLA•GUERRINI•SIGNORI•LA<br />
RDERA•MANNUCCI•MASTROIANNI•MINGUZZI•MIRKO•FRAN<br />
CHINA•NEGRI•NIVOLA•MAINOLFI•BARNI•VIVARELLI•PIERLU<br />
CA•LEONCILLO•A.POMODORO•G.POMODORO•SOMAINI•VIAN<br />
I•CEROLI•PENALBA•FABBRI•TRUBBIANI•TOYOFUKU•KEMÈN<br />
I•CONTE•BOTERO•GELLI•GAVAZZI•GUASTI•VANGI•FINOTTI•<br />
GALLIGANI•BURKE•GIOVANNELLI•AIAZZI•CARO•ABAKANOW<br />
ICZ•KARAVAN•MATTIACCI•SPAGNULO•STACCIOLI•PEREZ•NU<br />
NZIO•YASUDA•METZLER•COSSYRO•RUSSOPAPOTTO•DAMI•B<br />
ENEFORTI•COX•PEPPER•FOLON•VALENTINI•SAVELLI•BIAGI
Lara-vinca masini<br />
Una collezione<br />
<strong>piccole</strong> <strong>sculture</strong> del xx secolo 10<br />
Espressionismo 23<br />
Barlach, Ernst 24<br />
Lehmbruck, Wilhelm 26<br />
Belling, Rudolf 28<br />
Marcks, Gehrard 30<br />
Mataré, Ewald 32<br />
Scharff, Edwin 34<br />
Viani, Lorenzo 36<br />
fauvismo 39<br />
Derain, André 40<br />
cubismo 43<br />
Picasso, Pablo 44<br />
Léger, Fernand 46<br />
Archipenko, Alexander 48<br />
Duchamp-Villon, Raymond 50<br />
Gonzales, Julio 52<br />
Laurens, Henri 54<br />
Zadkine, Ossip 56<br />
futurismo 59<br />
Depero, Fortunato 60<br />
Severini, Gino 62<br />
Rosso, Mino 64<br />
dada 67<br />
Ray, Man 68<br />
surrealismo 71<br />
Ernst, Max 72<br />
Dalì, Salvador 74<br />
De Chirico, Giorgio 76<br />
Giacometti, Alberto 78<br />
Lam, Wilfredo 80<br />
Matta, Robert Sebastian 82<br />
concretismo 85<br />
Bill, Max 86<br />
Calder, Alexander 88<br />
Arp, Hans 90<br />
Béöthy, Étienne 92<br />
Richter, Hans 94<br />
Melotti, Fausto 96<br />
spazialismo 99<br />
Fontana, Lucio 100<br />
neoconcretismo 103<br />
Bonalumi, Agostino 104<br />
Uncini, Giuseppe<br />
106<br />
informale europeo 109<br />
Fautrier, Jean 110<br />
Vedova, Emilio 112<br />
Novelli, Gastone 114<br />
Bloc, André 116<br />
Action Painting 119<br />
Nevelson, Louise 120<br />
Ferber, Herbert 122<br />
nucleare 125<br />
Baj, Enrico 126<br />
Dangelo, Sergio 128<br />
nouveau RÉalisme 131<br />
Klein, Yves 132<br />
Arman 134<br />
Christo 136<br />
César 138<br />
De Saint-Phalle, Niki 140<br />
Spoerri, Daniel 142<br />
Hains, Raymond 144<br />
fluxus 147<br />
Jones, Joe 148<br />
Moorman, Charlotte 150<br />
Vautier, Ben 152<br />
Vostell, Wolf 154<br />
Chiari, Giuseppe 156<br />
new dada 159<br />
Rauchenberg, Robert 160<br />
Johns, Jasper 162<br />
pop art 165<br />
Tilson, Joe 166<br />
Lichtenstein, Roy 168<br />
Wesselmann, Tom 170<br />
Alinari, Luca 172<br />
Marotta, Gino 174<br />
Del Pezzo, Lucio 176<br />
Buscioni, Umberto 178<br />
poesia visiva 181<br />
Kolàr, Jiri 182<br />
Martini, Stelio Maria 184<br />
Lora Totino, Arrigo 186<br />
Bentivoglio, Mirella 188<br />
arte visuale, cinetica,<br />
uso della luce 191<br />
Munari, Bruno 192<br />
Soto, Jesus Raphael 194<br />
Vigo, Nanda 196<br />
Nannucci, Maurizio 198<br />
Corneli, Fabrizio 200<br />
arte povera 203<br />
Kounellis, Jannis 204<br />
Pistoletto, Michelangelo 206<br />
minimalismo 209<br />
Lewitt, Sol 210<br />
Morris, Robert 212<br />
postconcettuale 215<br />
Melani, Fernando 216<br />
Poirier, Anne e Patric 218<br />
Paradiso, Antonio 220<br />
Parmiggiani, Claudio 212<br />
Salvadori, Remo 224<br />
Ruffi, Gianni 226<br />
Raynaud, Jean Pierre 228<br />
Ranaldi, Renato 230<br />
transavanguardia 233<br />
Ceccobelli, Bruno 234<br />
Chia, Sandro 236<br />
Paladino, Mimmo 238<br />
nuova arte tedesca 241<br />
Lüpertz, Markus 242<br />
scultura fra le due guerre 245<br />
Bistolfi, Leonardo 246<br />
Andreotti, Libero 248<br />
Ciusa, Francesco 250<br />
Conti, Primo 252<br />
Lippi, Andrea 254<br />
Lipchitz, Jacques 256<br />
Raphael, Antonietta 258<br />
Manzù, Giacomo 260<br />
Marini, Marino 262<br />
Modigliani, Amedeo 264<br />
Noguchi, Isamu 266<br />
Martini, Arturo 268<br />
scultura postbellica<br />
e contemporanea 271<br />
Chadwick, Lynn 272<br />
Richier, Germaine 274<br />
Wotruba, Fritz 276<br />
Martin, Etienne 278<br />
Hepworth, Barbara 280<br />
Stahly, François 282<br />
Moore, Henry 284<br />
Consagra, Pietro 286<br />
Cascella, Andrea 288<br />
Gilioli, Emil 290<br />
Cascella, Pietro 292<br />
Guerrini, Lorenzo 294<br />
Signori, Carlo Sergio 296<br />
Lardera, Berto 298<br />
Mannucci, Edgardo 300<br />
Mastroianni, Umberto 302<br />
Minguzzi, Luciano 304<br />
Mirko (Basaldella) 306<br />
Franchina, Nino 308<br />
Negri, Mario 310<br />
Nivola, Costantino 312<br />
Mainolfi, Luigi 314<br />
Barni, Roberto 316<br />
Vivarelli, Jorio 318<br />
Pierluca (Degli Innocenti) 320<br />
Leoncillo (Leonardi) 322<br />
Pomodoro, Arnaldo 324<br />
Pomodoro, Giò 326<br />
Somaini, Francesco 328<br />
Viani, Alberto 330<br />
Ceroli, Mario 332<br />
Penalba, Alicia 334<br />
Fabbri, Agenore 336<br />
Trubbiani, Valeriano 338<br />
Toyofuku, Tomonori 330<br />
Kemèni, Zoltan 342<br />
Conte, Michelangelo 344<br />
Botero, Fernando 346<br />
Gelli, Valerio 348<br />
Gavazzi, Giuseppe 350<br />
Guasti, Marcello 352<br />
Vangi, Giuliano 354<br />
Finotti, Novello 356<br />
Galligani, Luigi 358<br />
Burke, Michael 360<br />
Giovannelli, Roberto 362<br />
Aiazzi, Loriano 364<br />
Caro, Anthony 366<br />
Abakanowicz, Magdalena 368<br />
Karavan, Dani 370<br />
Mattiacci, Eliseo 372<br />
Spagnulo, Giuseppe 374<br />
Staccioli, Mauro 376<br />
Perez, Augusto 378<br />
Nunzio (di Stefano) 380<br />
Yasuda, Kan 382<br />
Metzler, Kurt Laurenz 384<br />
Cossyro, Michele 386<br />
Russo Papotto, Luigi 388<br />
Dami, Andrea 390<br />
Beneforti, Paolo 392<br />
Cox, Stephen 394<br />
Pepper, Beverly 396<br />
Folon, Jean Michel 398<br />
Valentini, Nanni 400<br />
Savelli, Enrico 402<br />
Biagi, Massimo 404
Lara-Vinca Masini<br />
Una collezione<br />
Piccole <strong>sculture</strong> del XX secolo<br />
Sono un clown…<br />
e faccio collezione di attimi.<br />
Heinrich Böll, Opinioni di un clown,<br />
Milano 1965<br />
Esiste una letteratura infinita relativa al significato del collezionismo, in<br />
particolare di quello privato, che investe la psiche, indaga sulle pulsioni<br />
umane. E a maggior ragione, quando si tratti del collezionismo privato<br />
d’arte (perché in realtà si colleziona, tutti, di tutto, dagli oggetti più inutili<br />
a quelli più gratificanti, agli “attimi”, appunto, che costituiscono il tempo<br />
della vita – solo che di questi attimi non ci accorgiamo, fanno parte di una<br />
collezione “in progress”, di cui siamo inconsapevoli, tranne che in particolari<br />
e rischiosi momenti).<br />
Si tenta di scoprirne le ragioni profonde: compensazione psicologica, prestigio<br />
personale, desiderio di possesso di carattere gelosamente riservato, passionale,<br />
quasi erotico (c’è un noto collezionista giapponese che ha chiesto di<br />
venir sepolto, alla sua morte, col suo Van Gogh...). C’è la volontà di capire<br />
la realtà contingente, quella di negare e contrastare il processo che conduce<br />
alla morte col cercare una sorta di immortalità per ciò che si raccoglie,<br />
meglio se si tratta di opere d’arte, destinate, per tradizione storica, a durare<br />
per sempre (“Exegi monumentum aere perennius”), sperando, così, di<br />
acquisire una memoria, la più lunga possibile anche per il proprio nome...<br />
Oggi, peraltro, questa concezione è stata drasticamente messa in crisi e<br />
superata.<br />
Se poi si tratta di collezioni d’arte relative al contemporaneo (che seguono,<br />
quasi tutte una routine comune, quella della moda corrente) subentra un<br />
rapporto privilegiato con gli artisti, la volontà di proporsi come mecenati, di<br />
imporsi come promotori culturali e di mercato.<br />
Tante e tante possono essere le ragioni di una collezione, ma quella che<br />
tutte le accomuna è sempre la passione che, come tale, è univoca e diversa<br />
in ogni situazione.<br />
Si tratta, comunque, consapevolmente o meno, di esorcizzare il presente e<br />
di anticipare il futuro.<br />
Loriano Bertini vive a Prato, il solo centro toscano che si distingue per il<br />
collezionismo di arte contemporanea. È una persona aperta, diretta, che<br />
non si pone troppi problemi circa la propria vocazione, innegabile, di collezionista<br />
curioso, appassionato, insaziabile.<br />
Sono molti anni che egli si dedica al collezionismo, da quello dei disegni<br />
antichi, a quello delle maioliche d’altra epoca (vien da pensare a “Utz”<br />
di Chatwin, le cui splendide ceramiche di Meissen, a Praga, scompaiono<br />
inspiegabilmente alla sua morte, quando dovrebbero entrare a far parte<br />
del patrimonio del governo sovietico), a quello delle vedute di Firenze<br />
(una bella raccolta, oggi presso la Cassa di Risparmio di Firenze), alla sua<br />
splendida collezione di libri di noti autori illustrati da artisti: da La tentation<br />
de Saint Antoine di Flaubert illustrato da Odilon Redon a Les fleurs du mal<br />
di Baudelaire con xilografie di Vollard; dalle opere di Luciano illustrate<br />
da Klimt, alla Figlia di Jorio di d’Annunzio con xilografie di De Carolis;<br />
e ancora Reverdy e Matisse, Max Jacob e Picasso, Cendrars (La prose du<br />
Transsibérien et de la petite Jehanne de France) e Sonia Delaunay, Gleizes/<br />
Metzinger e Duchamp, Heidegger e Paolini, fino a libri d’artista: di Gilbert<br />
& George, Parmiggiani, Nannucci, Agnetti, Boltanski, tanto per fare qualche<br />
nome. Opere acquistate dallo Stato e affidate alla Biblioteca Nazionale<br />
Centrale di Firenze. Collezioni private dunque che, come avviene nei casi<br />
migliori, diventano pubbliche.<br />
La collezione più recente di Bertini è dedicata a opere plastiche del<br />
Novecento, quasi tutte di <strong>piccole</strong> dimensioni, raccolte in questi ultimi anni,<br />
quando, attraverso gallerie, è sempre più difficile trovare aste internazionali<br />
che diventano attrazioni ineluttabili – dice Bertini che, appena ne escono<br />
i cataloghi, non può fare a meno di precipitarsi, dovunque esse siano.<br />
Questa sua collezione, che consta già di oltre 600 pezzi, di cui una parte<br />
è presente in questa mostra, non è ancora del tutto completa, secondo le<br />
sue intenzioni di creare un excursus lungo la storia dell’arte del XX secolo.<br />
Mancano ovviamente, ancora, settori importanti da colmare; basterebbero<br />
pochi pezzi essenziali, oggi, peraltro, quasi irraggiungibili. E alcune opere<br />
10<br />
11
di artisti caposcuola di movimenti non sono al massimo della loro riconoscibilità<br />
all’interno dei movimenti stessi. E (ciò che costituisce un diritto<br />
di ogni collezionista privato), alcuni lavori sono di artisti meno noti ma rappresentano<br />
certe sue predilezioni personali e, talvolta, si propongono come<br />
interessanti scoperte.<br />
Penso sia raro, comunque, vedere raccolte insieme tante testimonianze<br />
dell’arte plastica internazionale del secolo passato. La mostra è sponsorizzata<br />
dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.<br />
Vi compaiono infatti, con particolare predilezione nel numero, alcuni artisti<br />
pistoiesi, o viventi a Pistoia, ovviamente noti a livello nazionale: questa ci<br />
è sembrata una doverosa attenzione nei confronti della città toscana che<br />
ospita la mostra.<br />
Da Rodin al cielo di Yoko. Sculture in piccolo del XX secolo, a cura di Silvia Lucchesi, Centro<br />
Culturale “L’Ormeggio”, Orosei 2002.<br />
Una collezione internazionale di <strong>piccole</strong> <strong>sculture</strong> del secondo Novecento, a cura di Lara-Vinca Masini,<br />
catalogo della mostra (Malcesine, 11 giugno-15 settembre 2005), Gli Ori, Prato 2005.<br />
ESPRESSIONISMO<br />
Questo settore della mostra presenta, attraverso alcuni esempi, opere di artisti<br />
esponenti dell’Espressionismo storico, tra i quali due Barlach, bellissimi, per<br />
arrivare a uno dei pochissimi esempi di artisti italiani, Lorenzo Viani, che<br />
hanno partecipato del processo innovativo dell’Espressionismo, che sembra<br />
racchiudere in sé la sintesi del portato dell’ultimo Ottocento e l’apertura<br />
verso le Avanguardie storiche. E inoltre opere di Lehmbruch, Belling, Marks,<br />
Mataré, Scharff. L’Espressionismo, nato in Germania, ha inteso spostare la<br />
ricerca sul processo creativo ed “espressivo” che è all’origine dell’opera e<br />
che si identifica come “volontà” dell’artista e della società alla quale si rivolge.<br />
Affonda le radici nella filosofia di Nietzsche, secondo il suo concetto di<br />
“opera d’arte” come un “eccesso di forze capace di abbellire, trasfondere e<br />
trasfigurare”. Questo movimento rappresenta uno dei primi esempi di arte<br />
che interpreta le inquietudini e la crisi di una società che si apre alle macabre<br />
vicende delle grandi guerre e delle catastrofi del XX secolo.<br />
FAUVISMO<br />
Corrispettivo dell’Espressionismo tedesco il Fauvisme francese è qui rappresentato<br />
da un lavoro di André Derain, seppure tardo, ma indicativo della sua<br />
concezione della resa della figura umana a stesure piatte.<br />
CUBISMO<br />
In questo settore sono presenti opere di artisti che sono stati esponenti del<br />
Cubismo (Picasso, Léger, Archipenko, Duchamp-Villon, Gonzales, Laurens,<br />
Zadkine) anche se qui, talvolta, con opere non corrispondenti al periodo e<br />
perciò meno criticamente indicative, seppure sempre espressione della creatività<br />
di ciascuno.<br />
Il Cubismo è il primo movimento moderno a porre in termini tecnicoscientifici<br />
il principio fondamentale dell’arte contemporanea, già elaborato,<br />
d’altronde, fin dal Canova, ma solo ora dichiarato esplicitamente: la coscienza<br />
dell’artista della sua nuova condizione di tecnico, di specialista, di professionista,<br />
oltre che di creatore di forme. È un movimento contestatario non solo<br />
in quanto intende distruggere il modo tradizionale della visione pittorica, in<br />
nome della scoperta della quarta dimensione, del fattore tempo immesso<br />
nell’opera come “presente continuo”, nella “visione simultanea”, ma anche<br />
in quanto recupera alla visione artistica la sua dimensione intellettuale. Le<br />
opere si svolgono per piani sovrapposti, giustapposti, intersecati, portando<br />
alle estreme conseguenze la possibilità della visione prospettica tradiziona-<br />
12 13
le. Ma il movimento fornirà i mezzi per una revisione completa e per una<br />
rilettura, in nome di una nuova figuratività, anche dell’arte del passato. Ed<br />
è avanguardia in quanto considera il fatto artistico non atto assoluto, ma processo<br />
di sperimentazione continua, ponendo l’operazione artistica nella sfera<br />
dell’ètica.<br />
In mostra opere di Picasso, Léger, Archipenko, Duchamp-Villon, Gonzales,<br />
Laurens, Zadkine.<br />
FUTURISMO<br />
Il Futurismo, nato ufficialmente nel 1909 all’uscita del Manifesto di Marinetti,<br />
è un movimento rivoluzionario, antipassatista, fiducioso nella tecnologia (si<br />
pensi al suo mito della macchina). Rappresenta la prima rivoluzione borghese<br />
in Italia. È il movimento che intende immettere nell’opera lo spazio-tempo,<br />
secondo la filosofia di Bergson: “Noi porremo lo spettatore al centro del<br />
quadro”, “Il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi” sono alcuni<br />
dei suoi slogan.<br />
In mostra presenti alcuni lavori di Depero, Severini, Mino Rosso.<br />
DADA<br />
“Il Dada non fu un movimento artistico in senso tradizionale, fu un temporale<br />
che si abbatté sull’arte di quel tempo come la guerra si abbatté sui popoli.<br />
Si scaricò senza preavviso, in una atmosfera carica e soffocante [...] e lasciò<br />
dietro di sé un nuovo giorno” scrisse Hans Richter.<br />
Con Duchamp che, proponendo la sua Gioconda coi baffi (L.H.O.O.Q.), e<br />
assumendo come arte un orinatoio, un portabottiglie, una ruota di bicicletta,<br />
spostando questi oggetti da un contesto quotidiano a uno privilegiato, quello<br />
dell’arte, appunto, fece sì che dall’idea di arte ci si spostasse su quella di<br />
artista (l’artista, per il solo fatto di denotare come opera d’arte un oggetto<br />
spostato dal suo contesto ne sancisce tale status) il concetto tradizionale di<br />
arte uscì completamente stravolto, ponendo le basi di una nuova idea di arte<br />
e di artisticità.<br />
In mostra un ironico Autoritratto di Man Ray, testimone della forza eversiva<br />
del movimento.<br />
SURREALISMO<br />
Il Surrealismo, qui rappresentato da artisti come Max Ernst, Dalì, De<br />
Chirico, Giacometti, Lam, Matta, movimento nato dopo la prima guerra<br />
mondiale, dimostrando il fallimento di tutte quelle strutture definite “logi-<br />
che”, sulle quali si fondava un sistema ormai totalmente fallimentare, proclamerà<br />
il nichilismo, rifiuterà la logica e farà ricorso all’irrazionale, all’inconscio,<br />
al sogno, anche alla follia. “Trasformare il mondo, ha detto Marx, cambiare<br />
la vita, ha detto Rimbaud: per noi queste due parole d’ordine fanno un<br />
tutt’uno” dichiarava Breton. Il movimento, in un suo percorso prolungato nel<br />
tempo, è diventato una sorta di leit-motif che percorre, anche in molte sue<br />
tardive degenerazioni, il XX secolo.<br />
CONCRETISMO<br />
Esponenti del Concretismo presenti in mostra: Bill, Calder, Arp, Béothy,<br />
Richter, l’italiano Melotti, partecipi, tutti, delle vicende alterne del movimento<br />
stesso che, dagli anni Trenta, esprime in Europa l’esperienza razionale,<br />
astratto-concreta (sarà bloccata dall’avvento dei regimi totalitari). Il termine<br />
deriva dalla dichiarazione di Theo van Doesburg nel suo Manifesto dell’Arte<br />
concreta (1930): “Pittura concreta e non astratta perché nulla è più concreto<br />
e reale di una linea e di una superficie [...]. Pittura concreta e non astratta<br />
perché lo spirito ha raggiunto il suo stato di maturità: ha bisogno di mezzi<br />
chiari e intellettuali per manifestarsi in modo concreto”. Questo movimento<br />
affronterà, per primo, anche problemi di applicazione tecnologica, produttiva,<br />
industriale, avendo tra le sue fila anche molti architetti e tecnologi.<br />
SPAZIALISMO<br />
Fondatore dello Spazialismo è Lucio Fontana che, con la sua straordinaria<br />
scoperta di un nuovo spazio mentale e concettuale, lo “spazio-oltre”, lo spazio<br />
aldilà del quadro e dell’opera scultorea, aprirà la via al Neoconcretismo<br />
e, in proiezione, alla linea più tarda del Monocromo e dello spazio della pittura<br />
come campo di intervento. Infatti già nel suo Manifesto blanco, uscito in<br />
Argentina nel 1946, Fontana dichiarava che il nuovo spazio artistico doveva<br />
essere interpretato secondo rapporti diversi da quello rinascimentale, ma<br />
anche da quello ottocentesco, dovendo tener conto delle nuove conquiste<br />
scientifiche che usano lo spazio fisico e fenomenico come nuovo e più esteso<br />
strumento di comunicazione, capace di collocare anche l’opera d’arte in una<br />
nuova dimensione, in rapporto alle possibilità offerte all’artista dai nuovi<br />
mezzi tecnici allo scopo di attivare nuove possibilità creative.<br />
NEOCONCRETISMO<br />
Del Neoconcretismo che recupererà, nel secondo dopoguerra, l’ideologia del<br />
Concretismo arricchita delle esperienze dello Spazialismo di Fontana, sono<br />
14<br />
15
presenti in mostra lavori di Uncini, esponente del Gruppo Uno, e Bonalumi,<br />
che, con Castellani e Scheggi, parte, appunto, dall’esperienza del fondatore<br />
dello Spazialismo. Il Neoconcretismo esprime un atteggiamento positivo nei<br />
confronti delle nuove tecnologie che, secondo la tesi di Mc Luhan – lo strumento<br />
come prolungamento del braccio – possono diventare ulteriore mezzo<br />
di conoscenza e di creatività. Il Neoconcretismo ha significativi precedenti<br />
nel MAC (Movimento Arte Concreta), promosso a Milano da Soldati, e nella<br />
mostra di Max Bill a Zurigo, Art Concret, nel 1949.<br />
INFORMALE EUROPEO<br />
L’Informale europeo, nato alla metà degli anni Cinquanta, fonda la sua esperienza<br />
non su una “estetica”, né sulla concezione dell’arte come linguaggio,<br />
sulla “storia dell’arte”, né sulla storia tout court, ma su una concezione “trasgressiva”<br />
dell’arte, quale può essere l’arte di una società che non vive più<br />
sulla storia del passato ma sul presente, sull’azione contestuale. Un’arte che,<br />
rifiutando la razionalità, poggia sulla spontaneità non mediata del “gesto”.<br />
Riprende quindi, sul filo delle teorie esistenzialiste, in maniera autonoma,<br />
qual filone dell’irrazionalismo sul quale si erano enucleate le esperienze dada<br />
e surrealiste. Si propone come denuncia, come protesta contro la minacce di<br />
distruzione dell’umanità che i genocidi, le stragi, le guerre già rappresentavano<br />
per l’Europa nella prima metà del XX secolo.<br />
Presenti in mostra opere di Fautrier, degli italiani Vedova e Novelli, e del<br />
francese Bloc.<br />
ACTION PAINTING<br />
L’Action Painting (o Espressionismo astratto) è la linea – corrispondente<br />
all’Informale europeo – che nasce negli Stati Uniti nella prima metà degli<br />
anni Cinquanta “da due catastrofi: una depressione e una guerra mondiale”,<br />
ma anche dalla necessità degli artisti americani di creare un’arte moderna<br />
“americana” autonoma, libera dal provincialismo sciovinista dell’“American<br />
Scene” e dall’influenza dell’arte europea che già dal 1913, con l’Armory Show<br />
e più tardi durante il nazismo, era per gran parte emigrata negli Stati Uniti.<br />
In mostra un lavoro di Ferber e uno di Louise Nevelson.<br />
NUCLEARE<br />
Il Movimento Nucleare nasce a Milano nel 1951. Principali esponenti Baj e<br />
Dangelo, entrambi presenti in mostra. Il Nucleare si pone contro l’astrattismo<br />
concreto in favore dell’automatismo psichico di estrazione surreale, riferendosi<br />
alle “nuove forme dell’uomo”, quelle “dell’universo atomico”, alle “forze<br />
cariche di esplosivi imprevisti” (dal manifesto del movimento), che possono<br />
cambiare il rapporto dell’artista col mondo. Si affida alla gestualità, ma anche<br />
(Baj), all’ironia dissacrante. È un movimento di carattere eminentemente<br />
sperimentale.<br />
NOUVEAU RÉALISME<br />
Il movimento, nato alla fine degli anni Cinquanta a Nizza, trova la sua radice<br />
nel lavoro scatenante di Yves Klein e si propone la riappropriazione critica del<br />
reale contingente, che negli Stati Uniti troverà la sua versione, meno ideologizzata<br />
e critica, nel New Dada di Rauschenberg e di Johns. Il grande teorico<br />
del gruppo, formato da Arman, Dufrêne, Hains, Raysse, Spoerri, Tinguély,<br />
Villeglé e a cui si avvicineranno Rotella, Niki de Saint Phalle, Christo e<br />
César, era Pierre Restany che, nel manifesto del movimento proponeva “un<br />
nuovo realismo della sensibilità pura”. L’opera è considerata come residuo,<br />
come fattore effimero, come appropriazione, comunque, dell’oggetto reale,<br />
meccanico per Tinguély, organico per Spoerri, come accumulazione per<br />
Arman, come residuo delle immagini della città per Rotella, Hains, Villeglé,<br />
come appropriazione dei simboli della città e del paesaggio per Christo, come<br />
rifiuto, comunque, della pittura da cavalletto.<br />
In mostra lavori di Klein, Arman, Christo, César, Niki de Saint Phalle,<br />
Spoerri, Hains.<br />
FLUXUS<br />
Fluxus è stato un gruppo sperimentale, legato particolarmente alla musica,<br />
al teatro, all’azione, “comune all’America del Nord e all’Europa e all’origine<br />
di tutto quanto costituirà l’attualità artistica degli anni Sessanta” (Jean-Marc<br />
Poinsot, in Fluxus, Liegi 1980). Consisterà nell’esaurire “tutte le possibilità/<br />
limite di ‘tutto è arte’ con un’attitudine non-arte, anti-arte” (Ben Vautier, in<br />
“Art Press” n.13, 1972). Darà vita all’evento-gesto, introdurrà la “Mail Art”<br />
(arte postale), con l’uso di materiali insignificanti, pezzi di carta, fotocopie,<br />
xerocopie, rifiutando il concetto di “opera d’arte”. In mostra lavori di Jones,<br />
Moorman, Vautier, Vostell, Chiari.<br />
NEW DADA<br />
Dopo il rifiuto totale di ogni rapporto con la realtà sociale, espresso dall’Informale<br />
e dall’Action Painting, alla seconda metà degli anni Cinquanta gli<br />
artisti tornarono a sentire il richiamo dei contenuti dell’esperienza quotidia-<br />
16 17
na, dell’oggetto. Questo momento assunse il nome di New Dada, anche se il<br />
riferimento degli artisti (Rauschenberg e Johns) non è tanto Duchamp quanto<br />
la pittura di Schwitters. L’oggetto che gli artisti inseriscono nel quadro,<br />
anche se disposto, comunque, a costituire “opera”, resta fortemente legato<br />
alla realtà. Si tratta, come scrive Boatto, di “un incontro fra pittura d’azione<br />
e pittura di materia”.<br />
In mostra opere dei due maggiori esponenti: Rauchenberg e Johns.<br />
POP ART<br />
La Pop Art (Pop-ular Art, il nuovo “popular”, quello caotico, variegato, vernacolo<br />
della città contemporanea, della nuova “pop culture” di massa) nasce<br />
in Inghilterra negli anni Sessanta, nell’area culturale che recepisce il portato<br />
dell’“american life”, secondo l’ideologia legata a temi tecnologici, espressa<br />
dalle mostre londinesi Parallel of Life and Art e This is tomorrow. Il quadrosimbolo<br />
è rappresentato da Ma che cos’è che rende le case di oggi così diverse, così attraenti?,<br />
un piccolo interno di Richard Hamilton che contiene tutti gli allucinanti<br />
e lucidi feticci kitch del panorama quotidiano attuale, dalle immagini della pinup,<br />
il culturista, i manifesti cinematografici, quello della Ford, il televisore, il<br />
registratore, l’aspirapolvere... In mostra un’opera di Tilson. La Pop americana<br />
si propone non tanto di cogliere, del nuovo “oggetto” popolare la connotazione<br />
kitch, la sua forza degradante, bensì il suo significato positivo, la sua “necessità”<br />
all’interno della vita della città contemporanea, tentandone in qualche<br />
modo il riscatto a mezzo di tecniche di straniamento che conferiscano loro una<br />
dignità estetica. Presenti lavori di Lichtenstein e di Wesselman.<br />
La Pop italiana è generalmente più ironica, più spregiudicata, più “casalinga”,<br />
per così dire: in mostra lavori di Alinari, Marotta, Del Pezzo, Buscioni.<br />
POESIA VISIVA<br />
“Poesia visiva – lettere alfabetiche, ideogrammi, corsivi, arabeschi, immagini,<br />
geroglifici, combinati in modo da scuotere il linguaggio e la lettura d’uso abituale.<br />
Segni che significano se stessi e rimandano ad altro da sé, consentendo<br />
interpretazioni mutevoli [...]”: così Lea Vergine in Dall’Informale alla Body<br />
Art (Torino, 1976) definiva la Poesia visiva. Le origini ci riportano, ovviamente<br />
secondo diverse intenzionalità, al paroliberismo futurista, al Dada, al<br />
Surrealismo.<br />
In mostra lavori di Kolár, di Stelio Maria Martini, di Arrigo Lora Totino, di<br />
Mirella Bentivoglio.<br />
ARTE VISUALE, CINETICA, USO DELLA LUCE<br />
Sulla scorta delle teorie sulla percezione visiva, dalla metà degli anni<br />
Cinquanta, nascono molte tendenze in netta opposizione nei confronti<br />
dell’ideologia esistenziale dell’Informale, della Pop Art, dell’antirazionalismo<br />
in genere, e partono dalle premesse delle avanguardie storiche “positive”<br />
(Cubismo, Bauhaus, De Stijl), che vedevano nell’arte la possibilità di rifondare<br />
il mondo su nuove basi, a differenza delle correnti irrazionali che si<br />
proponevano come specchio della realtà nelle sue condizioni stravolte.<br />
Si manifesta come “Op Art” (Op-tical Art), Arte programmata, proponendosi<br />
di far confluire, insieme al fattore ottico-percettivo, le esperienze cinetiche<br />
e visuali, sulla base di una struttura che, accanto alla regola, alla razionalità<br />
del programma, accetta la casualità, l’imprevisto, l’aleatorietà che le correnti<br />
irrazionali del dopoguerra, primo l’Informale, avevano riscoperto. Vi convergono<br />
la componente percettiva, la ricerca scientifico-sperimentale e la<br />
tecnologia avanzata. Coinvolge lo spazio urbano, industriale e pubblicitario,<br />
mirando, col suo intervento, a riqualificarlo. Intende anche servirsi delle<br />
nuove tecnologie come di nuovi strumenti di creatività, per la instaurazione<br />
di un mondo formale espresso dalla “razionalità” e dalla intuizione artistica.<br />
La componente specifica della luce (a incandescenza, neon, raggi laser) avrà<br />
molto seguito anche in esperienze successive.<br />
Presenti opere di Munari, Soto, Vigo, Maurizio Nannucci, Corneli.<br />
ARTE POVERA<br />
Il movimento (teorico Germano Celant) nasceva nel 1967 a Genova con<br />
la mostra Arte povera. Ne facevano parte molti artisti italiani, tra i quali<br />
Kounellis e Pistoletto, di cui sono in mostra alcuni lavori. Scriveva Celant:<br />
“Animali, vegetali e minerali sono insorti nel mondo dell’arte. L’artista si<br />
sente attratto dalle loro possibilità fisiche, chimiche e biologiche, e riinizia a<br />
sentire lo svolgersi delle cose del mondo, non solo come essere animato, ma<br />
produttore di fatti magici e meraviglianti. L’artista-alchimista organizza le<br />
cose viventi e vegetali in fatti magici, lavora alla scoperta del nocciolo delle<br />
cose, per ritrovarle ed esaltarle. Il suo lavoro non mira però a servirsi dei<br />
più semplici materiali ed elementi naturali (rame, zinco, terra, acqua, fiumi,<br />
piombo, neve, fuoco, erba, aria, pietra, elettricità, uranio, cielo, peso, gravità,<br />
calore, crescita ecc.) per una descrizione e rappresentazione della natura;<br />
quello che lo interessa è invece la scoperta, la presentazione, l’insurrezione<br />
del valore magico e meravigliante degli elementi naturali [...]. Tutto il suo<br />
lavoro tende, di conseguenza, solamente alla dilatazione della sfera del sen-<br />
18 19
sibile [...]”. Il ricorso a materiali “poveri”, nel senso di naturali, antiartistici, la<br />
volontà di evidenziarne l’energia, di analizzarne i processi naturali rappresenta,<br />
per questi artisti, il superamento del concetto di arte come “oggetto” a sé stante,<br />
per assumere il concetto di “arte come stimolo a verificare continuamente il<br />
proprio grado di esistenza, mentale e fisico [...]”.<br />
In mostra opere di Kounelis e Pistoletto.<br />
MINIMALISMO<br />
Nel 1966 si tenne, a New York, una mostra dedicata alle “Strutture primarie”.<br />
Si tratta di <strong>sculture</strong> rigorosamente geometriche, fredde, spesso di<br />
grandi dimensioni, tali da porsi in forte contrasto con lo spazio nel quale si<br />
collocano. Questo tipo di operazione si pone come rifiuto di un estetismo<br />
divenuto puro oggetto di mercato, ma anche di ogni ritorno a una interiorità<br />
di tipo romantico, ormai superata.<br />
In mostra un lavoro di Robert Morris (il primo a parlare di un’arte dell’ABC,<br />
e di “anti-form”), e un’opera di Sol LeWitt.<br />
POSTCONCETTUALE<br />
La Conceptual Art nasce negli Stati Uniti alla metà degli anni Sessanta, sul<br />
filo della “smaterializzazione dell’arte”. L’artista tende a porre in evidenza i<br />
processi mentali che stanno a monte della formazione dell’opera d’arte, di cui<br />
tende a ridurre l’ingombro “fisico”. Non si parlerà più di opere ma di “proposizioni”,<br />
secondo le definizioni legate alla logica matematica. Tra i teorici<br />
del movimento Joseph Kosuth, che dichiara “Art as Idea, as Idea” (Arte come<br />
idea, assunta come idea). C’è anche, accanto al concettualismo strettissimo,<br />
che si basa su sistemi linguistici, un concettualismo che non rifiuta l’opera<br />
come oggetto, come, in Italia, Giulio Paolini. A questo si riporterà la definizione<br />
di comodo dello svolgimento successivo di Postconcettuale.<br />
Al settore si può riferire il lavoro di alcuni artisti presenti in mostra, Melani,<br />
Poirier, Paradiso, Parmiggiani, Salvadori, Raynaud, Ruffi, Ranaldi.<br />
TRANSAVANGUARDIA<br />
Verso la fine degli anni Settanta, nel processo di “deideologizzazione” e di crisi<br />
dei modelli politici legati alle forme della razionalità classica, col recupero del<br />
concetto di specifico artistico, nasceva, in Italia, la Transavanguardia, promossa<br />
da Achille Bonito Oliva che scriveva: “[...] la Transavanguardia considera il linguaggio<br />
come uno strumento di transizione, di passaggio da un’opera all’altra, da<br />
uno stile all’altro”. Si assiste al ritorno a una figurazione che poggia sulla rimeditazione<br />
della storia dell’arte e sulla manipolazione di modi stilistici diversi.<br />
In mostra lavori di Ceccobelli, Chia, Paladino.<br />
Sulla scìa della Transavanguardia nasceva la nuova pittura tedesca, qui rappresentata<br />
da Markus Lüperz.<br />
SCULTURA FRA LE DUE GUERRE<br />
Questo settore e il seguente, che sono anche i più affollati, si riferiscono in<br />
maniera più diretta, al concetto di opera plastica, di scultura, indipendentemente<br />
dalla successione dei vari movimenti che hanno percorso il xx secolo,<br />
dei quali, comunque, anche queste opere condividono molte istanze. Perciò<br />
si articolano più liberamente, dai primi decenni del Novecento. Vi appaiono<br />
lavori di artisti che hanno rappresentato lo svolgimento della scultura del<br />
xx secolo, fino alla seconda guerra mondiale. Dalla premessa di carattere<br />
postimpressionista e liberty di Bistolfi e di Andreotti si passa attraverso le<br />
linee della figurazione (da Modigliani ad Arturo Martini, a Manzù) ad esempi<br />
di astrattismo.<br />
SCULTURA POSTBELLICA E CONTEMPORANEA<br />
Anche questa sezione, nella collezione, è folta. Esprime gli aspetti della scultura,<br />
particolarmente nella sua manifestazione in forme astratte, sia in Italia<br />
che negli altri Paesi, fino ad esempi di recupero della figurazione per arrivare<br />
ad alcune delle esperienze internazionali più recenti.<br />
20 21
Espressionismo<br />
23
Espressionismo<br />
Ernst Barlach<br />
(1870-1938)<br />
Frierende Alte, 1939, bronzo, cm<br />
23x16,5x18,5. Asta Dorotheum,<br />
Vienna, 31.5.2001. Lotto 46.<br />
A fianco<br />
Il cieco e lo zoppo, 1919; gesso. Asta<br />
Hauswedel & Nolte, Amburgo,<br />
9.6. 2001. Lotto 1026<br />
Una sosta in un piccolo villaggio di mugichi, schiavizzati<br />
dallo zarismo, nella Russia meridionale, fornirà il motivo<br />
ispiratore di tutta la sua ricerca, impostata, secondo i<br />
canoni dell’Espressionismo tedesco, sul tema del “selvaggio”,<br />
del “primigenio”, che egli scopriva nella dura<br />
vita degli umili, vessati dai potenti, dalla miseria, dalle<br />
ingiustizie sociali. Dichiarava: “In Russia ho sentito<br />
venirmi incontro, in forma adeguata, una vita in cui era<br />
contenuta ogni possibilità, la salvezza come l’infamia,<br />
la profondità come l’atrocità più tremenda. E mi sono<br />
precipitato in questo mare di forme...”. Aveva studiato<br />
all’Accademia di Dresda. Ha vissuto, dal 1910, quasi<br />
sempre a Güstrow, una piccola città quasi claustrale. Ha<br />
cercato di cogliere, col suo lavoro, il significato dell’uomo<br />
in qualcosa che fosse fuori del tempo, in luoghi particolari,<br />
pur non separando il suo concetto universale di uomo<br />
dal suo vivere nel presente. Le sue sono forme chiuse,<br />
compatte, quelle in legno in particolare, nette nel taglio,<br />
di una solennità che ci riporta a quella della scultura<br />
gotica tedesca e italiana (nel 1919 fu in Italia), che egli<br />
risolve in una sintesi di origine quasi cubista e nella forza<br />
dinamica, prorompente, dei suoi personaggi.<br />
Si riferisce spesso, nei suoi temi, a miti eroici nazionali<br />
(quello del Bersercher, lo Sterminatore è uno dei più<br />
ricorrenti), pur esprimendo, sempre, una profonda umanità,<br />
un senso di pietà per i deboli e gli oppressi. Durante<br />
il regime hitleriano fu messo al bando dai nazisti, che gli<br />
distrussero molte opere, come “artista degenerato”. È<br />
autore di alcuni monumenti ai caduti eseguiti tra gli anni<br />
Venti e Trenta (a Güstrow, 1923, a Magdeburgo, 1930).<br />
È anche autore di opere teatrali di carattere espressionista,<br />
tra le quali Der tote Tag (Il giorno morto, 1912), e Die<br />
Sundflut (Il diluvio universale, 1914).<br />
In mostra due opere: la prima Il cieco e lo zoppo, un bassorilievo<br />
in gesso del 1919, che mostra due figure drammaticamente<br />
dolenti, bloccate in una posizione contorta,<br />
la cui fatica è espressa nei rudi volti segnati, sbozzati con<br />
forza e dalla pesantezza delle masse; la seconda, Frierende<br />
Alte (Donna infreddolita), del 1939, un bronzo, l’immagine<br />
dolente di una donna accovacciata, la mani provate dai<br />
lavori più duri intrecciate in basso, sotto le ginocchia, il<br />
volto contratto in una muta espressione di dolore, chiusa<br />
in un blocco compatto, dai piani netti, simbolo drammatico<br />
di una rassegnazione senza speranza.<br />
24 25
Espressionismo<br />
Wilhelm Lehmbruck<br />
(1881-1919)<br />
A Parigi nel 1907-1908, e dal 1910 al 1914, esponeva<br />
al Salon della Société Nationale des Beaux-Arts. In<br />
contatto col gruppo di artisti tedeschi che studiavano,<br />
a Parigi, all’Académie Matisse; si avvicinava a Brancusi,<br />
Modigliani, Derain, Archipenko. Già da allora elaborava<br />
una sua idea di scultura che aspira a una compostezza<br />
formale (non gli è estranea la lezione di Maillol), nella<br />
levigata duttilità della superficie, tendendo a una sorta<br />
di trasfigurazione della figurazione reale che troverà, in<br />
Germania, una forte opposizione da parte degli esponenti<br />
del duro realismo del periodo nazista. Si aggiunge,<br />
nei suoi morbidi nudi, un vivo senso di linearismo che,<br />
in parte, si può riportare all’ascendente della sua cultura<br />
gotica. L’astrattezza, l’espressione come sospesa, assorta,<br />
delle sue figure, aggiunge loro un senso di aspirazione a<br />
elevarsi al di sopra del reale, un’aria di mistero, di spiritualismo<br />
che si trasmetteranno, in seguito, alla scultura<br />
tedesca non “di regime”.<br />
Allo scoppio della guerra lasciava Parigi per rifugiarsi<br />
a Duisburg. Lasciava poi la Germania per trasferirsi a<br />
Zurigo. Ma il triste periodo trascorso in patria, le atrocità<br />
della guerra nazista, lo segnavano profondamente, causandogli<br />
una grave depressione che lo condurrà al suicidio.<br />
La Germania gli ha dedicato il Wilhelm Lehmbruck<br />
Museum a Duisburg.<br />
La scultura in bronzo presente in mostra, Torso femminile<br />
del 1911, un bel torso di donna seduta, senza braccia, è<br />
un esempio pregevole della morbidezza, ma anche della<br />
linearità ascensionale della sua scultura, levigata, accarezzata<br />
dalla luce radente, che si compongono in dolce,<br />
assorta astrattezza, nella gentilezza del volto.<br />
Torso femminile, 1911;<br />
bronzo, h cm 69,5.<br />
Asta Hauswedell & Nolte,<br />
Amburgo, 9.6.2001. Lotto 1464.<br />
26 27
Espressionismo<br />
Rudolf Belling<br />
(1886-1972)<br />
Partito dallo studio di un disegnatore di moda, dal 1905<br />
al 1907, passava, a Berlino, alla Scuola di Arti Decorative<br />
teatrali “Max Reinhardt”. Seguiva anche, per un anno, le<br />
lezioni di Peter Breuer all’Accademia di Belle Arti. Nel<br />
suo lavoro parte da un’adesione ai moduli dell’Espressionismo<br />
tedesco per avvicinarsi al costruttivismo del russo<br />
Naum Gabo e al postcubismo di Archipenko. Facevano<br />
seguito dei lavori che, pur mantenendo la levigata plasticità<br />
a lui consueta, si volgevano verso l’astrattismo (Drei<br />
Klangs, Tre suoni, del 1919, ora alla Alte Neue Galerie di<br />
Berlino) che venivano, di mano in mano, abbandonando<br />
la morbidezza del passato, svolgendosi in acutezze, tagli,<br />
spirali. Nel 1920 era tra i fondatori del Novembergruppe<br />
(con Rudolph Bauer, Otto Freundlich, Max Pechstein).<br />
Realizzava allora grandi lavori ambientali, svolti in<br />
relazione con l’architettura (un esempio è l’opera per la<br />
Scala di Berlino, del 1920, una serie di forme in cemento<br />
che si chiudono in una spirale filiforme). Anche il suo<br />
lavoro, durante il nazismo, veniva inserito tra le opere di<br />
“arte degenerata”, così da costringerlo, nel 1937, a emigrare.<br />
Sembra che un suo lavoro, una testa femminile,<br />
abbia suggerito l’immagine della donna robot del film<br />
espressionista Metropolis di Fritz Lang del 1926.<br />
L’opera presente in mostra, Ritratto del mercante d’arte<br />
Alfred Fleichtheim, un piccolo bronzo del 1927, è un<br />
lavoro agile, ironico, di una grande maturità plastica, una<br />
sorta di silhouette del profilo, fortemente sintetizzato<br />
(quasi un segno grafico, elegantemente caricaturale,<br />
nello spazio) del mercante d’arte direttore, con Gustave<br />
Kahnweiler, della galleria omonima di Francoforte.<br />
Ritratto del mercante d’arte<br />
Alfred Fleichtheim, 1927;<br />
bronzo, h cm 19. Asta<br />
Sotheby, Londra, 27.6.2000.<br />
Lotto 181.<br />
28 29
Espressionismo<br />
Gehrard Marcks<br />
(1889-1981)<br />
Tra gli esponenti dell’Espressionismo tedesco, erede<br />
diretto di Barlach, era passato, come quasi tutti gli<br />
espressionisti, da una iniziale adesione allo Jugend, l’Art<br />
Nouveau nei paesi di lingua tedesca. Si faceva inizialmente<br />
conoscere per le sue <strong>sculture</strong> di animali che poi<br />
abbandonava per rivolgersi alla figura umana. Univa alla<br />
vena espressionista una tendenza al grottesco, quando<br />
realizzava figure di contadini dove l’ispirazione nordica<br />
si unisce a toni popolareschi, quali si notano nella<br />
piccola scultura in bronzo, presente in mostra, Veroneser<br />
Bauer, del 1935, che rappresenta, appunto, un lavoratore<br />
contadino. Chiamato da Gropius, nel 1920, a insegnare<br />
al Bauhaus di Weimar – dove, tra gli altri, insegnavano<br />
Klee, Schlemmer, Kandinskij – vi restava fino al 1925,<br />
quando la scuola si trasferiva a Dessau, per arrivare<br />
alla chiusura definitiva, a opera dei nazisti, a Berlino<br />
nel 1932. Anche le opere di Marcks furono inserite, dai<br />
nazisti, tra quelle “degenerate”.<br />
Veroneser Bauer, 1935; bronzo,<br />
cm 15,5x4. Asta Hauswedell<br />
& Nolte, Amburgo. 9.6.2001.<br />
Lotto 1504.<br />
30 31
Espressionismo<br />
Ewald Mataré<br />
(1887-1965)<br />
Studiava pittura a Berlino per passare, quasi subito, alla<br />
scultura. Le sue prime <strong>sculture</strong> si ispirano al mondo animale.<br />
Usa il legno, sfruttandone le forme e le venature.<br />
Ne risultano immagini forti, allo stesso tempo raffinate,<br />
legate a un mondo arcaico, trasfigurato. Inserito dai<br />
nazisti, nel 1933, tra gli autori di “arte degenerata”, era<br />
costretto all’esilio. Si dedicherà, da allora, all’arte sacra<br />
(Porte sud del Duomo di Colonia, 1947-1954). A Colonia<br />
realizzava anche la Fontana presso il Palazzo Vescovile.<br />
Tenterà, poi, un linguaggio più razionale, nel quale<br />
entrano, con maggiore evidenza, sezioni geometriche,<br />
come in questo Mathematikkuh I, un piccolo bronzo del<br />
1946, in mostra, sezionato in parti, che si dispongono in<br />
posizione quasi ritmica.<br />
Mathematikkuh I, 1946; bronzo,<br />
h cm 44. Asta Hausswedell & Nolte,<br />
Amburgo, 9.6.2001. Lotto 1511.<br />
32 33
Espressionismo<br />
Edwin Scharff<br />
(1887-1969)<br />
Studiava a Copenhagen, dove iniziava a lavorare e realizzava<br />
opere figurative legate alla scuola danese. Si univa<br />
poi a un gruppo di giovani artisti danesi De Tretten. Ma<br />
due eventi cambiarono la sua vita e il suo mondo espressivo:<br />
il suo viaggio a Parigi nel 1911, durante il quale scopriva<br />
la nuova arte francese, scontrandosi col Cubismo,<br />
al quale peraltro non si avvicinava, col suo lavoro, prima<br />
del 1917, in termini di semplici, chiare cristallizzazioni<br />
del Cubismo francese (sensibili anche nei confronti del<br />
Futurismo italiano). Il secondo avvenimento fu l’incontro<br />
con le opere astratte di Kandinskij, viste in una sua mostra<br />
a Malmö nel 1914 e che ispirarono molto del suo lavoro<br />
seguente. Durante la seconda guerra mondiale fu membro<br />
del Groningen. Durante gli anni Venti abbandonava<br />
la frammentazione ritmica dei suoi lavori e l’astrazione,<br />
per tornare a forme di impostazione classica dedicandosi<br />
ad opere monumentali commissionategli dal governo<br />
danese. Come riconoscimento del suo apporto all’arte<br />
moderna danese ebbe l’incarico di professore nella<br />
Scuola d’arte di Amburgo dal 1946.<br />
Questo piccolo bronzo del 1919, Pferd (Cavallo), sembra<br />
essere un lavoro a metà tra il suo momento astratteggiante<br />
e il suo ritorno alla figurazione: il lavoro ha ancora la<br />
rigidità di una sintetizzazione poscubista; si compenetra<br />
infatti completamente nella base, come un cavallinogiocattolo,<br />
in tutta la parte relativa alle gambe, con una<br />
rigida linearità.<br />
Pferd, 1919; bronzo, cm 10x18. Asta<br />
Hausswedell & Nolte, Amburgo,<br />
15.6.2002. Lotto n. 1643.<br />
34 35
Espressionismo<br />
Lorenzo Viani<br />
(1882-1936)<br />
Tra i pochi artisti italiani che si avvicinarono, in termini<br />
personali, all’Espressionismo tedesco e nordico,<br />
ne trasferiva le istanze anche nei suoi testi letterari,<br />
molti dei quali autobiografici. Frequentò saltuariamente<br />
(perché impegnato nei più umili mestieri) l’Istituto di<br />
Belle Arti di Lucca e l’Accademia di Firenze, dove fu<br />
allievo di Fattori. Si legava, a Viareggio, al gruppo anarchico<br />
Delenda Carthago, dove conobbe Pea, Ungaretti,<br />
Roccatagliata, Ceccardi.<br />
Sempre schierato con gli umili, gli oppressi, gli sfruttati,<br />
ne farà il tema della sua pittura. Anche la sua cultura<br />
letteraria si basava su testi nazionali di rivolta o di propaganda<br />
(da Dostoevskij, a Gorki, a Sue, Zola, Mirbeau,<br />
Bakunin, Tolstoi). A Parigi, dal 1906 al 1908, conosceva le<br />
opere di van Gogh, di Toulouse Lautrec, di Munch, degli<br />
espressionisti. Partecipò alle Secessioni romane (1913-<br />
1915). Realizzava, allora, alcune opere ispirate alla guerra.<br />
Non si interessò affatto al Futurismo, anche se negli anni<br />
Trenta aderiva a un certo sintetismo e alla frammentazione<br />
dell’immagine e si lasciò coinvolgere nelle ultime<br />
serate futuriste a Lucca e a Firenze, dove leggeva i suoi<br />
racconti.<br />
Profondamente legato alla Versilia ne esprimeva la<br />
drammaticità, la vena cupa, nella sua pittura asciutta,<br />
dai toni bassi, nelle sue donne in attesa dei pescatori<br />
spersi nella tempesta, nei suoi stupendi ritratti (si ricordi<br />
quello, superbo, La Perla, 1910-1912), impostati , spesso,<br />
contro un fondo di paesaggio innalzato ad altezza d’occhio,<br />
secondo la prospettiva “a cavaliere” della pittura<br />
fiamminga.<br />
In mostra Pazza, in bronzo, del 1930 (fusa nel 1980),<br />
una testa che egli realizzava ispirandosi ai drammi che<br />
vedeva in uno dei suoi frequenti ricoveri in ospedale, tra<br />
malati di mente. È un’opera modellata con forza e, allo<br />
stesso tempo, con grande delicatezza luministica e con<br />
dolente umanità, che esprime mirabilmente il dramma<br />
cieco della follia.<br />
Pazza, 1930/1980;<br />
bronzo, h cm 24.<br />
Fonderia Salvatori, Pistoia.<br />
36 37
Fauvismo<br />
39
Fauvismo<br />
André Derain<br />
(1888-1954)<br />
I suoi quadri fauves hanno inizio nel 1904. Traitd’union,<br />
nel gruppo dei Fauves (belve, termine dispregiativo<br />
coniato da Vauxelles, il critico del “Gil Blas”<br />
alla loro apparizione al Salon d’Automne del 1905,<br />
considerati, in certo senso, la versione mediterranea<br />
degli Espressionisti tedeschi, con intenzionalità interne<br />
al concetto del “fare pittura”, dell’esaltazione del colore,<br />
i Fauves, quanto, invece, di impostazione filosofica, esistenziale,<br />
gli espressionisti tedeschi), tra i quali Derain<br />
interpreta il paesaggio luminoso e solare delle rive della<br />
Senna e della campagna francese, tra Matisse, conosciuto<br />
all’Academie Carrière, e Vlaminck, col quale instaurava<br />
uno stretto sodalizio. Seguiva lui, infatti, quando si<br />
ritirava a lavorare a Chatoux, affascinato dalla sua natura<br />
violenta, appassionata, piuttosto che Matisse, che amava<br />
la ricerca attenta, speculativa, sperimentale, di una rara<br />
intensità, sempre in bilico tra istinto e cultura, tra passione<br />
e contemplazione. I lavori di Derain interpretano un<br />
paesaggio impastato di colore e di luce, le nature morte<br />
che si riportano alle volumetrie compatte di Cézanne,<br />
la figura umana in rapporti dissonanti di colori piatti<br />
(Tre figure in un prato, 1906-1907). Si pensi anche al suo<br />
straordinario Donna in camicia (1906), l’opera forse più<br />
vicina, tra quelle dei Fauves, all’Espressionismo tedesco<br />
per la forza espressiva, per i contrasti dei colori piatti,<br />
per il gioco dei rapporti cromatici, di un sensualismo<br />
intenso e aspro.<br />
In mostra due opere, Placca con fugure e fiori, una piccola<br />
piastra rettangolare in bronzo, in rilievo una figuretta,<br />
quasi un piccolo elfo silvestre, con un grande fiore<br />
accanto, e una Piccola testa, pure in bronzo, che termina<br />
con la fine netta del collo, dall’espressione quasi smarrita<br />
nel fondo cavo oculare, morbidamente modellata, solcata<br />
dalla luce.<br />
Piccola testa, s.d.; bronzo, h cm<br />
14. In 21 esemplari. Asta Saint-<br />
Germain en Laye, 24.3.2002.<br />
Lotti 398 e 410.<br />
A fianco<br />
Placca con figure e fiori, s.d.; bronzo,<br />
h cm 13. In 15 esemplari.<br />
40 41
Cubismo<br />
43
Cubismo<br />
Pablo Picasso<br />
(1881-1973)<br />
La collezione Bertini comprende, di Picasso, una piccola<br />
statuetta di Donna seduta del 1964, in vetro soffiato blu<br />
realizzata nella Fucina degli angeli, la famosa vetreria di<br />
Egidio Costantini a Venezia, presso S. Marco che, in un<br />
momento particolare della cultura artistica, quando si<br />
cercava di coinvolgere gli artisti nella sperimentazione di<br />
nuove tecniche allo scopo di sollecitare il rinnovamento<br />
delle arti cosiddette “applicate” (fino a poco tempo<br />
prima si parlava di “arti minori”), chiamava alcuni tra<br />
i più grandi artisti, da Picasso a Braque, da Ernst a<br />
Chagall, da Calder a Vedova, nell’intenzione di riportare<br />
l’arte vetraria ai fasti che aveva raggiunto nei tempi antichi.<br />
In questo tentativo di “riabilitazione” si erano mossi<br />
molti altri settori, da quello della ceramica (e si pensi<br />
a tutte le straordinarie ceramiche create, appunto, da<br />
Picasso a Vallauris, alle porcellane Rosenthal di Moore<br />
e di Arp), a quello del gioiello, col “gioiello d’artista”<br />
nel quale molti artisti si sono cimentati, soprattutto dagli<br />
anni Cinquanta.<br />
Per quanto riguarda il vetro veneziano il tramite fu<br />
Peggy Guggenheim. Ma ricordiamo quanto abbiano<br />
contribuito al rinnovamento dell’arte vetraria anche gli<br />
architetti Le Corbusier e Scarpa. Gli artisti trovavano nel<br />
materiale e nella tecnica vetraria (nuove per loro), stimoli<br />
per la creazione di nuove forme. Picasso realizzava,<br />
allora, un gran numero di <strong>piccole</strong> <strong>sculture</strong> in vetro, delle<br />
quali, la maggior parte, fecero parte della collezione di<br />
Peggy Guggenheim.<br />
L’altro lavoro presente in mostra è Petit buste de femme,<br />
del 1964, in terracotta incisa, prezioso perché reca una<br />
impronta originale di Picasso, trattato, peraltro, in modo<br />
abbastanza realistico, lontano, ormai, dalla sua ricerca<br />
cubista.<br />
Petit buste de femme, 1964; terracotta,<br />
cm 33x25. Madaura plein feu.<br />
Esemplare 79/100. Archivio 523.<br />
Donna seduta, 1969; vetro soffiato,<br />
h cm 17. Vetreria Costantini,<br />
Venezia, esemplare 2/3.<br />
Asta Sotheby, Londra, 24.10.2001.<br />
Lotto 230.<br />
44 45
Cubismo<br />
Fernand Léger<br />
(1881-1955)<br />
Dapprima disegnatore presso un architetto, poi ritoccatore<br />
da un fotografo, influenzato da Cézanne (di cui<br />
aveva visto una retrospettiva al Salon d’Automne, a<br />
Parigi, nel 1907), aderiva, superando le ultime reminiscenze<br />
postimpressioniste, al Cubismo sintetico, la<br />
seconda fase del Cubismo, attraverso il quale esprimeva<br />
un suo vigoroso materialismo, prendendo come punto di<br />
riferimento il macchinismo della vita moderna. Si è sempre<br />
considerato, come tutti i Cubisti, un realista, anche<br />
se le sue figure sembrano piuttosto robot meccanici, carichi<br />
di forza. Nella sua ricerca di dinamismo, lavorò sul<br />
contrasto di elementi dinamici tra i quali si inserivano,<br />
nei suoi grandi quadri, i volumi cilindrici dei personaggi<br />
e degli oggetti (i famosi “tubi” che gli conferirono la<br />
denominazione di “tubista”), trattati allo stesso modo,<br />
conferendo alle opere un’impronta monumentale. Di<br />
ritorno, nel 1914, dalla prima guerra mondiale, si allontanava<br />
dal Cubismo. Nei suoi ultimi anni predilesse una<br />
pittura murale di grande impianto (Mosaico per la facciata<br />
della Chiesa di Assy, nella Savoia, 1946-1949; quello<br />
per il Memoriale di Bastogne, Belgio, 1950). Realizzò<br />
arazzi, vetrate, scenografie (scene per il film L’Inhumaine<br />
di Marcel L’Herbier, 1923; regia del film Le ballet<br />
Mécanique, 1924), ceramiche (Decorazioni nella chiesa<br />
di Audincourt, Doubs, 1951); decorò la sala grande del<br />
Palazzo delle Nazioni Unite (New York, 1952), l’Ospital<br />
Memorial di Saint-Lo, 1955. “L’elemento meccanico”<br />
ha dichiarato “non è per me un partito preso, un’attitudine,<br />
ma un mezzo”.<br />
In questa mostra un bassorilievo in bronzo, Due figure,<br />
del 1952, che sembrano frantumarsi nei particolari, trattati<br />
in maniera sintetica (vien da pensare, nel particolare<br />
di una mano, nella forma a occhio in lato a destra, a<br />
Guernica di Picasso), nei piani sovrapposti e piatti come i<br />
colori nella sua pittura.<br />
Due figure, 1952; bassorilievo in<br />
bronzo, cm 43x36. Asta Sotheby,<br />
Londra, 27.6.2001, Lotto 251.<br />
46 47
Cubismo<br />
Alexander Archipenko<br />
(1887-1964)<br />
Studiava matematica e pittura a Kiev, e si dedicava alla<br />
scultura esponendo il suo lavoro già dal 1905. A Parigi<br />
dal 1910, alla Ruche, dove già vivevano molti artisti di<br />
diversi paesi, conosceva, tra gli altri, Modigliani e Léger.<br />
Diverrà poi amico anche di Giacometti. Già lavorava<br />
secondo una linea di astrazione che, seppure molto<br />
personale, lo avvicinava al Cubismo e, per la dinamicità,<br />
al Futurismo.<br />
Usava già materiali diversi, dal vetro, al legno, al metallo<br />
in opere policrome che definiva “sculto-pitture” e che<br />
esponeva spesso coi futuristi.<br />
Il suo lavoro si distingue per il contrasto di linee rette,<br />
di linee curve, verticali, oblique e per la compresenza di<br />
forme concave e convesse, come nella scultura in bronzo,<br />
Figura femminile, del 1917, presente in mostra: una<br />
immagine lineare, dove il riferimento antropomorfo è<br />
evidente, pur nell’estrema astrattizzazione dell’immagine<br />
femminile, che pure risulta di un’estrema raffinatezza<br />
e grazia, nel gioco delle linee rette e curve, di concavo e<br />
convesso nei due seni, nella morbida ondulazione della<br />
capigliatura, ridotta a una striscia mossa, nel netto avanzare<br />
del ginocchio.<br />
Nel 1923 Archipenko si trasferiva negli Stati Uniti, dove<br />
insegnava in varie Università americane (da Washington<br />
a New York a Kansas City), acquisendo una fama internazionale<br />
crescente.<br />
Figura femminile, 1917;<br />
bronzo, h cm 40. Acquisita dallo<br />
scultore Kurt Metzler.<br />
48 49
Cubismo<br />
Raymond<br />
Duchamp-Villon<br />
(1876-1918)<br />
Fratello di Marcel Duchamp e di Jacques Duchamp (che<br />
sarà membro della Section d’Or, quella linea particolare,<br />
tra cubista e postimpressionista considerata anche, con<br />
l’Orfismo, la terza sezione del Cubismo) si dedicava alla<br />
scultura da autodidatta, partendo da Maillol e Rodin.<br />
Superava, peraltro, il luminismo di superficie di Rodin<br />
col suo Torse de jeune homme (1910) attingendo a una<br />
stilizzazione geometrica del reale scandita in piani e in<br />
volumi geometrici che si incastrano. Nel 1911, con i due<br />
fratelli e altri artisti creava il Gruppo di Puteau. In guerra<br />
come infermiere, si ammalava di tifo e moriva, nel 1918,<br />
in un ospedale di Cannes.<br />
Tra i suoi lavori Tête de Baudelaire (1911), Femme assise<br />
(1914) e Cheval, il suo lavoro più noto, come serrato in<br />
fasce muscolari bronzee e come ritmato nello sfaldarsi<br />
geometrico delle parti.<br />
In mostra Yvonne, tête de jeune fille, una piccola testa (il<br />
ritratto della moglie, formato in terracotta nel 1907-1908,<br />
fuso in bronzo nel 1909), di poco anteriore, nella fattura,<br />
all’impostazione che l’artista assumerà subito dopo, tra<br />
cubista e futurista. Questa piccola testa è ancora legata<br />
a una figurazione dal tratto fermo, compatto nella resa<br />
della superficie.<br />
Yvonne, tête de jeune fille, 1909;<br />
bronzo, h cm 31. Asta Sotheby,<br />
Londra, 27.6.2001. Lotto 242.<br />
50 51
Cubismo<br />
Julio Gonzales<br />
(1876-1942)<br />
Impegnato politicamente nelle problematiche del suo<br />
paese (e non si può ignorarlo vedendo la sua splendida<br />
scultura La Montserrat del 1937, riferita alla nota<br />
“pasionaria” della guerra civile spagnola), a Parigi dal<br />
1900, legato a Picasso col quale ha lavorato, aderiva,<br />
in maniera autonoma, al Cubismo, guardando anche al<br />
“dinamismo simultaneo” e al “complementarismo congenito”<br />
del Futurismo di Boccioni. Fece uso, tra i primi<br />
(l’altro era lo scultore Gargallo) del ferro saldato in luogo<br />
della fusione. Un esempio ne è proprio La Montserrat.<br />
Realizzava maschere in ferro sbalzato e saldato, che<br />
definiva “rechazadas”, usando una tecnica che, negli<br />
anni Trenta, egli trasmetterà a Picasso. Dopo la morte<br />
del fratello Juan, che lo segnò fortemente, abbandonò la<br />
scultura per lavorare, durante la prima guerra mondiale,<br />
nel reparto Saldature autogene della Renault. Nel 1927,<br />
tornato alla scultura, aderiva alle linee costruttiviste di<br />
Cercle et Carré, per volgere poi verso il Surrealismo, realizzando<br />
lavori di grande intensità poetica e drammatica,<br />
come l’opera cui si è accennato, e “inventando” figure<br />
fotogeomorfiche, intese quasi come una nuova forma<br />
di realtà.<br />
L’opera in mostra, Barbe et Moustache, un bronzo del<br />
1933-1934 è un esempio interessante di quelle “maschere”<br />
che definiva “rechazadas”, qui, peraltro, fusa in<br />
bronzo, lavoro di una sintesi fortemente espressiva, nel<br />
trattamento mosso della superficie, nella forma grezzamente<br />
e fortemente sagomata, non priva di una ironia<br />
un po’ rude.<br />
Barbe et Moustache, 1933-1934;<br />
bronzo, cm 20,5x10,5. Esemplare<br />
2/8. Galleria Manuel Barbie,<br />
Barcellona.<br />
52 53
Cubismo<br />
Henri Laurens<br />
(1885-1954)<br />
Pittore e scultore, aderiva al Cubismo dopo aver conosciuto,<br />
nel 1911, Georges Braque. Esprime, in scultura,<br />
una dinamica spazio-temporale vicina all’ideologia<br />
futurista, attraverso la moltiplicazione e una sorta di<br />
slittamento della struttura, per cui usa materiali vari, dal<br />
legno al marmo al bronzo, fino a ottenere un equilibrio<br />
perfetto tra volumi, ombra, luce, dando ai suoi lavori, di<br />
impianto figurativo, un senso di astrazione dinamica. La<br />
sua dichiarazione, “secondo me un’opera d’arte deve<br />
proiettare la sua luce e non prenderla da fuori” indica<br />
il suo tendere (non sempre, peraltro, raggiunto) a uscire<br />
dal blocco compatto della scultura, per attingere a una<br />
soluzione più aperta e libera. Laurens ottenne, tra l’altro,<br />
il Primo Premio alla Biennale d’Arte Contemporanea di<br />
San Paolo.<br />
La piccola opera qui esposta, Figure à la draperie, debout,<br />
del 1929, in ceramica, è una figura di donna poderosa e<br />
allo stesso tempo morbida, svolta per piani, che tiene<br />
aperto, dietro di sé, un mantello pesante, la cui morbidezza<br />
si esprime attraverso angolature curve e pieghe<br />
ritmiche. Il lavoro risente fortemente di un’adesione<br />
sia alla ricerca sull’arte primitiva, sia all’ideologia cubista<br />
nel trattamento netto dei piani, nella dilatazione<br />
della forma, nella sintesi rigorosa della composizione,<br />
riuscendo, peraltro, a mantenere una sua grazia quasi<br />
commovente.<br />
Figure à la draperie, debout, 1929;<br />
terracotta, h cm 9. Esemplare 2/7.<br />
Asta Sotheby, Londra, 27.6.2001,<br />
Lotto 157.<br />
54 55
Cubismo<br />
Ossip Zadkine<br />
(1890-1967)<br />
Tra gli scultori cubisti, a Parigi dal 1909, vi studiava la<br />
scultura negra, allora di gran voga e riferimento costante<br />
non solo dei cubisti (si pensi alle Demoiselles d’Avignon di<br />
Picasso ma anche a certe opere di Ernst).<br />
Zadkine tendeva, nella sua scultura, a liberare la forma<br />
da ogni riferimento classico, attribuendole, invece, un<br />
significato simbolico. “Solidità della forma, corporeità dei<br />
volumi, equilibrio tra il peso atmosferico e le sostanze<br />
solide [...]. L’oggetto reale che si cancella davanti al nuovo<br />
senso della materia, e che perde il suo valore come documento,<br />
elemento disorganizzatore dell’insieme compositivo”<br />
ha scritto.<br />
In mostra Baigneuse, un bronzetto del 1960, l’immagine<br />
di una donna uscita dal bagno, sdraiata al sole, che ha<br />
perso tutta la sua consistenza e la sua compattezza carnale,<br />
come svuotata delle viscere attraverso i tagli aperti<br />
che ne solcano tutto il corpo, quasi matrice da riempire<br />
nel suo interno vuoto, dove l’adesione al Cubismo non<br />
si realizza nell’assemblaggio ritmico delle parti, ma<br />
attraverso questo totale svuotamento, “oggetto reale che<br />
si cancella” come Zadkine ha scritto “davanti al nuovo<br />
senso della materia”, che ha perso tutta la sua densità<br />
per ridursi a un guscio di cui solo il gesto rimane.<br />
Baigneuse, 1960; bronzo patinato<br />
verde, cm 21x40x18. Asta Mercier<br />
& Co., Lille. 16.12.2001.<br />
Lotto 522 bis.<br />
56 57
Futurismo<br />
59
Futurismo<br />
Fortunato Depero<br />
(1892-1960)<br />
Pappagallo, 1916-1917; legno<br />
dipinto, h cm 23. Asta Sotheby,<br />
Milano, 30.5.2001. Lotto 297<br />
Tra i più vivaci esponenti del Secondo Futurismo. Lasciava<br />
gli studi classici per dedicarsi all’attività artistica. A Roma dal<br />
1913, già nel 1914 enunciava le premesse del Motorumorismo<br />
plastico. Inizialmente dedito alla pittura, realizzava opere<br />
astratte, svolte per grandi campiture piatte, dal colore acceso.<br />
Nel 1915, con Balla, firmava il Manifesto della Ricostruzione<br />
futurista dell’Universo. Di una vitalità e di una creatività<br />
irrefrenabili, secondo una particolare angolazione, quella<br />
del gioco e dell’ironia, abbastanza rara nei futuristi, si dedicava<br />
alla pittura, all’arredo, alla scenografia, alla pubblicità;<br />
realizzava automi, marionette, giocattoli, <strong>sculture</strong> cinetiche,<br />
arazzi. Nel manifesto, in un brano dedicato proprio al gioco,<br />
si legge: “Per mezzo di complessi plastici noi costruiremo<br />
dei giocattoli che abitueranno il bambino: 1. A RIDERE<br />
APERTISSIMAMENTE (per effetto di trucchi esagerati<br />
e buffi); 2. ALL’ELASTICITÀ MASSIMA; 3. ALLO<br />
SLANCIO IMMAGINATIVO (mediante giocattoli fantastici<br />
da vedere con lenti; cassettine da aprirsi di notte da cui scoppieranno<br />
meraviglie pirotecniche, congegni di trasformazione ecc.);<br />
4. A TENDERE INFINITAMENTE AD AGILIZZARE<br />
LA SENSIBILITÀ (nel dominio sconfinato dei rumori, odori,<br />
rumori più acuti, più eccitanti)”. Volontario in guerra, tornava<br />
a Roma riformato. Componeva nel 1916 canzoni rumoriste<br />
e poesie usando un linguaggio di sua invenzione, “l’onomalingua”.<br />
Si dedicava, allora, alla realizzazione di figure-manichino<br />
antropomorfe, costruite sulla geometria elementare.<br />
È il periodo dei Balli plastici, una particolare forma di teatro<br />
sperimentale, nel quale gli attori sono sostituti da marionette<br />
in legno (si ricordi, a questo proposito, la Supermarionetta di<br />
Appia). A questo periodo è riconducibile il lavoro presente in<br />
mostra, Pappagallo (1916-1917), un gustosissimo giocattolo in<br />
legno, dai colori accesi, ricco di carattere. Progettava, tra l’altro,<br />
le scene e i costumi “plastici-mobili” per Il canto dell’usignolo<br />
di Strawinskij, su incarico di Diaghilev, che fu esposto alla<br />
Prima Biennale Internazionale di Arti Decorative a Monza<br />
nel 1923. Realizzava i costumi disegnati da Picasso per<br />
Parade, per il balletto Giardino zoologico di Diaghilev. Dal 1920<br />
a Rovereto, realizzava una Casa per l’Arte e, nel 1924, il balletto<br />
meccanico Anihccam del 3000 per la Compagnia del Nuovo<br />
Teatro Futurista al Trianon di Milano. Nel 1929 firmava,<br />
con Marinetti, Balla, Prampolini, Fillia, Benedetta, Somenzi,<br />
Tato, Rosso, il Manifesto dell’aeropittura. Sperimentava sempre<br />
nuove tecniche secondo il mutare delle tecnologie con una<br />
infaticabile energia. Rovereto gli ha dedicato un importante,<br />
organizzatissimo museo.<br />
60 61
Futurismo<br />
Gino Severini<br />
(1883-1966)<br />
Danzatrice in punta di piedi, 1962;<br />
bronzo, h cm 35. Famiglia Severini,<br />
tramite Galleria La Scaletta, S.<br />
Polo d’Enza.<br />
Dopo aver conosciuto a Roma, nel 1897, Boccioni e Balla,<br />
che lo iniziava al Divisionismo, che allora egli seguiva a<br />
Parigi, nel 1910 era tra i firmatari dei manifesti della pittura<br />
futurista e, vivendo a Parigi, si poneva come tramite tra il<br />
Cubismo e il Futurismo. Amico di tutti gli artisti cubisti,<br />
sposava la figlia dello scrittore Paul Fort. Nel 1914 pubblicava<br />
un suo Manifesto sull’arte (“Noi vogliamo racchiudere<br />
l’universo nell’opera d’arte. Gli oggetti non esistono più”:<br />
ne era l’inizio). Era il periodo dei suoi quadri sulle “analogie”<br />
(Ballerina + mare; Danzatrice + mare + mazzo di fiori).<br />
Attraverso questi lavori si avvicinava al concetto di “durata”<br />
del filosofo Bergson, filtrato attraverso Marinetti, contraria,<br />
in certo senso, alla scansione ripetitiva, spazio-temporale<br />
di Balla e alla fotodinamica di Anton Giulio Bragaglia.<br />
Scriveva: “Esistono due specie di ‘analogie’: le ‘analogie<br />
reali’ e le ‘analogie apparenti’. Per esempio: ‘Analogie<br />
reali’: il mare con la sua danza sul posto, movimenti di<br />
zig zag e contrasti scintillanti di argento e smeraldo evoca<br />
nella mia sensibilità plastica la visione lontanissima di<br />
una danzatrice coperta di paillettes smaglianti nel suo<br />
ambiente di luce, rumori e suoni. Perciò mare=danzatrice,<br />
‘Analogie apparenti’: l’espressione plastica dello stesso<br />
mare che per analogia reale evoca in me una danzatrice<br />
mi dà, al primo sguardo, la visione di un gran mazzo di<br />
fiori. Queste ‘analogie apparenti’, superficiali, concorrono<br />
ad intensificare il valore espressivo dell’opera plastica. Si<br />
giungerà a questa realtà: mare=danzatrice=mazzo di fiori”.<br />
Scrive Maurizio Calvesi che Severini sembra sostituire la<br />
leggerezza e il brio alla foga di Boccioni e alla densità di<br />
Carrà; lo sviluppo ritmico dei suoi lavori, il loro andamento<br />
musicale, il gioco delle rifrazioni fa sì che essi acquistino<br />
una qualità particolare e che si trasformino in una sorta di<br />
simboli cromatici. Dopo la prima guerra mondiale, a Parigi,<br />
il lavoro di Severini volgeva verso il Cubismo sintetico e,<br />
di seguito, verso le linee del nuovo classicismo europeo<br />
del “ritorno all’ordine”. Affreschista, mosaicista, ritornava,<br />
nei suoi ultimi anni, a moduli futuristi. Nel 1952 avrebbe<br />
ricostruito il suo notissimo lavoro, La danza del pan pan al<br />
Monico del 1910-1912, andato distrutto durante la guerra.<br />
Appartiene alla collezione Bertini questa piccola scultura,<br />
Danzatrice in punta di piedi del 1962, nella quale l’artista<br />
traspone in scultura le leggi del dinamismo futurista e la<br />
scansione dei piani di riferimento cubista che ha usato<br />
sempre nella pittura, mantenendo quel brio, quella foga,<br />
quell’andamento musicale di cui scriveva Calvesi.<br />
62 63
Futurismo<br />
Mino Rosso<br />
(1904-1963)<br />
Membro del gruppo secondo-futurista torinese, ha lavorato<br />
a una sua particolare versione del dinamismo plastico<br />
di Boccioni, che si collega alle esperienze plastiche<br />
cubiste e costruttiviste internazionali (che vanno da<br />
Archipenko a Belling, a Lipchitz, a Zadkine, a Laurens<br />
a Duchamp-Villon). La sua scultura si propone dapprima<br />
come una sintesi plastica di carattere geometrico, ispirata<br />
all’ideale meccanicistico futurista ma anche a una compatta<br />
strutturazione plastica, per arrivare a una formatività<br />
architettonica della scultura. Scriveva Fillia a proposito<br />
di una tra le opere più note di Rosso, Lottatori: “La<br />
fusione dei due atleti assume un’audace forma spiralica,<br />
strappandosi cioè definitivamente al peso dell’anatomia<br />
terrestre, per entrare nel campo dello stato d’animo”.<br />
Di Mino Rosso anche molte opere in ceramica, che realizzava<br />
presso il laboratorio di Tullio d’Albisola. Uno dei<br />
suoi interessi era anche l’arredamento.<br />
In mostra Piani architettonici di una testa, del 1931, un<br />
bronzo compatto e allo stesso tempo dinamico, che<br />
scompone l’immagine figurale di una testa in volumi<br />
mossi, in blocchi prismatici, di forte impatto.<br />
Piani architettonici di una testa,<br />
1931; bronzo, h cm 47, 6 esemplari.<br />
Galleria Narciso, Torino, con<br />
autentica della sorella Luigia<br />
Rosso.<br />
64 65
Dada<br />
67
Dada<br />
Autoritratto, 1971; bronzo, cm 33x9,5.<br />
Numerato 4/8. Pubblicato<br />
in catalogo della mostra alla<br />
Fondazione Maeght, Saint-Paul de<br />
Vence. Asta Farsetti Arte, Prato,<br />
25.5.2001, Lotto 302.<br />
Man Ray<br />
(1890-1976)<br />
Con Duchamp tra i promotori del movimento Dada.<br />
Iniziava come apprendista decoratore in una fabbrica<br />
di manici d’argento per bastoni e ombrelli; passava poi<br />
a uno studio di pubblicità, a uno di carte geografiche e<br />
di atlanti. Intanto frequentava, a New York, la Galleria<br />
291, del fotografo Stieglitz (che, nel 1913, con l’Armory<br />
Show, aveva portato a New York il meglio dell’arte europea)<br />
e iniziava la sua professione di fotografo.<br />
Arensberg gli presentò, una domenica, in campagna,<br />
Duchamp, che veniva da Parigi (e non parlava inglese,<br />
come Man Ray non parlava francese... Ne uscì solo,<br />
da entrambi, la parola “yes”...). Ma divennero amici<br />
dal 1915, e, con Arensberg, fondarono la Society of<br />
Indipendent Artists. Man Ray tentava allora, con la fotografia,<br />
la rappresentazione del movimento (Danzatrice<br />
di corda che si accompagna con le sue ombre e Revolving<br />
Doors). Nel 1911 iniziava a usare l’aerografo. Fotograferà,<br />
nel 1920, a Parigi, il Grande Vetro di Duchamp, che era<br />
stato a lungo esposto alla polvere, realizzando Élevage de<br />
poussière, e, per fotografarlo, creò l’assemblage L’Enigme<br />
d’Isidore Ducasse, uno dei suoi lavori più importanti,<br />
omaggio ironico-sentimentale al mito sadico-onirico di<br />
Lautréamont (Isidore Ducasse), “beau comme la rencontre<br />
fortuite sur una table de dissection d’una machine<br />
à coudre et un parapluie” [Bello come l’incontro<br />
casuale, su un tavolo di dissezione, di una macchina da<br />
cucire e un ombrello], è il testo di Lautréamont]). È tra<br />
i suoi primi lavori sull’occultamento.<br />
Portava, alla sua prima mostra alla Librairie Six, di<br />
Soupault, a Parigi (1921), il suo primo oggetto dadaista<br />
e il suo primo ready-made “modificato”, Cadeau (nei<br />
ready-made di Duchamp non ci sono mai interventi):<br />
un ferro da stiro percorso, sulla piastra, da una fila verticale<br />
di chiodi. Del 1922 è la scoperta del rayograph,<br />
ottenuto disponendo direttamente alcuni oggetti sulla<br />
carta sensibile e dandole luce. Nello stesso periodo, e<br />
indipendentemente l’uno dall’altro (e in settori e linee<br />
artistiche diverse), Christian Schad (con le Schadograph)<br />
e Vasarely (con i “fotogrammi”) raggiungevano lo stesso<br />
risultato. Del 1923 è il suo primo film Retour à la raison,<br />
ottenuto col rayograph.<br />
Pittore, fotografo, creatore di oggetti dadaisti (readymade<br />
“rettificati”), scrittore e narratore (Self Portrait),<br />
Man Ray si muove nell’ambito dell’arte come un gioco-<br />
68 69
liere, con una continua esplosione di idee, manipolatore<br />
di diversi strumenti allo stesso tempo.<br />
Tra i suoi più noti ready-made “rettificati” (o modificati),<br />
Perpetuel Motif (o Objet à détruire, 1923), un metronomo<br />
con un occhio che ci guarda), Le violon d’Ingres (1924,<br />
il nudo di schiena di Donna Lacour, la sua prima moglie,<br />
sul quale poggiano due grandi chiavi di violino simmetriche).<br />
Ha sempre lavorato sul paradosso, sul controsenso,<br />
per puro gioco mentale, sempre con allusività ironica,<br />
critica, sul filo del non-sense, il cui significato diretto<br />
sembra sfuggire, mentre ne emerge un senso segreto,<br />
irrazionale, in un gioco continuo tra “ragione” e “intelletto”.<br />
Nel 1940, poco prima dell’occupazione nazista di<br />
Parigi Man Ray fuggiva prima a Lisbona, poi a New York<br />
e a Hollywood. Tornò a Parigi solo nel 1954.<br />
In collezione Bertini un piccolo Autoritratto in bronzo,<br />
del 1971, del tutto realistico (probabilmente realizzato<br />
in calco), che l’autore sembra considerare una sorta di<br />
ready-made (l’oggetto trovato è lui stesso), che egli<br />
“rettifica” con un paio di elaboratissimi e ironici occhiali<br />
“sbarrati”.<br />
Surrealismo<br />
70 71
Surrealismo<br />
Cher Bibi, 1973-1975; bronzo,<br />
h cm 33. 175 esemplari.<br />
Galleria Luigi Maino, Milano.<br />
Max Ernst<br />
(1891-1976)<br />
Tra gli esponenti più importanti e più creativi delle<br />
avanguardie storiche irrazionaliste, incontrava, nel 1911,<br />
August Macke, membro del Blaue Reiter – il movimento<br />
fondato a Monaco da Kandinskij in quello stesso anno<br />
– ed entrava, con lui, nel gruppo Das Junge Rheiland.<br />
Nel 1913, dopo l’incontro con Apollinaire, si trasferiva<br />
a Parigi. Al fronte dal 1914 al 1918, veniva ferito due<br />
volte. Tornato in Germania fondava a Colonia, nel<br />
1919, un centro Dada, il W/3 West Stupidia, e pubblicava<br />
“Der Ventilator”, una rivista filocomunista che<br />
sarà vietata dalle autorità, e “Bulletin D”. Nel 1920<br />
usciva “Fatagaga”, l’insieme dei lavori svolti con Arp e<br />
Baargeld, definiti Tableaux Garantis Gazométriques, rivolti<br />
all’ignoto, al magico, all’inconscio. Alla sua partenza da<br />
Parigi aveva fine il movimento Dada di Colonia. Di<br />
questo periodo sono alcuni dei suoi lavori più importanti:<br />
L’Eléphant Célèbes (1921), Oedipus Rex (1921), esempi<br />
della sua figurazione basata sull’assurdo, ma anche della<br />
sua attenzione nei confronti delle arti esotiche.<br />
Dal 1924 in Estremo Oriente, dava inizio alla tecnica del<br />
“frottage” (che otteneva passando ripetutamente una<br />
matita su una carta sovrapposta a un lavoro in rilievo),<br />
equivalente, per lui, alla “scrittura automatica” surrealista.<br />
Seguiranno i Jardins gobe avions (1935), le Jungles<br />
(1936), La femme sans tête, il primo esempio di utilizzo<br />
di una imagerie popolare ottocentesca, nel collage di un<br />
romanzo figurato, cui seguirà Une semaine de bonté, una<br />
sorta di assemblage astratto di “tasselli” figurativi. Nel<br />
1938 Ernst abbandonava il gruppo surrealista. Fu internato<br />
come “straniero nemico” durante la seconda guerra<br />
mondiale, vicino ad Avignone. Continuava, in seguito, il<br />
lavoro secondo la sua consueta bipolarità, una figurazione<br />
concettuale-simbolica, lucida, con una tecnica come<br />
smaltata, come ne La vestizione della Sposa (1939), e quella<br />
più astratta, inquieta, stravolta. Dal 1944 si dedicava<br />
anche alla scultura, secondo una intenzionalità totemica,<br />
di carattere surrealista.<br />
In mostra Cher Bibi, un piccolo bronzo del 1973-1975,<br />
un fortunato esempio del suo lavoro scultoreo, un bassorilievo<br />
rettangolare con una ironica testina che mostra<br />
la lingua. La lastra poggia, a mezzo di zampette tridimensionali<br />
su una base-struttura con due semisfere di<br />
diversa grandezza, rovesciate una sull’altra.<br />
72 73
Surrealismo<br />
Salvador Dalì<br />
(1904-1989)<br />
A Madrid negli anni Venti, si avvicinava al gruppo surrealista<br />
e iniziava la sua collaborazione con Luis Buñuel<br />
per il film Un chien Andalou, che i due finiranno a Parigi.<br />
Tornato in Catalogna riceveva la visita dei surrealisti<br />
parigini. La moglie del poeta Eluard, Gala, da questo<br />
momento resterà con Dalì, dedicandogli la sua vita,<br />
riuscendo a guidare la sua “paranoia critica” verso l’arte.<br />
Egli considerava la pittura strumento di liberazione<br />
dalle sue allucinazioni. Con Gala visse a Cadaquès, un<br />
villaggio di pescatori presso Lligat, dove aveva acquistato<br />
una casupola che in seguito ampliò collegandola, con<br />
passaggi nelle pareti, con altre case che di mano in mano<br />
acquistò, fino all’ultima cellula (acquistata nel 1961), la<br />
Sala dell’Uovo (di Leda), dedicata a Gala, protagonista<br />
di quasi tutti i suoi quadri più “classicheggianti”. Gli<br />
altri temi di Dalì sono stati gli “oggetti molli”, come i<br />
suoi Orologi molli (1931; 1933), simbolo della degenerazione<br />
continua della realtà; le immagini metamorfiche,<br />
spettri del desiderio e dell’ossessione erotica, mostri<br />
distruttivi come la guerra. E, inoltre, il tema della doppia<br />
immagine, come ne L’uomo invisibile (1929), Il mercato<br />
degli schiavi, dove il busto di Voltaire appare all’interno<br />
di un’altra immagine. Fuggito negli Stati Uniti durante<br />
la guerra civile spagnola, nel 1936, vi otteneva, con le<br />
sue continue trovate, un grande successo. Si rifugerà in<br />
seguito a Parigi e in Italia. Era di nuovo negli Stati Uniti<br />
durante la seconda guerra mondiale. Ha illustrato anche<br />
La Divina Commedia. Si è divertito a scrivere a rovescio<br />
I centoventi giorni di Sodoma di Lautréamont (De Sade).<br />
Ha scritto La vie secrète de Salvador Dalì (1942), Le journal<br />
du gêne (1966). Illustrava, nel 1966, La Bibbia, le Poesie di<br />
Mao Tze Tung e di Apollinaire.<br />
In mostra Cabinet anthropomorphique, del 1982, una figura<br />
semisdraiata, che ripropone il suo tema della Venere a<br />
cassetti, qui complicata nella rilassatezza della figura,<br />
che sembra quasi sul punto di abbandonarsi, addirittura<br />
di sciogliersi come i suoi Orologi molli.<br />
Cabinet anthropomorphique, 1982;<br />
bronzo, h cm 64. Esemplare 135/330.<br />
Asta Sotheby, Londra, 23.10.2001.<br />
Lotto 182.<br />
74 75
Surrealismo<br />
Cavallo e cavaliere con berretto<br />
frigio, 1940/1966; bronzo, h cm 36.<br />
Patrizia Del Vecchio, 2001.<br />
Giorgio De Chirico<br />
(1888-1978)<br />
A Firenze, dalla Grecia, nel 1906, a Parigi dal 1911, vi<br />
esponeva al Salon des Indépendants e al Salon d’Automne.<br />
Negli anni della prima guerra mondiale, destinato<br />
dal distretto fiorentino a Ferrara, vi conosceva De Pisis,<br />
Carrà, il poeta Corrado Covoni. Nascerà qui, da questo<br />
incontro, la Metafisica (1910). Nel 1918 usciva, fondata<br />
da Mario Broglio, la rivista “Valori plastici”. Le Piazze<br />
d’Italia, tra i valori più assoluti dell’arte italiana, sono<br />
tra le prime opere metafisiche di De Chirico: le strade<br />
deserte, le piazze silenziose, dominate dalla presenza<br />
immobile di un monumento, spesso equestre, da cui<br />
emana un inquietante, estenuante senso di attesa, le<br />
ombre allungate, conferiscono a queste opere una sorta<br />
di magia sospesa, una immobilità che si pone dichiaratamente<br />
in contrasto con lo sperimentalismo delle contemporanee<br />
avanguardie. De Chirico esprimerà il suo<br />
classicismo nella geometria surreale dei suoi manichini,<br />
secondo quella geometria che attraversa tutta l’arte. Ma<br />
sarà anche il simbolo della sua negazione, della realtà,<br />
delle ideologie, della libertà. Consapevole del suo andare<br />
contro corrente De Chirico si chiuderà, sempre, in una<br />
orgogliosa solitudine. Recupererà, nella seconda fase<br />
del suo lavoro, le linee di un realismo baroccheggiante,<br />
sontuoso, che, talvolta, sembra avvicinarsi al realismo<br />
propagandato dai regimi, anche se in realtà, il suo si<br />
enuclea da molto lontano.<br />
In mostra Cavallo e cavaliere con berretto frigio, un piccolo<br />
bronzo del 1966 fuso da una terracotta del 1940. È una<br />
delle prime opere di scultura dell’artista. Giovanna Dalla<br />
Chiesa, in De Chirico scultore (Milano 1988) lo indica<br />
come tema dominante della pittura di De Chirico dalla<br />
fine degli anni Trenta alla fine del Quaranta. Il berretto<br />
frigio era stato adottato dai giacobini durante la rivoluzione<br />
francese. Allude anche alla ricchezza dell’antica<br />
Frigia. Ma si deve ricordare che la “statua” è anche uno<br />
dei temi dominanti del periodo metafisico di De Chirico.<br />
Il gruppo equestre è impostato classicamente, con un<br />
modellato forte e sensibile. Ha scritto Silvia Lucchesi in<br />
Da Rodin al cielo di Yoko, il catalogo di una mostra di una<br />
parte della collezione Bertini a Orosei del 2000: “Con<br />
la traduzione in bronzo delle terrecotte effettuata negli<br />
anni Sessanta l’artista supera il momento dell’azione<br />
diretta sulla materia primordiale, trasformando l’opera<br />
in simulacro”.<br />
76 77
Surrealismo<br />
Alberto Giacometti<br />
(1901-1966)<br />
Allievo, a Parigi, dal 1922, di Bourdelle e amico di<br />
Archipenko, dopo ricerche sull’arte primitiva, sull’arte<br />
africana, sul Cubismo, che lo liberavano dall’ossessione<br />
di una figurazione naturalistica, aderiva al Surrealismo<br />
nella sua serie di Oggetti a provocazione simbolica, lavori di<br />
grande suggestione, nei quali instaurava una sorta di rapporto<br />
metafisico con lo spazio, di una simbologia ambigua<br />
e sottile. Si pensi a La boule suspendue, ou l’heure des<br />
traces (1930) che, come scriveva Josè Pierre, “esprimeva<br />
un sentimento torbido, perché sembrava incoraggiare<br />
una carezza che non poteva esser portata a termine”,<br />
oppure a Palais à quatre heures de l’après midi (1932).<br />
Si allontanava poi dal Surrealismo per elaborare, sia in<br />
pittura che in scultura, un’immagine di uomo che lo spazio<br />
attorno, il vuoto, sta disfacendo e quasi cancellando.<br />
“La materia di Giacometti,” ha scritto Jean Paul Sartre,<br />
il filosofo dell’Esistenzialismo, “quella strana farina che<br />
impolvera, seppellisce lentamente il suo atelier, scivola<br />
sotto le unghie e nelle rughe profonde del suo viso, altro<br />
non è se non una polvere di spazio”. Il suo lavoro, sia<br />
quello pittorico, nel quale una fitta grafia gestuale traccia<br />
immagini drammatiche, sia quello scultoreo, è anche il<br />
più espressivo dell’ideologia esistenzialista. Testimonia,<br />
come quello di Sutherland e di Bacon, la condizione<br />
dell’uomo in un mondo sconvolto dalla minaccia della<br />
fine e dagli orrori della guerra che ne ha stravolto anche<br />
l’immagine. Viene spontaneo avvicinare le sue esili,<br />
larvate figure, ad alcune statuette etrusche, come la<br />
notissima Ombra della sera (secondo la definizione di<br />
d’Annunzio).<br />
La piccola testa in mostra, Diego, un bronzo della metà<br />
degli anni Cinquanta, è un esempio fortemente rappresentativo<br />
del mondo espressivo dell’artista.<br />
Diego, metà anni Cinquanta,<br />
bronzo, h cm 21. Esemplare 4/6.<br />
Kurt Metzler, scultore svizzero, che<br />
lo acquistò a Parigi nel 1978-1979<br />
dal collezionista e mercante d’arte<br />
Henry Wisler che lo aveva acquistato<br />
dalla vedova dell’artista.<br />
78 79
Surrealismo<br />
Wilfredo Lam<br />
(1902-1982)<br />
Studiava a L’Avana e a Parigi, vicino a Picasso. Di origini<br />
miste (africana, cinese, spagnola di educazione) partiva,<br />
come scriveva Breton, da un suo innato primitivismo.<br />
Assimilava le più aggiornate discipline europee, per tornare<br />
a seguire, all’interno del Surrealismo, anche attraverso<br />
l’incoraggiamento di Breton, quegli impulsi primigeni<br />
e inconsci tramandati attraverso le sue origini.<br />
Scopriva il repertorio magico del suo “fare arte”, dalla<br />
mitologia del Woodou.<br />
Le sue opere consistono in immagini mostruose, misteriose,<br />
cariche di riferimenti alla magia, che egli esprime,<br />
peraltro, con un segno e un’aura elegante, di estrazione<br />
intellettuale europea. Usa, nei suoi quadri, colori di base<br />
cupi, evocando immagini notturne, ritualità terrificanti,<br />
che alludono alla liberazione dell’Eros, nei suoi istinti<br />
più segreti.<br />
In mostra Assiètte au poisson, del 1962, un piatto in<br />
bronzo, contenente pesci che sembrano semispolpati,<br />
quasi larve fantasmatiche di pesce, lumeggiati da cenni<br />
di colore.<br />
Assiètte au poisson, 1962; bronzo,<br />
colore, ø cm 37.<br />
Asta Calmels-Chambre-Cohen,<br />
Paris-Druot, 30.11. 2000. Lotto 101.<br />
80 81
Surrealismo<br />
Robert Sebastian Matta<br />
(1911-2002)<br />
Laureato in architettura in Cile, intollerante del clima<br />
oppressivo cileno, dal 1930 era in Europa. Conosceva in<br />
Spagna Pablo Neruda, Raphael Alberti, Garcia Lorca,<br />
che lo presenterà a Dalì, il quale lo indirizzò a Parigi,<br />
da Breton. A Parigi incontrava Gropius, Moholy-Nagy,<br />
Magritte, Aalto. Lavorò dapprima come disegnatore e<br />
collaboratore di Le Corbusier per il Piano regolatore di<br />
Algeri.<br />
Aderiva, frattanto, al Surrealismo, assumendone il concetto<br />
di “arte come rivoluzione”. Durante la seconda<br />
guerra mondiale era a New York, vicino ai dadaisti e ai<br />
surrealisti emigrati (Duchamp. Breton, Ernst, Masson,<br />
Tanguy). Amico di Gorky, al quale trasmise alcune regole<br />
dell’“automatismo” surrealista, lavorava a una pittura<br />
gestuale veloce, vicina all’Action Painting, ma sempre di<br />
carattere organicistico, di riferimento, sia pure stravolto,<br />
all’immagine dell’uomo. Arriverà, con le Morfologie psicologiche<br />
(1938-1939) a un genere di pittura che potrebbe<br />
definirsi “cosmica” tanto si dilata la sua concezione di<br />
uno spazio pittorico che sembra voler estendere il campo<br />
del visibile e della coscienza fuori dai limiti della concezione<br />
normale di spazio; il quadro diventa un campo<br />
di forze in movimento incessante (che egli definisce<br />
“hurlement”), come per un’apertura cosmica. Cacciato<br />
dai Surrealisti, perché giudicato responsabile della crisi<br />
sentimentale che aveva portato Gorky al suicidio, si<br />
riavvicinerà a Breton solo nel 1959, quando Benoit presentava<br />
la sua Exécution du testament du marquis de Sade.<br />
Dal 1950 al 1952 a Roma realizzava una grande opera per<br />
l’EUR. Del 1956 è il dipinto murale I dubbi dei tre mondi<br />
per il Palazzo dell’Unesco, a Parigi; del 1961, quello<br />
per l’Università di Santiago del Cile. Tra i protagonisti<br />
di Spoletoscienza nel 1990, ha pubblicato nel 1991 La<br />
narrazione delle origini, una raccolta di testi.<br />
L’opera esposta, Idolo, della metà degli anni Ottanta,<br />
in terracotta, raffigurante un idolo precolombiano, si<br />
riporta ad alcune <strong>piccole</strong> <strong>sculture</strong> che Matta realizzava<br />
allora, nelle quali univa qualche riferimento alla scultura<br />
etrusca che aveva visto in Toscana.<br />
Idolo, metà anni Ottanta; terracotta,<br />
h cm 42. Pezzo unico. Galleria<br />
Metastasio di Carlo Palli, Prato 2001.<br />
82 83
Concretismo<br />
85
Concretismo<br />
Max Bill<br />
(1908-1994)<br />
A Zurigo dal 1930, dove lavorava come architetto,<br />
estendeva la sua attività alla pittura, alla scultura, al<br />
design, al graphic design. Organizzava nel 1944, presso la<br />
Kunsthalle di Basilea, una mostra internazionale di Arte<br />
Concreta. Nel 1954 riceveva il primo premio per la scultura<br />
alla Biennale di San Paolo. Diresse, dal 1951 al 1956,<br />
la Hochschule für Gestaltung di Ulm, dove organizzava<br />
l’insegnamento secondo le leggi di uno strutturalismo<br />
razionale severo, ma allo stesso tempo sensibile e duttile,<br />
proponendo una netta distinzione tra Astrattismo<br />
e Concretismo, considerando il primo espressione di<br />
libertà, il secondo come eleborazione scientifica della<br />
creatività. Il suo lavoro si distingue anche per lo straordinario<br />
rigore della esecuzione, condizione, per lui,<br />
imprescindibile.<br />
In pittura ha sempre seguito le regole del Neoplasticismo<br />
di Mondrian, secondo un uso della linea retta e del colore<br />
regolati da una rigorosa ricerca matematica, arricchita<br />
dal portato della scienza, da cui ha tratto i due modelli<br />
secondo i quali ha sempre portato avanti e approfondito<br />
la sua ricerca: la topologia, che analizza le condizioni di<br />
una struttura nello spazio (si pensi alla sua continua rielaborazione<br />
dell’“anello di Moebius” nella sua scultura<br />
e nelle opere grafiche), e l’analisi morfologica, la ricerca,<br />
cioè, della matrice formale, secondo le regole più rigorose<br />
della Gestalt, la Teoria della forma.<br />
In mostra un lavoro in acciaio inox, Konstruktion aus Drei<br />
Gleichen Prismen (Costruzione di tre prismi identici), del<br />
1975, una sorta di intreccio, di nodo, che evidenzia la<br />
dinamica strutturale di una forma, che gioca anche sul<br />
variare della luce sulle sue parti.<br />
Konstruktion aus Drei Gleichen<br />
Prismen, 1975; acciaio inox, cm<br />
18x20,5x18,5. Pubblicato in Max Bill<br />
a cura di E. Huttinger, Zurigo, 1987,<br />
p. 224. Galleria Arteba, Zurigo.<br />
86 87
Concretismo<br />
Pendente, anni Cinquanta;<br />
alluminio, h cm 8. Asta Hauswedel<br />
& Nolte, Amburgo, 6.6.2001.<br />
Lotto 463.<br />
Alexander Calder<br />
(1898-1976)<br />
Nato ed educato in America, a Parigi dal 1926, iniziava<br />
realizzando oggetti animati, in filo di ferro, tra i quali, tra i<br />
più interessanti e vivi, Josephine Baker, un giocattolo straordinario,<br />
lievemente inquietante e perverso. Creava così il<br />
suo Circo che diveniva, per due anni, il centro di attrazione<br />
degli intellettuali parigini. Ben Nicholson scriverà: “Ci sono<br />
stato due volte con Mondrian e vi si trovavano Tzara, Man<br />
Ray, Kiki [la famosa Kiki de Montparnasse], i Goll e tutto<br />
Montparnasse di allora. Si facevano suonare le castagnole,<br />
arrampicati sui gradini di legno, mentre Calder, in basso, nel<br />
solo angolino lasciato libero, le gambe divaricate, spiegava il<br />
suo spettacolo”. Fu l’incontro con Mondrian e col suo lavoro,<br />
cioè con l’arte astratta, a dare una svolta alla sua vita. Si<br />
dedicherà alla sperimentazione astratto-concreta. Conobbe<br />
poi i lavori di Mirò, di Arp. Da questo momento scatterà la<br />
sua grande creatività autonoma, nata dalla scoperta del movimento<br />
naturale che egli attua con contrappesi ruotanti sugli<br />
assi che sorreggono la struttura. Le sue opere diventano, da<br />
allora, mobili, vibranti, sensibili a ogni moto d’aria, come le<br />
foglie al vento. Il termine francese “mobile”, che Calder<br />
attribuirà alle sue costruzioni dinamiche, si deve a Duchamp.<br />
Mentre quello di “stabile”, con cui definirà le sue <strong>sculture</strong><br />
seguenti (dal 1932), grandi <strong>sculture</strong> in ferro, ancorate alla<br />
terra, si deve ad Arp. Così definiva Michel Ragon (Derrière le<br />
miroir, Parigi, 1963) gli “Stabiles” di Calder: “piante aggressive,<br />
insetti inquietanti, uccelli tristi, trampolieri senza testa,<br />
dalle ali spiegate che pendono fino a terra. Queste “ailes de<br />
géant qui les empêchent de marcher” sono anche una sorta<br />
di strumenti agricoli, mantidi religiose meccaniche come<br />
i loro contempornei che si chiamano “scrapers”, “buldozers”,<br />
“drag-lines”. In mostra un piccolo Pendente degli anni<br />
Cinquanta, che fa parte dei gioielli che Calder realizzava,<br />
a cominciare dal 1929, assai prima del coinvolgimento di<br />
molti artisti nella realizzazione di gioielli. È costituito da una<br />
lamina di alluminio piegata, in basso, a spirale, da cui si leva<br />
una sorta di arabesco a virgola, come uno svolazzo grafico.<br />
Richiama la leggerezza dei mobiles, il loro movimento, che<br />
si articola in rapporto al movimento di chi indossa questo<br />
freschissimo e semplicissimo orecchino, ritrovando così il<br />
movimento della natura. Peggy Guggenheim collezionava<br />
gioielli di artisti; si ricorda che, quando inaugurò la sua galleria<br />
di New York, Art of this Century, indossava un orecchino<br />
di Calder e uno di Tanguy. I gioielli di Calder furono esposti<br />
nel 1938 a Helsinki alla Galleria Artek, e alla Williard Gallery<br />
di New York nel 1940.<br />
88 89
Concretismo<br />
Hans Arp<br />
(1887-1966)<br />
Personaggio di grande interesse, dall’attività che attraversa,<br />
con agilità ed eleganza, diverse linee delle avanguardie<br />
storiche, passando dal Dada al Surrealismo,<br />
al Concretismo, sempre fedele alle regole del “caso”<br />
anche quando si occupa di scultura: usa il rilievo liberamente,<br />
secondo le leggi della natura e la genesi della<br />
forma, con una sua intelligente, lucida, libera gestualità.<br />
Le sue <strong>sculture</strong> astratte, che sembrano emanare una<br />
energia esplosiva, alludono quasi sempre a forme corporee,<br />
modellate nella lucida superficie, che racchiude<br />
cavità quasi organiche, evidenziando arti lamellari, dal<br />
movimento ondoso, avvolgente. Scriveva nel 1933 sulla<br />
rivista “Vertigral”: “Sono nato nella natura, sono nato a<br />
Strasburgo, sono nato in una nuvola, sono nato in una<br />
pompa, sono nato in una gonna, ho quattro nature, ho<br />
cinque sensi, senso è una non cosa, natura è un non<br />
senso, posto da per la natura da, la natura è un’aquila<br />
bianca, posto dada per la natura dada. Modello per me<br />
un libro con cinque bottoni. La scultura è una sciocchezza<br />
nera. Dada è nato a Zurigo, se si detrae Strasburgo<br />
da Zurigo si ottiene il 1916 [...]”. Vincitore del Premio<br />
Internazionale per la scultura alla Biennale di Venezia<br />
nel 1954. È presente in questa mostra con un rilievo,<br />
L’Enlevement de l’Europe, del 1958, modellato con assidua<br />
e paziente levità, che coglie, nella sintesi allusiva<br />
delle forme, il gioco di luce e ombra che ne esalta il<br />
significato, reso evidente dalle corna del toro, momento<br />
quasi realistico dell’opera.<br />
L’Enlevement de l’Europe, 1958;<br />
bronzo, h cm 54. Eseguito dalla<br />
Fonderia Turiddu Clementi nel<br />
1959; donato dall’artista al fotografo<br />
Sima negli anni Sessanta.<br />
90 91
Concretismo<br />
Étienne Béöthy<br />
(1897-1961)<br />
Studiava arte e architettura a Budapest. A Parigi dal<br />
1920, frequentava l’École des Beaux Arts. Dopo aver<br />
partecipato, nel 1930, alla mostra del gruppo Cercle et<br />
Carré, con Herbin e Vantongerloo fondava, nel 1932,<br />
il gruppo Abstraction-Création, le cui teorie, riportate<br />
nella rivista omonima, si proponevano il rinnovamento<br />
della pittura e della scultura astratte nella sintesi delle<br />
varie linee dell’astrattismo geometrico, in un’arte libera,<br />
ispirata alla natura. Parteciperà poi, con André Bloc e De<br />
Marle, al gruppo Éspace, col quale esponeva al Salon des<br />
Réalités Nouvelles.<br />
Dal 1953 insegnava all’École des Beaux Arts di Parigi.<br />
Ha portato avanti un suo linguaggio rigorosamente<br />
concreto, legato a una sua idea di forma levigata e compatta,<br />
che trova il suo ascendente nel momento purista<br />
di Arp.<br />
L’opera presente in mostra, La mer, in bronzo, è del<br />
1934, il periodo legato ad Abstraction-Création. Consiste<br />
in un blocco compatto, dalla curva morbida, ondoso,<br />
dal quale emergono sezioni lunate, simbolo, nel suo<br />
immaginario, di spruzzi scattanti fuori dall’onda marina,<br />
un’onda solidificata.<br />
Questo lavoro è stato esposto nel 1979 alla mostra L’Art<br />
des années ’30 en France al Musée d’Art Moderne di<br />
Saint-Etienne.<br />
La mer, opus 67, 1934; bronzo,<br />
h cm 31. Asta Etude Tajan,<br />
Montecarlo, 2.8.2001. Lotto 64.<br />
92 93
Concretismo<br />
Hans Richter<br />
(1888-1976)<br />
Ispiratosi, nella pittura dei suoi inizi, ai Fauves, il corrispettivo<br />
francese dell’Espressionismo tedesco, poi al<br />
Blaue Reiter di Kandinskij e al Cubismo, si orientava,<br />
in seguito, definitivamente verso il razionalismo concretista.<br />
Nel 1914 collaborava con la rivista “Die Aktion”. Di<br />
ritorno dal servizio militare in guerra, nel 1916 era a<br />
Zurigo, coi dadaisti. Realizzava, allora, lavori astratti in<br />
bianco e nero. Con Eggeling creava i primi Rotoli, svolti<br />
secondo rapporti di piani in positivo e in negativo, quasi<br />
come temi musicali.<br />
Ma il suo nome è legato soprattutto ai suoi film astratti,<br />
considerati ormai classici delle avanguardie del cinema.<br />
Il primo è Rhythm 21 (1921). Tra i più famosi è il film<br />
di carattere surrealista Dreams that Money can buy (1944-<br />
1947). Anche Richter durante la seconda guerra mondiale<br />
emigrava negli Stati Uniti (1941), dove divenne<br />
professore nel College of the New York City e direttore<br />
del Film Institute.<br />
In collezione Bertini un Quadro scultura del 1970, composto<br />
di segmenti geometrici di legno dipinto, sovrapposti<br />
a definire una composizione concreta, su un fondo in<br />
rame; il tutto incorniciato, sotto vetro.<br />
Quadro scultura, 1970; legno<br />
dipinto, rame e vetro, cm 48x78.<br />
Galleria M’arte, Milano.<br />
94 95
Concretismo<br />
Contrappunto, 1973; ottone, cm<br />
50x50x15. Pubblicato in Fausto<br />
Melotti, a cura di L. Gualdoni,<br />
Galleria d’Arte Maggiore, Bologna<br />
2000.<br />
A fianco<br />
Il giudizio di Paride, 1979; ottone,<br />
cm 21x21. Aurelio Amendola, 2001.<br />
Fausto Melotti<br />
(1901-1986)<br />
Ingegnere, diplomato a Brera, esperto musicista, cultore<br />
delle regole del contrappunto e dell’armonia, cugino di<br />
Carlo Belli, teorico degli astrattisti italiani e autore del<br />
libro di aforismi Kn, realizzava, dal 1933, i suoi straordinari<br />
rilievi impostati sulla geometria come “divina proporzione”,<br />
come “armonia”, svolti secondo un andamento<br />
armonico, musicale, perfetto che presentava, con altre<br />
<strong>sculture</strong>, al Milione di Milano. Nell’autopresentazione<br />
Melotti scriveva: “L’arte è stato d’animo angelico. Essa<br />
si rivolge all’intelletto, non ai sensi. Per questo è priva<br />
d’importanza la ‘pennellata’ in pittura, e in scultura la<br />
modellazione (impronte digitali della personalità – il<br />
tocco ‘espressivo’ inutile all’arte=arte; lo strumento più<br />
adatto alla musica contrappuntistica è l’organo, strumento<br />
senza tocco. Non la modellazione ha importanza ma la<br />
modulazione. Non è un gioco di parole: modellazione<br />
viene da modello=natura=disordine; modulazione da<br />
modulo=canone=ordine. Il cristallo incontra la natura”.<br />
Quasi tutte le opere presentate allora andarono perdute<br />
sotto i bombardamenti. Fino alla fine della guerra egli cesserà<br />
di lavorare alla scultura, dedicandosi alla ceramica, se<br />
non per i suoi metafisici Sette savi, che presentava nel 1937<br />
nell’ambito di una lezione dell’architetto Ernesto Nathan<br />
Rogers su “La costante uomo”. Riscoperto nel 1966, alla<br />
XXXIII Biennale di Venezia, nella mostra Aspetti del<br />
primo astrattismo italiano, curata da Nello Ponente, lavorerà,<br />
da allora, su una scultura che dialoga con lo spazio,<br />
facendo ancora uso di elementi geometrici, cerchi, sfere,<br />
ovali, in rapporti armonici. Teorico di uno spazio “ben<br />
temperato”, nel suo gioco continuo di strutture filiformi,<br />
di gabbie trasparenti, di ritmi leggeri, di lastrine vibranti,<br />
crea opere-poesia, opere-musica, alle quali appone dei<br />
titoli carichi di sottile ironia (L’infinito, 1969; Le due lune,<br />
1970; Il viaggio della luna, 1974; Le ragioni nascoste per le<br />
quali la balia del re detta ‘boudoir’ dalle sacre mammelle venne<br />
derisa, 1976). Realizzerà, poi, i suoi deliziosi Teatrini in<br />
ceramica, gesso, oggetti vari.<br />
In mostra due lavori: il primo, Contrappunto del 1973, in<br />
ottone, è un gioco fatto di straordinari bilichi di cerchi,<br />
semicerchi, linee che sembrano perdersi in una danza<br />
nello spazio. Il secondo, Il giudizio di Paride, del 1979,<br />
pure in ottone, è una piccola recita mitologica che si svolge<br />
entro una trasparente scena, con tre figurette filiformi<br />
dalle piccolissime teste sferiche: Venere, Minerva e un<br />
Paride al centro, impegnato nella difficile scelta, il pomo<br />
dorato ai suoi piedi.<br />
96 97
Spazialismo<br />
99
Spazialismo<br />
Arlecchino, 1953-1956; ceramica<br />
policroma, cm 26x5x 20. Firmato.<br />
Asta Christie, Milano, 21.2.2002.<br />
Lotto 237.<br />
Lucio Fontana<br />
(1899-1968)<br />
Fra i primi astrattisti italiani, fondatore dello Spazialismo,<br />
redigeva, nel 1946, in Argentina, il Manifesto Blanco nel<br />
quale si ponevano le basi di un nuovo concetto di “spazio<br />
artistico”, che tenga conto delle conquiste scientifiche<br />
che usano lo spazio fisico e fenomenico come nuovo e<br />
più esteso strumento di comunicazione, proponendo il<br />
coinvolgimento della tecnologia nell’operazione artistica.<br />
Nel 1950, in occasione del I Concorso Internazionale delle<br />
Proporzioni alla IX Triennale di Milano, Fontana redigeva<br />
un altro Manifesto, proponendo la formula “forme, colore,<br />
suono attraverso gli spazi”, come sintesi tra “colore,<br />
elemento dello spazio, suono, l’elemento del tempo e il<br />
movimento che si sviluppa nel tempo e nello spazio”.<br />
Aveva iniziato il suo lavoro di scultore seguendo una figurazione<br />
di carattere materico, baroccheggiante, con riferimenti<br />
fitomorfici, dedicandosi anche alla ceramica, partecipando<br />
col gruppo del Movimento Arte Nucleare, con<br />
Jorn, Pinot Gallizio, Scanavino, agli Incontri Internazionali<br />
della Ceramica di Albisola, dove lavorerà nel laboratorio di<br />
Tullio Mazzotti. Il 1946 sarà per lui un anno fondamentale:<br />
la sua scultura si fa esplosiva, gestuale, vorticosa e<br />
voluttuosa, di una sensibilità e di una sensualità straordinariamente<br />
intense. Ne è un esempio la prima delle opere<br />
esposte, Arlecchino, del 1953-1956, in ceramica policroma,<br />
nelle cui cavità profonde, che sembrano preludere al periodo<br />
del buchi sulla tela, si annida l’ombra, e il colore esalta<br />
il movimento scattante delle membra. Da allora i suoi<br />
disegni diventano grumi di linee ad andamento gestuale,<br />
trovando la loro definizione nei suoi primi “Concetti spaziali”,<br />
nell’invenzione, prima, appunto, dei “buchi” sullo<br />
spazio-tempo del quadro, già interpretato come “campo”,<br />
come “continuum spazio-temporale”, poi del “taglio”, a<br />
creare, a mezzo del quadro, una sorta di “spazio oltre”.<br />
Nel 1949 Fontana realizzava l’Ambiente spaziale con forme<br />
spaziali ed illuminazione a luce nera, realizzato a Milano, alla<br />
Galleria del Naviglio, un ambiente nero nel quale la luce<br />
di Wood faceva scintillare il bianco di una serie di punti<br />
lungo la parete interna. Col gesto-taglio, dal 1948, Fontana<br />
esprimerà il suo coinvolgimento nell’opera (come per il<br />
dripping di Pollock), come aggressione e trasformazione di<br />
uno spazio concepito come entità costituita di spazio interno<br />
e spazio esterno: uno spazio mentale, “al di là” della<br />
superficie del quadro. Nella scultura i “tagli” e i “buchi”<br />
(come nelle sue straordinarie “nature” in ceramica nera e<br />
100 101
Neoconcretismo<br />
come nelle Due Sfere in mostra, in bronzo lucido, degli anni<br />
Sessanta, fanno assumere all’oggetto allusività simboliche,<br />
con rimandi alla sensibilità, all’emotività, all’erotismo, alla<br />
vita intera. Tutte le opere di Fontana, dal 1950 in poi,<br />
avranno come primo titolo Concetto spaziale, Attese. Con<br />
questi lavori egli si inserisce nella linea di operazione che<br />
privilegia il monocromo, come esito di una progetttualità<br />
rarefatta e libera, che fa di lui una sorta di leader di tutto<br />
il Neoconcretismo.<br />
Due sfere, anni Sessanta; bronzo,<br />
h cm 27. Galleria Fallani, Firenze.<br />
102 103
Neoconcretismo<br />
Agostino Bonalumi<br />
(1935)<br />
Ha lavorato a Milano dalla metà degli anni Cinquanta<br />
con gli esponenti del Neoconcretismo italiano vicini a<br />
Lucio Fontana, tra cui Castellani e Scheggi.<br />
Realizzava, allora, quadri-oggetto in produzione seriale,<br />
strutturati in superfici monocrome, a pieghe e rilievi, le<br />
cui caratteristiche ha ripreso e portato avanti nel lavoro<br />
presente in mostra, Divertimento, degli anni Ottanta,<br />
che sembra avere anche un riferimento simbolico ai<br />
“monocromi” degli anni Cinquanta di Piero Manzoni.<br />
Passava, poi, a dilatare nello spazio i suoi rilievi, che si<br />
disponevano in simmetrie assiali, secondo una prospettiva<br />
plastico-cromatica, nello spazio ambiente (si ricordino<br />
anche gli “shaped canvases” di Richard Smith), occupandolo,<br />
secondo una progettazione precisa. In seguito,<br />
la progettazione diverrà meno rigida, più aperta, occupando<br />
totalmente lo spazio-ambiente con grandi opere<br />
nelle quali tenderà a spostare il centro di gravità delle<br />
linee di forza, che ne generano l’equilibrio, ridefinendo<br />
totalmente lo spazio.<br />
Divertimento, anni Ottanta; carta<br />
e legno, cm 71x70. Pubblicato in<br />
Bonalumi, Mantova, Palazzo Te,<br />
1980, p. 57. Galleria Metastasio di<br />
Carlo Palli, Prato.<br />
104 105
Neoconcretismo<br />
Giuseppe Uncini<br />
(1929-2008)<br />
A Roma dal 1953, vicino ai più importanti artisti romani<br />
del momento, realizzava i suoi primi “cementi armati”,<br />
quando faceva parte del Gruppo Uno (con Biggi, Carrino,<br />
Frascà, Pace, Santoro), formatosi nel 1962, nell’ambito<br />
del Neoconcretismo, nel clima di opposizione critica<br />
all’irrazionalismo postbellico, che vedeva nascere anche<br />
un genere di lavoro collaborativo, simile al team architettonico,<br />
team (o gruppi) che nascevano “non attorno a<br />
un programma, ma a una direzione di ricerca: l’esame di<br />
una situazione, la verifica di certi lavori, l’esperimento<br />
di sviluppi possibili”, come scriveva Giulio Carlo Argan,<br />
che appoggiava criticamente il gruppo. Dai “cementi<br />
armati”, tra i lavori più espressivi e forti del periodo, che<br />
sembravano voler portare allo scoperto le basi dell’edificare<br />
(e del fare, tout court), Uncini passava alle “ombre”<br />
compatte, solide, agli elementi architettonici (“arco”,<br />
“porta”), per i quali usava anche il mattone, elemento<br />
base, atavico, del costruire. Più recentemente, negli<br />
“spazi di ferro”, Uncini recupera cemento e ferro, come<br />
materiale di base, giocando sullo spazio allusivo, sulla<br />
trama, sempre, comunque, sul filo della strutturazione<br />
razionale.<br />
In mostra Spazi di ferro, degli anni Novanta, un esempio<br />
dei suoi lavori recenti che recuperano il cemento e il<br />
ferro, non più incatenati nel cemento armato, da cui<br />
emergevano punte di ferro, ma uniti a formare un piccolo<br />
ambiente, con le pareti laterali in cemento, il ferro<br />
usato a chiudere lo spazio interno con una sorta di cancellata<br />
incrociata, con un risultato di forte essenzialità.<br />
Spazi di ferro, anni Novanta;<br />
cemento e ferro, cm 16x41x24.<br />
Asta Ghiglione, Genova, 19.5.2001.<br />
Lotto 15.<br />
106 107
Informale europeo<br />
109
Informale europeo<br />
Jean Fautrier<br />
(1898-1964)<br />
A Londra dal 1907, richiamato in Francia nel 1917 per<br />
la guerra, durante la quale fu prima interprete e poi<br />
conducente di autoambulanze. Fu ferito a un occhio e,<br />
investito dal gas, si ammalò di polmoni. Iniziava con una<br />
pittura figurativa vigorosa, dura, un po’ fosca (la piccola<br />
scultura in bronzo, presente in mostra, Petite masque,<br />
del 1935, appartiene alla fine di questa esperienza, ma<br />
è già segnata da una certa matericità, da un inizio di<br />
disfacimento della forma che prelude all’Informale).<br />
Era il momento in cui la crisi economica lo costringeva<br />
a lavorare come maestro di sci. Dopo la dura esperienza<br />
della guerra approderà a un periodo di ripensamenti<br />
che lo porterà, dopo la metà degli anni Quaranta, a una<br />
progressiva dispersione del segno fino ad elaborare una<br />
sorta di dialettica “tra la materia (colore) e il disegno”<br />
(Palma Bucarelli). Passerà da un informale di carattere<br />
“tachiste” a una pittura materica, fino a una pittura<br />
“nera” di riferimento letterario. Il momento più importante<br />
è quello dei suoi Ôtages (Ostaggi) realizzati quando,<br />
dopo un interrogatorio delle SS, durante l’invasione<br />
tedesca, perché amico di molti intellettuali appartenenti<br />
alla Resistenza, si rifugiava, complici alcuni amici e un<br />
dottore, in una casa di cura per alienati, a Chatenay. Egli<br />
ha raccontato che sentiva, contro il muro esterno della<br />
casa di cura, la fucilazione dei prigionieri disposti, dai<br />
nazisti, proprio contro il muro. Si sentiva come una sorta<br />
di “voyeur della morte”. I suoi “ostaggi”, dalla materia,<br />
sensibile, impastata direttamente sul supporto, trattata<br />
con estrema levità e delicatezza, esprimono, in macchie<br />
materiche, il senso della carne viva, dilaniata, senza<br />
forma, lo strazio dell’uomo vittima. Accanto alla denuncia<br />
violenta, impietosa, che quasi tutta l’arte del tempo<br />
esprimeva, contro la minaccia della fine della civiltà,<br />
queste opere di Fautrier erano, forse, le più pietose e<br />
umane. Tra il 1949 e il 1953 realizzava una serie di opere<br />
“originali” ottenute con un procedimento tra incisione<br />
e pittura, che chiamava “originaux multiples”, tra i suoi<br />
lavori più interessanti.<br />
Gran Premio Internazionale della Biennale di Venezia<br />
nel 1960.<br />
Petite masque, 1935; bronzo,<br />
h cm 15,2. Esemplare 3/9.<br />
Asta Sotheby, Londra, 28.6.2001.<br />
Lotto 354.<br />
110 111
Informale europeo<br />
Emilio Vedova<br />
(1919-2006)<br />
Studioso delle avanguardie (dal Futurismo all’Espressionismo<br />
tedesco, a Picasso), ma anche della pittura<br />
veneziana, dalla quale, anche, deriverà il suo gestualismo<br />
(si ricordi il suo straordinario studio da Tintoretto Mosè<br />
salvato dalle acque del 1942 dove già, pur mantenendo<br />
il riferimento figurativo, il suo linguaggio informale è<br />
perfettamente definito), iniziava chiudendo le sue già<br />
evidenti esplosioni in una gabbia geometrica, giocata<br />
soprattutto sul rapporto di bianco/nero. Impegnato nella<br />
lotta partigiana, aderiva, nell’immediato dopoguerra, al<br />
movimento antinovecentista di Corrente. Il suo astrattismo<br />
si carica, da questo momento, di una violenza<br />
contenuta, si fa “arte di protesta”. Il suo linguaggio<br />
diverrà ritmico, sincopato, impetuoso. Era tra i fondatori<br />
del Fronte nuovo per le Arti e face parte, per un anno,<br />
del Gruppo degli Otto di Lionello Venturi, contro l’imposizione<br />
estetica, neorealista, del “realismo sociale”.<br />
Il suo lavoro si articola per cicli, tra i quali quelli “della<br />
protesta” e “scontro di situazioni”. Dal 1961 realizza i<br />
“plurimi”, lavori gestuali che, composti di parti aggregate,<br />
occupano lo spazio a tre dimensioni. Più recentemente<br />
la condizione cinetica dei “plurimi” si è ampliata<br />
nei grandi “cerchi” in legno, in tela, a doppia faccia, contrapposti,<br />
nella loro forza “implosiva” alla forza esplosiva<br />
della sua gestualità.<br />
L’opera presente in questa collezione, Plexiglas dipinto<br />
del 1990, è un dipinto gestuale nel quale, al nero<br />
profondo, esaltato dalla trasparenza del Plexiglas, si<br />
contrappone, in tocchi brevi, densi, un rosso acceso che<br />
aggiunge al lavoro una intensità viva e un forte senso di<br />
drammaticità.<br />
Plexiglas dipinto, 1990; Plexiglas©<br />
e pigmento, cm 50x62. Esemplare<br />
54/99. Collezione Valentino<br />
Barbierato, Asiago, Vicenza.<br />
112 113
Informale europeo<br />
Gastone Novelli<br />
(1925-1968)<br />
Arrestato e torturato durante la Resistenza, nel 1943,<br />
perché renitente ad andare in guerra, risparmiato solo<br />
per l’intervento della madre austriaca, ma condannato a<br />
trent’anni di carcere dal tribunale tedesco, veniva rilasciato<br />
dopo la liberazione di Roma. Si laureava in scienze<br />
politiche e sociali a Firenze nel 1947. Dopo un incontro<br />
con Max Bill a Zurigo, iniziava la sua ricerca artistica.<br />
Frattanto, durante i suoi viaggi in Brasile, si occupava<br />
di macumba, un esorcismo woodu, e iniziava la stesura<br />
di un dizionario di lingua guarani. A Roma entrava in<br />
cotatto con artisti come l’americano Twombly e Perilli,<br />
col quale dava vita alla rivista “L’Esperienza Moderna”.<br />
Era il momento in cui l’Italia, uscita dalla guerra, cercava<br />
una sua identità anche artistica, un momento pieno<br />
di fermenti e di slancio. La sua esperienza pittorica si<br />
orientava verso una resa materico-segnica del quadro,<br />
una sorta di mappa dilatata e sottile, ispirata alle scritte<br />
sui muri delle città, con un lontano riferimento alla scrittura<br />
automatica surrealista.<br />
Per accentuare questa condizione, che definiva “linguaggio<br />
magico”, faceva anche uso di farmaci ipnotici<br />
e di droghe. Nel 1967 era a Venezia, poi a Milano dove<br />
partecipava al movimento del maggio 1968. Morirà in<br />
ospedale dopo una operazione alla tiroide.<br />
L’opera in mostra, Monte e collina, un piccolo bronzo del<br />
1965, è un blocco ovoidale, di carattere materico, con<br />
rilievi, alcuni dei quali lineari, aperti a conchiglia, altri a<br />
<strong>piccole</strong> bozze, di lontana allusività antropomorfa.<br />
Monte e collina, 1965; bronzo,<br />
ø cm 14. Esemplare 9/12.<br />
Archivio Novelli, Roma,<br />
n. 106515714.<br />
114 115
Informale europeo<br />
André Bloc<br />
(1896-1966)<br />
Interessato a tutti i movimenti di avanguardia, partiva<br />
dalla pittura e dalla scultura per trovare nell’architettura<br />
la definizione più esatta della sua ricerca che ha sempre<br />
portato avanti secondo una dinamica matericità organica,<br />
sulle linee dell’Informale. Fondatore, nel 1930, della<br />
rivista “Architecture d’aujourd’hui” mirava sempre, nel<br />
suo lavoro, all’interazione tra architettura e scultura. Nel<br />
1951 si colloca la nascita del Group Espace, da lui creato.<br />
Sono degli anni Sessanta i suoi Espaces architecturés e gli<br />
Espaces sculptés, fino agli Habitacles de Meudon (1962),<br />
grandi <strong>sculture</strong> materiche, “caverne gestuali”, come le<br />
definiva Tafuri, che alludono a rifugi ancestrali, quasi<br />
alvei materni, concepiti anche come difesa dalla civiltà<br />
intesa come forza alienante, distruttiva della creatività<br />
umana. Ha collaborato a lungo con l’architetto francese<br />
Claude Parent. Tra i suoi lavori la Casa a Meudon (1949),<br />
una Casa presso Antibes (1963), la Scultura abitabile, la<br />
Casa scultura a Carboneraso in Spagna (1964), la Scultura<br />
torre di venticinque metri nel parco della sua villa di<br />
Meudon. Negli anni Settanta tenne una personale<br />
a Firenze presso la Galleria Quadrante, elaborata da<br />
Vittorio Giorgini secondo un andamento organico, molto<br />
vicino a quello che Bloc proponeva. Anche Leonardo<br />
Ricci, nel suo progetto di Riesi, lavorava secondo le<br />
stesse intenzionalità, che non molti architetti portavano<br />
avanti, se si esclude l’antesignano Kiesler con la sua<br />
Endless House (Casa senza fine).<br />
Anche la scultura presente in mostra, Senza titolo, del<br />
1955, è il risultato di questa sua ricerca di spazialità<br />
organica, coi suoi tagli, i suoi avvolgimenti, le sue cavità,<br />
anche se la materia, il bronzo lucido, le conferisce un<br />
carattere più bloccato, compatto, strutturale.<br />
Senza titolo, 1955; bronzo, h cm 26.<br />
Galleria Pagani, Milano.<br />
116 117
Action painting<br />
119
Action painting<br />
Louise Nevelson<br />
(1899-1988)<br />
Senza titolo, prima metà anni<br />
Settanta; legno, cm 87x47. Galleria<br />
Metastasio di Carlo Palli, Prato.<br />
Trasferitasi con la famiglia nel 1905 dall’Ucraina negli Stati<br />
Uniti si occupò di archeologia messicana e dell’America<br />
centrale. In Europa nel 1931-1932, seguiva a Monaco i<br />
corsi di pittura di Hofman. A New York dal 1933 lavorava<br />
come assistente di Diego Rivera per i murali del<br />
Communist Party Opposition della New Worker’s School,<br />
dove insegnava, mentre lavorava come scultore per il<br />
W.P.A. Federal Project. Del 1942 è il suo Circus Menagerie<br />
Animal, per il quale usa per la prima volta l’assemblage di<br />
piccoli oggetti in legno, che rimarrà il suo materiale prediletto.<br />
Aveva ereditato dagli studi archeologici una grande<br />
passione per il monumentalismo totemico. Subirà anche<br />
l’ascendente del Cubismo e del Neoplasticismo nel suo<br />
inscatolamento “razionale” di oggetti “irrazionali” che metteva<br />
in atto, coi montaggi di oggetti trovati, con un diretto<br />
riferimento non tanto al ready-made, ma al recupero della<br />
storia dell’uomo attraverso la storia dell’architettura, del<br />
suo degrado, del suo farsi, appunto, storia. Le sue grandissime<br />
<strong>sculture</strong>, le composizioni, le “topografie fantastiche”,<br />
che esporrà nel 1958 nella sua grande personale alla Grand<br />
Central Moderns Art Gallery a New York, presenteranno,<br />
nelle loro cavità, frammenti di legni lavorati, di ornamenti<br />
architettonici, pezzi torniti, frammenti comunque costruiti,<br />
in forme di riferimento geometrico, ricoperti di una patina<br />
nera, bianca, dorata, che unifica tutta la scultura. Dagli anni<br />
Settanta le sue opere, con gli oggetti “inscatolati” non più<br />
“trovati” ma costruiti, sembrano trasformarsi in costruzioni<br />
metafisiche, cariche di mistero. Da questo momento userà,<br />
anche, il perspex e il metallo. Lavorerà anche in spazi<br />
esterni, come nella Louise Nevelson Plaza, terminata nel<br />
1979, nella zona finanziaria di New York, dove installa<br />
sette grandi <strong>sculture</strong>. Marisa Volpi ha definito questi suoi<br />
stupendi, profondi, astratti lavori, “armadi del ricordo, ma<br />
il ricordo passato alla smembrata ed erratica casualità che<br />
gli è propria [...]; la sontuosità vi si espone con macabri<br />
monconi [...]. Domina nell’universo della Nevelson non<br />
l’evocazione e l’ironia, ma un senso di contemplazione<br />
remota”. Le sue strutture “divengono [...] la possibilità di<br />
esprimere il tragico in termini oggettivamente ineluttabili”.<br />
In mostra una piccola scultura in legno, Senza titolo,<br />
della prima metà degli anni Settanta (piccola rispetto alle<br />
dimensioni consuete della Nevelson), nelle cui cavità regolarmente<br />
scavate, si inseriscono piccoli pezzi geometrici, di<br />
taglio obliquo o semicircolare, a creare un disegno ritmato;<br />
il tutto unificato dal nero totale.<br />
120 121
Action painting<br />
Herbert Ferber<br />
(1906-1996)<br />
Legato all’Espressionismo Astratto (Action Painting)<br />
della Scuola di New York, membro della Federation of<br />
Modern Painters and Sculptors della “Partisan Review”<br />
insieme a David Smith, Rothko, Shapiro, aveva lavorato,<br />
prima della seconda guerra mondiale, realizzando soprattutto<br />
<strong>sculture</strong> lignee ispirandosi parzialmente a Maillol.<br />
Dopo la guerra, rifiutando il Concretismo geometrico<br />
e strutturale “perché” ha dichiarato, “troppo difficile<br />
da mantenere in un mondo gravemente e fondamentalmente<br />
perturbato”, elaborerà un linguaggio che si<br />
muove su forti squilibri di masse, secondo una prassi<br />
legata al gesto, usando nuovi materiali, dal ferro al rame,<br />
al piombo, all’ottone, materiali antitradizionali, ricchi<br />
peraltro di una loro particolare energia espressiva. Le<br />
sue <strong>sculture</strong> si caricano di grande impetuosità, con chiaro<br />
riferimento alla gestualità inconscia della “scrittura automatica”<br />
surrealista. Talvolta le sue opere che pur nella<br />
loro carica esplosiva hanno una leggerezza quasi calligrafica,<br />
sono racchiuse entro una sorta di gabbia geometrica<br />
(Calligrafia in gabbia con mazzo n. 1, II, 1961), come<br />
questa piccola scultura in bronzo e rame, L’Oubradou,<br />
del 1978, presente in mostra.<br />
L’Oubradou, 1978; bronzo e rame,<br />
cm 50,2x41,8x30,5. Lorenzetti<br />
Arte, Milano. Catalogo n. 011586.<br />
122 123
Nucleare<br />
125
Nucleare<br />
Enrico Baj<br />
(1924-2003)<br />
Meccano, anni Sessanta; ferro<br />
colorato in blu, rosso e verde, con<br />
lamine, ruote e cilindri, h cm 29.<br />
Mirella Bentivoglio.<br />
Uno tra i più vivaci animatori di quel settore della cultura<br />
artistica legato, negli anni Cinquanta, all’irrazionalismo,<br />
con riferimenti alla poetica surrealista, impostato<br />
anche su un atteggiamento critico, mai diretto, anzi trasposto,<br />
ironico, provocatorio nei confronti della società<br />
borghese e benpensante, si dedicava all’attività artistica<br />
abbandonando la professione di avvocato. Nel 1953, con<br />
Sergio Dangelo, fondava il Movimento Nucleare, nel cui<br />
manifesto si leggeva, tra l’altro: “A un pittore nucleare<br />
non chiedere il disegno, il colore, la composizione, la<br />
somiglianza, e tante altre astrazioni inventate dai retori<br />
per farne pretesto alla loro libidine di adoperare il vocabolario.<br />
Se mai provate a chiedergli un tappeto di allucinazioni,<br />
una zona occulta di ricordi dimenticati e di presagi<br />
ingiustificati, o un delirio molecolare inframezzato<br />
da passaggi di comete ancora anonime[...]”. Era l’avvio<br />
verso un mondo aperto a nuovi orizzonti, a nuovi spazi<br />
inesplorati. I suoi lavori, allora, erano labirinti avvolgenti,<br />
dinamici, nodi spaziali. Al movimento aderivano anche<br />
gli artisti Gianni Dova e Gianni Bertini. Subito dopo Baj<br />
impostava il suo lavoro su un antropomorfismo grottesto,<br />
ironico, graffiante nei confronti dell’ambiente borghese<br />
e benpensante. I suoi personaggi metamorfici, vicini,<br />
per certi aspetti, a quelli della “art brut” di Dubuffet,<br />
realizzati, peraltro, con tecniche diverse, si caricano di<br />
cianfrusaglie varie, tratte dalla realtà, dalle medaglie e<br />
dalle decorazioni militari dei suoi “generali”, ai fregi,<br />
ai nastri, alle nappine, in un assemblaggio simbolico<br />
dissacrante, sfrenato. Passa dai readymade ai collage,<br />
agli “specchi”, ai Sogni dipinti a mano (1959), all’Ultra<br />
Ubu (1961), alla “patafisica” di Jarry, alla serie meccanica,<br />
al Picasso rivisitato (1969), all’omaggio a Guernica nei<br />
Funerali dell’anarchico Pinelli (1972), una sorta di teatrino<br />
gigante a sagome piatte, dolorosamente accusatore.<br />
Nel 1957 Baj aveva pubblicato il Manifesto contro lo stile<br />
(firmato, oltre che dal gruppo dei Nucleari, da Klein, da<br />
Giò e Arnaldo Pomodoro, da Restany, Saura, Sordini,<br />
Verga). L’opera presente in mostra, Meccano, degli anni<br />
Sessanta, è un giocattolo composto di residui meccanici,<br />
a formare un insolito carretto, dal colore vivo, del tutto<br />
sprezzante dei canoni di un design istituzionale. Si ispira<br />
a un testo dello scrittore surrealista Raymond Queneau,<br />
amico dell’artista.<br />
126 127
Nucleare<br />
Sergio Dangelo<br />
(1932)<br />
Fondatore, con Enrico Baj, del Movimento Nucleare,<br />
organizza con Jorn del gruppo Cobra, Tullio d’Albisola e<br />
Pinot Gallizio gli Incontri Internazionali di Artisti Liberi<br />
di Albisola (1954), e fonda nel 1955 la rivista “Il Gesto”;<br />
dal 1957 fu collaboratore della rivista “Phantomas”.<br />
È tra gli artisti più liberi tra gli italiani nel secondo<br />
dopoguerra. Contro la poetica astratto-concreta, ha prediletto<br />
l’automatismo e la casualità del gesto. Passava<br />
da un “tachisme” di carattere informale ad una scrittura<br />
segnica, propria del suo periodo nucleare. Fa uso del<br />
colore in maniera fresca e delicata. Il rapporto con Baj<br />
e con Jorn accrescerà la sua componente “romantica”.<br />
Elaborava infatti, in quel periodo, una “scrittura” libera,<br />
orientalizzante, onirica.<br />
In mostra Il Samurai, del 1955, legato al periodo della sua<br />
sperimentazione nel “Movimento Nucleare”, di carattere<br />
quasi dada. Si tratta di un assemblaggio di oggetti del<br />
suo quotidiano: un pennello, una spatola per mischiare<br />
il colore, sopra una lastra di materia plastica, trasparente,<br />
un anello spostato a sinistra, a dare alla composizione<br />
un movimento morbido, racchiusi in una lunga, sottile<br />
cornice scura di tipo orientale, a mimare il ricco costume<br />
e le armi di un samurai, o almeno per evidenziarne, con<br />
garbata e raffinata ironia, le caratteristiche.<br />
Il Samurai, 1955, tecnica mista cm<br />
25x15. Galleria Peccolo, Livorno,<br />
2002.<br />
128 129
Nouveau rÉalisme<br />
131
Nouveau réalisme<br />
Yves Klein<br />
(1928-1962)<br />
La Terre Bleu, 1957/1994; resina<br />
sintetica e pigmento, h cm 36.<br />
Asta Sotheby, Londra. 27.6.2001.<br />
Lotto 218.<br />
Appassionato di filosofia orientale e delle teorie cosmogoniche<br />
e filosofiche dei Rosa Croce, insegnante di judo,<br />
studioso del colore nei suoi significati simbolici, proponeva,<br />
nel 1947, la sua prima Sinfonia monocroma (“un enorme<br />
suono continuo seguito da un silenzio altrettanto enorme<br />
ed esteso, fornito di dimensioni illimitate”. (Si pensi al<br />
“silenzio” di 4’33’’ di John Cage). Il colore costituirà per<br />
lui una realtà che si fa immagine del mondo e condiziona la<br />
coscienza a mezzo della sensibilità, come elemento costitutivo<br />
del rapporto interiore tra gli uomini, “impregnandoli”.<br />
Considera i suoi “monocromi” capaci di “fissare in uno<br />
spazio, a mezzo del colore, quell’energia cosmica che agisce<br />
sui sensi”. Esponeva i “monocromi” a Parigi nel 1955. La<br />
sua ricerca sul colore, dopo esser passata dal blu, al rosa,<br />
all’oro (la trilogia dei colori della fiamma) si fermerà sul blu,<br />
che rappresenta, per lui, come scriveva Pierre Restany “la<br />
rivelazione [...], il supporto di intuizioni non racchiudibili in<br />
formule, il veicolo di grandi emozioni, l’immagine captata<br />
del firmamento e della intimità del mondo, il ricordo di<br />
questa dimensione ‘immateriale’ dell’universo”. Del 1958<br />
è l’esposizione a Parigi, di Le Vide (Il Vuoto) che, nella concezione<br />
filosofica orientale non è il niente, ma la creatività.<br />
Klein sarà l’ispiratore della nascita della Scuola di Nizza (il<br />
Nouveau Réalisme, 1960). Nelle Anthropométries usava i<br />
“pennelli viventi”, modelle nude, cosparse di pittura azzurra,<br />
che si gettavano sul supporto, disteso a terra, lasciandovi<br />
le loro impronte. Dipingeva la pioggia di blu polverizzando<br />
il pigmento puro in emulsione densa nell’aria durante la<br />
pioggia che lasciava il segno su una carta disposta a terra.<br />
Con l’architetto Werner Ruhnau progettava la climatizzazione<br />
dell’atmosfera e il controllo dei fenomeni naturali,<br />
impregnando lo spazio della sua sensibilità. Nel 1960 a<br />
Nizza provava il Saut dans le vide (Salto nel vuoto); nel 1961<br />
realizzava a Krefeld i “tableaux de feu” (pitture di fuoco),<br />
usando getti di gas di altoforno su cartoni di amianto,<br />
proponendo anche la progettazione (con l’architetto Philip<br />
Johnson) di fontane di fuoco. Seguirà il progetto dei “portraits<br />
réliefs” (rilievi ritratto), con calchi eseguiti sul corpo,<br />
dei quali solo quello di Arman sarà eseguito. Il lavoro presente<br />
in questa mostra, La Terre Bleu, del 1957 (riedito nel<br />
1994), presenta l’idea dell’intera terra “impregnata” del<br />
colore blu, come immersa nel suo concetto di “rivelazione”,<br />
di “veicolo di grandi emozioni, l’immagine captata del<br />
firmamento, il ricordo di questa dimensione ‘immateriale’<br />
dell’universo”, per dirla ancora con Restany.<br />
132 133
Nouveau réalisme<br />
Arman<br />
(1928-2005)<br />
Esponente del Nouveau réalisme. Secondo Pierre<br />
Restany, promotore e teorico del movimento, Arman è<br />
quello che ha portato più lontano, fino alle ultime conseguenze<br />
logiche, il progetto di appropriazione dell’oggetto,<br />
caratteristica del Nouveau réalisme, che nasceva<br />
a Nizza nel 1960.<br />
Addirittura folgorato dalla mostra parigina dei monocromi<br />
di Yves Klein del 1955, passava da una vita piccoloborghese<br />
(già, evidentemente aperto alla trasgressione),<br />
da venditore di mobili (di giorno), a pescatore subacqueo<br />
(di notte) e di “pittore della domenica” (ancora<br />
secondo la definizione di Restany), a una operazione di<br />
ripetizione di gesti coi suoi Cachets (timbri a inchiostro<br />
ritmicamente ripetuti su carta, 1955), alle “tracce” di<br />
oggetti coperti di inchiostro, gettati contro la tela, del<br />
1959 (è chiaro il riferimento alle Anthropométries di Klein,<br />
dipinti eseguiti dai corpi delle modelle nude, cosparse di<br />
vernice azzurra, distese sulla tela disposta a terra), alle<br />
Allures, che proponevano accumulazioni di oggetti, alle<br />
Pattumiere (1959-1960), ai mucchi di detriti esposti alla<br />
Galleria Iris Clert, a Parigi, opere nelle quali entrava in<br />
pieno nel clima del Nouveau réalisme, impostato sulla<br />
critica e sul rifiuto del consumismo sfrenato del mondo<br />
contemporaneo.<br />
Dal 1960 hanno inizio le sue “accumulazioni” (di oggetti<br />
ripetuti, o tagliati a fette, molto spesso libri o strumenti<br />
musicali) immersi in contenitori trasparenti contenenti<br />
materiale plastico liquido che, solidificandosi, soffoca e<br />
fissa gli oggetti in una sorta di cristallizzazione, catalogata<br />
e fissata per una archeologia del futuro.<br />
L’opera presente nella collezione Bertini, ed esposta<br />
in questa mostra, è una piccola Venere in bronzo (1989),<br />
anzi una parte di essa, per così dire, affettata lungo la sua<br />
altezza. L’opera riprende ironicamente le caratteristiche<br />
del lavoro dell’artista, quasi avesse estrapolato una parte<br />
dell’intera scultura dalle altre sezioni, evidenziandone<br />
una valenza autonoma.<br />
Venere, 1989; bronzo, h cm 40.<br />
Pietro Caporella, Fonderia Val di<br />
Chiana, Torrita di Siena.<br />
134 135
Nouveau réalisme<br />
Christo<br />
(1932)<br />
Esponente del Nouveau réalisme, porta avanti le teorie<br />
del gruppo relative alla appropriazione e accumulazione<br />
degli oggetti, a cui aggiunge un “empâquetage”,<br />
ricoprendo cioè l’oggetto: inizialmente oggetti comuni<br />
singoli – Ritratto di B.B. impacchettato, 1963; Pacco in carrello<br />
da spesa, 1964; in seguito monumenti e intere porzioni<br />
di territorio, sconfinando in una sorta di Land Art<br />
‘avant-lettre’, dall’Empâquetage delle Scogliere di Dover,<br />
alla Grande cortina di Courtain Valley, Gran Hogbach,<br />
Reflex, Colorado, 1970-1972) con enormi fogli di plastica,<br />
fino alla grande installazione newyorkese di The gates<br />
in Central Park (2005). Nel 1963 esponeva a Monaco,<br />
durante il secondo Festival del Nouveau réalisme, dove<br />
proponeva un monumento di 2.000.000 di barili di petrolio<br />
per gli Emirati arabi, con un gesto fortemente critico.<br />
In questa collezione i progetti Wrapped Trees del 1998<br />
per la Fondazione Beyeler a Berower-Rhein (Svizzera),<br />
Over the River del 1999 per un “empâquetage” sul<br />
fiume Arkansas in Colorado; The Gates del 2000, per un<br />
“empâquetage” per il Central Park. Si tratta di disegni<br />
e collage di stoffa che li trasformano in lavori a metà tra<br />
disegno e opera plastica.<br />
Over the River, 1999;<br />
cm 21x23.<br />
Wrapped Trees, 1998,<br />
cm 35,5x28.<br />
A fianco<br />
The Gates, 2000, cm 21x23.<br />
Acquisiti dall’artista.<br />
136 137
Nouveau réalisme<br />
César<br />
(1921-1998)<br />
Esponente, dal 1960, del Nouveau réalisme, pur vivendo<br />
a Parigi nell’ambito delle avanguardie concretiste<br />
e costruttiviste, preferiva dedicarsi a una ricerca libera<br />
sulla natura e sui materiali che lo avvicinava alle esperienze<br />
informali nei suoi assemblaggi di materie ferrose,<br />
di scarto di fonderia, che saldava con la fiamma ossidrica<br />
ricavandone animali favolosi, ironici, subendo l’ascendente<br />
di Germane Richier e del Surrealismo. In seguito<br />
arriverà alla compressione di carcasse di automobili (poi<br />
anche di altri oggetti metallici e industriali) a mezzo di<br />
una pressa idraulica, ricavando blocchi compatti, parallelepipedi<br />
nei quali si evidenziano i colori sintetici e lucidi<br />
delle superfici delle macchine assieme a parti arrugginite:<br />
grandi <strong>sculture</strong> che contrappongono la forma globale,<br />
sintetica, alla materia informe di cui si compongono.<br />
Secondo Restany, il promotore e teorico del Nouveau<br />
réalisme, quasi dei ready-made alla Duchamp (forse<br />
sarebbero avvicinabili, piuttosto, ai ready-made “rettificati”<br />
di Man Ray). Anche l’americano Chamberlain<br />
ha assemblato parti di macchine in disuso, lasciandole,<br />
peraltro, libere a formare <strong>sculture</strong> aperte, di carattere<br />
pop quasi gestuali. In César c’è invece un’allusione<br />
diretta alla rottamazione (durante la quale le macchine<br />
vengono schiacciate a diminuirne l’impatto volumetrico),<br />
in chiave con le teorie di appropriazione dell’oggetto<br />
caratteristiche del Nouveau réalisme. Dalla metà degli<br />
anni Sessanta César realizzava, per fusione, grandi totem<br />
di oggetti ingigantiti, come il suo noto Pouce de César (il<br />
suo pollice). Arriverà, nel suo tentativo di esaltazione<br />
della forza esplosiva e autodistruttiva della materia e<br />
di appropriazione della materia stessa, alle “colate” di<br />
oggetti in fusione, riversate a terra, come lava ribollente,<br />
in espansione fino al loro raffreddamento.<br />
In mostra una Compressione della fine degli anni Settanta<br />
di lattine a formare un parallelepipedo ricco di colore.<br />
Compressione, fine anni Settanta;<br />
lattine, cm 40x41x12,5.<br />
Asta Farsetti, Prato, 15.5.2001.<br />
Lotto 373.<br />
138 139
Nouveau réalisme<br />
Niki de Saint-Phalle<br />
(1930-2002)<br />
Negli Stati Uniti fino al 1951, a Parigi dal 1952, sposava<br />
Jean Tinguély e, dal 1960, era membro, col marito,<br />
del Nouveau réalisme. Iniziava coi suoi Pannelli<br />
bersaglio – vi erano appesi sacchetti di colore, vetro,<br />
bombe fumogene – su cui si sparava, in una operazione<br />
che coinvolgeva direttamente lo spettatore, facendolo<br />
diventare partecipe dell’evento. Realizzerà, in seguito,<br />
monumentali <strong>sculture</strong> femminili in gesso o in poliestere,<br />
a dimensione spesso ambientale, praticabili attraverso il<br />
sesso-porta. Erano queste coloratissime, esuberanti nelle<br />
forme, enormi giocattoli che chiamava Nana, legate alla<br />
memoria infantile, ma anche monito nei confronti della<br />
condizione della donna-bambola, qui ironicamente trasformata<br />
da attrazione erotica in enorme fantoccio.<br />
La coloratissima piccola Nana Soleil, del 2000, in mostra,<br />
è veramente, nella fastosità dei suoi colori, un’immagine<br />
solare, felice della propria condizione libera dagli schemi<br />
stereotipi sui quali si giudica la donna.<br />
Dal 1970, con altri artisti, ha realizzato in un bosco a<br />
Milly-la-foret, un testa, il Cyclop, alta 24 metri, spiccata<br />
dal busto, all’interno della quale corrono palchi<br />
trasformati per spettacoli estemporanei (un Gigantoleum<br />
“super-individual-collaborativo, a lungo-termine-permanente-collettivo”,<br />
una sorta di reperto archeologico per il<br />
futuro). Nel 1966 realizzava, per il Museo di Stoccolma,<br />
con altri artisti, una enorme Nana sdraiata e abitabile<br />
in rete metallica, tessuto, colla, che chiamava Lei, con<br />
semafori rossi e verdi che ne controllano l’entrata. Anche<br />
a Knobbe, in Belgio, ha realizzato una gigantesca Nana<br />
sdraiata, a colori vivi, utilizzabile come abitazione. “Io<br />
sono Nana, la casa di sogno; dentro me puoi mettere<br />
tutto quello che vuoi, un bar, un letto, una biblioteca,<br />
una cappella. Io sono una casa di bambola per adulti<br />
[...], un rifugio per sognare”. Niki de Saint-Phalle ha<br />
affermato che l’ispirazione per queste opere le deriva<br />
dall’aver visto, a venticinque anni, il Palais Idéal del<br />
postino Cheval a Hauterives in Francia (uno dei più<br />
interessanti esempi di architettura fantastica), e le opere<br />
di Antonio Gaudí.<br />
Nana Soleil, 2000; resina poliestere,<br />
h cm 34. 175 esemplari. Asta<br />
Perreine-Royer-Lajeunesse,<br />
Versailles, 28.4.2002. Lotto 102.<br />
140 141
Nouveau réalisme<br />
Daniel Spoerri<br />
(1930)<br />
Dal 1960 fa parte del gruppo del Nouveau réalisme, il<br />
corrispondente europeo del New Dada statunitense, ma<br />
con una carica di forte critica contro la massificazione, la<br />
tecnologizzazione, il consumo, del mondo moderno. Ha<br />
trasformato spesso gallerie in ristoranti (aprirà in seguito<br />
un suo ristorante), per poter fissare gli avanzi del cibo<br />
e il vasellame lasciato sul tavolo da chi vi ha mangiato;<br />
ruota poi i tavoli di 90° proponendoli come reperti<br />
futuri di rifiuti della nostra civiltà, che rappresentano i<br />
suoi “quadri-trappola” ready made, o le “nature morte”<br />
del caso (1952). Sono, queste, tra le realizzazioni più<br />
importanti del Nouveau réalisme. Spoerri parteciperà<br />
anche ai lavori del movimento Fluxus nel 1963 a Nizza,<br />
durante il Festival Mondiale di Fluxus e Arte totale. In<br />
quell’occasione “firmava” Nizza come opera d’arte (un<br />
chiaro gesto duchampiano),<br />
In mostra Vassoio degli anni Novanta in bronzo, in realtà<br />
quasi un tradimento nei confronti del concetto per il<br />
quale erano nati i suoi “quadri-trappola” ready made,<br />
questa volta non lasciato alla sua inevitabile destinazione<br />
di disfacimento organico, ma tradotto in un materiale per<br />
definizione, imperituro.<br />
Vassoio, anni Novanta; bronzo,<br />
cm 32x52. Acquisito dall’artista.<br />
142 143
Nouveau réalisme<br />
Raymond Hains<br />
(1926-2005)<br />
Bretone, a Parigi aderiva al Lettrisme con Mahé de<br />
Villeglé, mentre lavorava come fotografo. Aveva messo a<br />
punto con de Villeglé, col quale aveva studiato presso la<br />
Scuola di Belle Arti di Rennes, il principio della “camera<br />
scanalata”, allo scopo di produrre una diffrazione ottica<br />
dell’immagine fotografica che applicavano alle lettere<br />
tipografiche, trasformandole in “ultra lettere”. Nel 1949<br />
Hains iniziava a staccare dai muri gli strati sovrapposti<br />
dei manifesti strappati,, simbolo del deteriorarsi delle<br />
immagini (e della vita) nella città. Questa sua pratica<br />
differisce da quella dell’italiano Rotella che, nello<br />
stacco dei manifesti strappati, cerca di realizzare un<br />
nuovo genere di formatività, e anche da quella di de<br />
Villeglé, considerata come una “appropriazione” della<br />
realtà. Hains mira, invece, a scoprire nella strada nuove<br />
immagini e forme. Nel 1960 Hains aderiva al gruppo<br />
dei Nouveaux réalistes avvicinandosi in seguito alla Pop<br />
europea; ed è in questo momento che realizzava, tra l’altro,<br />
serie giganti di Fiammiferi, come quella presente in<br />
questa collezione (1966), con la stessa ironia con la quale<br />
Gnoli, per esempio, ingigantiva, nei suoi lavori, particolari<br />
di esseri umani e di oggetti; o il pistoiese Ruffi<br />
gioca con le immagini di strumenti della vita contadina<br />
toscana, contrapponendo a una Pop-ular Art americana<br />
(quella che ironizzava sulla nuova Pop-ular Art della città<br />
moderna) quella della più casalinga (nostrana e antica)<br />
campagna toscana. Nel caso di questi Fiammiferi rovesciando<br />
anche il concetto di “piccola scultura”.<br />
Fiammiferi, 1966; legno,<br />
cm 64x67. Galleria Metastasio<br />
di Carlo Palli, Prato.<br />
144 145
Fluxus<br />
147
Fluxus<br />
Joe Jones<br />
(1934-1993)<br />
Newyorkese, ha vissuto anche in Italia. Membro del<br />
gruppo Internazionale Fluxus dagli anni Sessanta, ha<br />
usato la musica e il suono come eventi sonori dovuti,<br />
praticamente, al caso. Sonagli, campanelli, piccoli<br />
oggetti tintinnanti sono i mezzi sui quali interviene con<br />
piccoli motori per estrarne suoni leggeri, preziosi, spesso<br />
anche con ironiche allusività a forme di eccitazione<br />
sessuale come in On the Floor del 1972, presentato a<br />
Bologna durante la mostra Performances, consistente in<br />
un manichino-strumento che suonava se azionato da un<br />
pene gigantesco.<br />
È anche autore di enormi giocattoli che suonano a mezzo<br />
di cellule solari.<br />
L’opera in mostra, Chitarra elettrica del 1973, è un vero<br />
strumento musicale che suona se azionato da elementi<br />
esterni: fili metallici e ammennicoli vari. È un esempio<br />
interessante dell’intenzionalità dell’ironico, raffinato<br />
lavoro dell’artista.<br />
Chitarra elettrica, 1973; chitarra,<br />
cm 64x20. Galleria Metastasio<br />
di Carlo Palli, Prato.<br />
148 149
Fluxus<br />
Charlotte Moorman<br />
(1933-1991)<br />
Ha sempre lavorato con Nam June Paik (membro, con<br />
lei, del gruppo internazionale Fluxus) partecipando alle<br />
sue performance nelle quali si esponeva, quasi sempre<br />
nuda, davanti a un gruppo di due televisori accesi, uno<br />
sull’altro: in alcuni casi li “suonava” con l’archetto del<br />
suo violoncello, in altri invece li “suonava” direttamente.<br />
Di lei alcuni bei video, impostati sul suono e<br />
sul colore. Ha realizzato alcuni lavori, spesso in piccola<br />
serie, impostati sul violoncello, come quello esposto in<br />
questa mostra, Violoncello, del 1983: la sagoma in legno<br />
di un violoncello incorniciata, realizzata attorno al suo<br />
oggetto-simbolo.<br />
Violoncello, 1983; legno, cm 105x74.<br />
Esemplare 4/8. Galleria Metastasio<br />
di Carlo Palli, Prato.<br />
150 151
Fluxus<br />
Ben Vautier<br />
(1935)<br />
Del gruppo internazionale Fluxus, di cui diffondeva la<br />
teorie trasgressive, usa la scrittura per indicare e definire<br />
tutto ciò che è, comunque, arte, per togliere all’oggetto<br />
la sua fisicità, per farlo assurgere ad un concetto astratto<br />
(che generalmente – egli dichiara – è Dio). “Si può<br />
dichiarare l’artisticità di Dio” ha scritto Renato Barilli<br />
“anche senza legarlo al reperto materico di una pallina<br />
di ping pong; è quanto fa consapevolmente Ben che non<br />
esita a ‘firmare’ come opera d’arte direttamente il concetto<br />
di Dio, come firma quello della morte e del tempo,<br />
del vuoto, dell’arte e perfino del suo contrario, dell’assenza<br />
di arte”. D’altra parte Ben ha dichiarato anche che,<br />
dopo Duchamp, non è più possibile, considerare l’arte<br />
come prima. Chi, se non Duchamp, ha firmato come<br />
arte Fountain (l’orinatoio), dichiarandolo opera d’arte per<br />
il fatto stesso che è l’artista a dichiararlo tale? In un suo<br />
lavoro, Magazine (1968), Ben Vautier ha raccolto reperti<br />
di vita vissuta, sua e degli amici, esponendoli. Si ricordi<br />
che il dadaista Schwitters, nel suo Merzbau di Hannover<br />
a cui lavora dal 1923, aveva pure raccolto oggetti e residui<br />
degli amici, peraltro ‘soffocandoli’ nel gesso. In un<br />
altro lavoro Ben Vautier pone se stesso come documento<br />
“in tempo reale”. La brevi scritte, bianche su nero, portano<br />
il suo gioco sistematico a regola assoluta che, a sua<br />
volta, si regge sulla trasgressione di sé.<br />
Nella collezione Bertini Candela quadro, del 1990, una<br />
candela che ha lasciato il segno della sua fiamma sul<br />
fondo rosso; accanto un testo: “A candle for when all the<br />
lights will go out” (Una candela per quando tutte le luci<br />
se ne andranno). Un esempio della sua consueta, ironica<br />
concettualità lapalissiana.<br />
Candela quadro, 1990; cera,<br />
cartone, inchiostro, legno, cm<br />
37x38. Esemplare 14/20. Galleria<br />
Metastasio di Carlo Palli, Prato.<br />
152 153
Fluxus<br />
Wolf Vostell<br />
(1932-1998)<br />
Automobile, anni Sessanta;<br />
bronzo, cm 12x27. Pietro Caporella,<br />
Fonderia Val di Chiana, Torrita di<br />
Siena.<br />
Esponente del gruppo internazionale Fluxus, i cui membri<br />
provengono, quasi tutti, dal campo musicale, presentava nel<br />
1961 a “Fluxus/Musica” la sua proposta di “dé-coll/age”. È<br />
con questa definizione che si è sempre presentato nelle sue<br />
operazioni, dai “manifesti strappati” al “mescolamento di<br />
fotografie”, al “rumore di emissioni televisive”, a tutti i suoi<br />
oggetti, agli happening. Questa era la sua proposta:<br />
“Kleenex 1962; azioni di dé-coll/age 1) Sedetevi ad una tavola<br />
in mezzo al pubblico (o davanti al pubblico) e cancellate i reportages<br />
politici su un giornale conosciuto con del tetracloruro e dei<br />
kleenex. La CANCELLAZIONE dell’immagine deve essere<br />
sentita fortemente dal pubblico per mezzo di microfoni a contatto.<br />
2) Disporre soldatini giocattolo di ogni tipo in plastica e voci<br />
di animali (in scatola) sopra a delle lussuose pagine di pubblicità<br />
e rompete bruscamente i soldatini e le voci per mezzo del martello.<br />
Anche questa azione deve essere amplificata per mezzo<br />
di microfoni a contatto. 3) Saltate su all’improvviso e gettate in<br />
fretta 200 lampadine elettriche grosse e <strong>piccole</strong> contro un grande<br />
disco di plexiglas (da tre a cinque metri di diametro al minimo)<br />
che deve esser posto immediatamente davanti alle teste<br />
degli spettatori. Anche questo suono deve essere amplificato.<br />
4) Gettate poi una torta alla crema contro il disco di plexiglas e<br />
spargetela su tutta la superficie affinché l’esecutore non sia più<br />
visto dal pubblico. Anche questo suono deve essere amplificato.<br />
5) Non permettete che il vostro macellaio vi incarti la carne<br />
in giornali reazionari. 6) Gettate un brutto giornale in un grande<br />
campo di grano giallo. 7) Recatevi all’aeroporto, prendete un<br />
aereo senza domandarne la destinazione: all’arrivo, non importa<br />
dove, prendete un nuovo aereo senza chiedere dove va; ripetete<br />
il procedimento finché non sarete tornato al punto di partenza.<br />
8) Salite, solo, su un ascensore e immaginate, fra i piani, per<br />
un tempo indeterminato, una diga su un fiume o lo scoppio di<br />
una guerra atomica”. Con queste proposte dissacranti, Vostell<br />
sembra voler sfidare le forze distruttive che minacciano continuamente<br />
il mondo, con una lucidità concettuale vivissima.<br />
Nel 1980, nell’ambito della Manifestazione Umanesimo/<br />
Disumanesimo nell’arte europea 1890-1980 a Firenze, Vostell<br />
presentava l’azione-installazione Joana la loca (Giovanna la<br />
pazza, l’infelice regina di Castiglia) lasciando libera una gallina<br />
bianca su una bianca distesa di piume nel cortile di Palagio<br />
di Parte Guelfa. In questa collezione è presente, di Vostell,<br />
Automobile, un piccolo bronzo degli anni Sessanta, che sembra<br />
voler trasformare in un gioco ironico, trasgressivo e dissacrante,<br />
presentando in forma goffa e incompleta uno degli strumenti<br />
tecnologici più presenti nella vita di ogni giorno.<br />
154 155
Fluxus<br />
Giuseppe Chiari<br />
(1926-2007)<br />
Il lavoro di Giuseppe Chiari si è sempre svolto per<br />
sconfinamenti dallo specifico del linguaggio, secondo<br />
comportamenti alternativi con riferimenti al New Dada,<br />
al Futurismo, soprattutto al lavoro di John Cage. Unico<br />
artista italiano (se si toglie l’adesione non continua di<br />
Simonetti e del musicista Bussotti) che ha fatto parte del<br />
movimento internazionale Fluxus, chiamato da Heinz<br />
Klaus Metzger, rappresentante per la sezione Europa<br />
Ovest del movimento. Con Fluxus partecipa a diverse<br />
edizioni del Festival a Parigi, a Wiesbaden, a New York.<br />
È partito dalla ricerca musicale per distruggerne il conformismo<br />
sonoro che egli, simbolicamente, configura nel<br />
pianoforte (molte sue azioni e installazioni lo assumono<br />
come tema). Le sue azioni “trasgressive”, perché se “la<br />
musica è facile” occorre passare attraverso gesti “difficili”,<br />
implicano la distruzione, appunto, del pianoforte,<br />
l’uso di materiali ridotti (fotocopie, xeros, partiture,<br />
prassi comune a tutto Fluxus), la sperimentazione delle<br />
tecniche del suono che stravolge piegando, talvolta, strumenti<br />
tradizionali a usi diversi. Le sue azioni di improvvisazione<br />
collettiva sono “imperniate sulla discussione<br />
libera e programmata, allo stesso tempo, col pubblico”.<br />
Formalizza le sue azioni stesse, nelle quali lavora sulle<br />
partiture, con lavori “grafici”, con collage, testi, video.<br />
Usa spesso la macchina fotografica analizzandone le possibilità<br />
“libere”, nell’intento continuo di stravolgere le<br />
tecniche, i suoni, i linguaggi della tecnologia. Nel 2001<br />
propose un concerto per cento pianoforti nel cortile della<br />
galleria degli Uffizi a Firenze.<br />
In mostra TV a colori, del 1990: un apparecchio televisivo<br />
interamente fasciato di nastri di plastica colorata che<br />
divengono gli unici colori visibili, essendo lo schermo<br />
completamente coperto e annullato nella sua funzione,<br />
con una operazione dada, ironica e fortemente critica,<br />
che richiama tante operazioni di occultamento, da<br />
L’Enigme d’Isidore Ducasse del 1920 di Man Ray all’Etant<br />
donnés del 1946 di Duchamp.<br />
TV a colori, 1990; televisore e nastri<br />
di plastica colorata, h cm 42,5.<br />
Pubblicato in Da Duchamp a<br />
Warhol, Verona 1997, p. 250.<br />
Galleria Metastasio di Carlo Palli,<br />
Prato.<br />
156 157
New Dada<br />
159
New Dada<br />
Robert Rauschenberg<br />
(1925-2008)<br />
Con Jasper Johns fu esponente del New Dada newyorkese.<br />
Lavorava, nel 1955, con la Merce Cunningham<br />
della Black Mountain School, realizzando scenografie<br />
e costumi. Con John Cage partecipava agli spettacoli<br />
di Merce Cunningham a creare “quadri viventi”,<br />
il precedente più diretto degli happening. Dopo un<br />
periodo dedicato a quella che definiva “scrittura bianca”,<br />
segnica, diveniva protagonista del rinnovamento<br />
artistico a cavallo tra l’Action Painting e la Pop Art, il<br />
New Dada, appunto. I lavori di Rauschenberg vivono<br />
del rapporto tra gesto pittorico e residui del presente,<br />
che viene messo in un rapporto di unione-frizione tra i<br />
due termini. I suoi “combine paintings” (pitture combinate,<br />
1950-1960) esprimono l’intenzione di “agire nella<br />
breccia che separa l’arte dalla vita”. Si avvale anche del<br />
riporto fotografico su tela col mezzo serigrafico, che usa,<br />
in certo senso, come una tecnica di perfezionamento<br />
del “frottage” di Ernst. Seguivano le serie “venetian”<br />
e “egiptian” (quest’ultimo un assemblage di scatole e<br />
cartoni da imballaggio colorati all’interno e posti con la<br />
parte colorata di fronte alla parete, alla quale trasmettono<br />
un alone colorato), gli “hoarsfrost”, che presentano<br />
riporti di immagini su tessuti trasparenti, in stratificazioni<br />
multiple, basati sulla leggerezza, a confondere e<br />
mischiare le immagini nell’immateriale.<br />
Talvolta le opere si complicano offrendosi come vere<br />
e proprie installazioni, come nell’opera presente nella<br />
collezione Bertini, in mostra, Fifth Force del 1986 in cui<br />
il tessuto con immagini riportate si unisce a una lastra in<br />
bronzo, alla quale il tessuto è appeso e da cui si diparte;<br />
appesa ad un filo, una palla di ferro che poggia a terra a<br />
mettere in frizione, simbolicamente, la pesantezza con la<br />
leggerezza, estremi tra i quali si organizza la vita.<br />
Fifth Force, 1986; bronzo, tessuto<br />
in seta, filo a palla in ferro. Asta<br />
Art Curial Bries, Parigi, Hotel<br />
Dassault, 26.6.2002. Lotto 385.<br />
160 161
New Dada<br />
Jasper Johns<br />
(1930)<br />
Con Rauschenberg esponente del New Dada, è uno tra<br />
i rappresentanti del momento artistico intermedio tra la<br />
fine dell’Espressionismo astratto statunitense (l’Action<br />
Painting) e la Pop Art. Poiché il lavoro di questi artisti<br />
contemplava il recupero dell’oggetto reale (secondo l’intenzionalità<br />
del Nouveau réalisme europeo) riferendosi<br />
al “ready-made” di Duchamp, si definì, impropriamente,<br />
New Dada.<br />
L’uso di oggetti tratti dalla realtà si inserisce nel lavoro<br />
pittorico di Johns, trasformandosi, peraltro, sempre in<br />
pura pittura, e l’opera trasmette il senso di un recupero<br />
simbolico dell’oggetto stesso. Si pensi al suo Tre bandiere<br />
(1958) nel quale egli recupera all’occhio, nella sua identità,<br />
un oggetto che ha perso, nello stereotipo corrente,<br />
la sua forza di rappresentazione (così come accadeva<br />
per la Gioconda coi baffi, L.H.O.O.Q., di Duchamp che<br />
ci costringe a riguardare con occhi nuovi un’opera che<br />
l’abitudine ha quasi cancellato); o ai suoi “bersagli”;<br />
o a Giorni di scuola (1969), una scarpa usata di ragazzo<br />
tradotta in bronzo. Johns tenterà anche un rapporto<br />
diretto tra la realtà e la sua pittura, inserendo nel quadro<br />
oggetti diversi, così da farne parte integrante della<br />
pittura stessa.<br />
L’opera in mostra, Smile of critics, del 1969, in lastra<br />
di piombo, è veramente un’opera che sembra ispirarsi<br />
all’ironia di Man Ray: sopra una barretta che porta il titolo,<br />
uno spazzolino da denti che al posto delle setole,ha<br />
quattro piccoli denti d’oro; uno spazzolino che, invece<br />
di puilire, stacca i denti (non a caso d’oro) del critico? Si<br />
pensi a Cadeau di Man Ray, il ferro da stiro la cui piastra<br />
è percorsa da chiodi.<br />
Smile of critics, 1969; lastra di<br />
piombo, cm 60x44. Esemplare<br />
53/60. Pubblicato in XV Biennale del<br />
bronzetto di Padova, Padova 1993, p.<br />
85. Valentino Barbierato, Vicenza<br />
2002.<br />
162 163
Pop art<br />
165
Pop art<br />
Joe Tilson<br />
(1928)<br />
Esponente della Pop art inglese, della seconda generazione<br />
(che si è anche definita Pop geometrizzata). La<br />
Pop inglese, che precede quella statunitense, pur se<br />
nata sulla scia della conoscenza dell’American Life, si<br />
pone, rispetto a quella, come espressione più critica nei<br />
confronti della civiltà massificata e dell’invasione ipertecnologica<br />
delle nostre città.<br />
Tilson tenta di colpire col suo fresco, ironico lavoro, le<br />
“immagini ambigue” della grande città, come egli le<br />
definisce, che trasforma in forme simboliche, in legno<br />
dipinto, a creare piccoli monumenti lignei, stele riferite<br />
anche alla storia antica, come nei suoi Ziggurath, o<br />
grandi giochi geometrici, allusivi, anche in senso critico,<br />
alla pubblicità industriale urbana e all’accumulazione di<br />
scorie della vita urbana. Elabora giochi linguistici, poiché<br />
il linguaggio della comunicazione influenza la nostra<br />
vita. “Mi interessa” egli dichiara “la sfera intellettuale<br />
[...]. Celebrando l’effimero si muta l’atteggiamento della<br />
gente verso di essa, la si rende più cosciente della caducità<br />
delle cose e dell’inevitabilità dei cambiamenti”.<br />
In mostra un gustoso oggetto esagonale, scandito in<br />
moduli romboidali, che contengono, ciascuno, una lettera<br />
a comporre e articolare la parola “EARTH”, con<br />
un crescendo di lettere che formano, di volta in volta, le<br />
parole “HEARTH”, “THEART”, “RTHEARTH”, per<br />
tornare, di seguito, alla prima parola. Una sorta di poesia<br />
concreta, un gioco di parole ironico e divertito.<br />
Hearth, 1986; legno, cm 50x57.<br />
Esemplare 5/50. Aurelio Amendola.<br />
166 167
Pop art<br />
Roy Lichtenstein<br />
(1923-1997)<br />
Come quasi tutti gli artisti pop aveva iniziato come<br />
vetrinista e come pubblicitario. Ne deriva la sua passione<br />
per il fumetto, che diventa il bersaglio del suo lavoro<br />
artistico. Ne dilata l’immagine che proietta sulla tela e<br />
ne riempie il retino tipografico, dilatato, che si fa, per<br />
lui, scheletro meccanico, ricreando l’immagine della<br />
puntinatura caratteristica dei pointilliste postimpressionisti.<br />
Intende esprimere la banalizzazione operata dall’informazione<br />
di massa che esprime con un’ironia fredda<br />
e distaccata. Tratta il quadro con un procedimento<br />
particolare, realizzandolo, cioè, a smalto e cuocendolo in<br />
forno; viene poi realizzato in molte copie. “Trasformare”<br />
scrive “è una strana parola. Implica che l’arte trasforma.<br />
Io do forma dove il fumetto non ha forma nel senso in<br />
cui io adopero questa parola. I fumetti hanno una forma<br />
ma non tentano di raggiungere l’unità. Lo scopo è diverso,<br />
lì si vuole rappresentare e io intendo unificare”. Così<br />
egli sceglie un particolare significativo di un fumetto e<br />
ne fissa i contorni per ricalco. In seguito l’uso del cartoon<br />
si fa, per Lichtenstein, il mezzo per analizzare qualsiasi<br />
tipo di immagine, da quelle del linguaggio della pittura<br />
(Grande pittura 6, 1965, la pennellata gestuale dell’Action<br />
Painting), ai D’après di Picasso, ai documenti del<br />
passato (Tempio di Apollo, 1964).<br />
Il pezzo presente in collezione, Modern Head, del 1968 è,<br />
in questo caso, un esempio quasi “improprio” del lavoro<br />
di Lichtenstein: è un gioiello rappresentante una piccola<br />
testa, nella quale il metallo è coperto da una patinatura<br />
di una immagine dalla superficie puntinata, dilatata, in<br />
smalto a colori vivi, rientrando, perciò, di diritto, nel<br />
lavoro consueto dell’artista.<br />
Modern Head, 1968; gioiello in<br />
metalli colorati e smaltati, h cm<br />
7. Multiplo. Asta “Dorotheum”,<br />
Vienna, 14.5.2002.<br />
168 169
Pop art<br />
Tom Wesselmann<br />
(1931-2004)<br />
Pop-artista statunitense con una lunga esperienza di<br />
collage, introduce nei suoi quadri riproduzioni di opere<br />
di artisti famosi, da Matisse a Mondrian, a Renoir,<br />
assunte come oggetti di consumo. Dal 1959 si limiterà<br />
all’immagine femminile, il “grande nudo americano”,<br />
mischiando immagini femminili dipinte in termini quasi<br />
espressionisti, a frammenti di fotografie pubblicitarie<br />
ritagliate da riviste.<br />
Il nudo femminile, e quanto lo concerne, si pone come<br />
alternativa nei confronti del mondo esterno, insieme a<br />
oggetti a due o tre dimensioni, che gli si pongono a fronte,<br />
all’inizio quasi come ostacoli nei confronti del nudo,<br />
in seguito, in quelle che definisce “pitture da camera”,<br />
come elementi affabili, dolci, morbidi (quasi come gli<br />
“oggetti molli” di Oldenburg).<br />
In mostra Dropped Bra, del 1980, un reggiseno di un bel<br />
rosa acceso, ritagliato in cartoncino, che diventa tutt’uno<br />
con l’idea del nudo, non più come elemento opposto o<br />
come dolce attributo, ma a sostituirsi in pieno con quello,<br />
come simbolo sostitutivo.<br />
Dropped Bra, 1980;<br />
cartoncino colorato, h cm 16.<br />
Galleria Metastasio di Carlo Palli,<br />
Prato.<br />
170 171
Pop art<br />
Luca Alinari<br />
(1943)<br />
Lucido, intelligente, ironico, ha portato avanti, dalla<br />
metà degli anni Sessanta, un’operazione pittorica arricchita<br />
dalla sua passione letteraria e dalla sua curiosità<br />
nei confronti dell’oggetto di design contemporaneo<br />
che caratterizza la vita quotidiana, l’oggetto “banale”<br />
(per dirla con Alessandro Mendini) – quello che, allora,<br />
veniva perseguito dal design degli architetti trasgressivi<br />
(“radical” e “postradical”) aderendo, in qualche modo,<br />
alla cultura “pop” – per passare, in seguito, a una figurazione<br />
più corrente, senza rinunciare alla sua tagliente,<br />
corrosiva ironia.<br />
Il lavoro presente in mostra, Complicata zebra, degli anni<br />
Settanta, è un trasparente ferro da stiro in Plexiglas©,<br />
che fu esposto, al suo nascere, integro, in una personale<br />
al Museo Progressivo di Livorno.<br />
All’interno del ferro una resistenza elettrica mette in<br />
crisi la sua incolumità, la sua stessa esistenza, perché,<br />
una volta inserita la spina, il Plexiglas© si scioglierà e<br />
l’opera sarà distrutta. Oggi si presenta qui a metà del<br />
suo percorso. Qualcuno (lo stesso artista?) ha inserito<br />
la spina, ma il disfacimento si è interrotto a metà, trasformandosi<br />
in una sorta di monito sulla caducità della<br />
vita. Resta l’ironia deviante di un titolo volutamente<br />
assurdo.<br />
Complicata zebra, anni Settanta;<br />
Plexiglas© e resistenza elettrica,<br />
cm 16x23. Galleria Metastasio<br />
di Carlo Palli, Prato.<br />
172 173
Gino Marotta<br />
(1935-2012)<br />
Artista e promotore culturale (tra gli organizzatori<br />
di importanti manifestazioni, come Amore mio, a<br />
Montepulciano, 1970).<br />
Dagli anni Sessanta legato alla Pop europea, secondo<br />
una sua adesione particolare, lucida e ironica, realizzava<br />
lavori a carattere ambientale, secondo le regole di un<br />
raffinato design, in metacrilato trasparente, fluorescente,<br />
oppure vivacemente colorato, che ritagliava in lastre<br />
che congiungeva a incastri, o disponeva in parallelo, per<br />
sezioni (secondo modalità che Ceroli, ad esempio, usava<br />
per il legno), o sovrapponeva creando selve di sagome di<br />
alberi colorati, luminosi.<br />
E poi rose, rose, rose... (Rosacropoli, Rodopolis, Rosavento,<br />
Rosacroce, Rosa Giocasta, Cosmica rosa, Rosa Galassia, Rosa<br />
ombra, Rosa rugiada, Rosa cerebro, Rosa Dickinson, La rosa<br />
l’è in bel fiùr...). Usa anche marmo, onice, travertino,<br />
plastica preformata, privilegiando, sempre, la bidimensionalità.<br />
Anche in questa collezione il suo Fiore giallo del 1967,<br />
una forma essenziale, semplificata, l’archetipo, per così<br />
dire, del fiore, è realizzato in perspex, e si accresce della<br />
luce al neon che lo esalta.<br />
Fiore giallo, 1967; perspex e luce<br />
al neon, ø cm 54.<br />
Galleria Metastasio di Carlo Palli,<br />
Prato.<br />
174 175
Pop art<br />
Lucio Del Pezzo<br />
(1933)<br />
Elabora, negli anni Sessanta, un suo particolare genere<br />
di adesione alla Pop arte europea, un genere che può<br />
esser definito Pop geometrico.<br />
È tra i fondatori, a Napoli, del Gruppo 58 e della rivista<br />
“Documento Sud”. È partito da un’analisi della Pop<br />
inglese, di Tilson soprattutto, per arrivare a una sua<br />
particolare interpretazione di un mondo di oggetti che<br />
colloca, in gruppo, su <strong>piccole</strong> scansie, in teche, secondo<br />
una sua visione astratto-geometrica di una nuova<br />
metafisica, che esprime sempre più in termini, appunto,<br />
geometrici.<br />
Assembla sfere, cilindri, birilli stilizzati, immagini araldiche<br />
che ricopre di colore vivo, spesso su basi dorate,<br />
secondo una scenografia fantastica, ricca di fascino.<br />
Presenta qui Geometrie, del 1990, in legno colorato, un<br />
esempio felice del suo lavoro.<br />
Geometrie, 1990; legno dipinto,<br />
cm 114x30.<br />
176 177
Pop art<br />
Umberto Buscioni<br />
(1931)<br />
Nel 1964, al suo ritorno da un viaggio in Marocco, quando<br />
iniziava a prendere coscienza della propria, spontanea<br />
“vocazione pittorica”, Buscioni incontrava Roberto<br />
Barni, Gianni Ruffi, Adolfo Natalini e, con loro, iniziava<br />
un dialogo autonomo con il clima, a quel momento pressante<br />
in Europa, legato alla Pop art. Nasceva la Scuola di<br />
Pistoia, nella quale ciascuno degli esponenti, secondo la<br />
propria intenzionalità, reagiva a questo fenomeno internazionale.<br />
Buscioni iniziava un suo dialogo col colore,<br />
attraverso la sua esperienza culturale e la sua concezione,<br />
come scriveva Renato Barilli nel 1967, della “felicità<br />
della pittura” come “totale, devota immersione nei fatti<br />
di un limpido vedere e percepire”. Usava l’immagine di<br />
“oggetti” comuni dei media correnti (strisce, cravatte,<br />
camicie, ricchi di colore, ondeggianti nel vento), per<br />
passare poi a ondosi, complessi addensamenti di stoffe,<br />
ricchi di drappeggi e di pieghe, di riferimento manierista<br />
(nell’uso del colore) e barocco. Arriverà al riferimento<br />
diretto a immagini di eremiti, di santi dai grandi manti<br />
ondosi, che tratterà coi colori acidi del Pontormo e del<br />
Manierismo fiorentino.<br />
In mostra è presente un gustoso lavoro, Narciso, del<br />
2003, un vetro a pannelli colorati che sembra voler portare<br />
la tradizione del vetro a colori, allo stesso tempo, a<br />
riferimenti antichi, come quelli delle vetrate gotiche, e a<br />
contemporanee immagini di figure quasi naïves.<br />
Narciso, 2003; vetro colorato,<br />
cm 63x40. Acquisito dall’artista.<br />
178 179
Poesia visiva<br />
181
Poesia visiva<br />
Jiri Kolàr<br />
(1914-2002)<br />
Dopo essere stato esule durante l’occupazione tedesca,<br />
in rapporto col Gruppo 42, con artisti, fotografi, poeti,<br />
teorici, impegnati a proporre il metodo come ultimo<br />
messaggio di libertà, realizzava, tra il 1950 e il 1960, a<br />
collage (che definiva “pollage”, “rollage”, “chiasmage”,<br />
“stratificazione”) una sua interpretazione di poesia visiva,<br />
per la quale usava immagini classiche che “affettava”<br />
componendole in sezioni giustapposte, a dilatarne la<br />
dimensione, a far loro assumere una condizione temporale<br />
e a caricarle (nel caso di immagini femminili) di<br />
una sensualità morbida, poetica e, allo stesso tempo,<br />
colorandola di una sottile ironia. A Parigi dal 1970 realizzava,<br />
in seguito, con la macchina da scrivere, opere interessanti,<br />
nelle quali, a mezzo della ripetizione di lettere<br />
uguali dattiloscritte, creava immagini simboliche del<br />
lavoro di noti artisti (da Albers a Brancusi, da Fontana<br />
a Dubuffet).<br />
L’opera in collezione, Traffico urbano, degli anni Settanta,<br />
è divisa in cinque sezioni, senza centro, ad accentuare<br />
l’idea di caos caratteristica della città contemporanea.<br />
C’è anche la segmentazione di una pianta urbana di cui i<br />
percorsi sono interrotti dai tagli delle forbici, intesi a creare<br />
una rete inestricabile di linee spezzate che rendono i<br />
percorsi senza sbocco. In uno dei settori un ammasso di<br />
macchine, pronte per la rottamazione.<br />
Traffico urbano, anni Settanta;<br />
collage su perspex, cm 30x20,5.<br />
Mirella Bentivoglio.<br />
182 183
Poesia visiva<br />
Stelio Maria Martini<br />
(1934)<br />
La metà che manca, 1995; calchi<br />
in gesso, cm 40x40 ciascuno.<br />
Si dedica dal 1958 alla “poesia visuale” che riesce a<br />
comporre secondo un complesso schema narrativo. Nel<br />
1962 pubblica Schemi, dove propone un suo intenso<br />
linguaggio estetico letterario che si concretizza in opere<br />
come Neurosentimental del 1963, pubblicato nel 1974, un<br />
romanzo nel quale mette in atto, come scriveva Mario<br />
Diacono “per primo, e in modo finora insuperato, il<br />
motivo delle connessione tra parola e immagine”. Con<br />
Turbiglione (Roma, Firenze 1965) Formulazione non-a<br />
(Napoli, 1972), raggiungerà una straordinaria struttura<br />
narrativa e formale perfetta. Questi suoi sono lavori<br />
intensamente poetici, esprimenti un simbolismo che<br />
egli definisce “fine a se stesso”, nel quale “l’epigrafe<br />
(“se l’attività conoscitiva è la base della dialettica storianatura,<br />
almeno alle risultanze di cui disponiamo ne<br />
consegue la reale indistinzione dei tre livelli: individuale,<br />
esistenziale, edonistico”) può esser [...] considerata<br />
un commento”. Del 1974 è Détournement (con Luciano<br />
Caruso), chiaramente allusivo al letterismo post-Cobra.<br />
Stelio Maria Martini ha dato vita a riviste di avanguardia,<br />
e collabora, con saggi e testi vari, a pubblicazioni nazionali<br />
e internazionali.<br />
Il lavoro in mostra La metà che manca, del 1995, consta di<br />
due calchi in gesso nei quali sono iscritti testi poetici, di<br />
carattere allusivo a trasgressioni di carattere concettuale.<br />
Aggiunge un testo, da vero ‘theoricus’ settecentesco, a<br />
proposito del titolo di questi calchi (si veda a fianco).<br />
Gioco intellettualistico, ma gioco. E chi altri potrebbe<br />
legittimamente perdersi in simili faccende se non l’autore<br />
di un oggetto che, proprio per questo, non è altrimenti<br />
definibile che come poetico.<br />
“La frase la metà che manca fiorisce nell’atto di<br />
prendere tra le mani una delle metà della testa del<br />
David. È frase di pura cadenza, e l’accento tonico<br />
de la metà, mentre impedisce che la frase sia un<br />
senario regolare, spinge l’indugio della voce (del<br />
pensiero) su che manca, che resta a lampeggiare<br />
enigmaticamente in aria. Riesce di qualsivoglia<br />
utilità che l’autore tenti di spacchettare un groviglio<br />
di pensieri che insorge dalla mera sensazione indotta<br />
dal gesto, poco più che casuale, di asportare la metà<br />
della sua vicinanza con l’altra? La sensazione si<br />
risolve nell’indugio su ‘che manca’ e dondola piano,<br />
mentre agevolmente il pensiero prosegue in arzigogoli.<br />
Che annoto ugualmente. Intanto rilevo che<br />
la frase la metà che manca va debitamente scritta in<br />
rosso su entrambe le metà. Quindi le altre domande<br />
che l’enigma dell’oggetto impone: dove e a che cosa<br />
manca? E, se la metà che gli manca è presente (e<br />
pesantemente consistente), come fa nello stesso<br />
tempo ad essere e a mancare? Il problema, si diceva,<br />
investe entrambe le metà, negli stessi identici termini,<br />
anche nel caso in cui esse sono insieme, una metà<br />
vicino all’altra. Ciascuna metà è quella che manca:<br />
all’altra, va bene, ma mancano entrambe. L’enigma<br />
muove contemporaneamente in due sensi: per un<br />
verso si vuole sapere dove e a che l’oggetto viene a<br />
mancare. Anche se sono vicine, non è detto che due<br />
metà formino l’intero: oltretutto sono due oggetti<br />
distinti e, in questo caso, viene investito l’inestricabile<br />
fenomeno dei corpi destri e dei corpi sinistri.<br />
Per altro verso il medesimo oggetto soggiace alla<br />
contraddizione del sussistere e del consistere e nello<br />
stesso tempo del mancare. Il nostro senso intimo ci<br />
dice che le due metà ci sono, e tuttavia diciamo che<br />
mancano. Il senso è certo e non vuol prova, sostenne<br />
qualcuno. Qualcun altro, però, scrisse: “Sarà sempre<br />
uno scandalo per la filosofia e la ragione. In generale<br />
poter ammettere solo per fede l’esistenza delle cose,<br />
dalle quali tuttavia ricaviamo l’intera materia della<br />
nostra conoscenza, compreso il nostro senso intimo,<br />
e non poterne dare alcuna prova soddisfacente a<br />
chiunque fosse tentato di dubitarne”.<br />
184 185
Poesia visiva<br />
Arrigo Lora Totino<br />
(1928)<br />
Libro cilindro, 1996; carta, cartone,<br />
caratteri tipografici, cm 18x13,5,<br />
base cm 30x30. Galleria Metastasio<br />
di Carlo Palli, Prato.<br />
Da un periodo dedicato alla pittura (i suoi riferimenti,<br />
in quel momento erano Ettore Sottsass Jr., Mario Merz,<br />
Spazzapan), passava, ai primi anni Sessanta alla nuova<br />
poesia. Attraverso Aldo Passoni, allora direttore della<br />
Galleria d’Arte Moderna di Torino, veniva in contatto<br />
con letterati, con i nuovi artisti genovesi coi quali fondava<br />
la rivista “Antipiùgiù”, dedicata alla nuova poesia.<br />
La rivista chiuderà nel 1964. Per lui era il periodo della<br />
poesia concreta nata negli anni Cinquanta, come scrive<br />
Mirella Bandini (Arrigo Lora Totino, Torino 1996) “da<br />
un’attenta riflessione sul Coup de Dés jamais n’abolira le<br />
hasard di Mallarmé (1897), sull’esperienza delle Tavole<br />
parolibere futuriste e dei Poèmes-affiches dada di Raoul<br />
Haussmann e Kurt Schwitters nonché sulla teoria di<br />
‘poesia oggettiva’ di Van Doesburg”. Nel marzo 1966<br />
usciva a Genova la rivista “Modulo”. Lora Totino si avvicinava<br />
a Enore Zaffiri, uno tra i primi musicisti elettronici<br />
italiani, e ad artisti come Sandro De Alexandris coi quali<br />
fondava nel 1967 lo “Studio di Informazione estetica”,<br />
un gruppo sperimentale. Nascevano, dalla collaborazione<br />
con De Alexandris, opere seriali, il poema Cromofonemi<br />
(1967), Punto contro punto, Gang Gegen (visualizzazione<br />
della traiettoria di un ingranaggio), Situazioni plasticoverbali<br />
(tre scatole a sorpresa contenenti tre verboletture).<br />
Lora Totino realizzava allora Corpi di poesia, poemi tridimensionali<br />
in plexiglas, i Quattro Fonemi plastici in plexiglas<br />
serigrafato, i Cromofonemi iridescenti, Incandescenze.<br />
Seguiranno le sue Poesie sonore (“Vi è presente” scrive<br />
Barilli “l’articolazione vocale in tutte le sue modulazioni<br />
possibili”), la Poesia liquida. Piero Fogliati, artista<br />
torinese, realizzava l’Idromegafono e, con Lora Totino, il<br />
Liquimofono e il Tritaparole e insieme mettevano in scena<br />
(1968) uno spettacolo. Nel 1981, con Sergio Cena, Lora<br />
Totino realizzava i Pappapoemi. Spettacoli-cena dove si<br />
servivano piatti inventati dagli autori, che li accompagnavano<br />
con esecuzioni sonore e ginniche.<br />
Il riferimento era, ovviamente, la cucina futurista. In<br />
mostra un lavoro, Libro cilindro del 1996, formato da un<br />
libro aperto a cilindro, poggiante su una base di cartone<br />
su cui è incollato un giornale. Il tema è, comunque, il<br />
libro, come archetipo universale della comunicazione e<br />
come sacrario della memoria. (Si ricordi il Libro Circolare<br />
del 1969 di Mario Mariotti).<br />
186 187
Poesia visiva<br />
Mirella Bentivoglio<br />
(1922)<br />
Si occupa, dalla metà degli anni Sessanta, di poesia<br />
visuale e del rapporto scrittura/immagine. Ha partecipato<br />
a numerose mostre di poesia visiva, ha realizzato<br />
poemi-oggetto, installazioni; ha pubblicato libri, realizzato<br />
gioielli, organizzato mostre “al femminile” e mostre<br />
collettive dedicate alla poesia visiva e al libro d’artista.<br />
Unisce spesso, alla sua impostazione costante (il rapporto,<br />
si è visto, tra scrittura e immagine), un’ironia leggera,<br />
gustosa, che esalta il significato del suo lavoro. Tratta<br />
spesso il tema del libro.<br />
Nella collezione Bertini Albero, un piccolo libro in onice<br />
verde del 1989, che porta incisa, nelle sue <strong>piccole</strong> pagine,<br />
una famosa frase da Contemplazione di Arturo Martini:<br />
“Se tutte le cose diventassero verdi ancora gli uomini le<br />
chiamerebbero alberi”.<br />
Albero, 1989; onice verde,<br />
cm 16x20. Acquisito dall’artista.<br />
188 189
Arte visuale, Cinetica, uso della luce<br />
191
Arte visuale, Cinetica, uso della luce<br />
Bruno Munari<br />
(1907-1998)<br />
Macchina inutile, 1947-1968;<br />
alluminio e fili di nylon,<br />
cm 50x55. Asta Semenzato, Milano,<br />
28.5.2001. Lotto 258.<br />
Partecipava, già dagli anni Trenta, alle mostre dei membri<br />
del Secondo Futurismo, con oggetti mobili, sospesi,<br />
come le sue più tarde “macchine inutili”, fragili costruzioni<br />
consistenti in <strong>piccole</strong> stecche orizzontali in plastica,<br />
in cartoncino, in alluminio (una delle quali, con <strong>piccole</strong><br />
stecche in alluminio è presente in questa mostra), sospese<br />
con fili di nylon, con cui creava dei “mobiles”, con<br />
chiaro riferimento a quelli di Calder. Con questi semplici<br />
oggetti, giochi ironici, già intendeva sfatare il concetto<br />
romantico di arte e di artista come creatore di opere imperiture,<br />
ad evidenziare quanto, in un mondo in continuo<br />
divenire e continuamente minacciato da sconvolgimenti,<br />
niente può più sperare in un futuro sicuro, neppure<br />
l’opera d’arte. Fedele a un suo continuo sperimentalismo,<br />
tendente sempre ad esprimere soluzioni semplici e apparentemente<br />
ovvie di problemi complessi, affrontava, fin<br />
da allora, il tema della didattica coi suoi libri per bambini,<br />
preverbali, che sollecitano la curiosità per quanto nascondono.<br />
Sarà, quella della didattica, una sua costante.<br />
Dopo i Negativi/Positivi del 1950 egli abbandonava la<br />
pittura anche se, nei suoi bei gioielli degli anni Sessanta,<br />
riprenderà il tema del positivo/negativo. Passava, in<br />
seguito, attraverso varie esperienze, fedele sempre e<br />
comunque a una sua sperimentazione razionalista, anche<br />
se filtrata attraverso la sua sottile ironia.<br />
Designer straordinario (citerò solo il suo Posacenere del<br />
1957, per Danese, divenuto un classico imbattibile), graphic<br />
designer, progettista. Dalle Proiezioni a luce polarizzata<br />
(1952), alle Forchette parlanti, alle Sculture da viaggio<br />
in cartoncino, pieghevoli, Munari ha portato avanti la sua<br />
lucida ricerca, realizzando lavori rigorosamente strutturali<br />
e lavori di riferimento dada. Ma mentre in Duchamp la<br />
manipolazione dell’oggetto, come scriveva Meneguzzo,<br />
“è linguistica”, nel caso di Munari è “spiazzamento<br />
d’uso”. Riuscirà, peraltro, a comporre questo suo dualismo<br />
in armonia, rigore, semplicità nel gioco sottile della<br />
fantasia, aprendo la strada anche a una nuova, poetica<br />
concezione del design. Nel 1962 egli organizzava la prima<br />
mostra milanese di “Arte Programmata”, promossa dalla<br />
Olivetti.<br />
Alessandro Mendini, architetto e direttore di varie riviste,<br />
ha definito Munari “l’apolide fantasista del design,<br />
il triplo concentrato di materia cerebrale creativa, il<br />
posacenere-capolavoro”.<br />
192 193
Arte visuale, Cinetica, uso della luce<br />
Jesus Raphael Soto<br />
(1923-2005)<br />
Iniziava con una pittura di carattere segnico, con riferimenti<br />
all’astrattismo “assoluto” (di Mondrian, Malevic,<br />
Kandinskij). A Parigi dal 1950 inseguiva il tema della<br />
luce dagli Impressionisti al Mondrian degli anni di<br />
Parigi. Alle sue geometrie astratte, per rendere la composizione<br />
dinamica, aggiungeva allora forme irregolari.<br />
Arrivava subito dopo, sempre allo scopo di dare dinamicità<br />
ai suoi quadri, alla ripetizione ritmica (Répetitions<br />
optiques), svolgendo i quadri stessi secondo una precisa<br />
programmazione. Disponeva poi (1954), una griglia<br />
trasparente ad una lieve distanza dal quadro che, col<br />
movimento dell’osservatore, creava una vibrazione che<br />
sconvolgeva le forme. Nel 1955, dopo una sua riflessioni<br />
sulla Rotary Demi Sphère di Duchamp, creava una<br />
distanza maggiore tra la superficie del quadro e la griglia,<br />
creando effetti di moiré. Aveva trovato la sigla esatta, il<br />
modulo che caratterizzerà il suo lavoro. Con le opere<br />
ambientali raggiungerà il massimo della sua espressività<br />
e il massimo impatto emotivo, trasformando materiale e<br />
spazio in luce colorata.<br />
Si pensi alla sua Grande muro panoramico vibrante del<br />
1966 alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, dove una<br />
selva di bacchette colorate in azzurro in rapporti variati<br />
di intensità, appese al soffitto secondo spessori diversi<br />
(così da trasformare l’angolo delle due pareti della sala<br />
dove si colloca in una morbida curva, a rendere più<br />
intensa la resa del colore), forma una cortina luminosa,<br />
vibratile e trasparente, mobile al minimo soffio, così da<br />
evocare, col massimo di leggerezza, quasi di “assenza”,<br />
il sentimento della natura, la vibrazione e il fremito del<br />
vento tra le foglie, il passaggio della luce lungo un filare<br />
di alberi visti da una macchina in corsa. E, va da sé, la<br />
poesia dei “mobiles” di Calder.<br />
L’opera esposta, Dialogue en rond, del 1965, unisce al<br />
gioco del moiré provocato dalla griglia davanti allo schermo<br />
rotondo, il movimento delle bacchette incrociate,<br />
diversamente colorate, sospese davanti a provocare, nel<br />
bilico incerto, un movimento spontaneo.<br />
Dialogue en rond, 1965; legno, filo<br />
di nylon e metallo, ø cm 25.<br />
Asta Sotheby, Londra, 23.10.2001.<br />
Lotto 453.<br />
194 195
Arte visuale, Cinetica, uso della luce<br />
Nanda Vigo<br />
(1936)<br />
Architetto, da sempre è stata legata agli artisti milanesi,<br />
da Fontana agli esponenti di Arte Programmata, coi<br />
quali ha spesso collaborato, anche per lavori ambientali<br />
e di interior-design, che ha sempre impostato secondo le<br />
linee di un concretismo dinamico, basato sulla luce, sulla<br />
trasparenza, sul ritmo.<br />
Ha realizzato anch’essa, direttamente, opere programmate<br />
e cinetiche, come il lavoro presente in mostra,<br />
Spazio cronotopo, del 1964, una tavola con un cerchio<br />
centrale, in vetro, che, nelle sue scansioni, produce un<br />
effetto dinamico col movimento dello spettatore, come a<br />
seguire, nel suo dinamismo, lo scorrere del tempo.<br />
Spazio cronotopo, 1964;<br />
legno dipinto, vetro colorato,<br />
metalli, cm 46x35. Valentino<br />
Barbierato, Vicenza 2002.<br />
196 197
Arte visuale, Cinetica, uso della luce<br />
Maurizio Nannucci<br />
(1939)<br />
Fonda il suo lavoro su tre linee: visuale, linguistica, sonora,<br />
basandosi, sempre, sulla razionalità, con la quale si<br />
organizza secondo una trama coerente dove le frequenti<br />
“trasgressioni” aggiungono suggestioni inaspettate.<br />
Iniziava aderendo alla linea astratto-concreta, progettuale,<br />
in cui già coinvolgeva la ricerca verbale. Sono degli<br />
anni Sessanta le sue “poesie concrete”, stesure minimali<br />
di espressioni verbali dattiloscritte. Partecipava, intanto,<br />
alle ricerche di fonologia musicale S 2F M del Maestro<br />
Pietro Grossi al Conservatorio di Firenze e realizzava<br />
“poemi sonori” e “audioworks”.<br />
Unisce alla sua ricerca artistica una intensa attività promozionale,<br />
producendo libri d’artista, dischi, multipli,<br />
riviste, cartoline (edizioni Exempla), avvicinandosi, per<br />
certi aspetti, all’ideologia Fluxus.<br />
Usa il neon che è diventato il suo mezzo anche in installazioni<br />
ambientali e urbane in Italia e all’estero. “Lo<br />
scrivere col neon” dichiara “è per me prima di tutto la<br />
possibilità di dar luce ai pensieri, alle parole, di dar loro i<br />
colori che predispongono all’immaginazione”.<br />
Nella collezione una piccola opera con una luminosa e<br />
colorata scritta (rigorosamente in inglese) al neon, Where<br />
to start from, del 1993, realizzata come multiplo.<br />
Where to start from, 1993;<br />
vetro in pasta bianca e neon, h cm 9.<br />
20 esemplari. Acquisito dall’artista.<br />
198 199
Arte visuale, Cinetica, uso della luce<br />
Fabrizio Corneli<br />
(1958)<br />
Emblemata III, 2001; uovo di oca,<br />
resina, alluminio, alogena, cm<br />
16,8x8. La falce di luna proiettata<br />
sulla parete è alta cm 15 ca.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
Il suo interesse si è sempre orientato secondo la ricerca<br />
ottico-percettiva, e, per un certo periodo, secondo quella<br />
legata alla formatività della scultura. Usava, ai suoi inizi,<br />
la fotografia, facendo interagire il fattore luce col fattore<br />
tempo, fino a far coincidere i “segni” fotografici con la<br />
loro proiezione, oppure giocando sulla doppia ombra<br />
prodotta a mezzo di una sola fonte di luce, secondo una<br />
sorta di tautologia, cioè con una ripetizione dell’immagine.<br />
Verso la fine degli anni Settanta realizzava le<br />
“anamorfosi”, trasformando in immagini riflesse sulla<br />
parete un suo manufatto in lamine di rame, che ritagliava<br />
in modo che la sua proiezione sulla parete creasse un’immagine,<br />
secondo, appunto, le leggi dell’anamorfosi. Dal<br />
1982 realizzava leggere <strong>sculture</strong> (i “trifidi” e le “melenas”,<br />
seguite da “teste”, “alambicchi”, “martiri”, “testimoni”),<br />
opere giocate sul positivo-negativo. Seguiranno<br />
gli “estrusi”, lavori eseguiti con estrazioni parallele di<br />
sezioni interne al blocco di metallo trattato, che disponeva<br />
sul terreno, in sequenza. Ne derivavano lavori che<br />
sembravano riferirsi a figure zoomorfiche, come nel caso<br />
di quello esposto nel Parco di Celle, presso Pistoia, nella<br />
collezione di Giuliano Gori. Tornerà poi a ripercorrere<br />
i suoi temi di interazione luminosa creando <strong>piccole</strong><br />
macchine prismatiche con tagli appositamente studiati e<br />
intervenendo con la luce, spesso usando anche l’acqua e<br />
il cristallo, facendo nascere sulla parete, ancora attraverso<br />
effetti di anamorfosi, immagini luminose.<br />
Approfondirà questa sua tematica disponendo sulla parete<br />
<strong>piccole</strong> lamine di legno, di cartoncino, di rame, che,<br />
illuminate dal basso, si proiettano sulla parete con le loro<br />
ombre, creando affascinanti immagini giocate sulla luce<br />
e sull’ombra, ad evocare memorie poetiche legate all’alchimia,<br />
ad antichi riti mediatici, all’immagine femminile<br />
o angelica. Ha lavorato molto in Germania, producendo<br />
opere da esterno, su facciate, e da interno. In Italia ha<br />
realizzato lavori anche per alcune chiese.<br />
L’opera in mostra, Emblemata III, 2001, è uno dei suoi<br />
lavori che si basano sull’anamorfosi: un uovo proietta,<br />
da un suo taglio, una piccola falce di luna luminosa sulla<br />
parete antistante, con un gustoso effetto quasi magico.<br />
200 201
Arte povera<br />
203
Arte povera<br />
Jannis Kounellis<br />
(1936)<br />
Tra gli esponenti di Arte Povera, promossa nel 1967 da<br />
Germano Celant alla Bertesca di Genova (di cui facevano<br />
parte anche Boetti, Anselmo, Ceroli, Zorio, Pascali,<br />
Pistoletto, Mario e Marisa Merz, Calzolari, Fabro,<br />
Paolini, Prini, Piacentino) mira a identificare l’operazione<br />
artistica coi dati dell’esperienza, coinvolgendo, nel<br />
suo lavoro, vita, natura, i dati della coscienza.<br />
Con Pappagallo (1967: un pappagallo vivo, posto su un<br />
trespolo, esposto come opera in galleria), coi Cavalli<br />
(esposti nel 1969 all’Attico di Roma) proponeva il<br />
recupero, da parte dell’arte, della natura viva, in una<br />
operazione quasi magrittiana, di intento nominalistico<br />
e tautologico, che si risolveva in una carica energetica,<br />
vitalistica e liberatoria. Aggiungeva poi, nel suo lavoro, il<br />
fuoco (Margherita di fuoco, 1968, una grande margherita<br />
dal cui centro usciva una fiamma da un becco Bunsen),<br />
simbolo di una vitalità dirompente e distruttiva, carico di<br />
rimandi mitici e antropologici. Tra i suoi lavori più intensi<br />
Letto di fuoco (1968-1970), esposto alla manifestazione<br />
Amore mio a Montepulciano, una struggente installazione<br />
nella quale una donna, avvolta in una sorta di sudario,<br />
distesa su un lettuccio di ferro per ore, in una piccola<br />
cella che assumeva connotazioni macabre, mostrava,<br />
legato a un piede, un becco Bunsen acceso. Nel 1969<br />
Kounellis aveva riempito di fuochi la sala della Galleria<br />
di Alexandre Iolas a Parigi. Passava poi al recupero del<br />
passato, nella sua ritualità mitica, con riferimenti anche<br />
ai miti della sua Grecia e alla condizione dell’uomo in<br />
una società dominata dalle guerre e dai genocidi. Tiene<br />
mostre e realizza grandi installazioni in molte città di<br />
tutto il mondo.<br />
L’opera in collezione Bertini è Coltello, del 2000, nella<br />
quale un coltello da macellaio è appeso davanti a un<br />
disegno che mima un rotolo di filo di ferro, proponendo<br />
alcuni strumenti di massacro (soltanto di animali<br />
da macello?), che ne mostrano l’atrocità e la terribile<br />
inesorabilità.<br />
Coltello, 2000; carta, matita, coltello,<br />
gancio, cm 25x45. Esemplare<br />
18/25. Acquisito dall’artista tramite<br />
Aurelio Amendola.<br />
204 205
Arte povera<br />
Michelangelo Pistoletto<br />
(1931)<br />
Nel gruppo di artisti riunito da Germano Celant nella<br />
mostra Arte Povera, alla Bertesca di Genova del 1967.<br />
Nel 1962 esponeva a Torino il suo primo lavoro a specchio,<br />
sul quale era applicata, come in una decalcomania,<br />
un’immagine umana a grandezza naturale, con la quale<br />
introduceva, per così dire, lo spettatore nell’opera. “La<br />
dimensione nuova, nel quadro specchiante” scriveva<br />
allora Pistoletto, “si rivela per virtù della simultanea rappresentazione<br />
delle tre dimensioni tradizionali e della<br />
realtà in movimento letteralmente riprodotte. Tutti<br />
gli elementi del quadro sono elementi così reali che il<br />
risultato non può essere un’ipotesi. Il risultato è vero”.<br />
Realizzava anche i “pozzi”, lavori tridimensionali in plastica<br />
e acciaio a specchio nel fondo, recuperando oggetti<br />
e materiali reali (come avveniva nel New Dada), ma<br />
inserendovi altre componenti, come farà negli spettacoli<br />
di Lo Zoo, concepiti come ipotesi di comportamento e di<br />
organizzazione ambientale.<br />
Tra i suoi assemblaggi, che mettono in frizione materiali<br />
di scarto (gli stracci) con elementi elaborati, quasi<br />
sempre calchi di <strong>sculture</strong>, si ricordano Orchestra di stracci<br />
(1968), La Venere degli stracci (1968), dove la statua di<br />
Venere, in cemento, è rivestita di mica. Con le sue grandi,<br />
spesso metamorfiche <strong>sculture</strong> di allusione classica e<br />
barocca, in polistirolo (spesso, peraltro, per ragioni di<br />
mercato tradotte in cemento o in marmo), Pistoletto<br />
mette in crisi il concetto di “scultura” e di “opera d’arte”<br />
in generale, concepita imperitura, creata per l’eternità,<br />
in un momento storico come il nostro, consapevole della<br />
sua fragilità e del senso dell’ effimero. In mostra Maria,<br />
una lastra in acciaio inossidabile a specchio del 1962, che<br />
coinvolge, specchiandolo, lo spettatore, mettendolo in<br />
relazione diretta con l’immagine fotografica serigrafata<br />
sulla lastra, in un dialogo diretto.<br />
Maria, 1962; serigrafia su acciaio<br />
inossidabile a specchio, h cm 40.<br />
206 207
Minimalismo<br />
209
Minimalismo<br />
Sol LeWitt<br />
(1928-2007)<br />
A cavallo tra un rigoroso concettualismo e un minimalismo<br />
geometrico, di grande essenzialità. Scriveva nel<br />
1967 su “Artforum”: “Nell’arte concettuale l’idea o concetto<br />
è l’aspetto più importante del lavoro. Quando un<br />
artista utilizza una forma concettuale di arte, vuol dire<br />
che tutte le programmazioni e le decisioni sono stabilite<br />
in anticipo e l’esecuzione è una faccenda meccanica.<br />
L’idea diventa una macchina che crea l’arte”.<br />
Ha realizzato opere basate sulla modulazione e progressione<br />
di segni elementari, sugli sviluppi successivi del<br />
quadrato, come struttura aperta e chiusa.<br />
Dal 1968 ha lavorato anche usando la parete come<br />
supporto dei suoi segni. Dal 1976, oltre a rette spezzate<br />
diagonali e curve in bianco e nero e a colori, introduce<br />
nel suo immaginario figurale il triangolo, il quadrato,<br />
il trapezio, che accrescono la dinamicità e la creatività<br />
del suo lavoro. Dopo gli anni Ottanta organizza le sue<br />
composizioni parietali in forme radiali, angolari, secondo<br />
puri rapporti di colore. Le sue nitide, quasi sempre<br />
bianche strutture tridimensionali, realizzate secondo le<br />
stesse intenzioni espresse nei disegni e nelle composizioni<br />
parietali, bidimensionali, si dispongono, spesso, in<br />
grandi spazi verdi.<br />
Presenta qui una piccola Pyramide bianca, in alluminio<br />
dipinto.<br />
Pyramide, 1989; alluminio dipinto,<br />
cm 39x22. Esemplare 6/12. Asta<br />
Tajan, Parigi, 27.5.2003. Lotto 38.<br />
210 211
Minimalismo<br />
Robert Morris<br />
(1931)<br />
Di straordinaria intensità e profondità di impegno e di<br />
lucida creatività, iniziava negli anni Sessanta con lavori<br />
latamente legati all’ideologia new-dada, non quella<br />
newyorkese, semmai più vicina a quella di Klein e di<br />
Manzoni. Realizzava dei piccoli oggetti, richiedenti<br />
l’azione, come chiusi in una loro alienità, tratti e distolti<br />
dall’uso, come Metered Bulb (1963), consistente in una<br />
lampadina e un contatore (funzionanti), assicurati a una<br />
tavoletta; oppure una scatoletta da cui pende una corda<br />
annodata. Dal 1964 riduceva la sua attività a quella che<br />
definiva “l’arte dell’ ABC”, la base della “Minimal Art”:<br />
oggetti di rigorosa e fredda definizione, geometrici,<br />
“opachi”, “ottusi”, anche se, in realtà, forse anche contro<br />
le sue intenzioni, questi suoi poliedri, parallelepipedi,<br />
corone circolari tridimensionali, snodi a L, talvolta in<br />
rete metallica colorata, raggiungono spesso una intensità,<br />
una “bellezza” straordinarie, anche un senso poetico.<br />
Dal 1967 Morris affronterà il tema dell’“anti form”, coi<br />
suoi superbi lavori in strisce di feltro che, appesi alla<br />
parete, pendono, affidati alla forza di inerzia, e sembrano<br />
esprimere la forza, insieme potente e fragile, della<br />
natura.<br />
Verso la fine degli anni Sessanta i lavori di Morris si presentano<br />
come grandi strutture architettoniche, cariche<br />
di rimandi simbolici, come il Labirinto di Celle, nella<br />
collezione Gori, in marmo bianco di Carrara e verde di<br />
Prato, con allusioni dirette all’architettura romanica e<br />
rinascimentale toscana. Accanto a questi lavori Morris<br />
elabora anche quadri-scultura, nei quali volge verso un<br />
sensualismo pittorico di una intensità quasi barocca.<br />
In questa collezione Location, del 1963, una rigorosa,<br />
fredda lastra in piombo e alluminio, dalla superficie<br />
“mat”, con scritte in rilievo, in lettere che alludono al<br />
rapporto tra spazio interno ed esterno (le scritte parlano<br />
di pavimento, soffitto, parete).<br />
Location, 1963; piombo, alluminio<br />
e contatori metallici, cm 53x53.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
212 213
Postconcettuale<br />
215
Postconcettuale<br />
Fernando Melani<br />
(1907-1985)<br />
Apollo e Dafne, 1983; ferro smaltato,<br />
h cm 27. Galleria Antonio Nespoli,<br />
Pistoia.<br />
Straordinario personaggio, solitario, legato a un tipo di<br />
concettualismo e a una continua “riduttività”, antieroe,<br />
antiartista, ma continuamente aperto verso il mondo, la<br />
natura, il cosmo, per così dire, ma secondo una sua concezione<br />
dell’arte e del mondo, ha sempre lavorato abbinando<br />
al suo lavoro “pratico” una continua impostazione<br />
teorica. Ha vissuto, praticamente, sempre a Pistoia, spaziando<br />
con energia, ma anche con leggerezza, nei campi<br />
più variati. Ha usato i materiali più diversi, le tecniche<br />
più disparate, osservando ogni piccolo elemento (un filo<br />
di ferro, ad esempio); analizzava le qualità fisiche del<br />
colore. “Elaborando un rosso” scriveva “bisogna tentare<br />
di giungere nello spazio zero, nello spessore indicibile<br />
– senza bordi – per cui l’umidiccio organico e l’ottusa<br />
asprezza del pigmento si mutano nella complessità<br />
dell’energia originaria comune ai due”.<br />
Creava sottili ragnatele con un filo di ferro sottile; costruiva<br />
un suo grottesco “bucato” appendendo nel suo studio<br />
pezzi di stoffa colorati (adorava il colore; vestiva costantemente<br />
una nitida tuta azzurra, accompagnata da una<br />
piccola sciarpa metà rossa e metà gialla, raffinato operaio<br />
e tragico clown). Come scriveva nel 1967 Carla Lonzi:<br />
“Le opere di Melani [...] accentuano la ricerca attorno<br />
alla QUANTITÀ, considerando la qualità come una<br />
categoria concettuale che riflette [...] l’abuso della presunzione<br />
dell’uomo. Egli ritiene che soltanto spingendo<br />
a fondo l’esame quantitativo si può giungere al rilievo<br />
delle strutture più nascoste, le più ricche e imprevedibili<br />
(altamente informative); da ciò il tentativo di rendersi<br />
sempre disponibile, nel suo operare, al rilievo di queste<br />
non calcolate armonie, aderendovi strettamente: come<br />
se si potesse parlare di una spontaneità statistica delle<br />
manifestazioni del mondo, al cui farsi l’artista cerca un<br />
adeguamento nella maniera più ampia, sottile, diretta”.<br />
In mostra un lavoro del 1983, Apollo e Dafne, un doppio<br />
modellino di telaio di bicicletta (un Apollo tecnologico?),<br />
che sembra voler irretire, circuire, in una sorta di gabbia<br />
amorosa, un fragile ramo di lauro, Dafne, che proprio in<br />
lauro si trasforma, per sfuggire alla malia. (E si ricordi<br />
che in greco ∆α′ ϕυη significa lauro). È forse il simbolo<br />
del continuo tentativo di imbrigliare e di trasformare la<br />
natura da parte della tecnologia portata all’eccesso?<br />
216 217
Postconcettuale<br />
Anne e Patric Poirier<br />
(Anne, 1941; Patric, 1942)<br />
Legati a una concezione di arte riferita all’antropologia<br />
(linea che fa capo anche a Beuys) si sono sempre rivolti<br />
alla mitologia, all’archeologia, come temi privilegiati.<br />
Passavano da una sorta di catalogazione di erbari preziosi,<br />
di diari archeologici ideali (alcuni dei quali essi stessi<br />
stilavano secondo un loro sogno metafisico, nel filtro<br />
di una memoria fantastica, ispirandosi anche agli scritti<br />
di De Chirico, alle Memorie di Adriano della Yourcenar,<br />
formalmente al Manierismo), che univano a calchi, a<br />
ricostruzioni di città antiche, composte di tante immagini<br />
di città, popolate da dei e da personaggi mitici. Allargano<br />
poi i loro interventi con grandi installazioni in parchi,<br />
giardini, grotte, ispirate a miti preellenici, alle lotte tra<br />
gli dei e i giganti, di cui presentano frammenti allusivi:<br />
ad esempio un enorme occhio in marmo, trafitto da una<br />
freccia in bronzo lucido, circondato da frammenti di<br />
marmo sparsi a terra e da altre lunghe frecce, come quello<br />
che costituisce l’installazione Morte di Efialte, presente<br />
nel parco di Celle (Pistoia), nella collezione Gori.<br />
Seguiranno Scogliere di marmo e Mundo perdido, una città<br />
fantomatica, capace di contenere tutte le altre (come<br />
la biblioteca di Borges contiene tutti i libri, tutte le<br />
parole).<br />
In mostra una piccola Colonna spezzata, del 1986, in<br />
bronzo, ancora in piedi, come la colonna, spezzata, in<br />
acciaio inossidabile, che, a differenza di questa, si stende<br />
in pezzi sul terreno, davanti al Museo Pecci di Prato.<br />
Anche in questo caso, l’allusione è alle rovine classiche,<br />
come memento della caducità delle cose.<br />
Colonna, 1986; bronzo,<br />
cm 68x12x12.<br />
Galleria Metastasio di Carlo Palli,<br />
Prato.<br />
218 219
Postconcettuale<br />
Antonio Paradiso<br />
(1936)<br />
La sua operazione artistica si è sempre articolata sul filo<br />
della ricerca e dell’analisi antropologica, secondo una<br />
scansione spazio-temporale attraverso la quale recupera<br />
il lavoro umano dalle origini, analizzando i “paesaggi<br />
naturali” da un lato, i “paesaggi culturali” dall’altro.<br />
Realizza opere scultoree di riferimento arcaico, sulle<br />
quali inserisce, spesso, grandi catene di ferro. Ha studiato<br />
a lungo i comportamenti delle civiltà primitive<br />
nella loro ritualità, quelle delle culture “sommerse”<br />
della civiltà massificata, la “cultura materiale” del Sud<br />
d’Italia.<br />
Proponeva, nelle sue installazioni, come modello culturale,<br />
i risultati della manualità contadina, cercando di<br />
unire natura e cultura nella creatività artistica.<br />
L’opera presente nella collezione Bertini, bozzetto per<br />
Mausoleo a Icaro, del 1998, un’alta base in pietra di Trani<br />
lavorata su cui poggia un modellino di Mercedes schiacciato<br />
da un grosso sasso, si propone di mettere in contrasto<br />
la pietra di Trani, simbolo di una cultura “arcaica”,<br />
appartenente, da sempre, alla storia della civiltà, dalle<br />
sue origini, che a sua volta poggia su una base dello stesso<br />
materiale, con un manufatto della “civiltà massificata”,<br />
un modellino rosso di Mercedes, un Icaro moderno,<br />
che vola in velocità, schiacciato dalla forza insondabile e<br />
grezza della natura, al di là del tempo misurabile.<br />
Bozzetto per Mausoleo a Icaro,<br />
1998; pietra di Trani, sasso e ferro<br />
colorato, cm 35x28. Pubblicato in<br />
Antonio Paradiso, Mudima, Milano<br />
2000. Acquisito dall’artista.<br />
220 221
Postconcettuale<br />
Claudio Parmiggiani<br />
(1943)<br />
Personaggio complesso, “di segno ermetico [...] strada<br />
maestra della post-avaguardia”, come scriveva Maurizio<br />
Calvesi. Il suo lavoro si svolge attorno alla storia della<br />
pittura, percorsa, come dice, “dall’oro filosofale”, che<br />
usa come “materia prima”. Scompone opere antiche,<br />
come, ad esempio, La visione di santa Godula di un<br />
Maestro fiammingo, inserendovi l’elemento tempo, con<br />
lo spostare verso il fondo, in fasi successive, la navicella<br />
visibile attraverso la finestra (1973); nei due Ritratti pierfrancescani<br />
dei Montefeltro scambia i connotati della<br />
coppia; in Teatrum Orbis (1976), riprendendo da L’Arte<br />
della memoria di Robert Fludd, sembra voler trasformare<br />
il teatro elisabettiano in Teatro della Memoria (della pittura).<br />
Nelle sue Delocazioni presenta pareti dalle quali sono<br />
stati tolti quadri e oggetti che vi hanno lasciato la loro<br />
traccia. Il gioco è sempre, e soprattutto, sulla memoria.<br />
Nel 1967 raccoglie in Tavole, Teatri, Riti testi e molte sue<br />
ricerche. In seguito il suo lavoro si farà sempre più concettuale<br />
ed ermetico. Tra le sue realizzazioni più intense<br />
e poetiche Annunciazione, dove due lastre di rame specchianti<br />
sono disposte una davanti all’altra di fronte a una<br />
grande vetrata, rimandandosi, anche qui, una memoria<br />
invisibile, a provocare un intenso, sospeso, lancinante<br />
senso di attesa. “La poesia” scrive “è l’altra faccia della<br />
pittura, è la voce dell’immaginazione”.<br />
In mostra Senza titolo, del 1997: dentro un cubo in perspex,<br />
un nido contenente tre uova-giocattolo colorate.<br />
Un gioco ambiguo per una memoria futura che non avrà<br />
esiti.<br />
Senza titolo (Nido mappamondo),<br />
1997; perspex, sottili scaglie di<br />
legno, plastica, cm 15x15x15.<br />
Pubblicato su “Segno”, a. XXV, n.<br />
179, giugno-luglio 2001.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
222 223
Postconcettuale<br />
Remo Salvadori<br />
(1947)<br />
Segue una sua particolare linea concettuale che, partendo<br />
dagli esiti dell’Arte Povera, si apre verso nuove<br />
ricerche di libertà espressiva. Si è sempre interessato<br />
ai “luoghi”, come il suo di origine, per il loro potere<br />
“esperienziale” (Germano Celant), che ha verificato<br />
anche attraverso i suoi viaggi in Oriente, la sua attività<br />
a Milano, spesso condivisa con Marco Bagnoli, il suo<br />
viaggio a Roma con Sandro Chia.<br />
Egli tende a creare un rapporto segreto, astratto, con<br />
l’arte, come quando, con Triade del momento (1982-1988),<br />
intende instaurare un rapporto aereo, volatile, quintessenziale,<br />
tra i tre elementi alchemici unendo tre bottiglie<br />
di colore diverso con un arco di tubo di rame formante<br />
due cerchi sospesi, interrotti da una sezione verticale di<br />
tubo, superando, nella tensione “razionale”, il significato<br />
enigmatico del lavoro.<br />
È la stessa tensione energetica che egli traspone nei<br />
suoi elementi geometrici, come Nel momento (si pensi<br />
all’affinità nel nome con l’opera già citata), in collezione<br />
Bertini, del 2002, che fa parte di una serie che egli va<br />
realizzando, con varianti, da qualche anno. Sono opere<br />
in bilico tra il rigore geometrico e la libertà di un avvolgimento<br />
manuale di alcune sezioni del lavoro, nella<br />
morbida, traslucida, affascinante materia plasmabile, il<br />
piombo, che sembra voler riunire in sé l’allusività misteriosofica<br />
e alchemica, ancora e sempre, con il suo rapporto<br />
astratto con la natura e con la sua razionale esigenza di<br />
organicità strutturale.<br />
Nel momento, 2002;<br />
piombo, cm 30x30<br />
Acquisito dall’artista.<br />
224 225
Postconcettuale<br />
Gianni Ruffi<br />
(1938)<br />
Membro, dalla fine degli anni Cinquanta, di quella<br />
che si definiva Scuola di Pistoia (con Barni, Buscioni,<br />
Natalini) elaborava una sua trascrizione della Pop art<br />
europea, ispirandosi alla vitalità della vita contadina in<br />
Toscana. Ingigantiva e trasformava oggetti e materiali<br />
comuni, sul filo di quella ironia sottile, garbata che,<br />
da sempre, lo distingue, come in Mare a dondolo, del<br />
1967, dove materializzava l’onda in un grande giocattolo<br />
oscillante, dal colore vivo. Si è sempre più avvicinato in<br />
seguito a una interpretazione concettualizzata e linguistica<br />
della lezione di Duchamp, elaborando installazioni<br />
che giocano sulla metafora, sul significato ambiguo di<br />
certe parole, come Ri-corda (1976-1986), dove un rotolo<br />
di corda accanto a un “Ri” completa, ovviamente, la<br />
parola; La Via Lattea, (1989), con miriadi di contenitori<br />
di latte in cartone, disposti a terra a formare un percorso<br />
variabile; Dipanare il mare, (1988-1990) che vede una<br />
serie di brevissime onde in filo di ferro disposte sulla<br />
parete, collegate a terra con un gomitolo gigante di filo<br />
di ferro.<br />
In mostra Per il mio naso, un lavoro degli anni Ottanta,<br />
ma riferibile anche al suo momento pop, in legno dipinto<br />
in rosso, modellato come un fazzolettone appeso (un fazzoletto<br />
quale portavano i vecchi contadini in tasca).<br />
Per il mio naso, anni Ottanta;<br />
legno dipinto, cm 100x25.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
226 227
Postconcettuale<br />
Jean Pierre Raynaud<br />
(1939)<br />
Blindage rouge, 1975; metallo<br />
laccato, cm 60x50x2.<br />
Esemplare 5/30. Asta Art Curial<br />
Briest-Paris, Hotel Dassault,<br />
26.6.29. Lotto 389.<br />
Nell’ambito del Posconcettualismo rappresenta una<br />
figura a sé, particolarissima. Iniziava come orticultore.<br />
Realizzava, poi, quelli che definiva gli Psicooggetti (1963),<br />
tra i quali Alfabeto per adulti, una tavola nera sovrastata<br />
da sei punte di lancia. Recuperava, anche, dal suo precedente<br />
lavoro, i vasi in cotto, che usava in composizioni<br />
geometriche, o sovrapponeva, base con base, bocca con<br />
bocca, a formare colonne (una sorta di omaggio alla<br />
Colonna infinita di Brancusi?), che disponeva sopra una<br />
base composta di piastrelle bianche, bordate di nero.<br />
Sarà questa piastrella, dal 1970, il modulo costante, ripetitivo,<br />
ossessivo, fin quasi al maniacale, del suo fare. Ne<br />
coprirà ogni superficie, pareti, pavimento, soffitto, della<br />
sua casa e niente altro sarà, in quella, visibile; anche la<br />
luce sarà nascosta. Si è sempre isolato in questa casa, che<br />
spesso disfa e ricostruisce nello stesso, identico modo.<br />
Questa casa è una sorta di dispositivo “célibataire”, una<br />
“macchina inutile” da ossessioni quasi masochiste.<br />
Nel 1985 Raynaud ha esposto al Musée d’Art Moderne<br />
de la Ville de Paris una serie di quadri (prevista come illimitata,<br />
fino alla sua morte), formata da venti delle solite<br />
piastrelle più o meno quadrate (cm 5x4), tutte numerate<br />
“0” (il “grado zero della pittura di Malevic?). Ha scritto:<br />
“Col mio spazio zero sono sceso [...]; è perché posso viaggiare<br />
indefinitamente, perché non andrò più lontano”. E<br />
ancora: “Ripetermi mi evita di fare errori [...]”.<br />
Continuo, in lui, il riferimento alla morte, come nella<br />
mostra a Parigi, di cui sopra, dove esponeva anche una<br />
serie allineata di strettissimi (inusabili) letti da ospedale<br />
bianchi, e sopra ciascuno di essi un quadro formato<br />
dalle solite piastrelle. Alla Biennale veneziana del 1985<br />
realizzava una piccola costruzione interamente ricoperta,<br />
all’interno e all’esterno (escluso il pavimento, fatto<br />
eccezionale per lui), dalle sue solite piastrelle, al centro<br />
di ciascuna delle quali l’immagine di un piccolo teschio<br />
nero.<br />
Raynaud, peraltro, ha realizzato anche opere di segno<br />
diverso, come la lastra Blindage rouge, del 1975, presente<br />
in mostra, in metallo laccato di un rosso vivacissimo,<br />
una sorta di piccolo “campo totale”, con interventi<br />
tecnologici.<br />
228 229
Postconcettuale<br />
Renato Ranaldi<br />
(1941)<br />
Compreso in una sua particolare, personale idea di arte<br />
e di artista, opera secondo una sua visione fondata sulla<br />
vita, sulla memoria personale, che filtra attraverso un suo<br />
“sguardo obliquo”, laterale, attraverso il quale sembra<br />
voler fare scorrere tutta l’esistenza personale e collettiva,<br />
in una sorta di prospettiva distorta, come quella di<br />
un paesaggio che rasenta l’occhio di un osservatore che<br />
passa con una macchina in una corsa lenta, dilatata, cercando,<br />
allo stesso tempo, di ricreare, a suo modo, un universo<br />
personale, in un microcosmo di simboli. Ostinato,<br />
ombroso, nella sua ricerca ironica, malinconica, carica di<br />
una sua scontrosa tenerezza, fa uso di un linguaggio creativo<br />
fresco, che sembra voler recuperare i modi dell’Art<br />
brut di Dubuffet, l’acuta concettualità di Duchamp, la<br />
poetica dell’“omino” di Chaplin, in lotta per la sopravvivenza<br />
in un mondo sempre più impietoso, la libertà<br />
“trasgressiva” di Cage e di Fluxus (si ricordino i suoi<br />
goffi, grandi strumenti musicali). È il suo atteggiamento<br />
verso la vita (e l’arte). Secondo questa intenzionalità<br />
realizza i suoi lavori in forme varie, spesso in posizione<br />
instabile, sghembi, usando materiali “poveri” e leggeri,<br />
fragili, deperibili (carta, legno, spago, catrame) che lega a<br />
materiali “ricchi”, solidi, “eterni”: bronzo, ferro, ottone,<br />
trattati con acidi che conferiscono loro colori perlacei,<br />
rutilanti. Ha concepito un suo simbolo archetipico, cui<br />
fa talvolta riferimento anche nei suoi testi (le sue “tavolette”,<br />
gli “apologhi”, i “racconti”, profondi, corrosivi,<br />
che fanno pensare, nella loro ironica concettualità, a<br />
certo Savinio). Più recentemente li alleggerisce, secondo<br />
una nuova dimensione mentale, ricorrendo all’uso di un<br />
suo colore azzurro, aereo, immateriale, di connotazione,<br />
per usare un termine che probabilmente non esiste,<br />
“surmentale”.<br />
In mostra una piccola fusione in alluminio, l’Uomo<br />
totale, del 1990, che sembra combinare il suo archetipo<br />
in un’immagine antropomorfa, disposta in un doppio<br />
rovesciato, che richiama simboli ermetici.<br />
Uomo totale, 1990;<br />
fusione in alluminio, legno, cm<br />
54x54. Acquisito dall’artista.<br />
230 231
Transavanguardia<br />
233
Transavanguardia<br />
Bruno Ceccobelli<br />
(1952)<br />
Appartiene al gruppo romano di artisti (con Bianchi,<br />
Dessì, Gallo) di quella che, impropriamente, si definisce<br />
anche nuova Scuola romana, che succedeva immediatamente<br />
al gruppo formato da Chia, Clemente, Cucchi,<br />
De Maria, Paladino, che Achille Bonito Oliva definiva,<br />
ai primi anni Ottanta, “Transavanguardia”, col suo<br />
ritorno, ovviamente in maniera nuova e provocatoria,<br />
alla pittura. Questi nuovi artisti considerano il passato<br />
come un’eredità da saccheggiare liberamente con opere<br />
che, ogni volta, si confrontano coi problemi stessi della<br />
pittura. Ceccobelli è il solo che ha pubblicato, nel 1986,<br />
un suo Manifesto, nel quale esalta il significato in arte,<br />
dell’“Intelligenza”, che è “Luce”, “soggetto reale della<br />
pittura”. Scrive anche: “Ogni forma è l’espressione di<br />
un’idea originaria e spirito primordiale. Ogni volta che<br />
la forma viene liberata nella sua idea intrinseca, la sua<br />
scrittura vacilla o diviene malsana. [...] Un artista è un<br />
amante cosmico che corteggia, senza l’aiuto della legge<br />
o della lingua, l’amante Assoluto. Non si dipinge con i<br />
colori ma solo in virtù della Grazia”. Propone, quindi,<br />
una posizione idealistica nei confronti della pittura, una<br />
sorta di ideale mistico, capace di superare la materia.<br />
Lavora spesso su materiali trovati, piccoli oggetti, reperti,<br />
che usa come fondo o come motivo di partenza di un<br />
suo lavoro, che rende unitario attraverso la sua scrittura<br />
che riunisce e combina i pezzi sulla parete in una sorta<br />
di environment bidimensionale. Così intende elevare il<br />
materiale all’immateriale, dal campo letterale a quello<br />
delle idee, secondo una spiritualità complessa, materializzazione<br />
concreta dell’astrazione mistica.<br />
L’opera presente in mostra, Vassoio con pesci, del 1996,<br />
è costituita, appunto, da un vassoio in ceramica, contenente<br />
pesci rapaci, conchiglie, ma anche ometti goffi,<br />
una figurina (alata?), al centro una immagine femminile,<br />
come una siliqua aperta, attorno alla quale tutto sembra<br />
ruotare. Un appello alla unicità della natura? Il tutto in<br />
ceramica colorata, nella quale è evidente il ritorno a un<br />
lavoro gustoso e raffinato, frutto di una consumata, ironica,<br />
amorosa e riscoperta manualità.<br />
Vassoio con pesci, 1996; ceramica<br />
colorata, ø cm 52. Archivio R. 49.<br />
3.10.1996. Acquisito dall’artista.<br />
234 235
Transavanguardia<br />
Sandro Chia<br />
(1946)<br />
Diplomatosi all’Accademia di Firenze nel 1969, nel 1971<br />
era a Roma, dove presentava la sua prima mostra alla<br />
Galleria la Salita. Inizialmente legato a esperienze di<br />
performer e di concettualismo, che supportava con testi<br />
e poesie; passò poi a un recupero della figurazione ed<br />
esponeva, nel 1979, nella Galleria Gian Enzo Sperone.<br />
Entrava allora nel gruppo di artisti che Achille Bonito<br />
Oliva definiva Transavanguardia, volta al recupero della<br />
pittura e di un nuovo genere trasgressivo di figurazione,<br />
nell’ambito del ritorno al privato, dopo la caduta, alla<br />
metà degli anni Settanta, dell’ideologia e al concetto<br />
di “specifico” artistico. Dal 1980 lavora e vive tra New<br />
York e l’Italia.<br />
Il suo lavoro ha aspirazioni monumentali, grandiose. È<br />
realizzato, in pittura, attraverso una tecnica gestuale,<br />
veloce, che crea movimenti ondosi e i cui temi mirano a<br />
identificare il genere umano con la natura.<br />
I suoi colori sono accesi, violenti, con allusioni dirette<br />
alla sensualità, a una vitalità quasi panica. Non mancano<br />
nel suo lavoro i ricorsi alla storia della pittura e della scultura,<br />
non come riferimenti figurali, ma come strumento<br />
di ripensamento e di messa in discussione di tutta la<br />
storia delle avanguardie.<br />
L’opera presente nella collezione Bertini è una piccola<br />
scultura in bronzo, Figura, del 1990-1991, nella quale<br />
l’immagine femminile, nel gesto quotidiano di mettersi<br />
una calza, prende una posizione che ricorda opere del<br />
Rinascimento fiorentino, mentre si fa sdutta e vibrante<br />
nel trattamento morbido e sensibile della superficie,<br />
come di lava ribollente, ottenuto col tocco delle dita.<br />
Figura, 1990-1991; bronzo,<br />
h cm 28. Galleria Alessandro<br />
Bagnai, Firenze.<br />
236 237
Transavanguardia<br />
Mimmo Paladino<br />
(1948)<br />
Nel gruppo dei cinque artisti della Transavanguardia<br />
italiana (Chia, Clemente, Cucchi, De Maria e, appunto,<br />
Paladino), si distingue per una pittura tutta “di superficie”<br />
(caratteristica questa, peraltro, intenzionale, in<br />
modo più o meno evidente, della Transavanguardia); la<br />
sua pittura ha, tra i suoi riferimenti, il segno di Klee, la<br />
figurazione stravolta di Picasso, l’immaginario, spesso<br />
rivolto al mondo ancestrale dell’arte arcaica, popolare,<br />
rituale, dell’Italia del Sud, delle epopee locali, con qualche<br />
assonanza, anche, col teatro dei Pupi. Anche questa<br />
è una caratteristica di questi artisti, che trascorrono<br />
liberamente (e ancora, volutamente, “di superficie”),<br />
lungo la storia dell’arte, ciascuno secondo la propria<br />
inclinazione.<br />
Le immagini di Paladino, manichini astratti, larvati, sia<br />
nella pittura che nella sua visionaria, metafisica scultura,<br />
sono lontane da ogni riferimento naturalistico, come<br />
“scorie d’una subumana preda d’un’improvvisa catastrofe”<br />
(G. Dorfles). Sembrano vivere di una vita autonoma,<br />
solitaria, completamente avulsa dalla realtà. Si pensi al<br />
suo bellissimo, astratto, delicatissimo Assediato (1983),<br />
dove una figura sottile ed efebica, dallo sguardo vuoto di<br />
una maschera, presso un’antica urna circondata, in una<br />
comunione quasi panica, da animali, appare come un<br />
moderno sciamano.<br />
La scultura presente in mostra, Senza titolo del 1997, in<br />
bronzo, è una composizione nella quale una figura esile,<br />
emaciata, trattata in modo da evidenziarne la matericità,<br />
dall’aspetto quasi ieratico, in piedi, sostiene una lastra (o<br />
un quadro?), alla quale, sul retro, è appoggiata una cornice<br />
rotonda. L’uomo tiene in mano una piccola colonna<br />
zigrinata. Sulla base, a due livelli, un basso sedile. Anche<br />
qui, nel silenzio, in una solitudine ancestrale, un mistero<br />
metafisico, astratto.<br />
Senza titolo, 1997; bronzo,<br />
cm 35x44x27. Galleria Alessandro<br />
Bagnai, Firenze.<br />
238 239
Nuova arte tedesca<br />
241
Nuova arte tedesca<br />
Markus Lüpertz<br />
(1941)<br />
Ha studiato presso la Werkkunstschule di Krefeld.<br />
Dal 1983 era a Berlino, nel gruppo della Nuova pittura<br />
tedescainsieme a Baselitz, Schönebeck, Pench, definiti<br />
anche “Nuovi selvaggi”.<br />
Lüpertz introduce, nella pittura, quello che definisce<br />
il “ditirambo”, rifacendosi al ditirambo classico, che<br />
rimandava al culto di Dioniso. Intende esprimere così<br />
la nuova condizione dell’artista tedesco dopo gli anni<br />
Sessanta. Inserisce, nei suoi quadri, che definisce Motiv-<br />
Bild (quadro-motivo) e Still-Bild (quadro-stile), una serie<br />
di simboli, disposti quasi come elementi di un mosaico,<br />
in un tipo di pittura eclettica, lontana da ogni strutturazione<br />
organica. Scriveva Achille Bonito Oliva, in La<br />
Transavanguardia internazionale (1982): “L’originalità<br />
non è data dall’acquisizione di nuove tecniche pittoriche,<br />
bensì dalla capacità di distribuire i dati in una<br />
situazione che rispetta la natura linguistica dell’arte,<br />
fuori da impulsi mimetici e dentro l’arbitrio di uno stile<br />
intenso e pieno di slittamenti”. Lüpertz applica anche<br />
alla scultura le stesse regole usate per la pittura, realizzando<br />
lavori complessi, in bronzo dipinto, ai quali dà<br />
connotazioni forti, violente, nella loro grottesca drammaticità,<br />
come in Clitunno, un bronzo dipinto del 1990, qui<br />
esposto, una figura che si riporta al Postimpressionismo<br />
per il dato luministico, a un certo primitivismo, anche<br />
al Postcubismo, ma aggiunge una forza espressiva, un<br />
grottesco accento di gaiezza, nel gesto della mano destra<br />
che tiene in mano un tempietto, come una coppa per<br />
brindare (come osserva Bonito Oliva), e la forza del colore<br />
(“una bruciatura colorata”).<br />
Clitunno, 1990; bronzo dipinto,<br />
cm 46x21x20. Asta Pananti,<br />
Firenze, 16.6.2002. Lotto 254.<br />
242 243
Scultura fra le due guerre<br />
245
Scultura fra le due guerre<br />
Leonardo Bistolfi<br />
(1859-1933)<br />
Ha studiato a Milano, presso l’Accademia di Brera.<br />
Dal 1880 era a Torino, dove frequentava l’Accademia<br />
Albertina. Appena aperto un suo studio iniziava a lavorare<br />
su commissioni professionali e a partecipare a concorsi,<br />
tra gli altri quello per un Monumento a Garibaldi, che egli<br />
non vinse, ma di cui i suoi amici artisti fecero fondere il<br />
bozzetto, che donarono al Comune di Torino. Per i suoi<br />
molti monumenti funerari fu anche definito “il poeta<br />
della morte”. Ma realizzò anche molti altri complessi<br />
nelle piazze delle città italiane. Nel 1902 era nel comitato<br />
promotore dell’Esposizione Internazionale delle Arti<br />
decorative a Torino e fondava con Calandra, Casorati,<br />
Thovez la rivista “L’Arte Decorativa Moderna”.<br />
Nel 1905 gli veniva dedicata una sala della Biennale di<br />
Venezia, dove, nel 1920, presenterà cinque Vasi-scaldini<br />
in cotto decorati a rilievo, per la Via Crucis, tra i suoi pochi<br />
soggetti religiosi. Da un primo periodo di carattere simbolista,<br />
secondo le linee del Modernismo internazionale<br />
legato al Liberty italiano (ma con reminiscenze di carattere<br />
postimpressionista nel trattamento della materia),<br />
che egli porterà avanti nei primi decenni del Novecento,<br />
volgerà, verso gli anni Venti, verso un’adesione al “ritorno<br />
all’ordine”, caratteristico del “900” italiano.<br />
In mostra Allegoria per il XXV anniversario del “Piccolo”<br />
di Trieste del 1906, in bronzo: un gruppo di due figure:<br />
davanti un uomo in atteggiamento eroico, dietro di lui<br />
una donna dalle ampie vesti, che tiene alzata l’asta di<br />
una bandiera ad avvolgere quasi tutta la composizione<br />
nello slancio del suo volo e nel morbido andamento<br />
delle sue pieghe. È evidente il significato simbolico,<br />
patriottico, dell’opera.<br />
Allegoria per il XXV anniversario del<br />
“Piccolo” di Trieste, 1906; bronzo,<br />
cm 64x41x23,5. Asta Nagel di<br />
Stoccarda, 18.10.2002. Lotto 469.<br />
246 247
Scultura fra le due guerre<br />
Libero Andreotti<br />
(1875-1933)<br />
La Veronica, 1920; marmo,<br />
cm 66x22. Famiglia di Lupo<br />
Andreotti.<br />
Praticamente autodidatta (lavorava come fabbro, poi<br />
come scrivano e come commesso di libreria, a Palermo),<br />
nel 1899 tornava a Firenze e si dedicava all’illustrazione<br />
e alla decorazione ceramica. La sua prima esperienza<br />
si svolse nello studio di Mario Galli, dove modellava<br />
<strong>piccole</strong> statuette colorate. Incoraggiato da Grubicy,<br />
mercante e pittore, si dedicava alla scultura, dapprima<br />
secondo stilemi liberty, in seguito, dopo un soggiorno<br />
milanese (1905-1909), e uno parigino (1911), dove<br />
conosceva le opere postimpressioniste di Bourdelle e<br />
di Rodin, sperimentando una tematica e il trattamento<br />
delle superfici secondo un luminismo vicino a quello<br />
di Rodin. Volgeva poi verso il recupero della tradizione<br />
quattrocentesca toscana, anticipando le linee di quel<br />
“ritorno all’ordine” della cultura italiana incoraggiata,<br />
negli anni Venti, dal regime fascista (nel 1921 Ojetti,<br />
critico fascista, lo spingerà, infatti, verso in monumentalismo<br />
di marca “italica”). Tra i suoi più noti: Monumento<br />
Yamba (1919, Cimitero di San Miniato, presso Firenze),<br />
Monumento ai caduti di Roncade (1922), Monumento ai<br />
caduti di Saronno (1923), Monumento alla Madre Italiana<br />
(1922-1926, Chiesa di Santa Croce a Firenze).<br />
Riscoperto sul filo della recente ondata critico-commerciale<br />
del “modernariato” ha raggiunto nuova notorietà e<br />
notevoli quotazioni di mercato. A Pescia, la Gipsoteca<br />
Andreotti riunisce, di lui, oltre duecento lavori, bozzetti,<br />
modelli, relativi a trent’anni del suo lavoro.<br />
In mostra due opere: la prima, L’Incantatrice (1906),<br />
una placchetta in bronzo (il cui gesso è conservato nella<br />
Gipsoteca Andreotti) che si riporta al suo periodo milanese<br />
e che evidenzia i due primi aspetti, quello legato alla<br />
morbidezza e sinuosità del Liberty, nell’avvolgimento<br />
delle spire del serpente e nella capigliatura della donna,<br />
e quello luministico, di origine postimpressionista; la<br />
seconda, La Veronica (1920), un marmo che costituisce<br />
un esempio del lavoro maturo di Andreotti, legato a<br />
quello del suo monumentalismo funebre, che conserva,<br />
peraltro, la morbidezza del suo periodo luminista.<br />
A fianco<br />
L’Incantatrice, 1906; basso rilievo<br />
in bronzo, h cm 32,5.<br />
Pubblicato in Catalogo della<br />
Gipsoteca Andreotti di Pescia, a cura<br />
di Ornella Casazza, 1992, p. 13.<br />
248 249
Scultura fra le due guerre<br />
Francesco Ciusa<br />
(1883-1949)<br />
Scultore sardo, aveva studiato a Firenze all’Accademia di<br />
Belle Arti, allievo, tra il 1899 e il 1901, di Trentacoste, di<br />
Fattori, di De Carolis. Già nel 1907 otteneva un grande<br />
successo alla VI Biennale di Venezia, dove vinceva il<br />
Premio Internazionale di Scultura.<br />
Sceglieva, peraltro, di vivere nella sua Sardegna, chiudendosi<br />
in un silenzio schivo, portando avanti, con<br />
rigore e serietà, il suo lavoro, fedele ai temi che pongono<br />
in primo piano la sua terra, il lavoro dei contadini,<br />
dei pastori, secondo una forma di realismo semplice,<br />
anticlassico, legato alla vita giornaliera, lontano da ogni<br />
tentazione di retorica altisonante. Continuava a lavorare,<br />
pur tenendosi sempre al corrente delle vicende<br />
artistiche nazionali e internazionali, approfondendo il<br />
suo linguaggio, anche se veniva quasi dimenticato negli<br />
ambienti legati, in Italia e fuori, al sistema dell’arte. Da<br />
una prima adesione a un rigoroso realismo passava, in<br />
seguito, a una riflessione sul Simbolismo, sul filo del<br />
lavoro sdutto, stilizzato, di un Wildt e, allo stesso tempo,<br />
del primitivismo novecentesco. Impegnato anche socialmente<br />
nella difesa delle sorti della sua isola, di cui<br />
propugnava la veridicità e la purezza da salvare da ogni<br />
tentativo di stravolgerne le caratteristiche in nome di<br />
una falsa e pretestuosa idea di progresso, era stato vicino<br />
a Sebastiano Satta, poeta nuorese impegnato nella difesa<br />
della integrità della cultura sarda e delle sue tradizioni e,<br />
nel 1931, ne progettava il monumento, che non fu mai<br />
realizzato. Nella collezione Bertini (non in mostra) ne è<br />
presente il modello.<br />
In mostra un delicatissimo gesso, L’adolescente, del 1925,<br />
un lavoro di grande purezza, l’immagine dolcissima di<br />
un nudo di fanciulla in piedi, quasi il simbolo di una<br />
primavera che nasce.<br />
L’adolescente, 1925; gesso, h cm 38.<br />
Acquisito dalla famiglia.<br />
250 251
Scultura fra le due guerre<br />
Primo Conti<br />
(1900-1988)<br />
Forse il più giovane esponente del primo Futurismo, a soli<br />
quindici anni partecipava alla mostra della Permanente a<br />
Firenze. Nel 1914 aveva già esposto alla Prima Rassegna<br />
di Bianco e Nero, sempre a Firenze. Collaborava con<br />
Tommei e Ferrante Gonnelli, libraio antiquario e gallerista,<br />
all’organizzazione di una mostra di Umberto Boccioni<br />
a Firenze. Formava, con Baldessari, Venna, Lega e Rosai<br />
il Gruppo futurista fiorentino. Da allora partecipava alle<br />
prime mostre futuriste e, con Corrado Pavolini, dava vita<br />
alla rivista “Il Centone”. Nel suo periodo giovanile passava,<br />
in pittura, dalla scomposizione dell’immagine a una<br />
compenetrazione dinamica e cromatica di piani, addensando<br />
il colore in tagli plastici netti. Passava, in seguito, a<br />
un realismo legato al “ritorno all’ordine” e di Novecento,<br />
per tornare, negli anni seguenti, a un tentativo di sintesi<br />
simbolico-astratta della realtà.<br />
La Testa del 1963, qui esposta, sembra voler ripercorrere<br />
alcune fasi del periodo futurista di Conti, sulla scansione<br />
dei piani, e allo stesso tempo, riferirsi al periodo relativo<br />
a quella che si definì, negli anni Sessanta, “Nuova<br />
figurazione” che, sulla lezione di Bacon, di Sutherland,<br />
denuncia, sul filo della filosofia dell’Esistenzialismo, la<br />
crisi del concetto stesso di uomo, dopo le stragi belliche<br />
e i genocidi nazisti.<br />
Testa, 1963; bronzo, h cm 50.<br />
Sembra essere una replica di<br />
un’altra scultura alta cm 133,<br />
pubblicata in Scultura del Novecento<br />
a cura di V. Sgarbi, Graphis, 1992.<br />
Acquisito dalle figlie dell’artista,<br />
Maria Gloria e Maria Novella.<br />
252 253
Scultura fra le due guerre<br />
Andrea Lippi<br />
(1888-1916)<br />
Dopo gli studi presso l’Istituto di Belle Arti di Firenze<br />
(l’attuale Accademia) e un periodo di interesse verso il<br />
Manierismo, attinge “a un modo di plasmare ‘disegnativo’<br />
dello ‘stiacciato donatelliano’” (A. Parrochi in Artisti<br />
toscani del primo Novecento, Firenze 1958). Incitato da<br />
Bistolfi riuscirà a raggiungere una qualità rara nell’applicazione<br />
della sua grande sensibilità. Il suo morbido,<br />
delicato modellato, più segnico che gestuale (La Chimera<br />
opprime l’uomo, 1912, da Baudelaire), i suoi disegni, dal<br />
tratto sottile, leggero e volubile, ne fanno un esponente<br />
raffinato di quel postimpressionismo luministico che sfocerà,<br />
in molti casi, in un particolare simbolismo, secondo<br />
la sua “coscienza romantica di un valore simbolico<br />
dell’arte” (su cui scrive anche testi di grande intensità),<br />
in chiave con quella linea “che originatasi col neoclassicismo<br />
visionario di Blake è corsa lungo tutto l’Ottocento,<br />
attraverso i Preraffaelliti, i simbolisti e i Nabis, fino a<br />
che non è dilagata genericamente nello stile floreale”<br />
(Parronchi). Il suo è un esempio particolarissimo di artista<br />
che esce dai limiti di quel ristretto ambito provinciale<br />
nel quale si è chiuso, per tutta la sua breve vita.<br />
In mostra Le tre Grazie, un bassorilievo in bronzo del<br />
1911-1912, che esprime pienamente la sottile forza della<br />
sua sensibilità nel modellato, ma anche il suo amore per<br />
la classicità e, come si è detto, per il Manierismo.<br />
Le tre Grazie, 1911-1912; bronzo,<br />
ø cm 16. Gesso originale presso<br />
il Liceo Artistico “Policarpo<br />
Petrocchi” di Pistoia.<br />
Mostra antiquaria di Arezzo.<br />
254 255
Scultura fra le due guerre<br />
Jacques Lipchitz<br />
(1891-1973)<br />
Imposta il suo lavoro come scultore realista. Dal 1914<br />
aderiva al Cubismo e realizzava opere di impianto<br />
strutturale, nelle quali la figura umana si compone di<br />
blocchi giustapposti, o si assottiglia in immagine stilizzata,<br />
tendendo all’astrazione. Collaborò, nel 1946, alla<br />
decorazione della Cappella d’Assy.<br />
Il Bozzetto per monumento, un piccolo bronzo degli anni<br />
Sessanta, è una sorta di totem ispirato a moduli di culture<br />
orientali, che assume un carattere ieratico e sacrale,<br />
lontano dalla morfologia generalmente caratteristica<br />
di Lipchitz, se non in certa disposizione ritmata della<br />
parte in basso. È, comunque, un’opera abbastanza tarda<br />
dell’artista.<br />
Bozzetto per monumento, anni<br />
Sessanta; bronzo, h cm 16.<br />
Il monumento è stato realizzato<br />
a Los Angeles presso il Music<br />
Center. Pubblicato in Scultura<br />
viva, Carrara 1988, p. 72. Galleria<br />
Metastasio di Carlo Palli, Prato.<br />
256 257
Scultura fra le due guerre<br />
Antonietta Raphael<br />
(1900-1975)<br />
Dopo aver studiato pianoforte alla Royal Academy di<br />
Londra, dove apriva una scuola di solfeggio, nell’Est<br />
End, si trasferiva a Parigi e nel 1924 era a Roma, dove<br />
frequentava l’Accademia di Belle Arti e iniziava il suo<br />
lavoro artistico nell’ambito di quella che va sotto il nome<br />
di Scuola di via Cavour o Scuola romana, composta, tra<br />
gli altri, da Scipione Bonichi e Mario Mafai, suo marito.<br />
Il suo lavoro è abbastanza dissonante da quello degli<br />
altri due artisti, dall’allucinata, sfrenata, barocca intensità<br />
della forza quasi controriformista di Scipione, dalla<br />
drammaticità quasi espressionista, a esprimere una realtà<br />
in disfacimento, di Mafai. Antonietta Raphael porterà,<br />
nel gruppo, una sua nota orientaleggiante, decorativa,<br />
carica di una religiosità senza dubbi, di un erotismo<br />
libero e diretto, espresso, in pittura, da un uso del colore<br />
acceso, legato anche alle sue origini slave e all’ascendente<br />
di Chagall.<br />
La sua scultura, a cui si dedica dai primi anni Trenta,<br />
è carica di rimandi culturali, quali il lavoro di Maillol e<br />
Despiau, con qualche ricordo di una sensibilità postimpressionista,<br />
gioca con la luce che ne corrode la superficie,<br />
accentuando la drammatica interiorità dell’opera.<br />
Come in questo piccolo gruppo, Le tre sorelle, un bronzo<br />
del 1947 (si tratta delle sue tre figlie, tema da lei affrontato<br />
altre volte), che unisce una dolcezza e una mordidezza<br />
di modellato a un chiaro riferimento, nel taglio<br />
delle braccia, anche alla scultura antica.<br />
Le tre sorelle, 1947; bronzo, cm<br />
24x27. 6 esemplari. Asta Finarte,<br />
Roma, 15.11.2001. Lotto 254.<br />
258 259
Scultura fra le due guerre<br />
Giacomo Manzù<br />
(1908-1991)<br />
Foglia per la Porta di San Pietro,<br />
1962; bronzo, cm 16x27.<br />
Acquisita da Giacomo Manzoni,<br />
figlio di Pio Manzoni, nipote di<br />
Manzù.<br />
Iniziava come intagliatore e stuccatore. A Verona, mentre<br />
era militare, si dedicava allo studio dei Maestri,<br />
visitando i monumenti e le opere della città. Nel 1929 a<br />
Parigi, per due mesi, viveva praticamente al Louvre, in<br />
totale indigenza, finché, trovato quasi svenuto per l’inedia,<br />
fu rimpatriato. Veniva allora ospitato in un piccolo<br />
studio dall’architetto Pizzigoni. Dal 1931 era a Milano<br />
dove si dedicava allo studio di Raffaello e di Francesco<br />
di Giorgio. Conosceva, frattanto, Persico, Birolli, Sassu,<br />
Montale, Quasimodo, che gli procurarono l’incarico della<br />
decorazione della Cappella dell’Università Cattolica.<br />
Scheiwiller gli pubblicava la prima monografia. Da sempre<br />
antinovecentista e antifascista, si dedicava, allora,<br />
allo studio di Medardo Rosso, e si appassionava al suo<br />
luminismo postimpressionista, avviandosi nel 1933 verso<br />
un plasticismo morbido, sensibile all’incidenza della<br />
luce che scorreva lungo la superficie della sua scultura,<br />
rendendola quasi friabile, sfaldata, così da trasmettere<br />
un senso di disfacimento e di fine. Nel 1934, a Bergamo,<br />
iniziava la serie dei suoi “cardinali”, concepiti, come<br />
questo, piccolissimo e presente in mostra, del 1960,<br />
secondo una forma bloccata, quasi conica, dalla materia<br />
sensibile. Decorerà, dal 1946 al 1964, la Porta della<br />
Morte in San Pietro a Roma.<br />
In mostra anche una bella Foglia del 1962, sensibilmente<br />
naturalistica, una fusione del modello al vero per la<br />
Porta. La sua nomina a insegnante all’Accademia di<br />
Brera (1940-1960), aveva sollevato uno scandalo e nel<br />
1946 i suoi lavori venivano rifiutati alla Mostra d’Arte<br />
sacra a Bergamo. Altri temi sono quelli legati all’immagine<br />
di sua moglie Inge e quello della Danzatrice,<br />
dove è sensibile il riferimento a Degas. Più classico, ma<br />
raffinatissimo, nel disegno e nella grafica. Illustrava, con<br />
le sue splendide litografie e le acqueforti, le Georgiche di<br />
Virgilio e il Falso vero Verde di Quasimodo.<br />
A fianco<br />
Cardinale seduto, 1960; bronzo,<br />
h cm 36 con base. Variante di 3<br />
esemplari. Pubblicato in Giacomo<br />
Manzù, opere scelte 1930- 1990,<br />
Comune di Arona, Art Museo, p. 11.<br />
260
Scultura fra le due guerre<br />
Marino Marini<br />
(1901-1980)<br />
Figura femminile | Nudo, 1943; gesso,<br />
cm 37x11. Pubblicato in Umbro<br />
Apollonio, Marino Marini, Il Milione,<br />
Milano 1958, fig. 38.<br />
Dal 1923 si dedica alla pittura e al disegno. Modellava,<br />
allora, alcuni ritratti, che saranno una costante nel suo<br />
lavoro e una delle sue espressioni più sensibili e intense,<br />
di incredibile intuizione psicologica. Dal 1928 al 1940<br />
insegnante presso la Scuola d’Arte di Monza, dal 1940<br />
all’Accademia di Brera di Milano. Durante la seconda<br />
guerra mondiale si rifugia nel Canton Ticino dove si<br />
dedicava anche all’incisione. Vive a Milano dal 1946.<br />
Dopo un primo periodo legato al luminismo impressionista<br />
di Medardo Rosso, passava a una ricerca sulla storia<br />
della scultura etrusca e di quella egizia, come strumenti<br />
per il raggiungimento di una nuova soluzione formale,<br />
di forte impatto strutturale (si vedano le sue straordinarie<br />
“Pomone” monumentali, tra le opere che hanno<br />
rivoluzionato la storia della scultura, dandole un nuovo<br />
impulso). Con Miracolo (1943) passava al periodo definito<br />
“gotico”, nel quale il blocco scultoreo si apre come per<br />
violente esplosioni, in slanci che invadono lo spazio, ricchi<br />
di intensa drammaticità, acuita da balenii di colore.<br />
Trasformava così il gruppo equestre in una espressione<br />
di libera vitalità secondo le linee di un esistenzialismo<br />
esasperato, che tende a ridurre la forma attraverso una<br />
totale scarnificazione. Anche la sua grafica assumeva, da<br />
allora, forti significati simbolici.<br />
Ricerca costante nel lavoro di Marini quella del movimento<br />
in rapporto col tempo, che analizzerà nelle sue<br />
“danzatrici”, negli “acrobati”, che compariranno, ricchi<br />
di vitalità e di colore, anche nei suoi disegni e nell’immagine<br />
della donna, che tratta con morbidezza, con una<br />
modellazione essenziale, come in Testina femminile in<br />
bronzo (il ritratto della moglie), degli anni Quaranta, il<br />
momento più sintetizzante ed essenziale della sua ricerca;<br />
e come Figura femminile, un piccolo nudo di donna<br />
incinta, del 1943, in gesso, pure presente in mostra, una<br />
dolce, commovente, trepida immagine femminile, resa<br />
goffa dalla consapevolezza della sua trasformazione, dal<br />
peso del ventre, che sembra volerle spostare verso il<br />
basso tutto il corpo.<br />
A fianco<br />
Testina femminile (ritratto di<br />
Marina), anni Quaranta;<br />
bronzo, h cm 21.<br />
262 263
Scultura fra le due guerre<br />
Amedeo Modigliani<br />
(1884-1920)<br />
Dopo gli studi a Firenze (dove si innamorò di Tino da<br />
Camaino) e a Venezia, nel 1906 era a Parigi, al Bateau<br />
Lavoir, dove vivevano molti artisti e dove conduceva<br />
una vita da bohémien, preda della droga e del vino,<br />
sofferente, scambiando i suoi disegni per pochi soldi.<br />
Dalla sua straordinaria scultura, i cui riferimenti vanno<br />
dalle maschere africane a Nicola Pisano, svolte in<br />
forme compatte, ovoidali – si pensi alla sue morbide,<br />
dolcissime, levigate “Cariatidi” – passava alla pittura.<br />
La figura (quella femminile in particolare), si fa sempre<br />
più sottile, elegante, quasi un meraviglioso arabesco<br />
stilistico, non più legato alle linee avvolgenti dell’Art<br />
Nouveau, ma forma chiusa, dal colore denso, profondo,<br />
che sembra farsi carne, sangue, respiro, di un erotismo<br />
sottile, struggente.<br />
I suoi ritratti, elegantissimi, di una astratta raffinatezza,<br />
si trasformano in immagini simboliche, pur mantenendo<br />
un rapporto diretto col personaggio raffigurato. Non è<br />
qui la sede per un’analisi più ampia di uno dei maggiori<br />
artisti italiani degli inizi del XX secolo. Ci limitiamo a<br />
parlare dell’opera presente nella collezione Bertini e<br />
in mostra, Tête de femme, del 1912, fusa in bronzo da un<br />
originale in pietra: è un bellissimo esempio del lavoro di<br />
Modigliani, una testa affilata, che una grande acconciatura<br />
e la consueta lunghezza del collo contribuiscono a<br />
rendere affusolata; si connota di una morbida plasticità,<br />
sembra giocare con la luce che la sfiora, evidenziando un<br />
lieve sorriso ironico sulle labbra.<br />
Tête de femme, 1912, h cm 57;<br />
bronzo a cera persa. Dall’originale<br />
in pietra nel Musée National d’Art<br />
Moderne di Parigi. Realizzato a<br />
cera persa dalla Fonderia Tesconi<br />
di Pietrasanta, da cui proviene.<br />
264 265
Scultura fra le due guerre<br />
Isamu Noguchi<br />
(1904-1988)<br />
Ha vissuto sempre tra il Giappone e gli Stati Uniti.<br />
Inizialmente incerto se portare avanti i suoi studi di<br />
medicina o il lavoro artistico, si decideva per questo<br />
dopo aver scoperto, a New York, attraverso riproduzioni,<br />
le opere di Brancusi (1926), che conoscerà direttamente<br />
nel 1927 (con Calder, Giacometti, Fujita) a Parigi, dove<br />
era giunto con una borsa di studio. Definitivamente<br />
a New York nel 1928 vi presentava, nel 1929, i suoi<br />
lavori astratti, di carattere lineare, di andamento curvilineo,<br />
svolti coi materiali più disparati, dall’argilla, alla<br />
pietra, dal legno al bronzo, al ferro, presso la galleria<br />
Eugène Schoen. Si impegnava, inizialmente, in una sperimentazione<br />
rigorosa e severa, che lo vedeva, appunto,<br />
usare materiali diversi, ma anche tentare diversi campi<br />
dell’esperienza artistica (progettava opere ambientali,<br />
giardini, si occupava di scenografia, di costumistica teatrale,<br />
di industrial design – progettava lampade, arredi<br />
di interni).<br />
La mostra presso la Eugène Schoen Gallery non ebbe<br />
successo: si era in piena depressione. Noguchi abbandonava<br />
allora il suo astrattismo per dedicarsi al ritratto<br />
su commissione che eseguiva spesso in terracotta e che<br />
svolgerà secondo un sintetismo realistico di grande rigore,<br />
in perfetta adesione con il genere di arte in auge negli<br />
Stati Uniti. Nel 1989, dopo la sua morte, la National<br />
Portrait Gallery di Washington gli dedicava una grande<br />
mostra. Gli è stato dedicato anche l’Isamu Noguchi<br />
Garden Museum che occupa due sedi, Mure, nell’isola<br />
giapponese di Shikoku, e Long Island, a New York.<br />
In mostra un esempio del suo lavoro di ritrattista, il<br />
Ritratto di Francise Clow Braggiotti, in gesso patinato,<br />
degli anni Trenta, raffinato, sensibile, espressione perfetta<br />
dell’arte più diffusa negli Stati Uniti.<br />
Ritratto di Francise Clow Braggiotti,<br />
anni Trenta; gesso patinato,<br />
h cm 38. Asta Finarte, Roma,<br />
25.1,2001. Lotto 258.<br />
266 267
Scultura fra le due guerre<br />
Arturo Martini<br />
(1889-1947)<br />
Presepe piccolo, 1927; terracotta,<br />
cm 42x20x18. Galleria Guastalla,<br />
Livorno.<br />
Studiava presso la Scuola Libera del Nudo all’Accademia<br />
di Belle Arti di Venezia e, di seguito, a Treviso, si<br />
avvicinava alle linee dell’Art Nouveau, nella versione<br />
italiana del Liberty, allora imperante. A Parigi dal 1912 si<br />
dedicava a un tipo di scultura che alternava una sorta di<br />
classicismo ideale a una libertà lirica e romantica, di un<br />
monumentalismo fantastico. Tra i suoi lavori più intensi,<br />
ricchi di forza e di equilibrio dinamico straordinario tra<br />
le diverse componenti, La sposa felice (1930), Tomba di<br />
giovinetta (1932), dalla fluidità dolcissima delle forme, che<br />
restano tra le opere più importanti della scultura italiana.<br />
Aderiva poi al gruppo nazionalista dei “Valori plastici”<br />
che lo obbligavano a riferimenti al mondo romano e al<br />
Quattrocento toscano, e a chiudersi a contatti internazionali.<br />
Attraversava, allora, un periodo di crisi profonda,<br />
che lo portava ad abbandonare la scultura, dichiarandola<br />
“lingua morta”. In condizioni economicamente critiche,<br />
tanto da accettare di lavorare per uno scultore americano,<br />
Maurice Sterne, si dedicava alla modellazione di ceramiche<br />
da produrre in piccola serie, per la Biennale di<br />
Monza, che lo spingevano a misurarsi con quella che a<br />
quel momento era una urgenza molto sentita, l’intento,<br />
cioè, di sollevare il livello delle arti decorative.<br />
Dal 1941 tornava alla scultura coi cinque Bassorilievi per<br />
l’Arengario di Milano. Ma non riusciva ancora a liberarsi<br />
dalla sua grave crisi di identità. Ciò non gli impedì di<br />
realizzare alcune opere tra le sue più importanti, come<br />
Donna sott’acqua, nella quale suggestioni formali e letterarie<br />
nutrono la sua ricerca, suggestioni che vanno<br />
dal cubismo picassiano, alla morbidezza epidermica di<br />
Canova e, per i temi, da Verga a Bontempelli, a Nievo.<br />
I due lavori presenti in mostra, Presepe piccolo, del 1927,<br />
e Annunciazione, sempre del 1927, appartengono al suo<br />
periodo di rifiuto della scultura; il primo è la variante di<br />
un’opera di dimensioni maggiori, realizzata in maiolica su<br />
incarico dell’architetto Mario Labò, prodotta nel laboratorio<br />
di Manlio Trucco di Albisola.<br />
È una bellissima composizione, disposta come in una<br />
sacra rappresentazione: le figure, di grande forza e di<br />
impatto monumentale, si stagliano contro una sorta di<br />
alta nicchia, in ordine scalare: in alto la Madonna col<br />
bambino, piccolissimo, in braccio; Giuseppe, davanti a<br />
lei, come a proteggerla, accanto alla culla-mangiatoia;<br />
sotto gli oranti e, in basso, uno dei re magi a cavallo; ai lati<br />
268 269
Scultura fra le due guerre<br />
della nicchia figure inginocchiate e, in alto, un affusolato<br />
cipresso. L’altro lavoro, Annunciazione, ancora del 1927, è<br />
un’opera prodotta, anch’essa, da una maiolica a stampo:<br />
una tenda quasi da crociati, dalla quale si affaccia una<br />
Madonna inginocchiata, dalla forma sintetica, morbida,<br />
essenziale. L’immagine dell’angelo, dietro la tenda (stranamente<br />
le due entità non si vedono tra loro), mostra, in<br />
due volute diagonali, l’idea di un’ala e del fondo della<br />
veste; quasi a ribadire l’ineffabilità di un evento sacrale,<br />
indescrivibile, come soltanto sognato. Con una sottigliezza<br />
che, rara in Martini, sduttisce i contorni dei personaggi,<br />
che perdono, qui, il consueto impianto pesante e<br />
monumentale.<br />
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Annunciazione, 1927; terracotta, cm<br />
25,5x22x20. Galleria Guastalla di<br />
Livorno.<br />
Pubblicate in Sironi e Martini,<br />
Graphis, 2000, pp. 10-11; e in<br />
40a Mostra della Ceramica a<br />
Castellamonte, a cura di M. Corgnati,<br />
Musumeci, Quart-Val d’Aosta 2000,<br />
pp. 16 e 19.<br />
270 271
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Lynn Chadwick<br />
(1914-2003)<br />
Dopo aver lavorato come architetto e dopo la prima<br />
guerra mondiale, alla quale partecipava come pilota<br />
nell’aviazione navale, si dedica alla scultura. Partiva,<br />
ispirandosi a Calder e in parte a Gonzales, alla realizzazione<br />
di “mobile” astratti (“Balanced sculpture”), in<br />
filo di ferro, che dialogavano con lo spazio. Con questi<br />
si faceva conoscere attraverso una mostra a Londra nel<br />
1951. Dal 1954 affrontava la scultura come forma solida,<br />
ma non compatta, bensì con forti, aguzze emergenze,<br />
impostate sul triangolo, le cui “ossature”, come le definisce<br />
Robert Melville, egli “riempie di un misto di gesso<br />
e di limatura di ferro (usata dall’industria per le basi di<br />
macchinari pesanti) e, prima che questa sostanza acquisti<br />
la durezza del vetro, egli lima e sfaccetta la superficie,<br />
modellata fino a raggiungere l’intreccio dell’armatura<br />
metallica”. Crea così superfici mosse, grige, rugose, leggere,<br />
quasi trasparenti, che la ruggine della limatura di<br />
ferro colora. Le sue <strong>sculture</strong> assumono spesso riferimenti<br />
figurativi a giganteschi esseri alati, ai quali spesso egli<br />
conferisce un lieve movimento, come nei suoi “mobile”.<br />
Opere che Herbert Read ha definito “espressioni<br />
della geometria della paura”. Partecipava, nel 1951, alla<br />
famosa mostra New Decade al Museum of Modern Art<br />
di New York e a molte edizioni di Documenta a Kassel<br />
e a molte Biennali veneziane.<br />
Le due <strong>piccole</strong> <strong>sculture</strong> in bronzo, presenti in mostra,<br />
Pair of cloaked – Figure IV, del 1927, dalle braccia palmate,<br />
come grandi ali, a metà tra uccello e figura umana,<br />
di grande forza emotiva e drammatica, poggiano su<br />
un’unica base.<br />
Pair of cloaked – Figure IV, 1927;<br />
bronzo, cm 29,5x13x21 e cm<br />
21,5x12x14. Esemplari 5/8. Asta<br />
Sotheby, Londra, 28.6.2001.<br />
Lotto 373.<br />
272 273
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Germaine Richier<br />
(1904-1959)<br />
Allieva di Bourdelle a Parigi, dal 1929 con uno studio<br />
autonomo. Il suo periodo più importante è legato alla<br />
ricerca informale, vicina a quella di Giacometti; è quello<br />
delle Donne insetto (dal 1945), grandi figure metamorfiche,<br />
di ispirazione surreale, nelle quali il mondo<br />
animale si assimila a quello vegetale, esprimendo un<br />
luminismo di superficie, in certo senso ancora legato al<br />
postimpressionismo di Rodin, ma chiaramente rivolto al<br />
dramma terribile, emotivo provocato dalla guerra, anche<br />
quella atomica, che riducono l’uomo a una carcassa scarnificata;<br />
ne resta una sorta di vitalità cieca, animalesca.<br />
Tutte le <strong>sculture</strong> della Richier, quasi sempre di fusione,<br />
esprimono questo vitalismo sordo, cupo, di una violenta<br />
drammaticità, non domata dall’ineluttabilità.<br />
In mostra Guerrier, una figura di donna guerriera, in<br />
bronzo, del 1953, la cui testa sembra assimilarsi a una<br />
cuspide aguzza (becco, spada affilata?), che sembra<br />
lanciarla fuori dal tempo reale, fuori da tutti i drammi<br />
dell’esistenza.<br />
Guerrier, 1953: bronzo,<br />
cm 33x9,5. Esemplare 4/8.<br />
Pubblicato in Germain Richier,<br />
Fondazione Maeght, Saint Paul de<br />
Vence 1996. Asta Sotheby, Londra,<br />
27. 6. 2002. Lotto 242.<br />
274 275
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Fritz Wotruba<br />
(1907-1975)<br />
Negli anni Venti passava dall’incisione alla scultura,<br />
mentre studiava presso lo scultore Anton Hanak a<br />
Vienna. Dopo l’annessione dell’Austria alla Germania<br />
nazista si rifugiò, fino al 1945, in Svizzera. Tornato in<br />
Austria veniva eletto membro dell’Accademia di Belle<br />
Arti e insegnante di scultura. Ha quasi sempre usato<br />
la pietra, che sbozza in blocchi compatti, organizzati<br />
secondo modalità postcubiste, a esprimere una carica di<br />
energia di grande impatto. Il suo riferimento è sempre<br />
un antropomorfismo arcaico, forte, spesso drammatico,<br />
sempre impostato, peraltro, secondo una struttura di<br />
impianto architettonico. Tra i suoi lavori il progetto per<br />
la Chiesa della Santa Trinità, vicina a Vienna del 1967.<br />
In mostra Piccola figura che cammina col pugno sinistro<br />
in avanti, un piccolo bronzo del 1948, dalla superficie<br />
mossa, che lascia scorrere la luce con morbidezza.<br />
L’impianto è invece di tipo architettonico, essenziale,<br />
quasi arcaico, fortemente dinamico.<br />
Piccola figura che cammina col pugno<br />
sinistro in avanti, 1948; bronzo,<br />
h cm 43,5. Galleria Narciso,<br />
Torino.<br />
276 277
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Etienne Martin<br />
(1913-1995)<br />
Tra gli scultori europei che, nel secondo dopoguerra,<br />
si muovono nell’ambito della cultura dell’informale<br />
materico, ancora legati all’immagine di una scultura<br />
compatta, centrifuga, non filtrante, che lascia scorrere<br />
la luce sulla sua superficie, lo scultore francese realizza<br />
forme di carattere organicistico, caratterizzate da nodi e<br />
compressioni, solcati dalla luce, con effetti di drammatico<br />
vitalismo. La materia che ha usato maggiormente<br />
è la pietra, ma, spesso, si è servito anche del marmo e<br />
del bronzo.<br />
In mostra La Lande, un bronzo del 1970, un’opera compatta,<br />
che disegna, organicisticamente, una figura umana<br />
trattata come un pezzo astratto, chiuso in sé, lucido,<br />
segnato da sigle e segni, di grande severità.<br />
La Lande, 1970; bronzo, cm<br />
56x19x19. Esemplare 4/8.<br />
Asta Carmels-Chambre e Cohen,<br />
Parigi, Drouot, 14.6.2002. Lotto 61.<br />
278 279
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Barbara Hepworth<br />
(1903-1975)<br />
Studiava presso la Leed School of Art e presso il Royal<br />
College of Art di Londra. Nel 1924 era stata in Italia<br />
con una borsa di studio (a Firenze, Siena e Roma), dove<br />
apprese la tecnica della scultura a scalpello. A Parigi<br />
incontrava Picasso, Arp, Brancusi. La sua prima opera è<br />
Forma perforata (1931), un lavoro in alabastro forato al<br />
centro. Aderiva, con Henry Moore, al gruppo parigino<br />
Abstraction-Création e, dopo il 1935, a Londra, al gruppo<br />
Unit One.<br />
Ha sempre prediletto, come Moore, un genere di scultura<br />
compatta, centripeta, caratteristica dell’architettura<br />
europea della prima metà del XX secolo, in blocchi che<br />
essa leviga accuratamente, arrotondandoli, e nei quali<br />
scava grandi vuoti, in contrasto con la compattezza<br />
dell’opera, realizzata in marmo pario e pentelico, in<br />
pietra, in palissandro policromo. Unisce talvolta, con<br />
una trama filiforme, i bordi esterni dei suoi vuoti, quasi<br />
a voler creare un legame tra interno ed esterno (pratica,<br />
in quel periodo, seguita anche da Moore). Ma, mentre<br />
per Moore il riferimento diretto è sempre stato il corpo<br />
umano, nella sua struttura, per Barbara Hepworth il riferimento<br />
è quello naturale e quello fitomorfico, poiché<br />
assume elementi della natura (la levigata lucidità del<br />
seme, della castagna, di cui spesso le sue <strong>sculture</strong> assumono<br />
il colore – quello della buccia, marrone e lucida<br />
all’esterno, quello bianco e tenero del frutto all’interno<br />
delle sue cavità).<br />
Ha realizzato anche lavori monumentali, che inserisce<br />
nel paesaggio, o in spazi urbani, come Forma singola<br />
(1964) per il Palazzo dell’ONU a New York. Nel 1975<br />
Barbara Hepworth moriva nell’incendio del suo studio a<br />
Saint Yves. Aveva sposato lo scultore John Skeping, poi<br />
Ben Nicholson (1930), da cui aveva avuto, da un parto<br />
trigemino, tre figli.<br />
Saint Yves, in Cornovaglia, le ha dedicato un museo.<br />
L’opera in mostra Forma, degli anni Settanta, è un<br />
esempio tipico del suo trattamento della scultura, levigata<br />
nella sua superficie affusolata, interrotta a metà da un<br />
grande foro che la divide in due; in una parte si imposta<br />
un elemento che, piegandosi, la trapassa, in una elegante<br />
composizione perfetta.<br />
Forma, anni Settanta; bronzo,<br />
cm 44x23,5. Asta Chamberland,<br />
Drouot, 5.10.2001. Lotto 112.<br />
280 281
Scultura postbellica e contemporanea<br />
François Stahly<br />
(1911-2006)<br />
A Parigi dal 1931 aderiva al movimento Abstraction-<br />
Création. Durante la guerra, a Oppède, in Valchiusa,<br />
conosceva alcuni architetti con i quali elaborò un serie<br />
di progetti, peraltro non realizzati. Ma dal momento in<br />
cui la sua scultura assunse la sua configurazione definitiva,<br />
fu sempre svolta, per la maggior parte, in funzione<br />
dell’architettura.<br />
Egli iniziava a lavorare secondo due linee, la prima su<br />
forme autonome, astratte, libere da ogni implicazione di<br />
utilizzo, di carattere totemico, in una sorta di “germinazione<br />
sentimentale” (R. Corgniat), l’altra che si rapporta<br />
più direttamente all’architettura contemporanea (“rilievi<br />
murali” presso la Henreaux di Querceta). Le sue forme<br />
sono spesso di carattere organicistico, si svolgono in nodi<br />
complessi, come compressioni spontanee, cariche di un<br />
animismo segreto, tormentato, drammatico. Ha usato<br />
pietra, marmo, acciaio (per l’opera alta 25 metri, al Salon<br />
des Arts Ménagers a Parigi, 1955).<br />
Il lavoro in mostra, Sans titre, del 1966, in bronzo, è una<br />
forma stilizzata, astrattizzante, che può essere anche<br />
allusiva a un grande rapace (un gufo, una civetta) dalle<br />
ali aperte, che appare come composta di tante schede<br />
quadrate, saldate insieme, segnate matericamente da<br />
gocce in rilievo, piume solide, vibranti alla luce.<br />
Sans titre, 1966; bronzo,<br />
cm 14,5x24. Asta Chambelland e<br />
Co., Paris-Drouot, 5.11.2001.<br />
Lotto 119.<br />
282 283
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Henry Moore<br />
(1898-1986)<br />
Upright Motive, 1964; bronzo.<br />
h cm 14. Esemplare 1/9. Asta<br />
Sotheby 26.4.2001. Lotto 64WS.<br />
Seated Figure on Log, 1982; bronzo,<br />
h cm 16. Esemplare 5/9. Asta<br />
Sotheby 26.4.2001. Lotto 64XR.<br />
Tube Form, 1983: bronzo, h cm 12,<br />
5. Esemplare 2/9. Asta Sotheby<br />
26.4.2001. Lotto 6520.<br />
Queste tre <strong>piccole</strong> <strong>sculture</strong>,<br />
acquistate dal dr. Max Stern presso<br />
la Galleria Dominion di Montreal,<br />
allora agente di Moore per il<br />
Canada, vengono dallo stesso Stern,<br />
messe in asta da Sotheby a New<br />
York per un “benefit” a favore<br />
di due Università di Montreal<br />
e di Gerusalemme. Si trattò di<br />
un’asta speciale solo “via internet”.<br />
Vennero presentate da Sotheby<br />
nella sede di New York: dopo 21<br />
giorni e tante ore specificate per<br />
ogni opera (scadevano il 26.4.2001)<br />
furono assegnate all’ultima<br />
offerta ricevuta via internet vicino<br />
all’ora precedentemente stabilita.<br />
Questo procedimento è stato<br />
disastroso secondo la Sotheby e<br />
mai più adottato. C’era un prezzo<br />
base prefissato. Si sono potute<br />
acquistare tramite una signora<br />
americana, in internet, al prezzo<br />
base, perché senza concorrenti.<br />
La sua scultura, profondamente legata alla natura come<br />
matrice di forme, con riferimenti a una simbologia archetipica<br />
(quella del “grande femminino” e della “grande<br />
madre”), che si origina dalla teoria del subconscio e del<br />
profondo, che derivano dal Surrealismo, si realizza nelle<br />
sue grandi figure materne espresse in forma avvolgente,<br />
che indagano nella struttura organica del corpo umano<br />
(ossa, cartilagini, nervi) e nelle forme inorganiche della<br />
natura (sassi, pietre) e sembra svolgersi in un rapporto<br />
continuo interno/esterno, concretizzandosi in forme essenziali,<br />
con grandi fori, che rimandano anche a Brancusi. Egli<br />
ha dichiarato: “La figura umana è quella che mi interessa<br />
più profondamente, però ho incontrato principi di forma e<br />
di ritmo anche nello studio degli oggetti della natura come<br />
sassi, rocce, ossi, alberi, piante. I sassi e le rocce mostrano<br />
il modo della natura di lavorare la pietra. I sassi lisci, sparsi<br />
nel mare, presentano il trattamento di consumo mediante<br />
frizione. Le rocce mostrano un trattamento di taglio e di<br />
battuta e hanno un addentellato ritmico nervoso dal martello<br />
pneumatico.Il primo buco fatto attraverso un blocco<br />
di pietra è una rivelazione. Un buco può avere tanto significato<br />
formale come una massa solida. Qualunque scultura<br />
faccia assume nella mia mente una personalità umana o,<br />
in altre occasioni, animale, e questa personalità domina<br />
il suo disegno e le sue qualità formali”. Aderirà, nel 1953,<br />
al gruppo inglese Unit One. Profondamente colpito dalle<br />
stragi provocate dai bombardamenti aerei di Londra,<br />
durante la seconda guerra mondiale, realizzerà una serie<br />
straordinaria di disegni sui rifugi antiaerei, espressione<br />
di una intensità drammatica tra le più vive nell’arte contemporanea.<br />
Scrive Argan che “il mondo dell’indistinto di<br />
Moore (il suo ‘surrealismo picassiano’) non è un regresso<br />
dalla forma umana all’organica, come rifiutando tutto ciò<br />
che è civiltà o storia; è il recupero dell’originaria unità<br />
dell’uomo col mondo, dell’assoluta integrità dell’essere.<br />
La figura umana non è qualcosa che si è abbandonato,<br />
ma qualcosa che non c’è ancora, e a cui la materia tende<br />
come alla sua configurazione finale, al termine della sua<br />
lenta evoluzione. È appena abbozzata, come il feto nella<br />
matrice”. In mostra tre <strong>piccole</strong> <strong>sculture</strong> in bronzo, un<br />
blocco quasi informe, latamente antropomorfo, con fori<br />
ed escavazioni, Upright Motive (1964), una figura seduta,<br />
Seated Figure on Log (1982), una terza, Tube Form (1983),<br />
una piccola testa scavata e mossa, levigata come un sasso<br />
da un lato, scabra e davvero “picassiana” dall’altro.<br />
284 285
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Pietro Consagra<br />
(1920-2005)<br />
Studiava all’Accademia di Belle Arti a Palermo.<br />
Trasferitosi a Roma nel 1944, inserito nel dibattito antifascista<br />
nei confronti dell’arte e della cultura, e in quello<br />
più ampio tra figurazione e astrazione, dopo un soggiorno<br />
a Parigi (1946), in contatto con gli esponenti del<br />
rinnovamento della scultura europea, soprattutto Arp e<br />
Brancusi, era tra i fondatori, nel 1947, del gruppo Forma,<br />
tra i primi gruppi di arte non figurativa in Italia. Ne facevano<br />
parte, oltre a Consagra, Dorazio, Accardi, Guerrini,<br />
Perilli, Sanfilippo, Turcato, Attardi, che nel dibattito<br />
sul concetto di “realismo (sociale)” come appannaggio<br />
della sinistra, “astrattismo” della destra fascista, si<br />
dichiaravano, nel loro Manifesto “ASTRATTISTI e<br />
MARXISTI”.<br />
Da una ricerca impostata sul concretismo geometrico,<br />
elaborava una sua idea di scultura bidimensionale, che<br />
realizzava attraverso la scansione ritmica di lamine piatte<br />
in legno, ferro, fuse in bronzo, dal taglio mosso e irregolare,<br />
percorse da buchi, tagli, disposte in successione,<br />
scandite dalla luce che ne percorre i contorni, così da<br />
formare una struttura quadrangolare, a due facce. In<br />
seguito Consagra ha usato anche elementi trasparenti,<br />
rendendo più evidente il suo concetto di “schermo plastico”,<br />
sul quale, come scriveva Argan, si proietta “uno<br />
spazio colorato e luminoso, rilevando l’importanza che<br />
assumono, luministicamente, i tagli vuoti delle lastre, i<br />
bordi rilevati delle ‘zone’, ad esprimere ‘la qualità intellettuale<br />
del segno’”.<br />
Consagra ha anche scritto alcuni saggi, tra i quali<br />
Necessità della scultura (1952), La città frontale (1968), sulla<br />
degenerazione urbanistica delle nostre città, cui oppone<br />
l’idea utopica di una città realizzata solo da artisti.<br />
L’opera esposta, Senza titolo, del 1961-1962, è un esempio<br />
notevole del lavoro di Consagra, ricco di espressività<br />
e di energia dinamica.<br />
Senza titolo, 1961-’62; bronzo,<br />
h cm 34. Pubblicato in Pietro<br />
Consagra, Museo d’Arte Moderna<br />
di Bolzano, 2000. Galleria Il<br />
Millennio, Roma.<br />
286 287
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Andrea Cascella<br />
(1920-1990)<br />
Elabora i suoi lavori, tra gli esempi più interessanti<br />
della scultura europea del secondo dopoguerra, secondo<br />
un linguaggio astratto, monumentale, snodandosi in<br />
forme in se stesse bloccate, ma assemblate, a incastro,<br />
le une alle altre, a occupare lo spazio, racchiudendo e<br />
imbrigliando i volumi in marmo, in pietra, in granito, in<br />
sequenza, sul terreno, che invadono con una dirompente<br />
proliferazione. Sembrano voler alludere, anche se costituite<br />
di materiali naturali, tagliati a mano, col metodo del<br />
tagliapietre, a elementi meccanici e tecnologici.<br />
La piccola scultura in mostra, Incastro, degli anni<br />
Sessanta, composta di due pezzi, appare un esempio, a<br />
scala ridotta, del metodo assemblativo dello scultore.<br />
Incastro, anni Sessanta; marmo,<br />
cm 12x20. Collezione Carrieri.<br />
288 289
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Emil Gilioli<br />
(1911-1977)<br />
Di origine italiana, studiò a Nizza all’École des Arts<br />
Décoratifs, e, dal 1930, all’École des Beaux Arts di Parigi,<br />
in rapporto con Henry Cloison del gruppo Abstraction-<br />
Création.<br />
A Grenoble durante la prima guerra mondiale, avrà<br />
importanti incarichi di opere pubbliche (Le Memorial<br />
di Voreppe e il Monumento ai deportati di Isère). Ha fatto<br />
parte, con André Bloc, Fernand Léger, Le Corbusier, del<br />
gruppo Éspace. Operante a Parigi dagli anni Cinquanta,<br />
ha creato forme rigorosamente legate all’astrazione geometrica<br />
che, pur riferendosi a una linea di purismo e<br />
di concretismo, riescono a mantenere una freschezza<br />
di ispirazione e una fantasia che le rende morbide,<br />
dinamiche. Gilioli ha sempre trattato con passione e<br />
con entusiasmo tutti i materiali. Ama giocare anche sui<br />
rapporti tra materiali e colori diversi, come nel caso di<br />
questo suo Noir et Blanc, del 1970, nel quale lavora sullo<br />
scatto provocato alla visione dall’uso del marmo bianco<br />
e nero, che esalta il rapporto tra le forme rigorosamente<br />
geometriche, dal taglio netto, ma in contrasto nel colore,<br />
a creare un impatto visivo ridondante nel rapporto di<br />
luce e ombra. “Quando faccio una scultura” ha dichiarato<br />
“sento che sono completamente me stesso e che,<br />
forse, riesco a raggiungere la mia realtà”.<br />
Noir et Blanc, 1970; marmo bianco<br />
di Carrara e nero del Belgio.<br />
Galleria La Scaletta, S. Polo<br />
d’Enza.<br />
290 291
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Pietro Cascella<br />
(1921-2008)<br />
Figlio di Tommaso, ceramista, e fratello di Andrea,<br />
scultore, si dedica, secondo la tradizione familiare, alla<br />
scultura, scegliendo, a differenza del fratello, la linea<br />
di un figurativo sintetico, che ha espresso facendo<br />
prevalentemente uso del bronzo, ma anche di materiali<br />
diversi. In mostra uno strano bozzetto, Casa La Vita,<br />
riferibile agli anni Settanta, di carattere tra robotico e<br />
totemico, con evidente riferimento rituale, quasi la santificazione<br />
del meccanicistico (il robot centrale ha, sopra<br />
la testa, addirittura un’aureola), che per molti aspetti,<br />
nell’immagine robotica centrale e nel tavolo-pressa, fa<br />
pensare a film di memoria storica come “Metropolis”, di<br />
Fritz Lang, del 1926.<br />
Casa La Vita, anni Settanta; bronzo,<br />
cm 21x26. Acquisito dall’artista.<br />
292 293
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Lorenzo Guerrini<br />
(1914-2002)<br />
Studiava presso l’Umanitaria di Milano. A metà degli<br />
anni Trenta a Roma, era allievo di Alberto Gerardi, un<br />
raffinatissimo scultore, i cui rilievi raggiungono la raffinatezza<br />
di un Rossellino. A Parigi conobbe Brancusi,<br />
Laurens, Giacometti, in Italia Magnelli e Severini. Ha<br />
insegnato all’Istituto d’Arte di Roma con Colla, Afro,<br />
Leoncillo e, dal 1976, all’Accademia di Belle Arti di<br />
Roma.<br />
Alla Biennale di Venezia del 1952 incontrò Carlo Scarpa,<br />
una figura straordinaria nell’ambito dell’architettura<br />
italiana; capiva allora che la sua scultura si adattava agli<br />
interni. Scolpiva quasi sempre direttamente nelle cave<br />
italiane.<br />
La sua scultura, generalmente in pietra e in marmo, si<br />
articola secondo una conformazione dinamica, in strutture<br />
verticali, sbozzate con forza, che vanno lievemente<br />
assottigliandosi verso l’alto, a formare alte stele che<br />
sembrano alludere a totem rituali di civiltà arcaiche, a<br />
miti astrali, di grande impatto emotivo.<br />
Nel 1957 per la Triennale di Milano realizzava la scultura<br />
in pietra L’uomo si rinnova (ora nel Middelheim Park<br />
di Anversa) e Metamorfosi, la sua gemella, per l’Università<br />
La Sapienza di Roma.<br />
Dal 1960 si è dedicato anche a disegni grafico-mistici, su<br />
rotoli lunghi da 10 a 20 metri. In Germania ha conosciuto<br />
Ligeti, noto musicista elettronico, interessato all’utilizzazione<br />
del suo lavoro per la sua musica. Dichiarava,<br />
durante una sua mostra ordinata all’interno del Museo<br />
Archeologico di Roma: “Io posso vivere soltanto in<br />
luoghi ricchi di passato e tesi allo stesso tempo verso il<br />
futuro”.<br />
L’opera in mostra, Senza titolo, degli anni Sessanta, si<br />
articola sull’accostamento, lievemente sghembo, di due<br />
pietre rudemente squadrate su una delle quali poggia<br />
una pietra più piccola, della stessa forma delle altre<br />
due, a formare una composizione di grande semplicità,<br />
quasi minimale che, in certo senso, rispetto alle <strong>sculture</strong><br />
abituali di Guerrini, generalmente svolte in verticale,<br />
rappresenta una sorta di felice anomalia.<br />
Senza titolo, anni Sessanta; 2 pietre<br />
grige, una, h cm 17, l’altra h cm 11.<br />
Acquisito da Elisabeth Sarah<br />
Gluckstei.<br />
294 295
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Carlo Sergio Signori<br />
(1906-1988)<br />
Chute de pateaux, 1954; bronzo,<br />
cm 25x15. Esemplare 2/3.<br />
Pubblicato in Sergio Signori:<br />
Sculpture, Galleria Hannover,<br />
Londra 1959. Galleria Peccolo,<br />
Livorno.<br />
Da sempre impegnato nella lotta politica, anche per l’educazione<br />
ricevuta in famiglia, nel 1924, preso di mira dalle squadre<br />
fasciste, riuscì a fuggire a Parigi, dove venne in contatto<br />
con gli esponenti del Surrealismo, del Dada, e coi letterati<br />
più noti del momento. Rifiutava l’insegnamento accademico,<br />
che aveva tentato sia in Italia che a Parigi. Frequentò,<br />
peraltro, per un certo periodo, l’Académie Ranson, dove<br />
insegnava Maillol. Non poté partecipare alla guerra di<br />
Spagna per l’incrudelirsi di una vecchia infiammazione<br />
pleurica.<br />
L’invasione tedesca costrinse alla fuga quasi tutti gli operanti<br />
in clandestinità. Signori si rifugiò, con l’aiuto di un amico,<br />
nel sud della Francia. Tornato a Parigi per preparare un’insurrezione<br />
fu fermato dalla Gestapo, che distrusse tutti i<br />
suoi libri, i documenti, le opere. Nel 1949 realizza, a Carrara,<br />
tramite Lionello Venturi, il Monumento ai Fratelli Rosselli, la<br />
prima scultura pubblica “astratta” in Italia. Nel 1963 partecipò,<br />
come inviato dall’Italia, al Simposium internazionale<br />
del Giappone: tornerà con la seconda moglie, la giornalistafotografa<br />
Fumé Akinuma. Ha realizzato molte opere pubbliche<br />
come il Monumento ai partigiani di Lentini (Feltre, 1963),<br />
il Messaggero per il Comune di Carrara (1967), il rilievo Roche<br />
per l’Île de la Jatte a Parigi (1970). A cavallo tra le avanguardie<br />
storiche e l’inizio della scultura europea della prima metà del<br />
XX secolo, Signori si inserisce nella linea aperta da Pevsner<br />
e Gabo, che vedeva l’opera filtrante, immersa nello spazio e<br />
la scultura come forma compatta, chiusa. Servendosi proprio<br />
del materiale più ricco di rimandi di emotività, di complessità<br />
storico-culturali, riuscì a rendere il marmo sottile, usandolo<br />
in lastra e traendo dalla modulazione della lastra i termini<br />
di una diversa interpretazione del volume della scultura. Si<br />
veda il Monumento ai Fratelli Rosselli, mosso, nelle sue parti,<br />
a visioni multiple, nel mobile trascorrere dei piani, a creare<br />
pozze di luce, così che è la materia stessa, resa morbida e<br />
liscia con una lavorazione delicata e paziente, profonda e<br />
assidua che accarezza, leviga la materia, fino a renderne la<br />
superficie quasi traslucida, emanante luce, come un raggio<br />
rifratto, che crea dall’interno, come per emanazione, il senso<br />
volumetrico. Il rapporto di Signori con la formatività naturale,<br />
ulteriormente affinato dopo i suoi soggiorni in Giappone,<br />
ha coinvolto tutta la complessità del suo essere in una sintesi<br />
totale tra arte e vita. In mostra un lavoro articolato, Chute de<br />
pateaux, 1954, tradotto in bronzo, quasi un pezzo di bravura<br />
nella mossa composizione di pezzi tridimensionali lineari,<br />
ricavati nel blocco, ciascuno del quali scavati all’interno.<br />
296 297
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Berto Lardera<br />
(1911-1989)<br />
Iniziava con una fase figurativa, espressa attraverso<br />
materiali diversi, dal marmo al bronzo, al gesso. In<br />
Italia, poi a Parigi, dal 1947, portò avanti l’idea di una<br />
scultura astratta a struttura bidimensionale, già tentata<br />
durante il suo periodo figurativo, usando lamiera saldata<br />
(si ricordi Gonzales), le cui sezioni, percorse da tagli e<br />
da grandi fori, interrotte da lame orizzontali, si innestavano<br />
tra loro a taglio, occupando lo spazio in diverse<br />
direzioni, arrivando quasi ad assimilare la sua ricerca a<br />
quella segnica vicina all’informale (ma anche, per certi<br />
aspetti, a quella dei “mobile” di Calder). La dinamica<br />
delle forme, dai profili taglienti e frastagliati, fa delle<br />
sue opere dei simboli evidenti della condizione esistenziale<br />
del mondo parallelo. Alcuni dei suoi bassorilievi,<br />
del 1941-1942, furono adattati, nel 1945, al Monumento<br />
ai partigiani uccisi, collocato a Pian d’Albero.<br />
L’opera in mostra, Equilibrio instabile, del 1953, in<br />
ferro, è un esempio notevole del suo lavoro; si tratta<br />
di una struttura mossa, articolata, con tagli fitti e brevi<br />
lungo una delle lame che ne accentuano la vibrante<br />
dinamicità.<br />
Equilibrio instabile, 1953; ferro,<br />
h cm 50. Pezzo unico. Pubblicato in<br />
Lardera, ed. du Griffon, Newchâtel<br />
1960, p. 11. Galleria La Scaletta,<br />
S. Polo d’Enza.<br />
298 299
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Edgardo Mannucci<br />
(1904-1986)<br />
Ha lavorato nelle Marche dalla fine degli anni Cinquanta<br />
(nel clima del tempo, legato all’informale) e a Roma. La<br />
sua scultura si distingue per la leggerezza e la flessibilità.<br />
Saldava i suoi sottili, ma anche materici, elementi<br />
metallici che, dagli anni Sessanta, arricchiva di vetri<br />
colorati. La sua straordinaria abilità manuale lo portò a<br />
dedicarsi anche al gioiello, la cui rifinitura affidava alla<br />
gioielleria romana dei Masenza. Ha insegnato gioielleria<br />
a lungo in diversi Istituti d’Arte marchigiani (Fano,<br />
Ancona), creando quella che è stata definita Scuola delle<br />
Marche. L’opera presente in mostra, Vetrata, degli anni<br />
Cinquanta, in ferro e rame dipinto, nella quale i tasselli<br />
di rame si inseriscono in una sorta di ricamo astratto, trasparente,<br />
in ferro, è un esempio della felicità e della freschezza<br />
del suo lavoro, che ne fa quasi un unicum (se si<br />
toglie la straordinaria, poetica leggerezza, di molti lavori<br />
di Fausto Melotti) nella storia della scultura italiana.<br />
Vetrata, anni Cinquanta; filo di<br />
ferro e rame dipinto, cm 19x54.<br />
Galleria La Scaletta, S. Polo<br />
d’Enza.<br />
300 301
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Umberto Mastroianni<br />
(1910-1998)<br />
A Roma dal 1924, nel 1926 a Torino, una città in quel<br />
momento tra le prime in Italia ad aprirsi verso esperienze<br />
artistiche internazionali, entrava in rapporto con<br />
Spazzapan, col quale (e con Moreni e Sottsass Jr.), avrebbe<br />
promosso, nel 1947, il Premio Torino.<br />
Dopo un lungo studio sulla scultura antica (realizzava,<br />
allora, rilievi di raffinato riferimento alla storia della scultura,<br />
in particolare a Boccioni) e dopo aver partecipato<br />
alla lotta partigiana, dall’inizio degli anni Cinquanta,<br />
interessato alla scomposizione delle forme, propria del<br />
Cubismo e del Futurismo, creava un suo particolare linguaggio<br />
scultoreo, astratto: l’opera si apriva, rompendo il<br />
blocco compatto e la staticità della scultura tradizionale,<br />
in sezioni scattanti in ogni direzione, come barre minacciose,<br />
in un movimento esplosivo, che peraltro si ricomponeva<br />
in un volume coerente, di grande dinamicità e<br />
di intensa espressività drammatica, “nella coscienza”,<br />
come scriveva Giulio Carlo Argan nel 1956 “della forma<br />
che la materia assume allorché si cala direttamente in<br />
uno stampo umano”. Ha lavorato soprattutto col legno<br />
e col bronzo. Premio internazionale per la Scultura alla<br />
Biennale veneziana del 1958, Premium Imperiale del<br />
Giappone nel 1989. Con l’architetto Mollino ha realizzato,<br />
tra gli altri, il Monumento ai caduti per la libertà nel<br />
Cimitero di Torino, con l’architetto Sacripanti il Mausoleo<br />
della Pace a Cassino (1977), il Monumento di Urbino (1980).<br />
Del 1970-1977 è il Monumento a tutti i caduti di tutte le<br />
guerre a Frosinone, del 1978 il Mausoleo per la Pace a<br />
Cassino. Nel 1995 donava oltre cento opere al Pio sodalizio<br />
dei Piceni, che ne creava il museo, a Roma.<br />
L’opera in mostra, Totem, del 1970, è una scultura in<br />
legno, svolta su due dimensioni, formata di sezioni, che<br />
si uniscono a formare una sorta di immagine che si allarga<br />
secondo una dinamica molto tesa.<br />
Totem, 1970; legno montato su base<br />
in marmo, cm 114x70x27.<br />
Asta Finante, Roma, 31.5.2000.<br />
Lotto 198.<br />
302 303
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Luciano Minguzzi<br />
(1911-2004)<br />
Studia scultura a Bologna sotto la guida di Ercole Drei e,<br />
per l’incisione, di Morandi. Frequenta intanto l’Accademia<br />
e segue i corsi di Roberto Longhi all’Università.<br />
Importante, per la sua formazione, la conoscenza dei<br />
lavori di Arturo Martini.<br />
Di qui traeva la sua indipendenza di scultore, passando<br />
da un naturalismo descrittivo a un progressivo approfondimento<br />
delle proprie possibilità di fare emergere, nei<br />
suoi personaggi, la fisicità prorompente, la loro adesione<br />
alla terra. Si vedano i suoi acrobati, i suoi lavoratori, i suoi<br />
animali, còlti nella loro sofferenza (Capra morente, anni<br />
Cinquanta) e alla sua forza espressiva, di una carica che<br />
ne fa uno degli esponenti della scultura italiana legata al<br />
linguaggio del dopoguerra.<br />
In mostra Piccolo guerriero, un bronzo del 1958 con un<br />
povero, piccolo guerriero, appunto, che sembra portare<br />
sulle spalle un grosso peso (quello delle tante, inutili e<br />
sconvolgenti guerre che gli uomini si ostinano a fare?).<br />
Piccolo guerriero, 1958;<br />
bronzo, cm 17x13.<br />
Pubblicato in Minguzzi <strong>sculture</strong><br />
e disegni, a cura di Francesco<br />
Buttarini, Vicenza 1999.<br />
Luciano Magnini, Prato.<br />
304 305
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Mirko (Basaldella)<br />
(1910-1969)<br />
Fratello dei pittori Afro e Dino, allievo, dopo gli studi<br />
all’Accademia di Venezia e di Firenze, dal 1932, di<br />
Arturo Martini, elabora un genere di scultura vicina, per<br />
certi aspetti, allo sperimentalismo eclettico di Cagli. Si<br />
trasferiva, in seguito, a Roma, vicino agli artisti della<br />
Scuola romana. Da una figurazione di riferimento mitico,<br />
passa, negli anni Quaranta, dopo un viaggio a Roma col<br />
fratello Afro, nel 1937, a un recupero di moduli cubisti<br />
ed espressionisti e, di seguito, fortemente segnato dalle<br />
atrocità della guerra, alla realizzazione di <strong>piccole</strong> <strong>sculture</strong><br />
policrome e polimateriche, sperimentando nuove<br />
tecniche e nuovi materiali. Riporterà, da un viaggio<br />
in Oriente (1950), una sua necessità di misurarsi con<br />
nuovi temi, che lo porterà a ricorrere a motivi mitici e<br />
arcaici. Passerà, subito dopo, decisamente all’astrazione.<br />
Del 1949-1952 sono i tre Cancelli delle Fosse Ardeatine,<br />
in bronzo, a Roma, risolti con un ritmo gestuale drammatico,<br />
nell’intrico degli elementi, quasi rami d’albero<br />
spinosi e pungenti, allusivi alla strage cui si riferiscono,<br />
con una cupa, vibrante emotività. Si è poi avvicinato a<br />
moduli quasi surreali, alternando riferimenti alla figurazione<br />
aduna astrazione immaginifica. Delle due opere<br />
in mostra, la prima, Piccolo Totem in rame, del 1950, è un<br />
lungo personaggio metamorfico, che unisce, a parti latamente<br />
antropomorfe, sezioni di carattere meccanicistico.<br />
La seconda, Divinità silvestre, del 1955, una sottile figuretta<br />
dalle membra che sembrano coperte di spore con<br />
una grande testa-cappello appartiene, come la prima, al<br />
periodo successivo al viaggio in Oriente.<br />
Piccolo Totem, 1950;<br />
rame. h cm 20.<br />
Galleria Open Art, Prato.<br />
Divinità silvestre, 1955;<br />
bronzo, h cm 32. Autentica<br />
di Serena Cagli Basaldella.<br />
306 307
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Nino Franchina<br />
(1912-1987)<br />
Dopo gli studi a Palermo, dove aderiva al Gruppo dei<br />
Quattro (con Barbera, Guttuso, Noto) nel 1936 era a<br />
Milano, dal 1939 a Roma dove, nello stesso anno, sposava<br />
la figlia di Severini. A Parigi, nell’immediato dopoguerra,<br />
frequentava molti artisti, avvicinandosi soprattutto<br />
a Brancusi. Ha quasi sempre lavorato il metallo,<br />
inizialmente con lavori organizzati secondo un impianto<br />
geometrico-costruttivo, di carattere sintetico. Ha usato<br />
lamiere tagliate, saldate e verniciate a fuoco (come<br />
quelle presentate alla Biennale di Venezia nel 1952),<br />
con la tecnica usata per le auto. Verso la metà degli<br />
anni Cinquanta, dopo la personale alla Quadriennale<br />
di Roma del 1955, iniziò a violentare la superficie delle<br />
sue <strong>sculture</strong>, a spezzarle, intervenendo con la fiamma<br />
ossidrica, con saldature, lasciando che il lavoro si sfrangi<br />
e si apra verso l’alto, in termini più vicini alla gestualità<br />
dell’informale (si pensi a Chadwich).<br />
Anche la piccola scultura presente in mostra, Ferro, degli<br />
anni Sessanta, appartiene a questo gruppo di opere.<br />
Nasce da un sottile tronco, aprendosi in lamine che si<br />
incurvano come foglie, sfumate in un colore ramato,<br />
scattando poi verso l’alto.<br />
Ferro, anni Sessanta; ferro, h<br />
cm 50. Pezzo unico, Galleria La<br />
Scaletta, S. Polo d’Enza.<br />
308 309
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Mario Negri<br />
(1916-1987)<br />
Tra gli scultori italiani che, nel secondo dopoguerra,<br />
hanno dovuto fare i conti con le poetiche dell’informale<br />
e con l’Esistenzialismo, dopo il dramma delle persecuzioni<br />
naziste e gli orrori della guerra, egli cercava,<br />
allo stesso tempo, di raccogliere anche il portato della<br />
tradizione di Arturo Martini, Marino Marini, Giacomo<br />
Manzù, con riferimenti anche alla scultura antica. Optava<br />
per una sua lucida stilizzazione delle forme, in una scultura<br />
che quasi annulla, nella levigata e quasi consunta<br />
morbidezza della superficie, il riferimento figurale, come<br />
Piccolo bronzo del 1969-1970, bozzetto di donna seduta,<br />
acefala e senza braccia, come un reperto antico, presente<br />
in questa mostra.<br />
Piccolo bronzo, 1969-1970;<br />
bronzo, h cm 12. Esemplare 2/6.<br />
Pubblicato in Mario Negri. Catalogo<br />
delle <strong>sculture</strong>, a cura di Anna<br />
Finocchi, 1995, p. 247. Acquisito<br />
dalla famiglia.<br />
310 311
Costantino Nivola<br />
(1911-1988)<br />
La danza dell’àrgia, 1980;<br />
bronzo, h cm 15. Archivio Nivola,<br />
New York 818 P. Acquisito dalla<br />
moglie dell’artista.<br />
Studiava in Sardegna nello studio del pittore Mario<br />
Delitala, mentre lavorava come muratore. Passava poi<br />
all’Istituto Superiore per le Industrie Grafiche di Monza<br />
dove insegnavano Marino Marini e gli architetti Persico<br />
e Pagano. Divenuto direttore dell’Ufficio Grafico della<br />
Olivetti, vicino a Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto,<br />
Salvatore Quasimodo, che facevano parte dell’entourage<br />
di Adriano Olivetti. Sposò Ruth Guggenheim. Dal<br />
1936 al 1938 realizzò una serie di Murali per la FIAT e<br />
per il Padiglione italiano della Fiera Internazionale di<br />
Parigi del 1937. A New York nel 1938, dove si rifugiava<br />
durante le persecuzioni razziali, è stato direttore artistico<br />
e disegnatore della rivista “Interiors and Industrial<br />
Design”. Aveva conosciuto nel 1936 Le Corbusier col<br />
quale divise, per quattro anni, lo studio, che lo incoraggiava<br />
a dedicarsi totalmente alla scultura, che iniziava<br />
secondo le linee di un raffinato postcubismo. Elaborava<br />
poi una sua tecnica particolare, a “sand-casting” (colata<br />
in sabbia), modellando, in negativo, rilievi sulla sabbia,<br />
che usava come calchi, colandovi cemento e gesso. Con<br />
questo mezzo realizzava il Murale per il negozio Olivetti<br />
a New York (1953) e i 132 pannelli (14.000 m2) di un<br />
bassorilievo per la McCornick Place a Chicago. Ha lavorato<br />
anche per l’architetto Eero Saarinen. Ha realizzato<br />
opere monumentali negli Stati Uniti e in Europa.<br />
Nel suo lavoro si è sempre ispirato a quel significato<br />
atavico della natura, insito nella sua identità di artista<br />
e legato alle sue origini, realizzando opere di una forza<br />
primigenia, archetipiche, che sembrano ritrovare le<br />
radici che uniscono antico e moderno in una lingua<br />
universale.<br />
Le sue forme sono spoglie, essenziali, aperte, spesso<br />
materiche, come erose dalla sabbia e dal vento, o rinvenute<br />
in uno scavo archeologico.<br />
Accanto a queste ha elaborato forme dalla superficie<br />
lucida, a riflettere la luce, che si aprono come ali o come<br />
veli sollevati nella danza (in questo caso dalle contorsioni<br />
e dalle convulsioni provocate dal morso di un ragno<br />
nero, velenoso, definite in Sardegna Danza dell’àrgia),<br />
raffigurate in questa piccola scultura in bronzo degli anni<br />
Ottanta, presente in mostra.<br />
312 313
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Luigi Mainolfi<br />
(1948)<br />
Inizia con calchi in gesso del proprio corpo, che, nelle<br />
sue azioni, presenta lasciandone sciogliere i pezzi in una<br />
pozza d’acqua. Già proponeva, così, il tema del frammento.<br />
Passò poi all’uso della ceramica, che plasma in<br />
risultati metamorfici, di matrice informale. Usa spesso<br />
il rosso pompeiano della terracotta, realizzando lavori<br />
allusivi a un vitalismo primitivo, precoscienziale, come,<br />
ad esempio, nella grande Lumaca che si leva da un pozzo,<br />
presente nella collezione Gori di Celle. Opera anche<br />
secondo ricerche polimateriche, usando bronzo verde<br />
e terracotta insieme, marmo e terra, tufo e lava, sempre<br />
materie vicine alla terra e ai suoi significati antropologici.<br />
Recentemente, come in questo Cavallo in mostra, del<br />
2000, si serve di materiali ferrosi, in questo caso filo di<br />
ferro, a creare un’immagine sintetica, che assume quasi<br />
l’aspetto di un simbolo e quello di un gioco leggero.<br />
Cavallo, 2000; filo di ferro,<br />
cm 65x72. Aurelio Amendola,<br />
Pistoia.<br />
314 315
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Roberto Barni<br />
(1939)<br />
Iniziava, alla metà degli anni Cinquanta, nell’ambito del<br />
gruppo che si definiva Scuola di Pistoia (con Buscioni,<br />
Ruffi, inizialmente anche con l’architetto Natalini),<br />
passando da una pittura di matrice pop per passare, dagli<br />
anni Settanta, a una sua rivisitazione della storia della<br />
pittura, con una serie di sinopie degli angeli di Piero<br />
della Francesca, nelle quali materializzava un elemento<br />
tridimensionale che usciva dalla tela. Affrontava, poi,<br />
in un crescendo irrequieto di urgenze ispirative, con<br />
grande violenza espressiva, con una carica irrefrenabile,<br />
quello che chiamava “l’enigma di De Chirico”, la pittura<br />
letteraria di Savinio (le “rovine”), raggiungendo una sanguigna,<br />
magmatica, orgiastica carica barocca. Dagli anni<br />
Ottanta, attraverso un incessante ripensamento interiore,<br />
tenta la scoperta del significato dell’arte antica italiana<br />
soprattutto attraverso il disegno, partendo da Giotto,<br />
riscoprendone una matrice metafisica. Elabora, da allora,<br />
una serie di grandi disegni, nei quali inserisce anche<br />
materiali diversi, come carta di giornale compressa, e<br />
lavori nei quali le immagini sembrano voler acquisire,<br />
allo stesso tempo, una sorta di sovrarealtà e la compattezza<br />
volumetrica di personaggi giotteschi. Anche nella<br />
scultura, come in questi Servi muti, in mostra (tema<br />
che affronta anche in grandi gruppi che occupano spazi<br />
esterni, come quello davanti a Villa Gori a Celle) e pubblici,<br />
propone una sua debordante carica esplosiva nel<br />
trattamento magmatico e denso delle superfici, che contrappone<br />
all’astratta espressione di “assenza” dei volti, a<br />
cui si unisce una, seppur severa, ironia.<br />
Servi muti, anni Ottanta;<br />
bronzo, cm 38x41.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
316 317
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Jorio Vivarelli<br />
(1922-2008)<br />
Rappresenta una delle figure basilari, simboliche, nello<br />
svolgimento dell’arte del secondo dopoguerra a Pistoia,<br />
che ha caricato della esuberanza della sua produttività,<br />
e che lo ha visto tentare le strade più disparate, in<br />
ripercorrimenti delle linee le più diverse, sulla base di<br />
una rivisitazione della storia della scultura (da quella<br />
classica a quella etrusca) e della storia dell’uomo, delle<br />
sue tragedie, delle sue conquiste. Recuperava la figurazione<br />
nel periodo in cui l’informale teneva campo,<br />
ritrovando, nei ritratti, la straordinaria intuizione psicologica<br />
dei ritratti di Marino Marini, la forza primigenia<br />
della scultura arcaica, di quella gotica (e, talvolta, di<br />
quella suprematista) nei suoi Crocefissi sconvolti, nei suoi<br />
grandi Nudi, nella forza emotiva delle sue Maternità, che<br />
proseguiva nello sdutto modellato, cui non è estraneo un<br />
certo ascendente da Emilio Greco, del quale, peraltro,<br />
non accoglie la calligrafica, quasi accademica eleganza.<br />
Sarà dalla conoscenza dell’architetto Michelucci prima<br />
(per le sue chiese sono alcuni dei suoi Crocefissi), di<br />
seguito dell’architetto americano Stonorov, amico di<br />
Carlo L. Ragghianti, allora direttore di “seleArte”, che<br />
lo apriranno a una nuova concezione spaziale, ai progetti<br />
scultorei da inserire nell’architettura, che lo porteranno<br />
a esperienze nuove, a una astrazione complessa, e all’uso<br />
di materie diverse, oltre alla pietra, al marmo, al bronzo.<br />
Stonorov gli farà realizzare molti lavori negli Stati Uniti,<br />
fontane, monumenti. Citerò, tra tutti, quello che gli<br />
valse, nel 1964, il premio per il Concorso Internazionale<br />
per la fontana di Piazza Kennedy a Philadelphia, Riti di<br />
primavera, della quale questa collezione conserva il bozzetto<br />
in bronzo, del 1964, un esempio del suo periodo<br />
gestuale, esplosivo, composito, di grande impatto.<br />
Progetto per la fontana Riti di<br />
primavera, 1964; bronzo,<br />
cm 25x27x17. Acquisito dall’artista.<br />
318 319
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Pierluca (Degli Innocenti)<br />
(1926-1968)<br />
Dal 1948 al 1951 studiava presso l’Accademia a Firenze<br />
e dal 1954 al 1958 era direttore in uno Studio di restauro<br />
delle vetrate antiche. Frattanto studiava la lavorazione<br />
del metallo. Si stabilì a Parigi nel 1958.<br />
La sua scultura, legata ai modi dell’informale, si svolge<br />
per piani che si aprono nello spazio come ali, quasi<br />
grandi foglie, pagine addensate che svelano lacerazioni,<br />
ferite, rotture dinamiche di grande espressività. Come<br />
grandi libri trattano del dolore, delle infinite ferite che<br />
l’umanità ha subito, ma allo stesso tempo elevandole<br />
a una espressività profonda, meditata, sofferta. Resta,<br />
Pierluca, uno dei protagonisti più interessanti e profondi,<br />
ma anche tra i più raffinati ed espressivi nella scultura<br />
della seconda metà del secolo XX.<br />
Nella collezione Bertini Libro lacerato, del 1962, un<br />
bronzo che esprime, in scala, la stessa forza dinamica<br />
e la stessa profonda sensibilità e drammaticità dei suoi<br />
grandi lavori.<br />
Libro lacerato, 1962: bronzo,<br />
h cm 18. Esemplare 2/6.<br />
Giovanni Tesconi, Pietrasanta.<br />
320 321
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Leoncillo<br />
(1915-1968)<br />
A Roma dalla sua Spoleto fino dal 1942, si dedicò alla<br />
ceramica, non come elaborazione di oggetti d’uso o<br />
decorativi, ma come strumento di ricerca nell’ambito<br />
delle arti visive. Iniziava sul filo di un espressionismo<br />
figurativo, secondo la lezione della Scuola Romana<br />
(Mafai, Raphael, Scipione), con morbidezze materiche<br />
e luministiche, di matrice postimpressionista. Nel 1946<br />
fu tra i firmatari del Manifesto del Fronte delle Arti<br />
e le sue opere assumevano, allora, istanze di carattere<br />
politico e sociale (la lotta partigiana, le stragi compiute<br />
dai tedeschi). Dal 1956 abbandonava ogni riferimento<br />
figurativo (tranne, spesso, quello fitomorfico), affrontando<br />
un informale materico di grande sensibilità, teso a<br />
esprimere il dramma esistenziale di una umanità lacerata<br />
dalla ferocia delle guerre, degli stermini, che la terra, nei<br />
suoi significati simbolici di materia matrice, ancestrale,<br />
archetipica, carica di memoria, evidenziava in maniera<br />
lancinante. Le sue opere, come si è accennato, si rapportano,<br />
spesso, a tronchi contorti, spaccati, che, nel colore,<br />
fanno pensare al sangue, alle ferite del corpo umano.<br />
In mostra Maschera, un lavoro del 1950 in terracotta<br />
dipinta, questa volta un volto-maschera di intensa<br />
drammaticità, fortemente espressa dalle grandi orbite,<br />
la bocca spalancata quasi in un grido, il colore rosso<br />
acceso, che tratti di giallo, macchie nere e piccoli tocchi<br />
di bianco esaltano.<br />
Maschera, 1950; terracotta dipinta,<br />
cm 50x43. Asta Christie, Milano,<br />
21.5.2002. Lotto 245.<br />
322 323
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Arnaldo Pomodoro<br />
(1926)<br />
Stele, inizio anni Settanta; argento,<br />
h cm 12.<br />
Piccola palla, 1962; bronzo dorato,<br />
ø cm 7. Con dedica “A Marco”.<br />
Studiava architettura e, col fratello Giò e con Giorgio<br />
Perfetti (i “Tre P”), si occupava, a Pesaro, di scenografia,<br />
decorazione, oreficeria, dando il via, dalla metà degli<br />
anni Quaranta, al rinnovamento del gioiello, fin qui considerato,<br />
salvo rare eccezioni “storiche”, prodotto artigianale,<br />
portandolo a espressione d’arte, nell’ambito del<br />
“gioiello d’artista”. Il gruppo parteciperà alla Biennale<br />
veneziana del 1956. Dopo alcuni viaggi negli Stati Uniti,<br />
dove, in contatto con esperienze artistiche innovatrici,<br />
Arnaldo Pomodoro scopriva e sperimentava, trasferitosi<br />
a Milano, nuove tecniche di lavorazione dei materiali, si<br />
dedicava alla scultura, creando, quasi sempre in bronzo,<br />
“dischi”, elementi alti, “colonne” o “stele”, evocanti<br />
frammenti di antiche città distrutte, di memorie ataviche;<br />
le loro superfici sono solcate da fitti e profondi<br />
tagli, segni-gesto, (traducendo in forma tridimensionale<br />
il gestualismo informale di Wols), allusivi di scritture<br />
arcaiche, di civiltà sepolte. Oppure realizza grandi<br />
“sfere”, compatte, lucide, perfette, profondamente solcate<br />
da tagli che le spaccano (allusive, anche, ai tagli di<br />
Fontana), e all’interno dei quali si nascondono fratture<br />
materiche e gestuali, di straordinario impatto emotivo<br />
e di grande energia formale. Nel 1960, col fratello Giò,<br />
con Perilli, Novelli, Dorazio, Turcato, faceva parte del<br />
gruppo Continuità, appoggiato dai critici Ballo e Argan.<br />
Ha realizzato grandi lavori anche per spazi urbani.<br />
In mostra cinque piccoli pezzi, a metà tra scultura e gioiello,<br />
un bella Piccola palla, del 1962, in bronzo dorato, un prezioso<br />
modello in scala del suo lavoro relativo alle “sfere”<br />
e quattro lavori in argento, Quadro e cerchio, un dinamico,<br />
scattante piccolo capolavoro, un Tondo, un Ovale, nei<br />
quali l’artista ‘prova’ la forza del suo gesto, che crea tagli<br />
e rilievi in successione, una piccola Stele, fortemente e<br />
ritmicamente segnata, di grande forza evocativa.<br />
Quadro e cerchio, inizio anni<br />
Settanta; argento, ø cm 7.<br />
Tondo, inizio anni Settanta; argento,<br />
ø cm 6,5.<br />
Ovale, inizio anni Settanta; argento,<br />
h cm 12.<br />
Galleria La Scaletta, S. Polo d’Enza.<br />
324 325
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Giò Pomodoro<br />
(1930-2002)<br />
A Pesaro, col fratello Arnaldo e con lo scultore Perfetti,<br />
nel gruppo “Tre P”, dalla fine degli anni Quaranta, si<br />
dedicava alla creazione di gioielli che si collocavano<br />
nell’ambito diretto delle arti visive. Li realizzava con la<br />
fusione nell’osso di seppia, una raffinata tecnica orafa.<br />
Si dedicava, poi, a Milano, alla scultura, che impostava<br />
secondo una strutturazione di carattere costruttivista,<br />
usando prevalentemente come materiali il marmo, la<br />
pietra, il bronzo, svolgendo il suo lavoro per cicli, dai<br />
“contatti” (1959-1962), alle “matrici”, consistenti in<br />
quelli che definiva “gusci” (1962). “Pensavo con insistenza,<br />
mentre le realizzavo” (le “matrici”) “alla presenza<br />
di ciò che restava dell’uovo al momento della nascita,<br />
quindi anche al guscio contenente i semi. Curiosamente<br />
e in certo senso scoprii che mi interessava più quel che<br />
restava di quello che stava per ‘essere’; era una maggiore<br />
considerazione per il ‘vuoto’, più che per la ‘presenza’<br />
in se stessa, come colui che preferisce l’orma al piede”<br />
scriveva. Passava poi alle grandi opere ambientali, ai<br />
“sospetti di Euclide”, ai “dischi”, proponendole come<br />
una sorta di chiave segreta, quasi un ‘sigillo’ della vita.<br />
Anche questi lavori sono complessi: mantengono un riferimento<br />
alla loro matrice strutturale, ma si complicano<br />
di fori, di escrescenze, quasi gonfiature, dalla superficie<br />
liscia, morbida, sensibile, contrastante con la forte, dura<br />
solidità del blocco, di impatto monumentale, talvolta<br />
diviso in parti diverse, accostate.<br />
In mostra una sorta di targa, Labirinto, del 1956, fusa<br />
in piombo nell’osso di seppia, il metodo usato spesso<br />
dall’artista per la realizzazione dei suoi gioielli, incorniciata,<br />
su tela (la tela traspare anche all’interno, da tagli<br />
nella lastra), nella quale, da una sorta di centro ideale<br />
(una presenza ambigua, mutante), si diramano linee<br />
divaricate.<br />
Labirinto, 1956; piombo fuso in<br />
osso di seppia, cm 26x11.<br />
Sul retro un’etichetta con scritto:<br />
“1956. Proprietà D’Angelo”.<br />
Galleria La Scaletta, S. Polo<br />
d’Enza.<br />
326 327
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Francesco Somaini<br />
(1926)<br />
Passava, giovanissimo, da un figurativo legato alla scuola<br />
di Arturo Martini e di Marino Marini all’analisi, verso<br />
la fine degli anni Quaranta, dello spazio cubista e della<br />
scultura di Henry Moore. Si dedicherà, poi, a una operazione<br />
scultorea che prediligeva una scultura aperta,<br />
esplosiva, che Argan definiva “dei frammenti”.<br />
Le sue opere si presentavano come schegge spaccate,<br />
in una dinamica dirompente, drammatica, ma allo stesso<br />
tempo leggera. Dopo gli anni Sessanta privilegerà una<br />
tematica organicistica, di riferimento antropomorfo, una<br />
sorta di complesso, drammatico “barocco” moderno.<br />
In mostra un piccolo lavoro Senza titolo, del 1962, in<br />
bronzo, un esempio di grande espressività del suo “fare<br />
scultura” di quegli anni, una sorta di “scheggia” lucente,<br />
vitalissima, che sembra esplodere da un vulcano<br />
infuocato.<br />
Senza titolo, 1962; bronzo,<br />
cm 12,5x26x10. Esemplare<br />
4/6. Asta Farsetti Arte, Prato,<br />
17.11.2002. Lotto 227.<br />
328 329
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Alberto Viani<br />
(1906-1989)<br />
Interessato, inizialmente, alla filosofia e alla letteratura,<br />
si dedica alla scultura dagli anni Quaranta. Studia all’Accademia<br />
di Belle Arti di Venezia, divenendo assistente di<br />
Arturo Martini. Aderisce, dal 1946, al Fronte nuovo per le<br />
Arti, con Vedova, Turcato, Morlotti, Birolli, Corpora.<br />
Tra gli scultori italiani operanti nella seconda metà del<br />
Novecento è forse quello che più di tutti ha seguito e<br />
portato al massimo della sua sublimazione la lezione<br />
di Arp, dando alla sua forma compatta, bloccata, una<br />
morbidezza, una sinuosità, una dolcezza, una purezza<br />
formale che si può ritrovare in certi lucidi, morbidi lavori<br />
di Brancusi (Mademoiselle Pogany, ad esempio), come<br />
nei suoi essenziali “nudi” avvolgenti, spesso risolti in<br />
sigle astratte (come quello nello specchio d’acqua del<br />
Negozio Olivetti di Carlo Scarpa, in piazza S. Marco a<br />
Venezia). Si ricordino anche i suoi disegni, in molti dei<br />
quali il nudo si risolve in una sola linea sinuosa, che egli<br />
sembra voler trasformare in un anelito di volo. Ha usato,<br />
per le sue <strong>sculture</strong>, soprattutto il marmo. Gran Premio<br />
per la Scultura alla Biennale di Venezia del 1966.<br />
Nella collezione Bertini un piccolo Nudo in bronzo,<br />
del 1980, un’opera che mostra il percorso del lavoro<br />
dell’artista che arriva, qui, alla stilizzazione massima, che<br />
evidenzia, soprattutto, l’incidenza della luce nell’opera,<br />
la flessuosità, la sintesi assoluta della sua ricerca.<br />
Nudo, 1980; bronzo, h cm 30.<br />
Esemplare 42/50. Asta Finarte,<br />
Roma, 15.1.2001. Lotto 27.<br />
330 331
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Mario Ceroli<br />
(1938)<br />
Autoritratto, 1989; legno, h cm 35.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
A fianco<br />
Caio Mario, 1982; bronzo,<br />
cm 56x32x42. Prova d’artista di tre<br />
esemplari. Asta Finarte di Milano<br />
per l’Asta del 27.3.2000. Lotto 356.<br />
A Roma dalla metà degli anni Cinquanta, inizia, allievo<br />
di Leoncillo, a lavorare la ceramica. Nel 1960 vince<br />
il Premio per la giovane Scultura del Ministero della<br />
Pubblica Istruzione. Inizia, allora, a lavorare col legno.<br />
Elabora le sue silhouette, quasi sempre di riferimento<br />
antropomorfico, che dispone, spesso, in ripetizioni<br />
seriali (si pensi al suo grande lavoro ambientale, Cina,<br />
del 1966, a grandezza naturale), con le quali colpisce<br />
gli stereotipi della civiltà contemporanea. Lo si è per<br />
questo avvicinato all’esperienza pop. Da Leoncillo ha<br />
ereditato la manualità e l’amore per il materiale, per lui<br />
il legno grezzo. Lavora anche nella scenografia teatrale e<br />
cinematografica. Tra l’altro ha allestito il Riccardo III di<br />
Shakespeare, L’Orgia di Pasolini.<br />
Ha scritto di lui Gillo Dorfles: “L’elemento seriale, iterativo,<br />
di queste scarne figure appiattite, costituisce uno<br />
dei momenti inventivi dell’artista romano. Attraverso la<br />
serie infatti – e attraverso la strana tecnica del doubleface<br />
– si viene a creare quella volumetricità che le ‘fette’<br />
di statua di per sé non possiedono senza con ciò togliere<br />
alle opere la loro assurda precarietà fisica”. In realtà è<br />
proprio questa precarietà, e l’uso di un materiale naturale,<br />
grezzo, che dà forza al lavoro di Ceroli, accentuando<br />
quella intenzionalità critica verso una società composta<br />
per la maggior parte di larve piatte e completamente<br />
omologate, che distingue il nostro momento storico.<br />
Ceroli ha ripetuto spesso che “il legno è l’unico materiale<br />
che ti dà la possibilità di realizzare immediatamente<br />
un’idea”.<br />
Nella collezione Bertini Caio Mario, una testa in bronzo<br />
del 1982, chiaramente fusa da un lavoro in legno, dove<br />
le lamine si sovrammettono, in un assemblaggio folto<br />
e dinamico, vibrante, a creare, questa volta, una forma<br />
tridimensionale, di grande espressività e forza, che rivela<br />
una presenza autorevole e drammatica, e un Autoritratto<br />
del 1989 che, a differenza dalle sue consuete silhouette,<br />
ha dei raddoppiamenti di spessore, delle sfrangiature<br />
che ne sostengono la struttura, conferendogli, in certo<br />
modo, un’apparente tridimensionalità, avvicinandolo a<br />
certi tagli ‘affettati’ di Arman, mantenendo, ovviamente,<br />
intenzionalità diversa.<br />
332 333
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Alicia Penalba<br />
(1913-1982)<br />
Sans titre, 1970; bronzo dorato,<br />
sei elementi su base in metallo,<br />
cm 23x13x10 ciascuno. Esemplare<br />
12/300. Asta Boisgirard, Paris-<br />
Drouot, 14.10.2001. Lotto 90.<br />
Pubblicato in Città Spazio Sculture,<br />
Rimini 1973.<br />
Seguendo il padre, costruttore nelle Ferrovie, visitava<br />
da bambina i deserti e le foreste tropicali dell’America<br />
latina. Studiò, in seguito, disegno e pittura presso<br />
la Scuola d’Arte di Buenos Aires. A Parigi nel 1948<br />
passò decisamente alla scultura, lavorando per tre anni<br />
presso l’atelier di Zadkine e presso l’Academie de la<br />
Grande Chaumière. Dal 1952 partecipava alle mostre<br />
più importanti a Parigi e fuori (Salon de la Jeune<br />
Sculpture, Salon de Mai, Salon des Réalités Nouvelles,<br />
Exposition Interantionale du Musée Rodin, Biennale du<br />
Middelheim d’Anger, Salon d’Anger) e teneva dal 1957<br />
molte personali (al Musée d’Art Moderne de la Ville de<br />
Paris, a New York, nei musei di Rio de Janeiro, Otterlo,<br />
Eindhoven, Leverkusen). Gran premio internazionale<br />
di scultura della Biennale di São Paulo. Ha sempre<br />
elaborato <strong>sculture</strong> di carattere totemico, grandi colonne<br />
che sembrano evocare piante esotiche pietrificate, come<br />
quelle esposte nella sua seconda mostra a Parigi nel 1960<br />
che si presentavano al tempo stesso anche come una<br />
grande foresta di cactus, ma che Penalba considerava<br />
quasi simboli fallici, anche se le accompagnava con titoli<br />
spaesanti, Passione della giungla, Foresta nera. Da allora si<br />
individuano nel suo lavoro due linee: della prima fanno<br />
parte le grandi <strong>sculture</strong> a colonna, della seconda quelle<br />
di integrazione con l’architettura, forme a petalo, che<br />
si attaccano all’architettura secondo soluzioni libere.<br />
Essa le chiamava, ironicamente, Sculture da appoggiare<br />
al muro. Progettava fontane, nelle quali l’acqua doveva<br />
accompagnare il movimento delle forme, accrescendo<br />
il contrasto luce-ombra. Realizzava molte opere pubbliche,<br />
tra le quali una fontana in plastica color bronzo<br />
per la hall della Électricité de France a Parigi, nel 1959;<br />
per la Saint Gobin un rilievo in materiale plastico con<br />
foglie d’oro che, fissate su una base invisibile in vetro,<br />
sembrano fluttuare nell’aria; un assemblaggio di dodici<br />
forme in cemento, alte quindici metri, che sembrano<br />
voler ritmare i blocchi cubici dell’École des Études<br />
Économiques et Sociales a Saint-Gall. Ha realizzato<br />
lavori anche per il Kröller-Müller Museum di Otterlo.<br />
Una sua grande installazione è anche nel parco di Celle,<br />
nella collezione Gori. In mostra Sans titre, il modello di<br />
una installazione di sei lavori in bronzo dorato, del 1970,<br />
poggianti su una sola base, che si aprono sfogliandosi<br />
come grandi petali, in un rapporto che li unifica in un<br />
solo, articolato complesso.<br />
334 335
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Agenore Fabbri<br />
(1911-1998)<br />
Finiti gli studi a Pistoia, nel 1935 era ad Albisola dove<br />
confluivano molti artisti internazionali, da Jorn del<br />
gruppo Cobra a Fontana, a Martini, e dove lavorava<br />
come operaio modellista in una fabbrica di ceramiche<br />
e vi scopriva la sua passione per la scultura. Iniziava<br />
nel 1947 lavorando con la terra e realizzando lavori di<br />
carattere neorealista: erano figure drammatiche, dolenti,<br />
fortemente espressive, di una coscienza interiore,<br />
con evidenti riferimenti alla condizione del momento,<br />
quando l’Italia era appena uscita dalla guerra. Dagli anni<br />
Cinquanta realizzerà, in bronzo, strazianti figure umane<br />
e animali dilaniati, quasi in disfacimento, che diverranno,<br />
in seguito, figure “atomizzate”, “uomini spaziali”,<br />
“personaggi lunari”, segnati da un gestualismo aggressivo<br />
e informale con il quale, in questo momento, affronta<br />
sia la lavorazione della terra che la pittura.<br />
In mostra due opere, Uomo chino, una terracotta del 1941,<br />
nella quale la sua gestualità si fa aggressiva, e una Testa<br />
degli anni Cinquanta, sempre in terracotta policroma,<br />
di una intensa drammaticità nell’espressione attonita e<br />
spaurita di un giovane, descritto nella sua complessa,<br />
dolorosa realtà.<br />
Testa, anni Cinquanta;<br />
terracotta colorata, cm 19x10.<br />
Aurelio Amendola, 2001.<br />
A fianco<br />
Uomo chino, 1941; terracotta,<br />
cm 31x26.<br />
336 337
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Valeriano Trubbiani<br />
(1937)<br />
Portava avanti una sua interpretazione gestuale, legata<br />
a una immagine intenzionalmente violenta di “macchine”,<br />
in realtà non macchine tecnologicamente avanzate,<br />
ma quelle arcaiche, legate al lavoro della terra (aratri,<br />
vomeri), trasformati, nella lancinante esplosione di<br />
forme taglienti di una dura aggressività gestuale, in macchine<br />
da guerra di una grande, intensa drammaticità. Ha<br />
poi vòlto questa sua impetuosa drammaticità verso un<br />
raggelante zoomorfismo in opere realizzate con una rara<br />
perfezione tecnica e con un realismo surreale, feroce,<br />
distruttivo: uccelli mostruosi, topi sanguinari in lunghe<br />
file, immagini allusive alla crudeltà cieca di una natura<br />
“maligna”, che porta in sé la maledizione della distruzione<br />
e del nulla, in una cruda interpretazione della sorte<br />
del mondo e della vita stessa.<br />
L’opera in mostra, Covare, 1976, in ottone e alluminio,<br />
presenta una testa di uccello, splendidamente eseguita,<br />
uscente da un lungo cestello. Un alto collare di ferro<br />
tiene legata la testa dell’animale a una sorta di piccola<br />
pompa che sembra volerne aspirare la vita per ritrasmetterla<br />
(attraverso un sottile cannello in ottone, avvolto<br />
in basso al cestello, all’interno di quello, in una sorta di<br />
supplizio di Tantalo), alla testa stessa.<br />
Covare, 1976; ottone e alluminio,<br />
cm 34x11. Asta Christie, Milano,<br />
29.5.2001. Lotto 42.<br />
338 339
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Tomonori Toyofuku<br />
(1925)<br />
Studiava letteratura giapponese antica all’Università<br />
Kokugakum in Giappone fino al 1946. Si è dedicato, da<br />
allora, allo studio della scultura in legno sotto la guida di<br />
Tominaga Chodo. Vive a Milano dagli anni Sessanta. Ha<br />
individuato il suo modulo linguistico nello spazio che<br />
egli ricava con lo scalpello, scavando il legno e misurandone<br />
la resistenza. Sembra quasi che con questa sua<br />
operazione egli voglia iterare, in ritmi ordinati e paralleli,<br />
lo “spazio oltre” dei “buchi” di Lucio Fontana, nella<br />
ricerca di uno spazio senza limite, portando alla terza<br />
dimensione ideale la bidimensinalità della sua scultura,<br />
rendendola filtrante, centrifuga (si pensi a Pevsner e<br />
Gabo). Scava vuoti di forma ovale sulla superficie delle<br />
tavole lignee, ripetendo la stessa operazione anche nella<br />
parte posteriore della tavola, riprendendo, dal dietro, lo<br />
stesso scavo, fino a incontrare quello antistante, quasi a<br />
voler creare, in maniera illusoria, il senso di un volume/<br />
spazio. Scriveva Ihiro Haryu (Toyofuku, Firenze 1973)<br />
che quello di Toyofuku è “uno spazio fondato sul concetto<br />
di vita e di morte, di esistenza e non esistenza,<br />
che insieme si fondono”. E aggiungeva: “Quale magia<br />
occorre ad una tavola perché possa divenire la sede di<br />
tale cerimonia di trasfigurazione?”. In alcuni lavori il<br />
ritmo si spezza in un duetto: quando due grandissimi fori<br />
occupano l’intera tavola, a rendere assoluto, ineluttabile,<br />
il senso della ricerca di uno spazio filtrante che supera e<br />
vince la materia.<br />
In mostra un piccolo, prezioso esempio (Fori, in legno<br />
nero, del 1968) di questo lavoro condotto da Toyofuko,<br />
nell’approfondimento continuo di una costante impostazione<br />
mentale.<br />
Fori, 1968; legno nero, cm 33x19.<br />
Galleria La Scaletta, S. Polo<br />
d’Enza, 2000.<br />
340 341
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Zoltan Kemèny<br />
(1907-1965)<br />
A Marsiglia durante la seconda guerra mondiale, dal<br />
1919 a Zurigo, realizzava collage ad altorilievo con<br />
sabbia e sassi. A Parigi dal 1930, si dedicava all’architettura<br />
e creava disegni per ferro battuto e per incisione su<br />
vetro. Passava, poi, ai “rilievi” in metallo, con materiali<br />
industriali – dai bulloni, alle viti, ai trucioli metallici –<br />
che disponeva in serie ritmica, secondo una variazione<br />
continua e ricca di creatività con chiaro riferimento ai<br />
ready-made di Duchamp, ma senza la sua ironia corrosiva,<br />
mirando anzi a fare dei propri lavori opere di alto<br />
significato estetico. Dopo aver vinto nel 1964 il Premio<br />
per la Scultura alla Biennale di Venezia, moriva improvvisamente,<br />
quasi a confermare una brutta superstizione,<br />
legata, appunto, ai premi della Biennale.<br />
Il lavoro in mostra Printemps, Oeuvre 175, 1964, realizzato,<br />
questa volta, non con residui di metallo ma con<br />
un’affollata serie di bastoncini in legno, a sezione variata<br />
su un fondo di legno laccato, è un esempio della straordinaria<br />
vitalità dinamica del lavoro dell’artista; un’opera<br />
che sembra trasformare un bel quadro informale in una<br />
esplosione tridimensionale, freschissima come una fioritura<br />
primaverile affascinante – secondo il suo titolo.<br />
Printemps, Oeuvre 175, 1964; legno<br />
e ferro, cm 63x47x8. Galleria<br />
Peccolo, Livorno.<br />
342 343
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Michelangelo Conte<br />
(1913-1996)<br />
Progetto per scultura, 1974; lamiera<br />
d’acciaio e ottone, h cm 19.<br />
Pubblicata in Michelangelo Conte,<br />
Museo Civico di Modena, 1981.<br />
Acquisita dal figlio dell’artista.<br />
A Napoli dal 1917, dove il padre, reduce dalla prima guerra<br />
mondiale abbandonava la sua professione – era professore<br />
di chimica – per dedicarsi alla compra-vendita di quadri.<br />
Ancora ragazzo si appassionava alla storia dell’arte. Dagli<br />
anni Trenta si dedicava al lavoro artistico, già impostato sul<br />
filo di un Concretismo strutturale e di un’intensa sintesi<br />
cromatica. S’interessava di architettura, realizzava affreschi<br />
e lavori a mosaico. Vincitore nel 1934 del Concorso nazionale<br />
d’affresco alla XX Biennale a Venezia, vi conosceva<br />
Severini, del quale studiava le teorie compositive sulla<br />
sezione aurea. A Roma dal 1939 porta avanti, nelle sue<br />
composizioni, una visione limpida, luminosa, anche nei<br />
lavori ancora legati alla figurazione. Nel dopoguerra, mentre<br />
lavora con la ditta pubblicitaria SEMEF, che gli commissiona<br />
allestimenti di fiere campionarie, inizia a realizzare<br />
forme plastiche astratte, quali la Sfera nei Mercati Traianei<br />
(1947). Arriva alla sintesi strutturale passando allo studio<br />
di elementi di forma sintetica, come alcuni strumenti<br />
musicali. Veniva poi in rapporto, attraverso l’Associazione<br />
Internazionale Art Club, coi più noti artisti “concretisti”.<br />
Collaborava, nel 1953, col gruppo Origine e aveva rapporti<br />
col MAC e col gruppo “Éspace” di Parigi. È il periodo<br />
di molte sue personali in Italia e all’estero. Lavorava con<br />
l’architetto La Padula, per cui realizzava il mosaico di una<br />
piscina e due soffitti plastici per la motonave Cristoforo<br />
Colombo. Passerà poi al periodo che definisce “organico<br />
– inorganico” che implica, nel suo lavoro, una complessità<br />
materica come stratificazione o frammentazione, con<br />
l’inserimento di sottili strati di cemento, ritagli di lamine<br />
di ferro, carbon fossile, metalli ossidati. I suoi lavori, con<br />
materie inedite e nuove tecniche, assumono allora l’aspetto<br />
di rilievi. Partecipava, nel 1968 alla mostra Nuove tendenze<br />
dell’Arte italiana alla Rome New York Art Foundation e<br />
a Le relief a Parigi. Murillo Mendes lo presentava nel 1964<br />
a una mostra alla Casa do Brasil, dove Conte realizzerà<br />
nel 1965 la mostra Convergenze. Presenterà le sue grandi<br />
composizioni alla XXXIII Biennale di Venezia. Nel 1968<br />
tornava alla geometria con opere che creano interazioni tra<br />
luce e colore, con nuovi effetti ottici. Tenderà sempre più<br />
a una estensione tridimensionale del suo lavoro. L’opera<br />
in mostra, Progetto per scultura, 1974, in lamiera d’acciaio<br />
e ottone, è un esempio della sua necessità di allargare allo<br />
spazio tridimensionale la sua esperienza artistica, in forme<br />
concrete ma assolutamente non rigide, a strutturazione<br />
dinamica aperta.<br />
344 345
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Fernando Botero<br />
(1932)<br />
Artista colombiano. Attorno al suo lavoro si è creato un<br />
dibattito critico acceso, tra plauso e rifiuto, mentre ha<br />
acquistato una grande notorietà a livello di pubblico e<br />
istituzioni che gli hanno procurato una partecipazione<br />
incessante con mostre personali in tutto il mondo e presenze<br />
nelle più importanti collezioni.<br />
Inizialmente iscritto – a 12 anni – a una scuola di<br />
Tauromachia, da cui prenderanno avvio i suoi primi disegni<br />
ispirati all’arena, frequentava poi la Scuola di Pittura<br />
murale messicana, dominata dai nomi di Orozko, Rivera,<br />
Siqueiros. Durante la guerra civile messicana scopriva le<br />
opere di scrittori come Neruda, Lorca, Vallejo, ma soprattutto<br />
conosceva i lavori di Picasso. Scoprirà poi l’Europa<br />
e i classici del Rinascimento. A Firenze, studierà presso<br />
l’Accademia di Belle Arti (1953-1954) nel periodo in<br />
cui Antonio Bueno collaborava alla Galleria Numero di<br />
Fiamma Vigo, anch’egli avviato verso una figurazione<br />
sintetica, ironica, svolta sulla dilatazione delle forme<br />
(cui, a sua volta, non era estraneo il lavoro del francese<br />
Bombois). Col disegno e la pittura, frattanto, Botero aveva<br />
fatto conoscere l’arte colombiana nel mondo, “dopo secoli<br />
di colonialismo noi, pittori latino-americani, sentiamo<br />
un bisogno particolare di trovare la nostra propria forma<br />
di autenticità. L’arte deve essere indipendente [...]. Io<br />
voglio che la mia pittura abbia delle radici che danno un<br />
senso a tutto ciò che facciamo, ma allo stesso tempo non<br />
voglio solo dipingere dei contadini sudamericani. Voglio<br />
dipingere tutto, soggetti come Maria Antonietta, per<br />
esempio. Ma spero sempre che tutto ciò che faccio sia<br />
ispirato dall’anima latino-americana” ha scritto. Passerà<br />
alla scultura negli anni Settanta, mantenendo la sua<br />
impostazione imperniata sulla dilatazione delle forme.<br />
Ne è un esempio la piccola Maternità del 1999, in bronzo<br />
patinato di verde, che, come molte <strong>sculture</strong> di Botero, è<br />
impostata a una monumentalità possente, in contrasto<br />
con l’espressione astratta, un po’ naïve, comune a quasi<br />
tutti i suoi giganteschi personaggi.<br />
Maternità, 1999; bronzo a patina<br />
verde, cm 56x20x23. Galleria<br />
Contini, Venezia.<br />
346 347
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Valerio Gelli<br />
(1932)<br />
Scultore, ha raggiunto nel suo lavoro una sintesi dell’immagine<br />
che intende superare gli schemi che hanno<br />
distinto molta scultura nazionale e internazionale figurativa.<br />
La sua opera è spesso legata ancora a moduli tecnici<br />
e realizzativi riportabili a una gestualità informale, se<br />
non addirittura postimpressionista, che tende a chiudere<br />
l’immagine in una sorta di blocco compatto, morbido,<br />
dalla superficie lievemente scabra (non levigata, come<br />
in tante opere astratte, di riferimento ad Arp), ma come<br />
abrasa col passare del tempo, che ne ha consumato i particolari<br />
fisiognomici. Ha scritto, infatti, Gelli: “Le mie<br />
opere non nascono dall’idea di togliere il contingente del<br />
tempo, usando la materia come scavata dall’acqua e dalle<br />
temperie nel tentativo di renderla pura”.<br />
Perciò egli ha scelto di rendere la materia come fasciata<br />
da una pelle che la ricopre, al suo nascere, rendendone<br />
i particolari volutamente elusi, come in questo piccolo<br />
Studio per piccola figura, in bronzo del 1971, una figura<br />
di donna piegata a terra, che si trasforma in ‘sigla’, una<br />
forma che si chiude su se stessa quasi eludendo l’assunto<br />
figurativo.<br />
Studio, 1971; bronzo, h cm 15.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
348 349
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Giuseppe Gavazzi<br />
(1936)<br />
Dedito, oltre che al suo personale lavoro di artista come<br />
pittore e scultore, al restauro che lo ha visto all’opera di<br />
fronte ai più importanti affreschi nelle sedi più prestigiose<br />
dell’arte antica in Italia.<br />
Realizzava la sua scultura inizialmente in pietra e legno,<br />
passava più recentemente alla terracotta policroma. Il<br />
suo studio, in una casa presso Pistoia, ha una parete<br />
esterna fregiata con una fascia di affreschi relativi a tutti<br />
i gatti che ha e che ha avuto. Presso la casa due straordinari,<br />
grandissimi tini antichi che farebbero il vanto di<br />
qualsiasi museo di cultura materiale. Le sue <strong>sculture</strong>, di<br />
grandi e di <strong>piccole</strong> dimensioni, nella loro compattezza<br />
materica, evocano personaggi (e animali) appartenenti,<br />
all’apparenza, a una realtà senza tempo, ma solida, consistente,<br />
legata alla terra in tempo reale. Allo stesso tempo<br />
sono partecipi di un’altra realtà, quella atavica, mitica,<br />
ancestrale che la terra stessa rappresenta; trasformati<br />
in simboli astratti, metafisici, oltre la vita reale, anche<br />
se, spesso, con lo sguardo un po’ smarrito, come per<br />
una paura inconsapevole, che quasi non arriva a livello<br />
della coscienza. Restano attoniti, coperti di pesanti vesti<br />
colorate e decorate, spesso percorse da fiori e da simboli,<br />
come manti di re, di regine, di madonne del “dolce stil<br />
novo”, cui oppongono la propria pesantezza terragna<br />
(che apparteneva, vien da pensare, anche alle immagini<br />
giottesche). Talvolta i manti divengono il solo tema della<br />
scultura, coprendo completamente la figura nascosta, e si<br />
articolano in conici ombrelli dai quali, talvolta spuntano,<br />
in basso, i piedi. Una sorta di ironico “occultamento”.<br />
Ma c’è, nei lavori di Gavazzi, qualcosa in più: un’ironia<br />
dolce, affettuosa, che l’autore rivolge a questi personaggi<br />
da ‘Decameron’ ingenuo. Ci sono anche, deliziose,<br />
le composizioni, le casette con le donne affacciate alle<br />
finestre, che si aprono dall’esterno all’interno, come<br />
nelle case delle bambole; oppure festosi raggruppamenti<br />
di figurine in festa vestite d’oro (Giorno di festa, 1984);<br />
anche dolci maternità, gruppi di bambini. E gustosi<br />
“teatrini” da spettacoli popolari.<br />
Il piccolo personaggio presente in mostra, Bambino con<br />
accappatoio, del 1969, è uno degli esempi di questa sua<br />
storia senza tempo e senza fine.<br />
Bambino con accappatoio, 1969;<br />
terracotta dipinta, h cm 26.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
350 351
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Marcello Guasti<br />
(1924)<br />
Ha sempre lavorato con grande rigore e con estrema<br />
onestà professionale, fin dalle sue prime opere, nelle<br />
quali esprimeva, sia nelle incisioni che nella scultura,<br />
con grande sensibilità e partecipazione, ma anche con<br />
una sintesi figurativa forte e allo stesso tempo raffinata,<br />
la vita dei renaioli e dei barcaioli che vedeva lavorare<br />
lungo l’Arno; dei forgiatori; dei calafatari, dei quali evidenziava<br />
lo sforzo fisico nella tensione delle membra,<br />
in una trascrizione e in una tensione simboliche. Era il<br />
periodo dei suoi straordinari “gatti”, quasi immobili idoli<br />
egizi, realizzati spesso in legno, in ceramica, o raffigurati<br />
in grandi disegni e in belle incisioni.<br />
Le sue immagini si sono, poi, astrattizzate. Si sono<br />
trasformate in sigle simboliche chiudendosi in geometrie<br />
compatte, in metallo o, come questa in mostra,<br />
Equilibrio, degli anni Settanta, in argento: una sintesi<br />
perfetta del suo concetto di forma siglata. Ha realizzato<br />
anche opere monumentali collocate in spazi pubblici.<br />
Equilibrio, anni Settanta; argento,<br />
ø cm 21. Pezzo unico. Acquisito<br />
dall’artista.<br />
352 353
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Giuliano Vangi<br />
(1931)<br />
Scriveva Mario De Micheli nel 1980: “[...] egli ha<br />
proceduto con accanita costanza alla costruzione di un<br />
linguaggio articolato, su registri diversi dove, accanto<br />
a recuperi stilistici egizi, etruschi, quattrocenteschi,<br />
hanno pure avuto un peso determinante le suggestioni<br />
precedenti di natura astratta e quindi l’espressionismo<br />
e perfino la pop. Tutto ciò non per la civetteria della<br />
citazione o per vanità d’aggiornamento, bensì per la<br />
convinzione della permanente presenza dell’uomo dentro<br />
l’evoluzione delle forme, per la persuasione della<br />
continuità della storia” (G. Vangi, Firenze 1980). Così<br />
delineate le matrici del lavoro dello scultore non è difficile<br />
cogliere il suo percorso, l’approfondimento dei suoi<br />
temi che indagano il rapporto sempre più complesso e<br />
drammatico tra l’umanità e le condizioni estreme di una<br />
progressiva perdita di speranza; il senso di impotenza<br />
di fronte ad un futuro ineluttabile che ci riduce a larve,<br />
a omini smarriti dal volto attonito, quasi impassibili di<br />
fronte al proprio annullamento. Vangi approfondisce e<br />
perfeziona sempre più una tecnica particolare, che lo<br />
vede unire i materiali più diversi (marmo di vari colori –<br />
bianco, rosa, nero – con argento, nichel, avorio e inserti<br />
tecnologici, a dare colore ai suoi inquietanti personaggi,<br />
come nelle statue antiche).<br />
In mostra Paesaggio, una composizione in bronzo del<br />
2000, nella quale un piccolo uomo sembra sperdersi in<br />
un groviglio di tronchi, radici, rami, come in un minaccioso<br />
ingranaggio.<br />
Paesaggio, 2000; bronzo, cm 41x46.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
354 355
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Novello Finotti<br />
(1939)<br />
Teneva la sua prima personale nel 1960 alla Galleria<br />
Ferrari di Verona. Dopo uno studio profondo delle radici<br />
storiche della scultura in marmo, soprattutto del portato<br />
complesso del Rinascimento e di Michelangelo, partiva<br />
da una matrice espressionista per approdare, nell’analisi<br />
del materiale (marmo bianco di Pario, marmo nero) a una<br />
strutturazione volumetrica, tra costruttivista e organicistica,<br />
nella quale recuperava elementi arcaici e mitici.<br />
Volgerà poi verso una figurazione di riferimento surreale,<br />
di forte impatto, che gioca a un antropomorfismo spurio,<br />
in lavori di grande forza e violenza, nel continuo processo<br />
metamorfico che fa di tutta la natura, in tutte le sue<br />
forme, una forza terribile, minacciosa, capace di distruggere<br />
e di autodistruggersi. Alla metà degli anni Sessanta<br />
conosceva Alexandre Jolas, il noto mercante di Magritte,<br />
che lo lanciava a livello internazionale.<br />
Nella collezione Bertini Mantide, un piccolo lavoro in<br />
bronzo del 1987, un esempio della forza minacciosa di<br />
quella natura che Finotti presenta, con una precisione<br />
quasi mostruosa, pur nel metamorfismo, con una freddezza<br />
lucida e, mi si scusi l’anacronismo, appassionata.<br />
Mantide, 1987; bronzo, cm 23x46.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
356 357
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Luigi Galligani<br />
(1957)<br />
Ha studiato presso l’Accademia di Firenze e di Carrara.<br />
Sceglie, per la sua scultura che spesso realizza in cemento<br />
colato o in terracotta colorata, un figurativo morbido,<br />
in forme chiuse in se stesse, svolte in ampiezza – in particolare<br />
quelle delle sue donne – che sembrano riferirsi<br />
alla scultura tradizionale (a Maillol per esempio) se non<br />
fosse che, nella loro astrazione quasi metafisica, fissa,<br />
statica, oltre la realtà, ci riportano a nomi tipo quello di<br />
Bombois, di Botero, ma anche a certa fissità di alcuni<br />
lavori di Paladino.<br />
In mostra Rumore di mare, 1989, in gesso, forse il bozzetto<br />
per un’opera di maggiori dimensioni, in cui la donna<br />
in piedi, chiusa nella sua morbida forma levigata, porta<br />
all’orecchio una conchiglia.<br />
Rumore di mare, 1989; gesso, h cm 49.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
358 359
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Michael Burke<br />
(1939)<br />
Laureato in fisica e artista, legato a un linguaggio rigorosamente<br />
geometrico-strutturale, personaggio interessante<br />
per il continuo gioco che gli fa riportare al concetto<br />
e alla scientificità anche il suo rapporto con l’arte. È<br />
presente in questa mostra con un gustoso lavoro in<br />
alluminio, composito nel suo rigore strutturale, I dadi<br />
di Einstein, del 2000, dove ha inserito sui lati dei dadi<br />
i simboli e le formule di sei importanti costanti per la<br />
definizione della forma e del contenuto dell’Universo<br />
(“relatività, gravitazione, quantum, la formula della circonferenza,<br />
etc...”) riferendosi ad una frase dello stesso<br />
Einstein, a commento della possibilità del caso nella<br />
formazione dell’Universo: “I shall never believe that<br />
God plays dice with the world” (Non crederò mai che<br />
Dio abbia giocato ai dadi col mondo). Con questo piccolo<br />
lavoro Burke sembra voler proporre, ironicamente, una<br />
possibile alternativa per una nuova formazione dell’Universo,<br />
quella di rimescolarne, affidandosi al caso, le<br />
costanti basilari.<br />
I dadi di Einstein, 2000; alluminio,<br />
cm 17x11, dadi cm 2,5x2,5<br />
ciascuno. Acquisito dall’artista.<br />
360 361
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Roberto Giovannelli<br />
(1947)<br />
Giustamente Cesare Vivaldi avvicina il “colore” dei quadri<br />
di Giovannelli al “modo di colorire delicato e vetrino,<br />
e insieme guidato con uno stridio come di un’unghia<br />
graffiante la tela lungamente” a quello di un artista che<br />
ama, Umberto Buscioni, un colore riconducibile a quello<br />
della Scuola di Pistoia (Barni, Buscioni, Ruffi), scoprendo<br />
nel colore, comunque, una identità “pistoiese”, che<br />
i tre artisti citati sono riusciti a fare uscire dall’ambito di<br />
una condizione, sia pure alta, provinciale. E direi che,<br />
nel caso di Giovannelli ci sarebbe da fare un altro tipo<br />
di accostamento, pur nello stesso ambito: la sua scultura<br />
(anche quella “dipinta”, le sue grandi “teste”) non<br />
manca di riferimenti a quella di Barni, pur nella diversa<br />
intenzionalità, quella di porsi contro le neoavanguardie<br />
(citazionismi, anacronismi, pittura colta), ma tendente<br />
al recupero del passato quale invenzione del presente.<br />
Giovannelli intende, come ancora scrive Vivaldi,<br />
appropriarsi degli esempi antichi “per trasfigurarli, per<br />
farne un ‘doppio’ tanto equivalente quanto diverso. La<br />
memoria del passato non è assolutamente più espressa<br />
‘da citazioni’, bensì da grandi, incombenti teste di statue<br />
greche, redatte nel modo più impersonale possibile<br />
[...]”.<br />
In mostra Meditazioni sull’antico, 1987, in terracotta: una<br />
composizione nella quale compaiono, accanto a un gruppo<br />
di rocce in terracotta, una testa (dell’Italia, quella che<br />
si vedeva anche nelle vecchie 100 lire?) e una coppia di<br />
amanti, seduta a terra di spalle.<br />
Meditazioni sull’antico, 1987;<br />
terracotta, cm 20x64. Acquisito<br />
dall’artista.<br />
362 363
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Loriano Aiazzi<br />
(1955)<br />
Passa, in anni recenti, da una pittura postmacchiaiola<br />
di paesaggio alla scultura. Aveva imparato da giovanissimo<br />
a plasmare la materia ceramica nello studio di<br />
Raffaele del Corso. Da quando si dedica alla scultura<br />
lavora presso la fonderia Salvatori di Pistoia. Predilige<br />
la figura femminile che elabora secondo linee slanciate<br />
a “vortice”, in “torsione”, ridotte a lunghe sezioni sagomate,<br />
quasi lamellari, cercando, ogni volta, un equilibrio<br />
dinamico delle forme (Danzatrici, Bagnanti). I suoi nudi<br />
sono spesso, raccolti, come quello esposto in questa<br />
mostra, appunto Nudo raccolto, in bronzo naturale, del<br />
2000, svolto secondo una forte stilizzazione.<br />
Tratta anche scene mitiche o religiose (S. Giorgio e il<br />
drago; Maternità), che fonde in bronzo lucido o patinato<br />
in verde.<br />
Nudo raccolto, 2000; bronzo<br />
naturale, cm 18x16,5. Acquisito<br />
dall’artista.<br />
364 365
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Anthony Caro<br />
(1924)<br />
Tra gli artisti che hanno dato il via al rinnovamento della<br />
scultura inglese, anticipatore, per certi aspetti, della<br />
Minimal Art statunitense, già negli anni Sessanta assumeva<br />
lo spazio come elemento formale e la scultura non<br />
più come blocco compatto, chiuso, centrifugo, ma come<br />
movimento che unisce una parte all’altra del lavoro,<br />
che spesso consiste in lastre geometriche unite tra loro<br />
da lunghe sezioni, quasi a misurare lo spazio-ambiente,<br />
occupandolo secondo una sequenza di gesti in espansione,<br />
ad evidenziarne la direzionalità. Evita, nella sua<br />
scultura, la posizione verticale e la centralità, trovando<br />
alcuni punti di appoggio sul pavimento.<br />
I lavori, in lastra metallica, uniti nelle varie parti a mezzo<br />
di bulloni e di saldature, sono vivacemente colorati con<br />
vernici industriali, quasi ad accentuare il rifiuto della<br />
manualità. Sembrano voler definire un gesto, indicare<br />
un’esperienza, darsi come oggetti della vita attuale, aprire<br />
un dialogo con lo spazio e con chi guarda, in un totale<br />
cambiamento del rapporto opera/fruitore.<br />
Tra il 1970 e il 1973 Anthony Caro è stato insegnante<br />
presso il Royal College di Londra, da cui sono usciti i più<br />
interessanti e nuovi scultori inglesi, da Deacon a Cragg,<br />
a Woodrow a Gormley.<br />
Il lavoro presente in mostra, Piccolo, 1999, in bronzo e<br />
ottone, appartiene a un periodo più recente della scultura<br />
di Anthony Caro che sembra, qui, voler bloccare<br />
in una forma chiusa, compatta, più legata al significato<br />
classico della scultura, (pur mantenendo la connotazione<br />
meccanicistica), quel suo slancio in espansione che lo<br />
ha caratterizzato dal 1960 al 1970, racchiudendo e sezionando<br />
in forme tubolari elementi lineari, che, all’interno<br />
della forma chiusa, si avvolgono in spire, e all’esterno ne<br />
costituiscono la base. Quasi a voler esprimere l’impossibilità,<br />
nel mondo di oggi, di avventurarsi in conquiste<br />
improbabili.<br />
Piccolo, 1999; fusione in bronzo e<br />
ottone patinato, cm 15,5x13x110.<br />
Pubblicato in Anthony Caro. A<br />
Catalogue raisonné, 1942-2005, 1981-<br />
2007, vol. XIII–B 2511, p. 156.<br />
Annely Juda Fine Art, Londra 2002.<br />
366 367
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Magdalena Abakanowicz<br />
(1930)<br />
Ha sempre avuto, della scultura, un’idea forte, drammatica,<br />
tendendo a esprimere, attraverso grandi lavori<br />
il senso di annullamento dell’individuo nella massificazione<br />
(grandi non tanto nella loro manifestazione<br />
individuale – anche se talvolta ognuno dei suoi “pezzi”<br />
si presenta in dimensioni monumentali – quanto perché,<br />
spesso, ognuno di essi si dispone nello spazio in serie<br />
multipla, ossessiva).<br />
La “massa” delle sue figure antropomorfe (bambini,<br />
ragazzine, uomini) regolarmente senza testa, cenciose,<br />
dalle vesti aggrumate (anche perché la loro stesura,<br />
prima di esser tradotte in bronzo, è realizzata in materiali<br />
tessili, pesanti, inerti, tela di sacco grigiastra, agglomerati<br />
di corda, materiali morbidi e sfatti – e questa, a mio<br />
avviso, era la loro condizione univoca) così da annullare<br />
ogni idea di individualità, fa pensare a un postimpressionismo<br />
in brandelli, carica com’è di un inquietante senso<br />
di abbandono, di disfacimento, di morte. Ad accentuarne<br />
l’anonimità Abakanowicz riesce a evocare, con queste<br />
straordinarie installazioni, un generale senso di oppressione,<br />
di dramma silenzioso, implacabile, trasformando<br />
i suoi personaggi in bambole macabre, cupe, incolori,<br />
quasi in un esercito di zombi a metà tra la vita e la morte.<br />
Sembra che si debbano levare le voci di Spoon River.<br />
Nella collezione Bertini: Hand, il calco in alluminio,<br />
2000, di una piccola mano, quella dell’artista: un’opera<br />
quasi commovente, così carica di vita e di memoria (lavoro,<br />
come essa dichiara in una sua lettera, mai esposto:<br />
“era nella mia collezione privata”, e che, nel 2001, era<br />
nella Kaiser Foundry a Düsseldorf).<br />
Hand, 2000; calco in<br />
alluminio, cm 8x15.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
368 369
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Dani Karavan<br />
(1930)<br />
Studiava in Israele per passare, nel 1956, all’Accademia<br />
di Belle Arti di Firenze e all’Accademia de la Grande<br />
Chaumière a Parigi (1957). Tornato in Israele lavorava<br />
anche per il teatro della compagnia di Martha Graham<br />
(1962). I suoi grandi lavori sono realizzati secondo un<br />
rigoroso impianto architettonico, attenendosi sempre ai<br />
solidi geometrici basilari: il cilindro, il cono, la sfera, il<br />
cubo, etc.. Elabora composizioni complesse su grandi<br />
dimensioni che occupano lo spazio conferendogli, ogni<br />
volta, una connotazione particolare che, in nome del suo<br />
ideale di pace, travalica idealmente ogni possibile ostacolo<br />
al suo fine. Come ricorda Pierre Restany nal catalogo<br />
Dani Karavan (Tokyo 1997), Argan aveva definito<br />
Karavan, in occasione delle sue installazioni a Prato e a<br />
Firenze, “scultore politico” perché “legge nella natura<br />
il destino umano e desidera l’avvento di un’armonia<br />
universale capace di allontanare per sempre il desiderio<br />
di guerre”.<br />
I suoi lavori nel deserto, in Israele, restano tra i più affascinanti:<br />
sembrano voler dialogare con la luce, col vento,<br />
coi grandi spazi, col tempo, come grandi meridiane.<br />
Ha lavorato molto in Italia, in Germania, in Giappone<br />
diffondendo, dovunque, coi suoi grandi gesti, con le<br />
sue “architetture senza architetti” il suo incitamento<br />
alla pace.<br />
In mostra Teatrino, in bronzo, 2002, una scenografia<br />
sintetica: una scatola aperta, all’interno una figurettamanichino,<br />
con un’asta in mano; dietro di lei un’apertura<br />
rettangolare, come una finestra, dalla quale una strada<br />
sassosa, come un lungo tappeto, si riversa dall’esterno<br />
all’interno; una scala appoggiata alla parete sinistra sembra<br />
fare da contraltare a un alto elemento semicircolare,<br />
che esce dalla parete destra.<br />
Teatrino, 2002; bronzo,<br />
cm 18x30x15. Acquisito dall’artista.<br />
370 371
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Eliseo Mattiacci<br />
(1940)<br />
Ferro, anni Novanta; ferro, cm 53x53<br />
Aurelio Amendola, Pistoia.<br />
Tra gli scultori che operano in Italia dal secondo dopoguerra<br />
iniziava, sulla lezione di Colla, a lavorare col metallo,<br />
assemblando pezzi di recupero con parti forgiate a mano,<br />
nella consapevolezza del cambiamento totale del panorama<br />
della vita attuale a mezzo delle nuove tecnologie, acquisito<br />
anche attraverso la Pop culture. Presentava alla Biennale<br />
dei giovani di Parigi (1967), un lungo tubo snodabile in<br />
metallo verniciato di giallo.<br />
Assimilato, spesso, contro la sua volontà, all’Arte Povera,<br />
ha sempre portato avanti una sua idea di scultura, quale<br />
strumento di conoscenza del mondo come stratificazione<br />
di memorie, come scoperta della potenzialità energetica<br />
della memoria stessa e delle sue scorie, secondo una processualità<br />
diretta, intuitiva. Colloca spesso i suoi lavori in<br />
dialogo con gli elementi naturali e architettonici dell’ambiente,<br />
unendo una carica di ironia all’intento di scoprire le<br />
possibilità della natura e dello spazio come matrici e riserva<br />
di energia. “Vorrei che nel mio lavoro si avvertissero i processi<br />
che vanno dall’età del ferro al duemila” ha dichiarato.<br />
Con Il carro solare dei Montefeltro (1988), inserito sul porto<br />
di Miramare a Trieste, proponeva uno straordinario carro<br />
formato da due grandi discoidi, tenuti insieme da un asse<br />
che si incurva verso l’alto, a sostenere un terzo discoide.<br />
L’opera intende anche, allo stesso tempo, alludere al carro<br />
trionfale che sta dietro l’allegoria di Piero della Francesca<br />
col ritratto di Federico da Montefeltro. C’è, in molti suoi<br />
lavori, come un senso di sospensione, di ascolto, come<br />
un’attesa di vibrazioni cosmiche (come nella Scultura<br />
atmosferica, 1985), una sorta di grande osservatorio astrale,<br />
o in Ossigeno (1986). Scrive ancora Mattiacci: “Cammino<br />
guardando avanti. Vorrei che il mio lavoro non fosse:<br />
tecnicistico – fantascientifico – artigianale – ma potrebbe<br />
essere: scientifico: con ironia antropologico: come qualcosa<br />
che ti attraversa, come radiazioni fossili fisico: come realtà<br />
elementare: come essenzialità manuale: con sublimazione<br />
mitologico: di culture diverse identificazione: ma non in<br />
un movimento problema: globale maniera: esteso, fluido,<br />
imprendibile. Con la speranza che si possa ancora sognare,<br />
verso il poetico, il filosofico, il musicale”. In questa mostra<br />
Ferro, degli anni Novanta: due cerchi in ferro grezzo di<br />
diametro diverso, collegati tra loro da sbarre in sequenza<br />
obliqua, inscritti in un quadrato. Tre sfere <strong>piccole</strong>, lucide,<br />
ne interrompono, in due punti, l’omogeneità. Una sorta di<br />
ruota fossile? Un reperto di una civiltà perduta?<br />
372 373
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Giuseppe Spagnulo<br />
(1936)<br />
La sua scultura, dopo il 1966, si pone sempre in un<br />
rapporto diretto, aggressivo, con lo spazio, a differenza<br />
di tante grandi opere “minimal” che intendono, invece,<br />
porsi in frizione con lo spazio nel quale si collocano.<br />
Questi lavori di Spagnulo si propongono come “trofei<br />
negativi”, emblemi della nostra civiltà tecnologica,<br />
simboli di una volontà di lotta e di trasformazione. Nel<br />
periodo dei “ferri spezzati” egli affronta il tema della<br />
scultura orizzontale, compressa sul pavimento. In quello<br />
dei “paesaggi”, lunghe lastre che appoggiava sull’argilla,<br />
intende mettere in crisi il concetto di stabilità, giocando<br />
sul rapporto instabile tra liquido e solido. Seguivano<br />
Archeologia (1976), lavoro elementare col quale chiudeva<br />
l’esperienza del ferro. Intensificava, allora, l’uso della<br />
terracotta con cui realizza lavori incentrati sul concetto di<br />
memoria culturale, sui miti legati alla terra. Tra queste<br />
opere Antigone, Mortanatura, Turris (1982), Pendolo, che<br />
recuperano un antropomorfismo di stratificazioni amorfe,<br />
legato al magico e all’immaginario.<br />
In mostra Terracotta dipinta, 1985, una figura umana,<br />
trattata matericamente, che evidenzia il gesto dei polpastrelli<br />
della mano che l’ha modellata. Il colore ne accentua<br />
la forza naturale (si tratta di un pastore vestito di una<br />
pelle di animale?). A terra, in una sorta di contrasto tra<br />
due civiltà, la sagoma di un televisore.<br />
Terracotta dipinta, 1985; terracotta<br />
dipinta, cm 27x19. Galleria La<br />
Scaletta, S. Polo d’Enza.<br />
374 375
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Mauro Staccioli<br />
(1937)<br />
La sua scultura è stata spesso avvicinata, erroneamente,<br />
alla Minimal art della quale non ha l’intenzionalità, cioè<br />
quella di sconvolgere lo spazio nel quale si colloca attraverso<br />
l’estraneità. Egli si propone, invece, di instaurare<br />
con lo spazio un rapporto di carattere “classico”. Usa<br />
materiali da edilizia: cemento, mattoni, legname (ma<br />
anche bronzo e metalli), con elementi emergenti, collocando<br />
i suoi lavori presso castelli diroccati, di cui intende<br />
fare emergere, al di là del disfacimento, anche l’energia<br />
evocativa (Castello di Vigevano, 1987), in ambienti urbani,<br />
in luoghi naturali (come nel Muro, 1982, nel Parco di<br />
Celle, Collezione Gori, accanto ad alberi secolari). Presso<br />
il Museo Pecci di Prato ha disposto una lunga lama<br />
ricurva, Semiluna (1988) che si eleva lungo un sentiero di<br />
accesso, con la sua parte finale, appuntita, incombente<br />
sui passanti (minaccia o impatto con l’offerta di formatività<br />
del museo?).<br />
Nella collezione Bertini un modello, in scala, della<br />
Semiluna del Pecci.<br />
Semiluna, 1988; alluminio,<br />
cm 74x12. Esemplare 39/50.<br />
Centro d’arte contemporanea<br />
Luigi Pecci di Prato.<br />
376 377
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Augusto Perez<br />
(1929-2000)<br />
Dal 1936 a Napoli, inizia il suo apprendistato di scultura<br />
mentre prosegue gli studi fino ai primi anni di architettura,<br />
che lascia per dedicarsi completamente alla scultura.<br />
Sono gli anni Cinquanta, in pieno clima esistenzialista,<br />
l’Informale denunciava “la crisi dell’arte […]<br />
come scienza europea […] che Husserl descrive come<br />
caduta della finalità e del tèlos” come scriveva Argan.<br />
L’Informale non poggia più su una linea “estetica”,<br />
ma su una concezione trasgressiva dell’arte, quale può<br />
essere quella di una società che non vive più sulla storia<br />
del passato, ma su un presente che ha visto distruzioni e<br />
stragi, che ha violato la ragione, mettendo in crisi il concetto<br />
stesso di umanità. Perez trasmette questa consapevolezza<br />
alla sua scultura. Già Cesare Brandi parlava, nel 1954,<br />
dell’“erosione implacabile della figuratività” e di una “sorta<br />
di incredulità per quel residuo di immagine che appare e<br />
scompare”. (F. Gualdoni, Augusto Perez, Novara 2000).<br />
Il gesto di Perez, nel plasmare la terra, questa materia<br />
madre, è violento e possessivo allo stesso tempo, è erotico<br />
e distruttivo, tende a distruggere l’immagine e a farla<br />
riemergere macerata e dolente, nella sua interiorità che<br />
assurge a simbolo, a specchio di una umanità che accetta<br />
la propria distruzione, dalla quale possa rinascere.<br />
L’opera in mostra, Danzatrice, 1993, in argento, si propone<br />
come un prezioso reperto di un mondo in disfacimento.<br />
Danzatrice, 1993; argento,<br />
cm 58x19,5x14,5. Acquisito<br />
dall’artista.<br />
378 379
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Nunzio<br />
(1954)<br />
Realizzava inizialmente grandi lavori in gesso, dall’apparenza<br />
grezza e irregolare, “di cortecce d’alberi giganteschi,<br />
gusci di grandi testuggini marine […] corrosi e resi<br />
irregolari dal vento e dalla salsedine, di scudi di popoli<br />
primitivi […], sigari di un colosso […]” (G. Briganti), che<br />
rinforzava con armature di ferro e ricopriva di un colore<br />
denso, uniforme, monocromo, creando una sorta di scultura-pittura,<br />
dalla forma indefinita. Disponeva le opere<br />
a gruppi, rimandanti a immagini di strutture libere, di<br />
natura ambigua. In seguito i suoi lavori hanno acquistato<br />
una nuova compattezza, una più rigorosa strutturazione,<br />
di forte impatto, ma mantengono, peraltro, come le<br />
opere precedenti, riferimenti legati a memorie di forme<br />
archetipiche e il significato antropologico della storia<br />
dell’uomo. Usa materiali diversi, dal legno alla lamiera<br />
d’acciaio ad altri metalli.<br />
L’opera in mostra, Composizione, 1989, in legno bruciato<br />
e metallo, è un esempio tipico del lavoro di Nunzio:<br />
un’alta stele formata da fasce verticali parallele, trattenute<br />
in alto da una cornice; un’opera che, minimale nella<br />
struttura, si arricchisce, in alto, di due inserti circolari in<br />
metallo, ravvicinati al centro caricano il lavoro di mistero,<br />
facendo pensare ad uno scrigno segreto.<br />
Composizione, 1989; legno bruciato<br />
e metallo, cm 62x15. Asta Galleria<br />
Pananti di Firenze, 23.11.2000.<br />
Lotto 790.<br />
380 381
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Kan Yasuda<br />
(1945)<br />
Dopo aver ricevuto, presso l’Università d’Arte e di<br />
Musica, in Giappone, nel 1969, il diploma di laurea, era<br />
in Italia nel 1970 con una borsa di studio del Governo<br />
italiano, allievo di Fazzini all’Accademia di Roma.<br />
Si trasferiva poi a Pietrasanta dove vive, oltre che in<br />
Giappone, lavorando il marmo, scegliendo e prelevando<br />
i blocchi direttamente dalla cava. Lavora anche il bronzo.<br />
Ha tenuto personali e partecipato a manifestazioni<br />
d’arte in tutto il mondo. Lavora secondo due linee complementari:<br />
la prima lo porta a realizzare grandi <strong>sculture</strong><br />
in marmo che sembrano volersi assimilare alla natura,<br />
come grandi sassi levigati dal tempo, dal sole, dalla pioggia<br />
secondo una linea morbida e una sintesi formale che<br />
sembra riportarsi ad un purismo vicino a quello di Arp.<br />
Dispone queste <strong>sculture</strong>, spesso, in parchi naturali, e vi<br />
giocano i bambini, vi si posano gli uccelli, vi scorrono le<br />
stagioni. Talvolta due forme simili si compongono in una<br />
sorta di dialogo mentale. Oppure si dispongono a forma<br />
di arco, come l’opera presente in mostra, Arco, 2000, che,<br />
come un arco di nubi, si apre verso il cielo.<br />
Accanto a queste <strong>sculture</strong> ci sono quelle della sua<br />
seconda linea, che si organizzano secondo strutturazioni<br />
architettoniche, trattate, spesso, con una tecnica diversa,<br />
a renderne la superficie scabra, reagente alla luce: grandi<br />
stipiti di porta che si aprono in mezzo al verde, verso<br />
l’infinito. Talvolta la “porta” si trasforma in una sorta<br />
di cornice che racchiude, a tenerla sospesa, una sfera<br />
bianca (luna, mondo, sfera di ghiaccio, punto 0 creato<br />
nei meandri della mente). La sfera è trattenuta al centro<br />
della costruzione dai due assi laterali, oppure è sospinta<br />
in alto, dalla base, a mezzo di due elementi lineari.<br />
La scultura di Yasuda è stata definita “animista” perché<br />
sembra voler fare esplodere l’energia vitale, lo spirito di<br />
tutta la natura.<br />
Arco, 2000; marmo bianco,<br />
cm 30x40. Bozzetto per scultura.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
382 383
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Kurt Laurenz Metzler<br />
(1941)<br />
Diplomatosi all’Istituto d’Arte di Zurigo, dopo aver lavorato<br />
in una bottega di scultura, nel 1965 era a New York,<br />
dove realizzava sagome caricaturali di esseri umani,<br />
realizzate in poliestere dipinto, a esprimere la variegata<br />
moltitudine umana delle città americane, ritratta nella<br />
sua vita inquieta, affannosa, pietosa fino alla caricatura.<br />
Da allora, tornato in Svizzera, si dedica alla lavorazione<br />
del ferro e alla realizzazione di immagini umane ridotte<br />
a manichini dalle lunghissime gambe, dalle spalle esageratamente<br />
larghe, che divengono l’espressione tipologica<br />
del suo fare scultura, e che a poco a poco si animano<br />
in azioni che mimano, interagendo, azioni umane: saltano<br />
la corda (Early Morning Exercise, 1966), leggono,<br />
addirittura ricoperti di giornali, di fronte a una parete,<br />
anch’essa ricoperta di giornali (Newspaper Revider, 1980).<br />
Realizzerà (1972-1974) Motor Men, sconcertanti manichini<br />
in sella a vere biciclette. Dal 1980 è spesso negli Stati<br />
Uniti. I suoi personaggi si trasformano, di mano in mano,<br />
in simulacri drammatici, quasi mostri inquietanti, che<br />
svelano nel loro interno elementi geometrici, assemblati<br />
in altezza e che escono dal corpo.<br />
In questa mostra è presente Figura in bronzo (1990-<br />
1995): figura dall’espressione quasi ferina, con una sorta<br />
di pesante e corta mantella sulle larghe spalle, che tiene<br />
nella mano destra un piccolo contenitore.<br />
Figura, 1990-1995; bronzo,<br />
h cm 45. Acquisito dall’artista.<br />
384 385
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Michele Cossyro<br />
(1944)<br />
Frantumazioni, 1986; bronzo,<br />
(col disegno sul muro) cm 57x34,5.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
Ha sempre portato in sé l’impronta sensibile della sua<br />
terra (è nato a Pantelleria e suo padre, maestro d’ascia,<br />
costruiva barche), il ricordo del mare, della vita che<br />
conduceva nell’infanzia. Praticamente tutto il suo lavoro<br />
è volto alla trasfigurazione di quel mondo, secondo<br />
“un intento di attribuzione di sostanza archetipica al<br />
repertorio compositivo utilizzato”, come già nel 1976<br />
scriveva Luciano Marziano. Ciò che non lo allontana mai<br />
da un’attenzione consapevole nei confronti degli aspetti<br />
diversi che via via si manifestano nelle arti visive contemporanee,<br />
restando sempre fedele, comunque, ad una<br />
sua scelta di campo, legata ad una dinamica strutturale,<br />
alla luce, al colore. Passa dai lavori su tela, considerata<br />
materia da plasmare, dai “quadri azzurri” della metà<br />
degli anni Settanta a opere, come scriveva “in colloquio<br />
nuovo tra la parete e l’opera, tra lo spazio assoluto e l’occasione<br />
del colore”, tra “spazio vero e spazio artefatto”,<br />
nei quali è anche evidente il riferimento al “taglio” di<br />
Fontana. Seguiranno le “bronzilinee”, la serie “carena”,<br />
con elementi in metallo sporgenti, in serie, dalla tela, le<br />
“reti”, le “geometrie d’acqua”, l’uso di sezioni di vetro<br />
disposte a captare e riflettere luce e colore, gli “specchi”,<br />
sul tema della riflessione (Narciso, degli anni Ottanta),<br />
il gioco anamorfico dei lavori a parete su supporto a<br />
soffietto, a rimandare le note di un azzurro profondo e<br />
dei rossi affocati, i “bronzi”, ancora legati alla vita sul<br />
mare (le nasse), le opere che, partendo da una struttura<br />
mossa da fori e strappi, si prolungano in un dialogo, con<br />
un disegno realizzato direttamente sulla parete o sul<br />
pavimento, che porta fuori dal lavoro, simbolicamente,<br />
le sezioni strappate nel bronzo, nel tentativo di “esprimere<br />
con una metafora lo stato di una società in sfacelo,<br />
che tuttavia con la forza rabbiosa della sua natura trova<br />
ancora un motivo, un porto, una finalità” scriveva nel<br />
1978. Come nel bronzo Frantumazioni, 1986 (la figura<br />
romboidale di una razza, la cui immagine prosegue disegnata<br />
sulla parete), presente in mostra, “spazio vero, o<br />
ipotizzato da inconscia epifania-prigionia” come scrive<br />
Emilio Villa (in Cossyro, Bagheria 1985), “tracce e ombre<br />
di landscaping, memorie da suggestione, da impressione<br />
del primitivo logos (il battito del tamburo nella geometria<br />
dei continenti), da suggestione, da impressione,<br />
luoghi di confine dell’oscura esistenza”.<br />
386 387
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Luigi Russo Papotto<br />
(1955)<br />
Dal 1977 in Toscana, si è sempre dedicato alla ricerca,<br />
sul filo di una revisione di tutto il filone trasgressivo,<br />
dagli anni Sessanta, dell’arte contemporanea, che parte<br />
dal Nouveau réalisme e dal New Dada e di una sua<br />
necessità di manipolare, assemblare, comporre e decomporre,<br />
caricare di simboli e di continue “trovate”<br />
– con una gestualità complessa – le sue costruzioni, in<br />
una esuberanza di un fare inarrestabile, che ha in sé la<br />
sua necessità e la sua ineluttabilità. I suoi oggetti, le sue<br />
strutture si muovono quasi sempre a svelare nuovi segreti<br />
e nuove capacità di autocostruirsi, di autodistruggersi<br />
(come certe opere di Tinguély). Recentemente i suoi<br />
lavori occupano spazi esterni, che ingloba nel suo lavoro,<br />
firmando tutto l’ambito nel quale si inseriscono, come<br />
nella sua operazione Funiculì e Lungo i binari, apparizioni,<br />
che lo hanno visto inglobare nel centenario della<br />
Funicolare a Montecatini, tutto il paese, che egli firma in<br />
tutte le sue parti, anche nei vagoni (1988), attorno al suo<br />
“vero” lavoro. Ha scritto (2002): “Forma, spazio e gesto<br />
sono elementi archetipici e contemporanei nell’arte”. E<br />
ancora: “Racconti de-formati vuole svelarsi attraverso<br />
<strong>sculture</strong> statiche e dinamiche. Che nel gesto e nello spazio<br />
raccontano di trasformazioni che mentre affermano<br />
Forme subito dopo le negano in un processo continuo di<br />
‘De-formazione’ ”.<br />
In collezione Bertini Il tuo ritratto in bianco e nero, del<br />
2002, una struttura filtrante, realizzata in filo di ferro<br />
in forma di parallelepipedo, intercorsa da inserimenti<br />
di <strong>piccole</strong> forme in ferro, a confermare la dinamicità e<br />
l’impostazione disequilibrante del suo progettare.<br />
Il tuo ritratto in bianco e nero, 2002;<br />
ferro e filo di ferro, cm 173x35x25.<br />
Acquisito dall’artista.<br />
388 389
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Andrea Dami<br />
(1946)<br />
Come dichiara nel suo I quattro cantoni (2003), egli si<br />
è formato sulla Scuola Pistoiese, “quella dei Bugiani<br />
e Mariotti per il disegno e la pittura, Gordigiani per la<br />
decorazione su materiali diversi come la seta, Vivarelli<br />
per la tridimensionalità della scultura, Bassi per i volumi<br />
dell’architettura, mentre Cappellini era una voce<br />
ancora diversa nel mondo dei colori”. E ricorda, inoltre,<br />
Fernando Melani, che gli “aprì uno spiraglio, apparve<br />
una voce nuova”.<br />
Liberatosi, faticosamente, dalle sue prime esperienze,<br />
volgeva verso ricerche personali, ricche anche di un<br />
suo ripercorrimento della storia dell’arte, che lo faceva<br />
approdare a esperienze di ogni genere, teatrali, giornalistiche,<br />
di video.<br />
Nella collezione un ottagono in ferro dipinto del 2000,<br />
un piccolo modello, una sorta di Stonehenge geometrizzato,<br />
di un particolare di uno dei suoi lavori più importanti,<br />
di carattere pittorico, scultoreo, architettonico, in<br />
materiali diversi, di Città sonante, lavoro “teso alla ricerca<br />
della speranza”, che ha realizzato in varie sezioni, lavorando,<br />
“più che sul perimetro quadrangolare della città<br />
[…] da un dentro a un fuori […] su particolari interni<br />
del tessuto urbano, su un segno”. Pittura, architettura,<br />
scultura, in un rapporto di “luoghi simbolici”.<br />
Città sonante, particolare, 2000; ferro<br />
e pigmento, cm 11,4x27. Acquisito<br />
dall’artista.<br />
390 391
Paolo Beneforti<br />
(1964)<br />
Pittore e scultore, tra gli artisti più giovani a Pistoia, che<br />
reinterpretano la figurazione in modo del tutto nuovo,<br />
rivolto a una concezione diversa dell’arte, che si basa<br />
sul ripercorrimento della storia dell’arte, o piuttosto<br />
della “pelle” della storia dell’arte stessa (secondo l’impostazione<br />
della Transavanguardia), ma che soprattutto<br />
si basa su una sottile, ironica, concettuale meditazione<br />
sul destino dell’uomo, della cultura (oggi, come non<br />
mai, messa in discussione), che egli, come del resto<br />
molti artisti fanno, individua nel libro, questo archetipo<br />
universale, questo labirinto che racchiude in sé la storia<br />
della civiltà. I suoi sono libri “compatti, impossibili da<br />
aprire come fossero formati da un unico blocco di un<br />
materiale simile al legno”. In realtà i suoi sono in terracotta,<br />
pietra serena, bronzo; talvolta sono anche veri libri,<br />
sui quali dispone i suoi astratti lettori (particolarmente<br />
nei disegni non è estraneo un certo riferimento a Barni).<br />
“Falsi libri”, egli li definisce (Paolo Beneforti, Libri illeggibili<br />
per lettori inesistenti, Pistoia 2000). Talvolta il lettore<br />
stesso può trasformarsi, nel suo lavoro, in un personaggio<br />
col volto/libro.<br />
L’opera in collezione Bertini, La porta dell’Universo,<br />
in bronzo, 2000, è un libro a misura umana, quella,<br />
ovviamente del suo piccolo lettore che si pone davanti<br />
alle due pagine aperte come davanti a una porta. Un<br />
lavoro simbolico, che vede il libro (qui peraltro aperto)<br />
come una strada libera verso l’infinito; il libro, come la<br />
Biblioteca di Borges, che contiene tutte le parole e che<br />
sembra identificarsi con l’Universo.<br />
La porta dell’Universo, 2000;<br />
bronzo, cm 15x15. Acquisito<br />
dall’artista.<br />
392 393
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Stephen Cox<br />
(1946)<br />
Appassionato di cultura storica, passava dalla pittura su<br />
marmo, con ossidi e con incisioni, nelle quali inseriva<br />
metalli o pittura a olio, mirando a creare un’immagine<br />
classica per frammenti, quasi reperti incompleti di un<br />
lavoro ottenuto per accostamenti, intendendo distruggere<br />
l’idea della perdita di completezza dell’opera classica.<br />
In Italia nel 1981 frequentava le cave di marmo e di<br />
pietra, i luoghi etruschi. Studiava anche l’arte indiana.<br />
Si dedicava poi al “rilievo”, privilegiando il cerchio<br />
(Sorgente, Ollae) e l’ovale in pietra vulcanica, il peperino,<br />
che incide con segni morbidi, e modula in forme esatte,<br />
dalla superficie liscia. Si pensi alla sua bella serie dei<br />
simboli dei sensi, realizzati con cinque ovali, disposti<br />
in verticale lungo la facciata nord ovest della fattoria di<br />
Celle, nella collezione Giuliano Gori; il quinto ha, come<br />
scrive Stephen Baun (in Stephen Cox, Firenze 1987) “una<br />
superficie liscia e nel mezzo c’è una minuscola spirale<br />
scolpita: è la rappresentazione del tatto? [...] Un’ipotesi<br />
più convincente è [...] che rappresenti una capacità di<br />
intuizione che rimane al di sopra e supera la gamma<br />
dei sensi, una capacità mentale che si prova quando si<br />
confronta un dato dei sensi con un altro; il centro sinestetico<br />
che misteriosamente unifica e mescola gli stimoli<br />
diversi”.<br />
Il lavoro in mostra, Torso, un piccolo bronzo del 1990,<br />
affronta il tema del nudo, che elabora secondo una morbida<br />
duttilità, riuscendo a mantenerne il riferimento alla<br />
realtà, ma trasfigurandolo in una forma simbolica, che<br />
sembra voler ripercorrerne la storia di tutto lo svolgimento<br />
della scultura.<br />
Torso, 1990; bronzo, h cm 22.<br />
Esemplare 2/9. Galleria Bagnai,<br />
Firenze.<br />
394 395
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Beverly Pepper<br />
(1922)<br />
Due bozzetti per grandi <strong>sculture</strong><br />
destinate alla sua mostra personale<br />
al Forte Belvedere, Firenze, 1998;<br />
ferro, h cm 22. Acquisiti dall’artista.<br />
Educata secondo un forte impegno di carattere sociale<br />
partiva, nel 1948, con la pittura astratta. Ma già nel 1949,<br />
trasferitasi in Europa, passava al realismo sociale, anche per<br />
rispondere all’impatto con la grave situazione di crisi che<br />
dominava l’Europa dopo la guerra. Fortemente colpita dalla<br />
sacralità dei monumenti del passato archeologico europeo<br />
dal 1957 si dedica alla scultura attraverso la quale intende<br />
riscoprire il significato di continuità tra presente e passato,<br />
in un tempo “senza tempo” con opere che riescano a dialogare<br />
con la terra e con l’universo. Nelle sue prime <strong>sculture</strong><br />
contrapponeva il legno al bronzo, passando poi all’uso<br />
dell’acciaio inox (come nei suoi lavori scatolari, tagliati a<br />
sezioni aperte) con una parte del loro interno seminascosto,<br />
dipinto, quasi una ferita segreta, che rappresenta, peraltro,<br />
il rapporto di unione viscerale con la terra.<br />
Il ferro fuso rappresenta, per lei, il “metallo celeste”, perché,<br />
per gli antichi, proviene dalle meteore. Gli Ittiti lo chiamavano<br />
infatti “il ferro nero del cielo”. Nel 1976 Beverly<br />
acquistava una serie di arnesi rugginosi che rappresenteranno<br />
per lei il rapporto tra il passato, il portato del mondo<br />
preindustriale e il passaggio al presente, “per associazione<br />
archetipica”. Soprattutto nella ruggine essa scopre il passare<br />
del tempo, la “trasformazione/metamorfosi”. Questi oggetti<br />
ispireranno, anche formalmente, le sue opere. Dal 1970 si<br />
occupa di arte ambientale, realizzando lavori giganteschi<br />
che dialogano con lo spazio e con la natura. Scoprirà poi, tra<br />
i primi scultori, l’acciaio Corten, dalla superficie color della<br />
ruggine, che diverrà, con la ghisa, uno dei suoi materiali<br />
preferiti. “Volevo umanizzare l’acciaio, mettere in evidenza<br />
le viscere dell’acciaio”. Contrappone il vuoto al pieno. “Mi<br />
sono sempre preoccupata della struttura interna che ha a<br />
che fare col corpo umano” dichiara. Scoprirà la forza vitale<br />
del triangolo, nato all’interno delle <strong>sculture</strong>, quasi come<br />
“parto simbolico della terra”. Dichiara anche: “Viviamo in<br />
tempi molto difficili e quello che cerco di fare è creare opere<br />
d’arte che avranno un senso simile a quello della ‘querencia’<br />
[...] che è il luogo dove il toro va per sentirsi al sicuro dal<br />
matador”. Un rifugio, dunque, un mondo nel quale ci si<br />
possa astrarre dal presente per entrare in una condizione<br />
di astrazione, fuori dal tempo cronologico. Tra i suoi lavori<br />
di grande forza, di una straordinaria intensità lo spazio cerimoniale,<br />
Spazio Teatro Celle: Filiate Walls, Precursor Columns<br />
(Omaggio a Pietro Porcinai) (1987-1989), costruito nel parco di<br />
Celle. In mostra due bozzetti per le <strong>sculture</strong> esposte al Forte<br />
Belvedere a Firenze, testimonianza della sua vitalità.<br />
396 397
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Jean Michel Folon<br />
(1934-2005)<br />
Lasciava, a ventun’anni, gli studi di architettura per<br />
dedicarsi a una ricerca sulla condizione dell’uomo nella<br />
città attuale, sulla sua “<strong>piccole</strong>zza” come individuo,<br />
desumendone una possibilità di salvezza (che egli esplica<br />
in scultura, in pittura, in grafica), nell’opporre un certo<br />
atteggiamento di astrattezza, di rifiuto a farsi coinvolgere,<br />
mantenendo, in ultima analisi, una forma garbata,<br />
ironica, di ottimismo. Così il suo “omino” in giacca,<br />
pantaloni, cappello a bombetta, non può assimilarsi, per<br />
fare un esempio, all’“omino” amaro, derelitto, sarcastico,<br />
vendicativo di Chaplin, che con uno sgambetto può<br />
scrollarsi di dosso il mondo intero (ma con quale fatica!).<br />
Quello di Folon sembra voler contrapporre al mondo la<br />
sua faccina indifferente, gustosamente seria, cercando di<br />
evidenziare, della realtà, quello che ancora si può salvare,<br />
in una sorta di rivincita del buon senso. Ha illustrato<br />
testi importanti (citerò Kafka), ha progettato manifesti<br />
(per Amnesty International, per i diritti dell’Infanzia,<br />
per le vittime della barbarie degli uomini, anni<br />
Novanta). Un suo affresco di 65 metri è su una parete<br />
del Métro a Bruxelles; una sua decorazione parietale alla<br />
Stazione Waterloo di Londra. Ha una sua Fondazione in<br />
un grande parco vallone. In occasione del Forum Sociale<br />
Europeo, tramite la rete Lilliput, ha donato a Firenze<br />
una fontana, Pioggia, nella quale il suo omino si difende<br />
dalla pioggia con un ombrello creato dalla stessa acqua,<br />
collocata, per volontà di Folon, in una zona di grande<br />
traffico, presso il Teatro Tenda (1993).<br />
Presenti in mostra due dei suoi “omini” in bronzo, Homo<br />
Trapano, del 1997, e Homo Empire del 2001, la cui testa<br />
culmina, non nel solito cappellino ma, nel primo, in un<br />
lungo, elaborato trapano, nell’altro, addirittura, nell’Empire<br />
State Building di New York, quasi in una assunzione<br />
di responsabilità verso il mondo intero.<br />
Homo Trapano, 1997; bronzo,<br />
h cm 24. Esemplare 3/4.<br />
Homo Empire, 2001; bronzo,<br />
h cm 24. Esemplare 2/4.<br />
Acquisiti dall’artista.<br />
398 399
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Nanni Valentini<br />
(1932-1985)<br />
Nasceva come ceramista (allievo di Biancini all’Istituto<br />
d’Arte di Faenza), tra i rinnovatori, con Guido Gambone,<br />
Federico Fabbrini, Anselmo Bucci, Carlo Zauli, della<br />
ceramica in Italia. Collaborava con Albert Diato, che<br />
portava in Italia la conoscenza delle tecniche usate<br />
per il grès dai cinesi, dai nordeuropei, dai francesi.<br />
Valentini portava il grès alla sua massima espressione,<br />
facendone strumento della sua esperienza artistica, non<br />
limitata alla realizzazione di oggetti d’uso (che peraltro,<br />
nei nomi citati, diventavano pure “arte” in assoluto).<br />
Considerava il suo lavoro “un rimbalzo continuo tra la<br />
pittura e la ceramica [...], tra l’apparenza e l’incertezza<br />
o tra il visibile e il tattile”. A Milano, in stretto rapporto<br />
con artisti, architetti, letterati, portava avanti anche una<br />
vivace attività politica, nel gruppo Manifestazioni d’arte<br />
di protesta; faceva ricerche sulla percezione ottica e,<br />
dalla metà degli anni Settanta, sulla formatività. Era il<br />
periodo delle “sfere”, delle “nascite”, lavori stupendi,<br />
quasi sempre di un bianco purissimo. Ha considerato<br />
sempre la materia ceramica, si è detto, in un rapporto<br />
diretto con la pittura. Soprattutto quando, abbandonando<br />
la realizzazione di “oggetti”, anche in stretto sodalizio<br />
con Spagnulo, si dedicava definitivamente alla scultura,<br />
secondo un’impostazione concettuale (si ricordi la sua<br />
sensibile, sottilissima Rotazione, Premio Faenza 1977)<br />
assumendo la “materia” come strumento rivelatore di<br />
spazialità, che viene così ad acquistare “una precisa<br />
valenza strumentale” (E. Maurizi). La materia “terra”,<br />
con tutte le sue implicazioni storiche, mitiche, simboliche,<br />
antropologiche, si faceva allora, per lui, inesauribile<br />
strumento di creatività.<br />
In mostra Piastra, 1980, un lavoro estremamente semplice,<br />
ma anche estremamente raffinato, dove i materiali,<br />
uniti a mezzo di forme elementari, si esprimono con<br />
grande sensibilità, nel fondo morbido, nella banda decorativa,<br />
grigia, in cemento e ferro fuso, una sensibilità<br />
tattile quasi struggente.<br />
Piastra, 1980; terracotta e<br />
decorazione in grès e ferro fuso, cm<br />
36x36. Galleria La Scaletta, S. Polo<br />
d’Enza.<br />
400 401
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Enrico Savelli<br />
(1955)<br />
Il suo lavoro, prevalentemente di carattere religioso,<br />
spiritualistico, si articola attorno alla figura umana,<br />
espressa in sagome stilizzate, in marmo, svuotate all’interno<br />
a rendere quasi trasparente lo spessore del marmo,<br />
attraverso il quale filtra una luce. Oppure realizza stele<br />
in marmo, anch’esse scavate, che lasciano trasparire<br />
l’immagine luminosa di una figura umana (Fonte battesimale,<br />
Milano 2000). Talvolta la luce attraversa un<br />
volto umano trattenuto tra rami (Ramo nuovo, 2001). E<br />
ancora Koùros, la sagoma di una figura classica, il petto<br />
traversato dalla luce come nella lunga, ascetica figura<br />
luminosa, Cristoforo, del 2001, presente in mostra: l’idea<br />
di un uomo concepito nella sua spiritualità (o nel suo spiritualismo)<br />
interiore, che egli sembra voler offrire, quasi<br />
a chiedere la propria salvezza, ad una forza superiore,<br />
capace di cogliere nell’uomo la sua stessa immagine.<br />
Cristoforo, 2001; marmo,<br />
cm 38x11x13. Acquisito dall’artista.<br />
402 403
Scultura postbellica e contemporanea<br />
Massimo Biagi<br />
(1949)<br />
Ha compiuto i suoi studi artistici a Pistoia e a Firenze.<br />
Si dedicava inizialmente alla pittura. Infaticabile organizzatore<br />
e promotore del proprio lavoro, ha pubblicato<br />
manifesti e molti scritti (1978-1985).<br />
Nel 1978 pubblicava il primo manifesto sul graficismo,<br />
cui aderivano artisti e letterati e che sarà pubblicato<br />
in Natura integrale di Restany. Dal 1985 tiene rapporti<br />
con Centri di Documentazione (Manifesto Totale alla<br />
Biennale di Venezia e i suoi Art Spaces). Un grande<br />
intervento plastico sarà collocato nella zona industriale<br />
di Calenzano. Ha organizzato personali e partecipato a<br />
molte manifestazioni artistiche. Ha realizzato molti libri<br />
d’artista: del 1990 è il libro a quattro mani (con Anna<br />
Brancolini Criachi). Ha realizzato anche molte ceramiche<br />
e quelli che definisce “eccitoplastici”.<br />
Sperimenta anche la scultura, con Miradoro/Ombre, come<br />
l’esemplare in mostra, una sagoma “in ferro abraso,<br />
inciso dal laser... la figura corre e vola – produce un<br />
pensiero – nuvola sovrastata da una figura più piccola”,<br />
come egli scrive.<br />
Miradoro/Ombre, 2004; ferro abraso,<br />
cm 55x23. Acquisito dall’artista.<br />
404 405
Indice degli artisti<br />
Abakanowicz, Magdalena 368<br />
Aiazzi, Loriano 364<br />
Alinari, Luca 172<br />
Andreotti, Libero 248<br />
Archipenko, Alexander 48<br />
Arman 134<br />
Arp, Hans 90<br />
Baj, Enrico 126<br />
Barlach, Ernst 24<br />
Barni, Roberto 316<br />
Belling, Rudolf 28<br />
Beneforti, Paolo 392<br />
Bentivoglio, Mirella 188<br />
Béöthy, Étienne 92<br />
Biagi, Massimo 404<br />
Bill, Max 86<br />
Bistolfi, Leonardo 246<br />
Bloc, André 116<br />
Bonalumi, Agostino 104<br />
Botero, Fernando 346<br />
Burke, Michael 360<br />
Buscioni, Umberto 178<br />
Calder, Alexander 88<br />
Caro, Anthony 366<br />
Cascella, Andrea 288<br />
Cascella, Pietro 292<br />
Ceccobelli, Bruno 234<br />
Ceroli, Mario 332<br />
César 138<br />
Chadwick, Lynn 272<br />
Chia, Sandro 236<br />
Chiari, Giuseppe 156<br />
Christo 136<br />
Ciusa, Francesco 250<br />
Consagra, Pietro 286<br />
Conte, Michelangelo 344<br />
Conti, Primo 252<br />
Corneli, Fabrizio 200<br />
Cossyro, Michele 386<br />
Cox, Stephen 394<br />
Dalì, Salvador 74<br />
Dami, Andrea 390<br />
Dangelo, Sergio 128<br />
De Chirico, Giorgio 76<br />
De Saint-Phalle, Niki 140<br />
Del Pezzo, Lucio 176<br />
Depero, Fortunato 60<br />
Derain, André 40<br />
Duchamp-Villon, Raymond 50<br />
Ernst, Max 72<br />
Fabbri, Agenore 336<br />
Fautrier, Jean 110<br />
Ferber, Herbert 122<br />
Finotti, Novello 356<br />
Folon, Jean Michel 398<br />
Fontana, Lucio 100<br />
Franchina, Nino 308<br />
Galligani, Luigi 358<br />
Gavazzi, Giuseppe 350<br />
Gelli, Valerio 348<br />
Giacometti, Alberto 78<br />
Gilioli, Emil 290<br />
Giovannelli, Roberto 362<br />
Gonzales, Julio 52<br />
Guasti, Marcello 352<br />
Guerrini, Lorenzo 294<br />
Hains, Raymond 144<br />
Hepworth, Barbara 280<br />
Johns, Jasper 162<br />
Jones, Joe 148<br />
Karavan, Dani 370<br />
Kemèni, Zoltan 342<br />
Klein, Yves 132<br />
Kolàr, Jiri 182<br />
Kounellis, Jannis 204<br />
Lam, Wilfredo 80<br />
Lardera, Berto 298<br />
Laurens, Henri 54<br />
Léger, Fernand 46<br />
Lehmbruck, Wilhelm 26<br />
Leoncillo 322<br />
Lewitt, Sol 210<br />
Lichtenstein, Roy 168<br />
Lipchitz, Jacques 256<br />
Lippi, Andrea 254<br />
Lora Totino, Arrigo 186<br />
Lüpertz, Markus 242<br />
Mainolfi, Luigi 314<br />
Mannucci, Edgardo 300<br />
Manzù, Giacomo 260<br />
Marcks, Gehrard 30<br />
Marini, Marino 262<br />
Marotta, Gino 174<br />
Martin, Etienne 278<br />
Martini, Arturo 268<br />
Martini, Stelio Maria 184<br />
Mastroianni, Umberto 302<br />
Mataré, Ewald 32<br />
Matta, Robert Sebastian 82<br />
Mattiacci, Eliseo 372<br />
Melani, Fernando 216<br />
Melotti, Fausto 96<br />
Metzler, Kurt Laurenz 384<br />
Minguzzi, Luciano 304<br />
Mirko 306<br />
Modigliani, Amedeo 264<br />
Moore, Henry 284<br />
Moorman, Charlotte 150<br />
Morris, Robert 212<br />
Munari, Bruno 192<br />
Nannucci, Maurizio 198<br />
Negri, Mario 310<br />
Nevelson, Louise 120<br />
Nivola, Costantino 312<br />
Noguchi, Isamu 266<br />
Novelli, Gastone 114<br />
Nunzio 380<br />
Paladino, Mimmo 238<br />
Paradiso, Antonio 220<br />
Parmiggiani, Claudio 212<br />
Penalba, Alicia 334<br />
Pepper, Beverly 396<br />
Perez, Augusto 378<br />
Picasso, Pablo 44<br />
Pierluca 320<br />
Pistoletto, Michelangelo 206<br />
Poirier, Anne e Patric 218<br />
Pomodoro, Arnaldo 324<br />
Pomodoro, Giò 326<br />
Ranaldi, Renato 230<br />
Raphael, Antonietta 258<br />
Rauchenberg, Robert 160<br />
Ray, Man 68<br />
Raynaud, Jean Pierre 228<br />
Richier, Germaine 274<br />
Richter, Hans 94<br />
Rosso, Mino 64<br />
Ruffi, Gianni 226<br />
Russo Papotto, Luigi 388<br />
Salvadori, Remo 224<br />
Savelli, Enrico 402<br />
Scharff, Edwin 34<br />
Severini, Gino 62<br />
Signori, Carlo Sergio 296<br />
Somaini, Francesco 328<br />
Soto, Jesus Raphael 194<br />
Spagnulo, Giuseppe 374<br />
Spoerri, Daniel 142<br />
Staccioli, Mauro 376<br />
Stahly, François 282<br />
Tilson, Joe 166<br />
Toyofuku, Tomonori 330<br />
Trubbiani, Valeriano 338<br />
Uncini, Giuseppe 106<br />
Valentini, Nanni 400<br />
Vangi, Giuliano 354<br />
Vautier, Ben 152<br />
Vedova, Emilio 112<br />
Viani, Alberto 330<br />
Viani, Lorenzo 36<br />
Vigo, Nanda 196<br />
Vivarelli, Jorio 318<br />
Vostell, Wolf 154<br />
Wesselmann, Tom 170<br />
Wotruba, Fritz 276<br />
Yasuda, Kan 382<br />
Zadkine, Ossip 56<br />
406 407
Finito di stampare nel mese di marzo 2013 da Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, per conto de Gli Ori, Pistoia