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1910-2010. Un secolo d'arte a Pistoia

Opere dalla collezione della fondazione della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia

Opere dalla collezione della fondazione della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia

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<strong>1910</strong>-<strong>2010.</strong> UN SECOLO D'ARTE A PISTOIA<br />

OPERE DALLA COLLEZIONE DELLA FONDAZIONE DELLA CASSA DI RISPARMIO DI PISTOIA E PESCIA<br />

3


<strong>1910</strong>-<strong>2010.</strong> UN SECOLO D'ARTE A PISTOIA<br />

OPERE DALLA COLLEZIONE DELLA FONDAZIONE DELLA CASSA DI RISPARMIO DI PISTOIA E PESCIA<br />

a cura di<br />

Lara-Vinca Masini<br />

1


Volume realizzato in occasione della mostra<br />

<strong>1910</strong>-<strong>2010.</strong> <strong>Un</strong> <strong>secolo</strong> d’arte a <strong>Pistoia</strong><br />

Opere dalla collezione della Fondazione<br />

Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia<br />

nell’ambito del progetto<br />

L’arte del XX <strong>secolo</strong> nelle collezioni<br />

delle fondazioni bancarie di Venezia e <strong>Pistoia</strong><br />

<strong>Pistoia</strong>, Palazzo Fabroni<br />

23 maggio – 25 luglio 2010<br />

Mostra promossa da<br />

In collaborazione con<br />

COMUNE DI PISTOIA<br />

Organizzata da<br />

<strong>Pistoia</strong> Eventi Culturali s.c.r.l.<br />

Sponsor tecnico<br />

Edilasfalti, <strong>Pistoia</strong><br />

Fondazione Cassa di Risparmio<br />

di <strong>Pistoia</strong> e Pescia<br />

Presidente<br />

Ivano Paci<br />

Vice Presidente<br />

Giuliano Gori<br />

Consiglio di Amministrazione<br />

Giuseppe Alibrandi<br />

Roberto Cadonici<br />

Luca Iozzelli<br />

Giulio Masotti<br />

Cristina Pantera<br />

Collegio dei Revisori<br />

Alessandro Michelotti Presidente<br />

Alessandro Pratesi<br />

Gino Spagnesi<br />

Consiglio Generale<br />

Roberto Baroncelli<br />

Roberto Barontini<br />

Sauro Becattini<br />

Simonetta Bellucci<br />

Adamo Bugelli<br />

Ermanno Bujani<br />

Vito Cappellini<br />

Marco Carrara<br />

Mario De Pasquale<br />

Romano Del Nord<br />

Silvio Doretti<br />

Eugenio Fagnoni<br />

Roberto Fambrini<br />

Maurizio Gori<br />

Marzio Magnani<br />

Alfredo Mati<br />

Giorgio Petracchi<br />

Giovanni Pieraccioli<br />

Riccardo Rastelli<br />

Claudio Rosati<br />

Marcello Suppressa<br />

Giovanni Tarli Barbieri<br />

Cecilia Turco<br />

Direttore<br />

Umberto Guiducci<br />

Coordinamento generale della mostra<br />

Giuliano Gori<br />

Umberto Guiducci<br />

Elena Testaferrata<br />

Segreteria organizzativa<br />

Elena Ciompi<br />

Annamaria Iacuzzi<br />

in collaborazione con<br />

Elisabetta Bucciantini<br />

Ufficio Stampa<br />

Ambra Nepi Comunicazione<br />

Progetto di allestimento<br />

Marco Bernardi<br />

Realizzazione allestimento<br />

Edilasfalti srl<br />

in collaborazione con<br />

Cino Gori snc, Dolfi & Lepori<br />

Galleria d’arte Vannucci<br />

Falegnameria Salvadori, Vetreria Soldi<br />

Cartellonistica e segnaletica<br />

Multideco, <strong>Pistoia</strong><br />

Trasporti e logistica<br />

Arteria srl, Scandicci Firenze<br />

Tosi Valerio Trasporti, <strong>Pistoia</strong><br />

Assicurazione<br />

Lloyd’s Fine Arts<br />

Servizio di biglietteria e sorveglianza<br />

Coop. Le Macchine Celibi, Bologna<br />

Si ringrazia per la disponibilità accordata<br />

Comune di Quarrata; Cassa di Risparmio<br />

di <strong>Pistoia</strong> e Pescia S.p.A.; Usl 3 di <strong>Pistoia</strong>;<br />

Biblioteca Forteguerriana; Comune di <strong>Pistoia</strong>;<br />

Chiesa dell’Immacolata di <strong>Pistoia</strong>; Chiesa<br />

di San Paolo di <strong>Pistoia</strong>; Museo Marino<br />

Marini di <strong>Pistoia</strong>; Azienda delle Terme di<br />

Montecatini Terme; Comune di Montecatini<br />

Terme; Galleria Il Ponte di Firenze; Istituto<br />

Statale d’Arte “P. Petrocchi”; Soprintendenza<br />

BAPSAE di Firenze, Prato, <strong>Pistoia</strong><br />

Realizzazione del volume<br />

Gli Ori, <strong>Pistoia</strong><br />

Cura scientifica della mostra e del volume<br />

Lara-Vinca Masini<br />

Profili e schede delle opere<br />

Lara-Vinca Masini<br />

Annamaria Iacuzzi, pp. 110-113, 186-193<br />

Ricerche bibliografiche<br />

Cecilia Barbieri<br />

Editing redazione e impaginazione<br />

Gli Ori Redazione<br />

Annamaria Iacuzzi<br />

Prestampa<br />

CTP, Firenze<br />

Stampa<br />

Grafica Lito, Calenzano<br />

Campagna fotografica<br />

Lorenzo D’Angiolo<br />

Keeho Casati (installazioni<br />

di arte ambientale)<br />

Referenze fotografiche<br />

Aurelio Amendola<br />

Carlo Chiavacci<br />

Federico Gori<br />

Giuseppe Marraccini<br />

Courtesy Galleria Il Ponte<br />

Courtesy Polistampa<br />

Il volume è accompagnato da un DVD<br />

Immagini Movimento Suono Parole:<br />

Arte nel territorio di Tayu Vlietstra<br />

Musiche composte ed eseguite da<br />

Roberto Fabbriciani<br />

© Copyright 2010<br />

Fondazione Cassa di Risparmio<br />

di <strong>Pistoia</strong> e Pescia<br />

per l’edizione, Gli Ori, <strong>Pistoia</strong><br />

ISBN 978-88-7336-411-5<br />

Tutti i diritti riservati<br />

www.gliori.it<br />

info@gliori.it<br />

www.fondazionecrpt.it<br />

3


Abbiamo più volte reso noto, in occasioni pubbliche, che la Fondazione Cassa<br />

di Risparmio, intendeva come un servizio di grande rilievo culturale alla città<br />

e al territorio, quello di raccogliere opere di artisti pistoiesi che nel corso dei<br />

secoli, ma soprattutto nel corso del Novecento, hanno rappresentato una presenza<br />

di non secondario rilievo nel panorama artistico italiano, e non solo.<br />

Soprattutto per gli artisti pistoiesi del <strong>secolo</strong> scorso volevamo evitare che le<br />

loro opere fossero presenti solo in collezioni private, o visibili solo in sporadiche<br />

occasioni o in raccolte di altre città.<br />

Nel tempo, senza fretta, la nostra Fondazione ha acquistato o direttamente<br />

dalle famiglie o in aste o a trattativa privata, opere ritenute idonee a testimoniare<br />

in modo significativo l’attività di un determinato autore nato o cresciuto<br />

o formatosi nel nostro territorio anche se, crescendo in notorietà e importanza<br />

talora se ne è allontanato, peraltro senza mai recidere del tutto i legami con la<br />

terra di origine.<br />

Basta citare i nomi di Marino Marini, Agenore Fabbri, Jorio Vivarelli, Pietro<br />

Bugiani, Sigfrido Bartolini, Fernando Melani, Mario Nigro, Gualtiero Nativi,<br />

Gianni Ruffi, Roberto Barni, Umberto Buscioni e tanti altri per rendersi<br />

conto della ricchezza del panorama che abbiamo davanti. Questa attività di<br />

raccolta sta ovviamente proseguendo, seppure in modo più attenuato rispetto<br />

al passato.<br />

Manca, alla nostra collezione, una sede espositiva permanente che possa accogliere<br />

anche opere possedute da altri enti; ma è un obbiettivo al quale pensiamo<br />

da tempo e che cercheremo di realizzare.<br />

Intanto nelle accoglienti sale del Palazzo Fabroni, sono finalmente visibili<br />

ai pistoiesi, ed a tutti i visitatori, un’ampia rassegna di dipinti, facente parte<br />

della raccolta di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio, rappresentativi<br />

della straordinaria fioritura artistica nel campo delle arti visive che, come<br />

dicevo, ha caratterizzato il Novecento pistoiese.<br />

Il catalogo, accuratamente predisposto dalla dottoressa Lara-Vinca Masini,<br />

che ha anche curato la selezione delle opere da esporre e le schede illustrative<br />

riguardanti gli autori, è già di per sé assai significativo, realizzato con la consueta<br />

cura della casa editrice Gli Ori.<br />

Ma la mostra non si limita ad esporre una parte dalle opere di proprietà della<br />

Fondazione.<br />

Abbiamo colto questa occasione anche per offrire un panorama visivo delle<br />

opere di artisti contemporanei, stranieri ed italiani, disseminate ormai sull’intero<br />

territorio provinciale, cha la Fondazione ha appositamente commissionato<br />

e poi donato per arricchire ambienti esterni e interni particolarmente significativi;<br />

basta ricordare i nomi di Susumu Shingu, Pol Bury, Robert Morris,<br />

Dani Karavan, Daniel Buren, Gianni Ruffi, Anne e Patrick Poirier, Roberto<br />

Barni, Anselm Kiefer, Claudio Parmiggiani per tacere di altri per comprendere<br />

il progressivo arricchimento, sul nostro territorio, di presenze che rappresentano<br />

già le tappe ideali di un percorso di grande interesse culturale e di<br />

non secondario richiamo turistico.<br />

Ringrazio per la collaborazione l’Amministrazione Comunale di <strong>Pistoia</strong>, che<br />

ha gentilmente concesso il primo piano del Palazzo Fabroni; il nostro Vice<br />

presidente Giuliano Gori, che ha seguito con competenza e passione tutto il<br />

lavoro preparatorio, la dottoressa Lara-Vinca Masini, l’architetto Marco Bernardi<br />

che ha curato l’allestimento, il personale della Fondazione che più direttamente<br />

ha collaborato per la buona riuscita dell’iniziativa.<br />

Ora essa è affidata ai nostri concittadini ed a tutti i visitatori; il loro interesse<br />

ed il loro gradimento sarà la riprova che non abbiamo lavorato invano.<br />

Ivano Paci<br />

Presidente della Fondazione<br />

Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia<br />

5


SOMMARIO<br />

INTRODUZIONE 8<br />

LE PRIME AVANGUARDIE 23<br />

Andrea Lippi 24<br />

Mario Nannini 32<br />

CONTRIBUTI CULTURALI ALLO SVOLGIMENTO DELL’ARTE A PISTOIA 43<br />

Giovanni Costetti 44<br />

Galileo Chini 52<br />

Giovanni Michelucci 56<br />

IL PRIMO NOVECENTO NELL’ARTE A PISTOIA 61<br />

Francesco Chiappelli 63<br />

Alberto Caligiani 66<br />

Giulio Innocenti 74<br />

Renzo Agostini 84<br />

Pietro Bugiani 92<br />

Alfiero Cappellini 104<br />

Umberto Mariotti 110<br />

Egle Marini 114<br />

Corrado Zanzotto 121<br />

ARTISTI PISTOIESI VISSUTI FUORI DALLA CITTÀ 129<br />

Marino Marini 130<br />

Agenore Fabbri 143<br />

Mario Nigro 151<br />

Gualtiero Nativi 160<br />

LA GENERAZIONE DI MEZZO:<br />

CONTRASTO TRA FIGURAZIONE E ASTRAZIONE 167<br />

Sigfrido Bartolini 169<br />

Marcello Lucarelli 173<br />

Jorio Vivarelli 177<br />

Mirando Iacomelli 182<br />

Lando Landini 186<br />

Valerio Gelli 191<br />

Aldo Frosini 195<br />

Fernando Melani 198<br />

Remo Gordigiani 214<br />

LA SCUOLA DI PISTOIA 223<br />

Roberto Barni 224<br />

Umberto Buscioni 234<br />

Gianni Ruffi 244<br />

Adolfo Natalini 255<br />

ALLA FINE DEL XX SECOLO 259<br />

Franco Bovani 260<br />

Massimo Biagi 265<br />

Andrea Dami 269<br />

ALL’ALBA DEL TERZO MILLENNIO 273<br />

Federico Gori 274<br />

Zoè Gruni 279<br />

UN MAESTRO DI RIFERIMENTO 283<br />

Giacomo Balla 284<br />

ARTE AMBIENTALE: INSTALLAZIONI SUL TERRITORIO 290<br />

CHIESA DELL’IMMACOLATA, PISTOIA 293<br />

Sigfrido Bartolini 294<br />

CHIESA DI SAN PAOLO, PISTOIA 299<br />

Umberto Buscioni 300<br />

PALAZZO DE’ ROSSI, PISTOIA 303<br />

Sol Lewitt 304<br />

NUOVO PADIGLIONE DI EMODIALISI, PISTOIA 309<br />

Robert Morris 312<br />

Dani Karavan 316<br />

Hidetoshi Nagasawa 320<br />

Gianni Ruffi 324<br />

Sol Lewitt 326<br />

Claudio Parmiggiani 330<br />

Daniel Buren 334<br />

BIBLIOTECA SAN GIORGIO, PISTOIA 339<br />

Anselm Kiefer 340<br />

FONDAZIONE MARINO MARINI, PISTOIA 347<br />

Marino Marini 348<br />

PIAZZA AGENORE FABBRI, QUARRATA 351<br />

Vittorio Corsini 355<br />

VILLA LA MAGIA, QUARRATA 359<br />

Fabrizio Corneli 363<br />

Anne e Patrick Poirier 366<br />

Marco Bagnoli 372<br />

Hidetoshi Nagasawa 376<br />

Maurizio Nannucci 378<br />

MONTECATINI 383<br />

Susumu Shingu 384<br />

Pol Bury 388<br />

APPARATI 393<br />

7


INTRODUZIONE<br />

Lara Vinca-Masini<br />

Sono veramente grata alla Fondazione della Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e<br />

Pescia per avermi affidato l’incarico di curare la mostra della sezione della loro<br />

collezione relativa al XX <strong>secolo</strong> perché mi ha offerto l’occasione di scoprire e<br />

di studiare un periodo e una parte della cultura artistica del Novecento toscano,<br />

quella relativa a <strong>Pistoia</strong>, che conoscevo poco e che mi hanno assolutamente<br />

entusiasmato e conquistato. L’occasione di questa mostra è la presentazione,<br />

a <strong>Pistoia</strong>, della collezione del Novecento della Fondazione Venezia della<br />

Cassa di Risparmio che, come è logico per un Ente finanziario di una città<br />

che ospita la Biennale d’Arte, raccoglie opere di artisti italiani che, dalla sua<br />

fondazione (1895), hanno partecipato alla Biennale, e alcuni bellissimi pezzi,<br />

anche questi presenti nel Padiglione Venezia, dal ’32 al ’72 in Biennale, delle<br />

grandi vetrerie veneziane, da Venini a Seguso, Salviati, La Murrina, Toso, per<br />

le quali hanno lavorato e lavorano grandi artisti, designers, architetti italiani e<br />

stranieri, da Zecchin a Scarpa, Wirkkala, Barovier, Thun...<br />

La nostra scelta tra le opere del Novecento presenti nella collezione pistoiese<br />

è vòlta piuttosto a dimostrare come la Fondazione e la Cassa di Risparmio di<br />

<strong>Pistoia</strong> e Pescia, siano riuscite a raccogliere, in questo settore, sia pure per<br />

sintesi (e ovviamente con qualche inevitabile lacuna) un corpus di opere che<br />

rappresentano in modo efficace la storia della cultura artistica del Novecento a<br />

<strong>Pistoia</strong>. E aggiungo: una storia che non ha nulla da invidiare a quella di Firenze.<br />

Vi abbiamo inserito alcune presenze (Costetti, Chini, Michelucci, peraltro<br />

pistoiese, ma che ha poi in seguito la sua professione di architetto a Roma e<br />

a Firenze) che alla vitalità di questa storia hanno dato più che un contributo,<br />

riuscendo a farne emergere il significato più profondo.<br />

Abbiamo inoltre inserito nella mostra (con una sua collocazione separata), un<br />

bel lavoro di Giacomo Balla, troppo importante per essere escluso e, in ogni<br />

caso, un grande maestro di riferimento.<br />

È vero che negli ultimi anni Carlo Sisi, per lungo periodo alla guida della Galleria<br />

d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, ha condotto una campagna di raccolta<br />

di opere del Novecento di tutta la Toscana, allo scopo di “fornire” scrive Sisi<br />

“testi di riferimento per consolidare il concetto della continuità della storia e<br />

quindi, se così si può dire, della legittimità dell’arte contemporanea spesso<br />

intesa oggi, paradossalmente, solo come un ‘genere’ dell’arte”. Carlo Sisi è anche<br />

direttore del Centro di Documentazione sull’Arte moderna e contemporanea<br />

a <strong>Pistoia</strong>, aperto nel 2002, che persegue, praticamente, lo stesso scopo.<br />

Io mi sono sempre occupata di arte, architettura, design, arti applicate moderne<br />

e contemporanee, a partire dall’Art Nouveau, seguendone il corso a livello<br />

nazionale e internazionale e, certo per una mia lacuna, non ho mai approfondito<br />

molto la mia ricerca localmente e regionalmente se non in alcune situazioni<br />

particolari emerse a livello nazionale (a <strong>Pistoia</strong>, ovviamente, nel caso di<br />

Fernando Melani e del gruppo Barni, Buscioni, Ruffi...).<br />

Questo perché sono convinta che, pur essendo l’arte sempre la stessa, in qualunque<br />

luogo e in qualsiasi tempo si sia manifestata e si manifesti, l’arte contemporanea<br />

dalle avanguardie, nelle sue manifestazioni autentiche, non è certamente<br />

da considerarsi (ha perfettamente ragione Sisi), un ‘genere’ dell’arte,<br />

avendo anzi dilatato il suo campo, particolarmente negli ultimi anni, ad altre<br />

discipline (filosofia, scienza, poesia, teatro, musica...) senza peraltro rinunciare<br />

alla sua specificità, ma è il risultato logico degli esiti della civiltà occidentale<br />

quando si è trovata a confrontarsi con le altre civiltà.<br />

È il contesto nel quale si è verificato lo scatto compiuto dall’arte contemporanea<br />

che è completamente cambiato; sono le condizioni sociali, politiche,<br />

culturali, economiche che si sono trasformate radicalmente; sono le guerre, le<br />

catastrofi planetarie; è il pensiero che ha acquisito spazi di indagine nuovi e<br />

diversi; sono le nuove scoperte scientifiche che hanno cambiato i comportamenti<br />

e accelerato certi raggiungimenti, spesso imprevedibili e talvolta catastrofici;<br />

sono, ripeto, i rapporti tra le diverse culture che hanno aperto nuovi<br />

confini. Insomma, vogliamo o no crederci, è il mondo che è cambiato. E gli<br />

artisti, come sempre, con “la loro consapevolezza infinita” (Mc Luhan 1967)<br />

se ne sono accorti per primi.<br />

Certamente le situazioni particolari, locali, regionali, hanno contribuito al<br />

cambiamento, avendone peraltro acquisito la consapevolezza da quelle nazionali<br />

e internazionali. Gli artisti pistoiesi che sto studiando hanno fatto quasi<br />

tutti il loro viaggio a Parigi e oltre, hanno seguito i movimenti internazionali,<br />

apportandovi “del loro”, naturalmente, e anche, spesso, rifiutandoli (pensiamo<br />

a Sigfrido Bartolini...).<br />

Perciò ho sempre ripetuto che occorre porsi dinanzi al contemporaneo con<br />

una disponibilità diversa, senza pregiudizi, neppure culturali, e con un’attenzione<br />

nuova, senza voler pretendere di avere sempre in mano la chiave della<br />

comprensione.<br />

Certo, il sistema dell’arte è sempre più oppressivo. E non è certo da oggi: si è<br />

visto come, anche nel “paese delle meraviglie” che <strong>Pistoia</strong> ha rappresentato<br />

quasi fino alla seconda guerra mondiale, dove gli artisti lavoravano insieme, si<br />

ritraevano reciprocamente nei loro lavori, discutevano e anche litigavano tra<br />

loro, ma solo nelle discussioni sull’arte, scrivevano testi di presentazione gli<br />

8<br />

9


uni per gli altri... <strong>Un</strong>a condizione che sembrava impossibile in una Toscana da<br />

sempre divisa tra guelfi e ghibellini. Mi sono molto meravigliata per questo,<br />

abituata come sono alla situazione fiorentina. E mi sono entusiasmata.<br />

Ma, andando avanti, ho visto che anche a <strong>Pistoia</strong>, quando gli artisti si sono<br />

trovati nel giro delle mostre nazionali e internazionali, quando, cioè, sono entrati<br />

nel “sistema dell’arte” (grandi mercanti, galleristi sempre più potenti...),<br />

l’idillio è praticamente finito, o almeno, malgrado qualche tentativo di ricostituirlo,<br />

si è un po’ ridimensionato.<br />

Ma gli artisti più avvertiti cercano sempre, anche oggi, di mettere a nudo, di<br />

destabilizzare il sistema, decisi a difendere la propria autonomia, cercano di<br />

decostruire i meccanismi del nostro tempo, di denunciare, spiazzare, destabilizzare<br />

il sistema con trasgressioni e provocazioni... Certo, non sempre ci<br />

riescono, perché il sistema sa quasi sempre trasformare in controllo quella<br />

pseudolibertà che concede. Anche se qualche volta succede che oggi il “sistema”<br />

parli anche per bocca di qualche giovane “curator” che spinge gli artisti<br />

non a cercare, col proprio lavoro, di approfondire la ricerca, di sforzarsi di dare<br />

il meglio di sé per chiarire, anche a se stessi, il significato della propria idea di<br />

arte con un continuo travaglio, bensì di essere astuti, di cercare ad ogni costo<br />

il consenso e quindi il successo...<br />

Sono comunque convinta che gli artisti davvero impegnati, anche quando non<br />

disdegnano, ovviamente, il successo (e il tramite del mercato) hanno ancora<br />

la forza di restare fedeli al fine ultimo dell’arte, quello di rappresentare lo<br />

“specchio nero” della società nella quale vivono, di cui svelano, spesso anche<br />

ironicamente, la cieca aberrazione.<br />

Ma è vero o no che questo avviene, e non da oggi, per gran parte di tutti gli<br />

aspetti della vita della nostra società? Pasolini lo aveva capito da tempo...<br />

Solo all’arte, però, è concesso di ribaltare le cose, di proporre anche degli sbagli,<br />

per capire meglio come “le cose” funzionano. E non sempre sappiamo<br />

come ne usciremo. Occorrerà certo risalire anche al passato per capire perché<br />

il modo di agire degli artisti contemporanei è un po’ diverso, almeno apparentemente,<br />

e solo talvolta, nei diversi paesi, ma consapevoli che non è la nicchia,<br />

anche preziosa, che può fornirci le risposte. Ma certo può regalarci qualche<br />

strumento per ulteriori approfondimenti e per “consolidare il concetto della<br />

continuità della storia”.<br />

Credo che questa mostra possa presentare, come ho già detto, un panorama<br />

ridotto, ma tale da dare un’idea abbastanza precisa della condizione dell’ arte<br />

a <strong>Pistoia</strong> di quasi tutto il <strong>secolo</strong> scorso. Purtroppo resta fuori l’architettura che<br />

ha visto, a <strong>Pistoia</strong>, oltre, ohimè, a qualche recente, grave abuso (es. Breda),<br />

situazioni notevoli dai primi del Novecento fino ad alcune esperienze recentissime<br />

di giovani e giovanissimi architetti, che Firenze, purtroppo, da vari<br />

anni non si sogna nemmeno di poter vedere, perché vi lavorano solo i soliti<br />

“prediletti” delle Istituzioni. Ho avuto modo, comunque, di cogliere l’attenzione<br />

e l’acutezza che la Cassa di Risparmio e la Fondazione hanno usato nel<br />

mettere insieme questa collezione, che non dovrebbe restare chiusa in un caveau,<br />

ma costituire un piccolo museo, invidiabile per una città che ha saputo<br />

portare avanti un suo percorso particolare, anche abbastanza diverso da quello<br />

svoltosi nello stesso tempo a Firenze, città dominante, ovviamente per l’importanza<br />

nazionale e internazionale della sua storia artistica, troppo spesso,<br />

peraltro, e non solo nel Novecento, usata come alibi per una lunga, pericolosa<br />

stasi, soprattutto di idee e di progetti. E oggi per una cosiddetta apertura verso<br />

il contemporaneo, la situazione è ancor più pericolosa perché investe soprattutto<br />

l’immagine globale della città nella sua veste architettonica e urbanistica,<br />

mostrandosi per quello che è, un abuso incauto e arrogante, soprattutto<br />

ignorante e indifferente verso i valori del passato, che sta rovinando anche il<br />

centro storico, che meriterebbe una ben diversa apertura, con interventi che si<br />

dimostrassero degni di quelli del passato, addirittura in grado di mettervisi in<br />

gara. <strong>Un</strong>a sfida che potrebbe coinvolgere a Firenze i nomi più prestigiosi del<br />

panorama architettonico internazionale, e soprattutto molti giovani di qualità,<br />

che ci sono... Ma sto uscendo dal tema...<br />

Nello studio del Novecento a <strong>Pistoia</strong> ho preso avvio da due personaggi, Andrea<br />

Lippi e Mario Nannini, che hanno operato, il primo tra il 1913 e il ’15, il secondo<br />

tra il 1913 e il 1918 (il ’15 e il ’18, gli anni della loro morte).<br />

Essi hanno rappresentato, a <strong>Pistoia</strong>, un momento di uscita dalle regole di una<br />

città che, pur essendo al corrente di quanto avveniva in Italia e fuori, restava<br />

abbastanza chiusa nel suo mondo appartato, legato alla natura, sulla linea di<br />

una figurazione cólta, nutrita di un attento studio del Tre- e Quattrocento toscani,<br />

arricchita dalla conoscenza del Postimpressionismo, di Cézanne..., però<br />

poco incline ad affrontare rivoluzioni innovative scaturite in Italia o all’estero,<br />

malviste dal Sindacato Fascista delle Arti (specialmente da quando l’occupazione<br />

fascista, interprete Margherita Sarfatti) che aveva tutto da guadagnare favorendo<br />

quella predisposizione del “carattere malinconico, ma forte, della terra<br />

pistoiese”. E non era questo già un primo tentativo di creare un quasi invisibile<br />

“sistema dell’arte” controllato (dalla politica, se non dal mercato)?<br />

Lippi e Nannini non sono passati da questo giogo.<br />

Andrea Lippi ha portato avanti nei suoi pochi anni di vita un lavoro forte, convulso,<br />

con la sua scultura visionaria, che portava all’estremo lo spirito di un Liberty<br />

italiano ormai decadente e un po’ funereo, combinandolo con una estroversa<br />

tensione espressionista di carattere nordico. Mario Nannini, dopo un<br />

10 11


primo, breve periodo ‘in chiave’ con la linea dolce, nostalgica, malinconica di<br />

tanta pittura pistoiese, ha scelto di misurarsi con le avanguardie, con l’esperienza<br />

futurista, seguita, a Firenze, soprattutto da Conti e Soffici. E nei pochi anni<br />

in cui ha lavorato ha portato il suo lavoro fino ad una maturità straordinaria, che<br />

ha pochi confronti in Toscana e può misurarsi con onore coi modelli nazionali<br />

(Balla, Boccioni, ma anche con un certo cubofuturismo internazionale...).<br />

Anche a <strong>Pistoia</strong>, come a Firenze, era il momento delle riviste impegnate culturalmente<br />

e ideologicamente. Dal primo decennio del ‘900 esprimevano le diverse posizioni<br />

ideologiche, estetiche, politiche. <strong>Un</strong>a delle prime polemiche che le riviste trattarono fu<br />

proprio quella relativa al nuovo palazzo della Cassa di Risparmio (1897-1931).<br />

Da “L’Avvenire” a “La Voce democratica”, a “Il popolo pistoiese”, a “La Difesa”<br />

(“religiosa e sociale” il sottotitolo)… Dopo la prima guerra mondiale nascevano “Il<br />

Ricciardetto”, “Athena”, “La Tempra”, “Il Marchese”, di intenti culturali, cui seguivano<br />

alcuni giornali umoristici, come “Il Marchesino”, “L’Assillo”; dal ’19 “Il<br />

Giornalissimo” e le riviste del regime “L’Azione fascista” (’22-’29), “Il Littorio”<br />

(’30-’32), “Il Ferruccio” (fino al ’32).<br />

Il fervore della vita culturale, incentivata, appunto, dalla vitalità delle riviste contribuiva<br />

ad accrescere l’interesse verso la città di alcuni personaggi, non pistoiesi,<br />

che hanno cementato l’unione degli artisti tra loro in nome di programmi e ideologie<br />

che soprattutto Giovanni Costetti, dalle pagine de “La Tempra”, alla quale<br />

fu invitato a collaborare da Renato Fondi e che, dopo qualche tempo,coinvolse<br />

anche il giovane poeta Giuseppe Lanza del Vasto; e anche Galileo Chini, arrivato<br />

a <strong>Pistoia</strong> per lavorare al palazzo della Cassa di risparmio, hanno portato avanti<br />

nella città, contribuendo al consolidarsi di una cultura artistica di alto rilievo. E<br />

non va dimenticato l’apporto culturale del giovane Giovanni Michelucci, finché<br />

rimase a <strong>Pistoia</strong>, amico e compagno di lavoro degli artisti.<br />

Giovanni Costetti si avvicinava a <strong>Pistoia</strong> dal 1914. Attraverso i suoi interventi<br />

sulla rivista egli iniziava il suo proselitismo trasmettendo agli artisti pistoiesi<br />

la sua concezione di “arte pura”, libera da riferimenti letterari, nutrita dalla<br />

conoscenza del Postimpressionismo e di Cézanne, un’arte che prende la sua<br />

linfa soprattutto dal colore, che assume per lui valore essenziale nella pittura.<br />

Lo vediamo nei due straordinari Ritratti, in mostra, del giovane Marino Marini,<br />

dove l’azzurro è la nota dominante ed esaltante di tutto il lavoro, in contrasto col<br />

morbido impasto rosato del volto; e quello, altrettanto superbo, che non esito a<br />

credere di Dino Campana giovane, tutto giocato sul rapporto del biondo dorato<br />

degli occhi, dei capelli, della barba, e il verde dell’abito. Dal colore, secondo Costetti,<br />

nascono la forma e, col sentimento, la composizione. È questo che assume<br />

un senso misterioso, simbolico, magico, di carattere spiritualistico. Queste idee,<br />

diffuse tra gli artisti, dai testi e dalle parole, venivano ampliate anche da Lanza<br />

del Vasto, che arrivava per studiare filosofia a Pisa ed era spesso con Costetti a<br />

<strong>Pistoia</strong>, dove conosceva i pittori pistoiesi, che ammirava e, che cercherà di far<br />

conoscere all’ estero, organizzando loro mostre e incontri.<br />

Anche Galileo Chini, noto per i suoi tanti lavori di decorazione parietale, in<br />

Italia e all’estero, ispirati a moduli quattro- e cinquecenteschi, rivisti in termini<br />

di simbolismo, tra liberty e art nouveau (basti pensare alla Sala principale della<br />

Biennale di Venezia, 1909, al Palazzo dello Scià di Persia, 1911-1913, ai suoi<br />

molti interventi appunto, nel nuovo palazzo della Cassa di Risparmio a <strong>Pistoia</strong>,<br />

1904-1905). Questo notevolissimo e lungo lavoro lo porterà a <strong>Pistoia</strong>, insegnante<br />

alla Scuola d’Arte e, a Firenze, all’Accademia. Ma Chini era già noto anche per<br />

le sue splendide ceramiche orientalizzanti e per la sua ariosa pittura, ispirata a<br />

moduli postimpressionisti, qui evidenti nel suo Autoritratto.<br />

Giovanni Michelucci, pistoiese, ha avuto un ruolo determinante per i giovani<br />

artisti suoi coetanei, quando lavorava con loro alle sue incisioni, e, accompagnandoli<br />

nelle loro gite di lavoro in campagna, li coinvolgeva nella sua formazione<br />

di carattere spiritualistico, leggendo loro Dante, I Fioretti, Baudelaire, Poe...<br />

Questo finché rimase a <strong>Pistoia</strong>, prima di partire per Roma, e poi per Firenze, per<br />

seguire la sua professione di architetto.<br />

Tra gli artisti nati verso la fine dell’Ottocento, ci sono coloro che hanno lavorato<br />

soprattutto nel periodo tra le due guerre; e a loro si uniranno, sulla stessa loro<br />

strada, alcuni artisti più giovani che creeranno il nucleo effettivo del panorama<br />

artistico del periodo. Si tratta di Francesco Chiappelli, che si caratterizza, forse<br />

più che per la pittura, per la sua grande maestria nell’acquaforte, che egli contribuisce<br />

a diffondere e che si riconosce per la sensibilità, per il segno netto e<br />

preciso, per la luminosità dei suoi lavori, per il rapporto vivo di luce-ombra che<br />

domina le sue incisioni, sue caratteristiche peculiari.<br />

Dal suo lavoro nasce, o si rafforza a <strong>Pistoia</strong> e in Toscana, il grande interesse per la<br />

grafica, già molto seguita in Europa; in Italia divulgata soprattutto dai “paleotipi” di<br />

D’Annunzio (La Francesca da Rimini, La figlia di Jorio con le xilografie di De Carolis,<br />

pubblicati da Treves). Questo interesse porterà, nel 1913, a uno degli avvenimenti<br />

più importanti del periodo, la Mostra del Bianco e Nero a <strong>Pistoia</strong>, organizzata dalla<br />

Famiglia Artistica, un ente privato di amatori d’arte che aveva tra i membri Renato<br />

Fondi e Giovanni Michelucci e che, nel ’12, per mostrare il suo interesse al rinnovamento,<br />

aveva invitato a <strong>Pistoia</strong> Marinetti, che peraltro arriverà più tardi. L’iniziativa<br />

della mostra veniva anche appoggiata, per la prima volta, anche dalle Istituzioni, fin<br />

qui indifferenti nei confronti della vita artistica della città. La mostra, aperta con un<br />

discorso inaugurale di Costetti, che ribadiva, comunque, il concetto di opera unica, non<br />

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eplicabile, cioè il disegno, raccolse artisti da tutta Italia: anche De Carolis vi espose<br />

alcune sue opere; lo stesso Costetti vi presentava delle acqueforti. Vi comparivano opere<br />

futuriste (Depero...). E ancora Mazzoni, Zanini, Rosai, con lavori di tema architettonico<br />

che Parronchi associa ad alcune poesie di Campana (Le case civette; La cattedrale;<br />

Notturno; “I cubi degli alti palazzi torreggiano / Minacciando enormi sull’erta ripida<br />

/ Nell’ardore catastrofico…”), e Alberto Viani, Emilio Notte. Tra i pistoiesi, oltre a<br />

Chiappelli, Caligiani, Celestini, Innocenti...<br />

Ancora in mostra Alberto Caligiani, grossetano ma a <strong>Pistoia</strong> fin dalla prima<br />

infanzia, fu amico di tutti gli artisti pistoiesi, anche dei più giovani, ma mantenne<br />

sempre vivo il rapporto con la vita artistica nazionale. Il suo lavoro sfocerà<br />

nel Novecento italiano. Vittorini parla del suo “realismo inconfondibile e senza<br />

affanno”. E ancora, tra gli artisti in mostra, Giulio Innocenti, strano, eclettico<br />

personaggio, che da “ipnotizzatore e mago”, ad artista versatile, che aveva imparato<br />

la tecnica della litografia da Caligiani; pittore della vita quotidiana, amico<br />

per la vita di Fernando Melani, che lo giudicava un naïf, ma gli riconosceva “una<br />

costante sola... la luce” e che, avvicinandosi all’arte francese, ai Nabis, a Matisse,<br />

arriverà ad una pittura di carattere timbrico, chiaro e trasparente.<br />

Venendo al gruppo di artisti nati nel Novecento, Renzo Agostini è forse il più<br />

ingenuo, il più fresco degli artisti pistoiesi; Sigfrido Bartolini, artista ma anche<br />

eccellente e severissimo critico, lo definisce “una forte offerta a chi ha sete di<br />

poesia”. Costetti lo predilige per la sua “schiettezza” e per “lo slancio romantico”<br />

che “in lui si è sposato al ‘fanciullino’ di Pascoli”. Autodidatta, fedele ad<br />

un suo mondo di ingenuità e di candore, accoglieva nella fattoria del padre i<br />

membri del “Cenacolo”, che faceva capo a Giovanni Michelucci, che tanta della<br />

sua generosità spendeva nelle sue lezioni alla Scuola d’Arte aperta da Fabio Casanova<br />

nel 1920 e che, quando li accompagnava nelle loro incursioni collettive di<br />

lavoro nella campagna, li intratteneva leggendo loro Dante, Petrarca, Baudelaire...<br />

e, nelle pagine de “Il popolo pistoiese” diffondeva i suoi concetti relativi ad<br />

un’arte sana, spirituale, “francescana”, come scriveva nel “Popolo pistoiese”.<br />

<strong>Pistoia</strong> era una città legata ad una operatività molto variata che era passata, all’inizio<br />

del Novecento, da un’economia agricola chiusa e paesana, ad un processo di industrializzazione<br />

e di urbanizzazione abbastanza veloci. L’attività, che aveva fin qui<br />

mantenuto una struttura artigianale era cambiata. Con la nascita delle officine San<br />

Giorgio (poi Breda), il cui stabilimento fu progettato da Gino Coppedè (1911), le<br />

attività produttive e commerciali nella città ne trasformarono la vita. Con la forte presenza<br />

di manodopera femminile e minorile (si pensi alla diffusione della lavorazione<br />

della paglia) e col fiorire del vivaismo che fin dall’inizio si diffuse nell’area urbana,<br />

con la crescita architettonica ed edilizia anche gli artisti si specializzavano in attività<br />

diverse (decorazione parietale, in chiave con lo stile dell’epoca legato al Simbolismo e<br />

al Liberty, arredo urbano, favorito dall’esistenza di varie officine artistiche – (cancelli,<br />

fanali, e anche monumenti...). Con la sua Scuola d’Arte Fabio Casanova cercò di venire<br />

incontro a queste esigenze: Quasi tutti gli artisti pistoiesi non sono quasi mai solo<br />

pittori o scultori, o grafici.., ma si esprimono in vari settori dell’arte: per non contare<br />

la loro preparazione letteraria e culturale che gli insegnanti cercavano di coltivare.<br />

Pietro Bugiani è forse l’artista che più incarna il carattere della pittura pistoiese<br />

tra la metà degli anni Venti e gli anni Quaranta. Ma ne porta la capacità<br />

al suo massimo grado. Da un naturalismo postmacchiaiolo passava, attraverso<br />

uno studio profondo del Tre- e Quattrocento fiorentino (e della letteratura del<br />

periodo, cui era stato incoraggiato anche da Giovanni Michelucci, rivolto ad<br />

un rinnovamento che da Soffici , Rosai, portava a Cézanne), acquisiva un linguaggio<br />

di grande e cólta maturità espressiva che, nelle due visioni campestri<br />

(La casa rosa, 1929) attinge ad una sorta di “realismo magico”. E, in opere successive,<br />

soprattutto nella straordinaria Madonna col manto rosso 1931 ca, ad una<br />

sintesi spontanea, quasi incredibile, che unisce la lezione di Giotto, di Piero<br />

della Francesca, di Matisse, in un lavoro che, a mio avviso, segna un’epoca.<br />

Alfiero Cappellini passa da un’adesione consapevole alla linea della contemporanea<br />

pittura pistoiese per accostarsi, prima al Ritorno all’ordine e al<br />

Novecento italiano di marca sarfattiana. Ma, derubato dai nazisti, durante la<br />

seconda guerra mondiale, di quasi tutto il suo lavoro e della sua documentazione,<br />

spinto, oltre che dal suo forte impegno politico-sociale, anche dal suo<br />

carattere chiuso, ombroso, volgeva verso un linguaggio pittorico fortemente<br />

caratterizzato, duro, aggressivo, di una gestualità quasi espressionista. “La sua<br />

pittura” ha scritto Ciattini “non è mai un fenomeno di gusto, ma semmai una<br />

reazione”.<br />

Umberto Mariotti fu sensibile interprete di nature morte e ritratti di lucida<br />

sintesi formale alla quale giungeva attraverso gli stimoli culturali di Casorati e<br />

Carena, rileggendo gli antichi secondo la lezione di Cézanne.<br />

Egle Marini, gemella di Marino Marini, con cui condivideva il periodo di apprendimento,<br />

è una figura un po’ a parte rispetto agli artisti pistoiesi. Esprime<br />

la sua sensibilità per la vita quotidiana e per gli oggetti che la esprimono, sia<br />

nei suoi ritratti femminili, talvolta di una sontuosità quasi settecentesca, ma, in<br />

particolare i più tardi, superbi e sapienti (Autoritratto con la casacca blu) e nelle<br />

sue nature morte, ricche di echi culturali, ma risolti in termini personali, che<br />

parlano di un carattere forte, schivo, autonomo.<br />

Corrado Zanzotto, soprattutto scultore di grande vigore e sensibilità, provato<br />

dalla vita e dalla sorte, allontanato da <strong>Pistoia</strong> durante la seconda guerra mon-<br />

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diale, perdeva metà della sua famiglia e tutta la sua produzione. In gravissime<br />

condizioni economiche veniva accolto, al suo ritorno, al Villone Puccini, una<br />

Casa di riposo per anziani dove si dedicava a ritrarre, nei suoi disegni, i volti<br />

scavati e tristi degli ospiti, povera gente abbandonata, usando, come scrivono<br />

Paolo Fabrizio e Annamaria Iacuzzi “il lapis come fosse un aratro, come il contadino<br />

ara il campo, lui ara quei volti”. La stessa forza di indagine psicologica e<br />

la stessa forza espressiva Zanzotto applica alla sua pittura e alla scultura.<br />

Di seguito sono presenti in mostra opere di artisti (Marino Marini, Agenore<br />

Fabbri, Mario Nigro, Gualtiero Nativi) che, nati a <strong>Pistoia</strong> hanno svolto la<br />

maggior parte della loro vita artistica fuori dalla città cui, peraltro, rimanevano<br />

fortemente legati.<br />

Marino Marini, dopo il periodo della sua formazione a <strong>Pistoia</strong> e a Firenze,<br />

allievo di Trentacoste e di Galileo Chini, dopo il tradizionale viaggio a Parigi,<br />

insegnante presso la Scuola d’Arte di Monza dal ’29 al ’40; nel Canton Ticino<br />

durante la seconda guerra mondiale, a Milano definitivamente dopo la guerra,<br />

non ha mai seguito, nella scultura, nella pittura e nella grafica, le linee del<br />

Novecento italiano, volgendo invece, per la scultura, verso una ricerca sull’arte<br />

egizia e sull’arte romana, in termini di una formatività di carattere internazionale.<br />

Si pensi alle sue esuberanti Pomone, ai suoi ritratti, ispirati, pur in<br />

termini di assoluta autonomia, al Rinascimento italiano. E, con la lunga, straordinaria<br />

serie di cavaliere e cavallo, spesso uniti in una sola, drammatica, dinamica<br />

creatura (Miracolo, 1943) come schiacciati dalla catastrofe della guerra,<br />

ma scattanti in una ribellione drammatica. Anche la sua pittura e la sua grafica<br />

raggiungevano una tale forza da rendere il suo nome noto in tutto il mondo.<br />

Anche Agenore Fabbri, che iniziava la sua fatica di scultore a <strong>Pistoia</strong>, usando<br />

il mezzo ceramico, passava, nel ’32, ad Albisola, sede privilegiata per la<br />

ceramica dove gli artisti, tra i più conosciuti, si incontravano, da Jorn, Appel,<br />

Corneille (del gruppo Cobra), a Baj, Scanavino, Matta, Pinot Gallizio... per<br />

passare, dal ’45, a Milano. Da un naturalismo legato al Novecento italiano,<br />

passava alla realizzazione di una scultura definita da Dieter Roter (1997), di<br />

una “tragicità allucinata”, trasmettendo anche nella pittura, che iniziava nel<br />

1982, una accesa, forte espressività, con una gestualità quasi convulsa, in chiave<br />

con l’arte europea del momento.<br />

Mario Nigro si trasferiva, da <strong>Pistoia</strong>, prima a Livorno e, dal ’57, a Milano<br />

dove aderiva al MAC (Movimento Arte Concreta) e organizzava il suo lavoro<br />

su un “colore-segno” che svolgeva secondo una strutturazione ritmica e dinamica,<br />

attraverso incastri di elementi geometrici, svolti secondo variazioni e<br />

imbrigliamenti di direzione, provocanti sensazioni di ansia, di angoscia, con<br />

aperture verso una possibile speranza. Esponeva nel ’68 alla Biennale le Stagioni,<br />

composto di quattro elementi componibili per 12 metri lineari; è del ’72<br />

Lettere di un nuovo amore, a quella del ’73 Sogno di un vero amore, un lavoro di<br />

grande intensità e di forte energia dinamica, per arrivare ad un linguaggio più<br />

lirico, più disteso, verso una sua interpretazione di “spazio totale” che “visualizza”<br />

scriveva Germano Celant “il compenetrarsi di diversi gradi di realtà e<br />

di dimensioni, riferendosi di contempo alla scienza relativistica e alla tragicità<br />

del divenire...”.<br />

Gualtiero Nativi, a Firenze col gruppo di Arte d’oggi (con Berti, Brunetti,<br />

Monnini, Nuti), coi quali firmava il Manifesto dell’Astrattismo classico. Il suo<br />

lavoro, impostato sul razionalismo, ritrova, attraverso la dinamica espressiva<br />

della forma, in scansioni cristalline, espresse con colori chiari, luminosi, il significato<br />

di una forte cultura umanistica.<br />

Seguono esempi di quella che è stata definita “la generazione di mezzo” degli<br />

artisti pistoiesi, quelli nati dopo la prima guerra mondiale, e che hanno<br />

iniziato il loro lavoro dopo la seconda (Sigfrido Bartolini, M. Lucarelli, M. Iacomelli,<br />

A. Frosini, V. Gelli, R. Gordigiani, L. Landini, Luigi Bruno Bartolini,<br />

Francesco Melani, J. Vivarelli, Alfredo Fabbri).<br />

Nasceva intanto a <strong>Pistoia</strong> e a Prato un collezionismo nuovo, aperto, illuminato, rivolto<br />

anche al contemporaneo. Basterà citare, come esempio trainante, il lavoro e l’apporto<br />

culturale portato avanti, prima a Prato, poi a Celle, da Giuliano Gori che vi invitava<br />

a realizzare molte importanti opere ambientali, i più grandi artisti internazionali, da<br />

Morris a Lewitt, a Parmiggiani, Buren, Nagasawa, Karavan fino a Kiefer...<br />

Il clima artistico della città è fortemente cambiato. <strong>Pistoia</strong> non rappresenta più<br />

una nicchia preziosa, chiusa in un suo mondo privato, seppur consapevole e<br />

permeabile nei confronti della situazione internazionale. Ora le contraddizioni<br />

si fanno evidenti, suscitano impennate e prese di posizione diverse; soprattutto<br />

nascono forti contrasti tra chi resta fedele al figurativo e chi si apre, progressivamente,<br />

verso le nuove avanguardie. Da un lato, dunque, tra gli artisti presenti<br />

in questa collezione, Sigfrido Bartolini, cólto e agguerrito critico e polemista,<br />

oltre che pittore e incisore, che resta una figura di grande peso nel panorama<br />

pistoiese per la sua pittura incisiva, che non indugia su nessuna debolezza e su<br />

nessun senso di ‘nostalgia’, ma punta su una visione chiara, intensa, del reale<br />

(si veda, ad esempio, Casa ruinata, 1975 in Collezione Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong><br />

e Pescia, o Rudere, 1984, esposto in questa occasione), che ha continuato il<br />

suo lavoro fino agli anni ’80, aprendo la strada ad un linguaggio rigorosamente e<br />

duramente realista. Notissime le sue 309 xilografie delle Avventure di Pinocchio<br />

e le sue 14 vetrate della chiesa dell’Immacolata a <strong>Pistoia</strong>. E forse è anche più<br />

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noto per le sue polemiche su giornali e riviste, da “Totalità” a “La Voce”, “Lacerba”,<br />

“Il Borghese”, fino a “Il Giornale” e “Libero”. E inoltre per le monografie<br />

di molti artisti, per i disegni e le xilografie con cui illustrava libri d’arte<br />

italiani e stranieri. E infine per un suo libro, La grande impostura, che raccoglie<br />

le sue accese critiche contro molti artisti del XX <strong>secolo</strong>, che, troppo cólto per<br />

non capirne il peso culturale e artistico, legge però, soprattutto, come schiavi<br />

del mercato. Irriducibilmente legato alla figurazione Marcello Lucarelli,<br />

teso a coniugare l’amore per la sua terra e per il morbido paesaggio pistoiese<br />

con la passione per il paesaggio affocato, riarso, duro della Sardegna, dove<br />

insegnava dal ’50 al ’60. Testardo e irriducibile ad una nuova interpretazione<br />

Mirando Iacacomelli, ironico e pungente, che si riporta all’ espressionismo<br />

di Ernst, Ensor, e rifiuta ostinatamente ogni riferimento a nuove linee di ricerca,<br />

che del resto nella sua pittura si presenta, in certo modo, anche contro<br />

la sua volontà.<br />

Figura importante nel panorama pistoiese di questo periodo, Jorio Vivarelli,<br />

scultore, che nel suo lungo percorso, ha portato il nome della sua città oltre Oceano,<br />

realizzando grandi opere, oltre che in Italia, soprattutto negli Stati <strong>Un</strong>iti,<br />

dove, introdotto dall’architetto americano Stonorov, eseguiva, tra l’altro, la nota<br />

fontana Ragazza toscane, realizzata per l’Hotel Plaza a Philadelphia nel 1966.<br />

Dall’altra parte è interessante anche il processo operativo di Aldo Frosini, che,<br />

attraverso una progressiva semplificazione, coniuga, per così dire, il figurativo<br />

all’astratto a mezzo del colore e della geometria fino ad arrivare a un cólto e<br />

raffinato monocromo.<br />

In Lando Landini, che si muove da un’iniziale adesione al realismo sociale,<br />

si avverte la necessità intellettuale di un percorso di alternanza tra figurazione<br />

e non figurazione che, lontana dalla lusinga della moda, rivela un’esigenza di<br />

trasfigurazione lirica della realtà fino a giungere a visioni di “pura luce”.<br />

Di Valerio Gelli così parla l’amico Giovanni Michelucci in una lettera del 1988:<br />

“[...] alcune tue sculture, generalmente di piccola dimensione (anche questo è<br />

significativo) nelle quali ho scorto una penetrazione sottile, paziente, commossa<br />

del soggetto rappresentato. La tua “Erminia” ad esempio, è il risultato di un<br />

colloquio che non ha confini per penetrare negli spazi profondi della natura.”<br />

Fernando Melani è il primo artista che, a partire dagli anni Cinquanta, ha<br />

spostato il rapporto arte-città, portando direttamente l’apertura del suo lavoro<br />

ad un livello di dilatazione internazionale, facendolo scattare immediatamente<br />

oltre la storia, anche oltre la storia dell’arte del suo momento con una sorta<br />

di felice preveggenza di temi, comportamenti, linee e movimenti “a-venire”<br />

nell’arte: a partire dal fatto che i suoi referenti sono stati la scienza e la filosofia<br />

contemporanee, argomento col quale gli artisti, in generale, hanno iniziato a<br />

confrontarsi, assieme ad altre discipline, dagli anni Settanta, quando si è verificata<br />

quella necessità dell’arte di misurarsi, attraverso slittamenti e trasgressioni,<br />

con le diverse componenti della cultura attuale. Di seguito, nel suo continuo<br />

riferimento alla forza, all’energia insita nella materia, ha preannunciato uno dei<br />

più forti contenuti dell’Arte Povera italiana e, per certi aspetti, il “progetto” di<br />

Beuys. Infine ha anche presentito, a suo modo, l’insorgere del Concettualismo.<br />

Perché i suoi lavori, oggettuali e pittorici, che spesso si danno non tanto come<br />

“opere d’arte”, anche se raggiungono, talora, una raffinatezza, una essenzialità<br />

e una poesia sottile e straordinaria (basterebbe pensare alla cartella Arcobaleno,<br />

una raccolta di piccoli e piccolissimi lavori dell’artista – in collezione della Cassa<br />

di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia – che Cristina Tuci mi ha mostrato durante la<br />

giornata che ho passato a “toccare” con cura e trepidazione le opere da presentare<br />

in mostra), si danno, ripeto, non tanto come “opere d’arte”, ma come<br />

espressione di idee, come le “proposizioni”nell’arte concettuale, ma si concedono<br />

anche grande fantasia e poesia.<br />

Con Remo Gordigiani, che ha saputo assimilare tutto il portato di una ricca storia<br />

artistica, che ha corredato rapportandosi alle vicende artistiche contemporanee<br />

internazionali e che, per una disgraziata infezione da pigmenti alla pelle,<br />

ha dovuto rinunciare, dalla metà degli anni ’60, alla pittura, è pur riuscito, dopo<br />

notevoli esperienze con l’acquerello e col disegno, a ritrovare un “suo” particolarissimo<br />

modo di continuare a “fare pittura”, una passione che non l’ha mai abbandonato,<br />

e che, infine, è anche riuscita, malgrado la difficile condizione fisica,<br />

a non farlo mai cadere in depressione. È stato l’uso del collage (un uso del tutto<br />

personale), che ha portato avanti per tutta la vita, lasciando un corpus di opere<br />

(161) di una straordinaria energia e di una felicità di colore e di espressività che<br />

non ha molte possibilità di confronti. Col gruppo Barni, Buscioni, Ruffi – inizialmente<br />

comprendente anche Natalini – che, pur portando avanti ciascuno un<br />

lavoro completamente autonomo, sembra aver riproposto quel carattere amichevole<br />

e collaborativo degli artisti pistoiesi operanti tra le due guerre (anche se il<br />

nome attribuito al gruppo Scuola di <strong>Pistoia</strong> si deve a Cesare Vivaldi), siamo in<br />

pieno rapporto con la cultura internazionale contemporanea, dalla metà degli<br />

anni Cinquanta incentrata sulla Pop Art americana che essi sono riusciti a coniugare<br />

rapportandola alla situazione locale e italiana.<br />

Roberto Barni, pittore, ottimo disegnatore, scultore, si misurava con una sua<br />

idea, tutta europea, di una Pop quotidiana (catene, corde, tubi Innocenti, bastoncini<br />

di Shangai...). Ma subito dopo iniziava un suo ripercorrimento della<br />

storia della pittura italiana, incentrato sulla storia degli anni Trenta, da De Chirico<br />

a Savinio, che recuperava anche col suo disegno degli anni ’80, una matrice<br />

metafisica. La sue sculture si incentrano sull’idea di un uomo contemporaneo<br />

chiuso in una sua astratta e assente distanza dalla vita del mondo.<br />

Umberto Buscioni, fondamentalmente pittore e straordinario colorista, iniziava<br />

18 19


con una sua Pop casalinga (cravatte, camicie, tende, bandiere, tutte coloratissime,<br />

dapprima dipinte à plat, poi come lievitanti, diventate panneggi pesanti,<br />

ricchi di pieghe solcate di ombre, ispirate alle vesti dei santi nelle grandi pale<br />

d’altare seicentesche, in lavori dapprima solo allusivi ai corpi cui si riferiscono, e<br />

che poi compaiono in visioni quasi surreali di santi, di angeli sospesi in un volo<br />

pesante e concretamente reale.<br />

Gianni Ruffi ha elaborato un suo concetto di Pop-ular Art italiana, anzi toscana<br />

(e contadina), una Pop che non parla della vita quotidiana di una città di oggi,<br />

ma incarna, esaltandone le dimensioni, l’idea di quella”cultura materiale”che<br />

il Superstudio, il gruppo di architetti ‘radical’ fiorentini, di cui Adolfo Natalini<br />

è stato il promotore, ha sempre studiato. Ruffi ha trasformato tagliole, cestole,<br />

gabbie, fionde, onde del mare solidificate e basculanti, in simboli ironici, talvolta<br />

anche crudeli, di un mondo millenario. E vi ha espresso una sua ironia<br />

sottile, il suo continuo gioco linguistico, in un concettualismo legato anche,<br />

in qualche modo, e passando da Duchamp, allo “strabismo” di Boetti e alla<br />

leggera poeticità di Finlay.<br />

Adolfo Natalini che aderiva al gruppo di <strong>Pistoia</strong> mentre, a Firenze, seguiva i corsi<br />

di architettura e nel 1966 promuoveva, con altri, la Superarchitettura da cui sarebbero<br />

nati i gruppi di Architettura radicale (Superstudio, Archizoom, Ufo, 999).<br />

Nell’ambito del gruppo pistoiese realizzava grandi quadri di nuotatori, di giovani,<br />

di grandi personaggi (Mao Zedong, Louis Armstrong), secondo una sua libera<br />

interpretazione della Pop Art americana, lavori di notevole vitalità e interesse.<br />

Chiudiamo il XX <strong>secolo</strong> inserendo, come esempi degni di nota, i nomi di tre artisti<br />

fra i più interessanti del periodo, Franco Bovani che, formatosi sulla scorta<br />

della ‘Pop’ ironica della Scuola di <strong>Pistoia</strong>, matura un linguaggio personale in<br />

cui l’aspetto materico diviene centrale; Massimo Biagi, col suo “graficismo”, le<br />

sue sculture estroflesse, gli “eccitoplastici”, la sua incessante ricerca e Andrea<br />

Dami, noto per le grandi realizzazioni, le “sculture sonanti”, la Città-sonante,<br />

la “pitto-architettura”. Siamo riusciti anche, allo scopo di completare, seppure<br />

in maniera ridotta, ma in ogni caso identificativa dell’arte del Novecento e dei<br />

primi del nuovo <strong>secolo</strong> a <strong>Pistoia</strong>, e anche qui a titolo più esemplificativo che<br />

di scelta responsabile, i nomi di due artisti giovanissimi, Federico Gori e Zoè<br />

Gruni, che esprimono una loro interpretazione del “fare arte”, perfettamente<br />

in chiave con le più vivaci manifestazioni artistiche internazionali contemporanee,<br />

con un proprio linguaggio personale e, vorrei dire, anche profondo.<br />

Federico Gori impegnato in un percorso di continuo approfondimento del<br />

rapporto col suo specchio continuo di riferimento, il bosco, i suoi segni, in cui<br />

trasferisce la memoria, il significato stesso del suo “fare arte”.<br />

Zoè Gruni imposta il suo lavoro, al femminile, su una linea oggettuale. La sua<br />

scelta consiste nel raccogliere balle usate nei lunghi trasporti transoceanici,<br />

che parlano di mari e paesi stranieri, di popoli e mondi lontani. Con le sue balle<br />

di juta realizza copricapi-copricorpi che indossa nelle sue accese, polemiche<br />

e aggressive performance.<br />

Questo avvicinamento alla situazione artistica attuale a <strong>Pistoia</strong>, mi ha mostrato<br />

un panorama, ripeto, legato a quello nazionale e internazionale, che pure non<br />

dimentica quella che è stata una delle qualità peculiari degli artisti pistoiesi,<br />

il rapporto e la collaborazione, la discussione e il confronto di idee, che ormai<br />

sono quasi dimenticati altrove...<br />

Fuori da questa corsa nella storia artistica di <strong>Pistoia</strong>, in mostra un’opera eseguita<br />

attorno al ’29 di Giacomo Balla, che può porsi anche come immagine<br />

simbolo di tutta una linea dell’arte del ‘900, non tanto per il significato del<br />

lavoro, pur notevole per la limpida sintetizzazione geometrica, che in qualche<br />

modo si riporta alle Compenetrazioni iridescenti, quanto per aver aperto, con le<br />

sue ricerche sulla scomposizione del colore, che partono da quella dello spettro<br />

luminoso e dalle sperimentazioni di Marey e Muybridge sul dinamismo,<br />

quanto per aver aperto la strada a quella che è stata definita “la linea analitica”<br />

che passerà dall’“astrattismo geometrico” per un verso, dall’“astrazione lirica”<br />

dall’altro, che dal Quadro bianco (1917) di Malevič, al lavoro di Albers, di<br />

Noland, di Rothko, al nero immateriale di Reinhardt, arriva fino alla luminosa<br />

tessitura di Dorazio e oltre...<br />

Nella seconda parte di questo volume presentiamo anche il grande lavoro<br />

portato avanti in questi anni dalla Fondazione sul territorio, dove promuove e<br />

finanzia installazioni permanenti straordinarie, di grandi e grandissimi artisti<br />

internazionali. Le opere saranno presenti in mostra grazie a un bel video di<br />

Tayu Vlietstra.<br />

Ringrazio per la disponibilità, la cordialità, la<br />

collaborazione continua Elena Ciompi della<br />

Fondazione; Cristina Tuci della Cassa di Risparmio<br />

di <strong>Pistoia</strong> e Pescia per l’aiuto, l’amicizia,<br />

l’affabilità; Cecilia Barbieri per essermi<br />

stata sempre vicina con affetto; Annamaria Iacuzzi<br />

per aver seguito con passione, attenzione<br />

e impegno l’editing del volume e l’allestimento<br />

della mostra. <strong>Un</strong> grazie particolare a Roberto<br />

Boschi per averci prestato alcuni importanti<br />

cataloghi.<br />

Cenni bibliografici<br />

A. Parronchi, Artisti toscani del primo Novecento,<br />

Firenze 1958.<br />

M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano<br />

1967.<br />

D. Roter, Agenore Fabbri, cat. acquisizioni, <strong>Pistoia</strong><br />

1997.<br />

Motivi e figure nell’arte toscana del XX <strong>secolo</strong>, a cura<br />

di C. Sisi, Banca Toscana, Firenze 2000.<br />

P. F. e A. Iacuzzi, Corrado Zanzotto e il dialogo<br />

dietro il Paesaggio, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 2004.<br />

E. Vittorini in A. Iacuzzi, Alberto Caligiani, in<br />

Arte in Maremma nella prima metà del Novento, a<br />

cura di E. Crispolti, A, Mazzanti, L. Quattrocchi,<br />

Cinisello Balsamo 2005-2006.<br />

20 21


LE PRIME AVANGUARDIE<br />

Andrea Lippi<br />

Mario Nannini<br />

23


Andrea Lippi<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1888-1916<br />

“… Uomo eterno Mistero Dolore profondo / donde vieni? Qual’è<br />

la tua mèta? / Finisci morendo, oppure cometa / che torna rivivi nel<br />

mondo? / O vecchio bambino che vai senza mamma / in seno alla<br />

gelida morte, che gridi? / Contento a la legge divina / contempla e<br />

sorridi”.<br />

Sono dei versi, forse tra gli ultimi, di Andrea Lippi, uno degli artisti più discussi<br />

del primo Novecento a <strong>Pistoia</strong>. Vissuto, fin dall’infanzia, a contatto con gli architetti,<br />

gli scultori del tempo che frequentavano la Fonderia Artistica paterna (da<br />

Coppedè a Calandra, Bistolfi, Rubino, Romanelli), in un periodo dominato dal<br />

simbolismo di un Liberty tardo, fantasioso, coinvolto e coinvolgente come lo<br />

snodarsi della sua linea che da sensuale volgeva (Bistolfi ne è il simbolo) verso un<br />

tragico, funereo, disperato sfaldarsi, anche perché molto Liberty si sfiniva, molto<br />

spesso, in lugubri linguaggi cimiteriali, Andrea Lippi, sotto la guida del padre, si<br />

impadroniva con grande velocità del mestiere: eseguiva, ancora bambino, piccoli<br />

gruppi scultorei e bassorilievi, per darsi poi a copie di sculture e di decorazioni<br />

antiche. Dal 1906 studiava all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove i maestri<br />

erano Rivalta, De Carolis… Nutrito di grande passione anche per la letteratura e<br />

per la poesia, passione che anche De Carolis gli trasmetteva (da Baudelaire a Pascoli,<br />

da Poe a Dante), era già molto attento ai movimenti artistici fuori d’Italia,<br />

e particolarmente agli esiti dell’Espressionismo tedesco.<br />

La sua prima giovinezza, come scrive Rosanna Morozzi nel suo bel saggio Gli<br />

anni delle avanguardie “coincide con la grande stagione delle riviste, non solo<br />

come le fiorentine “Il Leonardo” e “La Voce”, di cui esistono interessanti appendici<br />

anche in provincia”. Lippi segue “Athena”, diretta dallo scrittore e critico<br />

Renato Fondi, che disapproverà fortemente il “Manifesto e Fondazione del<br />

Futurismo” sul secondo numero di “Athena”. Nel ’14 uscirà “La Tempra”, che<br />

porterà Costetti a <strong>Pistoia</strong>. Vi scriveranno Campana, Prezzolini, vi si presenteranno<br />

le xilografie di Lega e di Michelucci, tra le altre. Durante gli studi a Firenze<br />

Lippi si avvicinava a due giovani scultori, Alfeo Faggi e Luigi Luparini, coi quali<br />

condivideva la passione per il fantastico (con Faggi), la tendenza alla stilizzazione<br />

della struttura formale (con Luparini), portando all’esasperazione il suo simbolismo,<br />

di carattere fortemente espressionista. Da allora la sua linea si fa via via più<br />

convulsa, le figure si affollano, si contorcono, l’una sull’altra nei suoi lavori sempre<br />

più esasperati. La presenza a <strong>Pistoia</strong>, nel 1911, di Bistolfi, incoraggia la sua ostinata<br />

passione. Stava allora lavorando a La Chimera che opprime l’uomo, ispirata dal<br />

poemetto di Baudelaire Chacun sa Chimère, già impostata in un blocco unico, che<br />

vede il mostro abbarbicato addosso all’uomo, su cui stende, ad avvolgerlo, le sue<br />

ali (1913). Non siamo ancora alle sue composizioni più complesse, dove le figure<br />

umane, rese scheletriche e quasi deformi (ne La Chimera il corpo dell’uomo è ancora<br />

legato ad una formatività classica) si arrampicano l’una addosso all’altra, in un<br />

tentativo angoscioso di salita, in spirali improbabili, come in Campane, 1912-‘13,<br />

una composizione “torreggiante” (Morozzi), dove il re dei vampiri “suonando il<br />

rintocco rotola e rotola senza fine il canto lugubre delle campane” (Poe), o come<br />

Scioperanti, 1913, un lavoro di una drammaticità esasperata, che, peraltro, fa emergere,<br />

in alto, una testa che si ispira alla Pietà Rondanini di Michelangelo: è l’intero<br />

blocco che si curva verso l’alto, quasi immedesimandosi nella forma allusiva di<br />

una donna piegata dal dolore. Anche i disegni preparatori delle sculture (Scioperanti),<br />

si svolgono per tratti convulsi, nervosi, quasi gestuali. Del ’13 è anche La<br />

Deposizione, che sembra anche voler tradurre in violenza angosciosa la spirale<br />

allucinata della Deposizione del Pontormo in Santa Felicita a Firenze. Alla morte<br />

del padre (1908) Lippi si vede costretto ad assumersi la direzione della fonderia.<br />

Ma continuerà “a portare avanti ostinatamente, nel disegno e nella scultura,<br />

la rappresentazione di un universo popolato da creature fantastiche e da esseri<br />

deformi”. Dal ’14 abbandonerà sempre più il suo mondo di fantasmi per adire<br />

ad un sintetismo formale ispirato all’arte primitiva (Testa del fratello Ulisse, 1914),<br />

ammirato a Firenze da Maraini e Stanghellini, criticato duramente da Calandra.<br />

Lippi esporrà alla Biennale di Venezia del ’14 I Titani e poco dopo realizzerà<br />

uno dei suoi lavori più importanti, l’altorilievo La Guerra (ispirato all’Inferno di<br />

Dante), un blocco diviso in due grandi riquadri, La Torre dei Venti e L’Acheronte,<br />

sovrapposti ed emergenti in vortici dinamici, che creano un rapporto di luce e<br />

ombra di una forza sconvolgente. La sua ultima opera, prima della sua morte<br />

precoce, è il rilievo Levane (1915), creato per il concorso Curlandese di Bologna;<br />

qui la forza appassionata della sua violenza sembra placarsi in una dolorosa rassegnazione.<br />

È alle soglie la guerra. Lippi sta morendo.<br />

“Bisogna ritrovarsi a tutto prima di morire<br />

dice la zia Teresa ma però è un crepuscolo meraviglioso<br />

e la carretta rossa spicca contro la terra<br />

bigia ma la palla del letto mi para le foglie verdi,<br />

ma non importa guardo il cielo dove pigolano gli<br />

uccelli attraverso le nuvole e una stella bianca apparisce<br />

all’improvviso... Mentre scrivo mi diverto<br />

a guardare le nuvole che cambiano sempre ecco<br />

Sordello che abbraccia Virgilio piano piano Dante<br />

svanisce Virgilio doventa un vipistrello, ecco il<br />

vipistrello diventa un coro d’angioli e il terzo cielo,<br />

il cielo di Venere Dio meraviglioso il cielo di<br />

Venere diventa un leone…” (in R. Morozzi, Gli<br />

anni delle avanguardie).<br />

Cenni bibliografici<br />

A. Parronchi, Artisti toscani del primo Novecento,<br />

Firenze 1958, pp. 58-91 e pp. 291-300.<br />

A. Morozzi, Andrea Lippi, in Scultura italiana del<br />

Novecento, Firenze 1980.<br />

A. Parronchi, Due artisti innovatori nella <strong>Pistoia</strong><br />

del primo Novecento, in La città e gli artisti. <strong>Pistoia</strong><br />

tra avanguardia e Novecento, cat. mostra a cura<br />

di C. Mazzi e C. Sisi, <strong>Pistoia</strong> 1980.<br />

R. Morozzi, Andrea Lippi. La melodia infinita<br />

della linea, in “Tremisse pistoiese”, XIX, 1,<br />

1994, pp. 40-48.<br />

Il linguaggio della passione in Lorenzo Viani e<br />

Andrea Lippi. La lezione di Giovanni Pisano, altre<br />

fonti, letture e scritti, a cura di A. Serafini, Lucca<br />

1995.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

R. Morozzi, Gli anni delle avanguardie. Andrea Lippi<br />

e Mario Nannini, in Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>,<br />

<strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

24<br />

25


Andrea Lippi<br />

disegno preparatorio per Guerra (1914)<br />

matita nera, penna e inchiostro bruno su carta pergamenata<br />

parzialmente incollato, a sua volta, alla c. 1 della cartella<br />

di disegni di A. Lippi, cm 24,5 x 18,5<br />

Il disegno presenta sulla destra una figura gravata sotto un peso<br />

che quasi la schiaccia /ancora un ricordo della Chimera che opprime<br />

l’uomo?, ai piedi e in mezzo tre figure di cadaveri nudi; in alto un<br />

angelo della morte indica un fine (di salvezza?). Anche qui una<br />

grafia nervosa e convulsa ad esprimere una ricerca appassionata,<br />

inquieta e travolgente.<br />

26<br />

27


Andrea Lippi<br />

Figura maschile nuda, che incede portando sulle spalle un corpo nudo<br />

inerte, disegno preparatorio per il gesso Scioperanti (1913)<br />

matita nera, penna e inchiostro bruno su carta pergamenata,<br />

parzialmente incollato, a sua volta, alla c. 4 della cartella di<br />

disegni di Andrea Lippi, cm 27,5 x 19,8<br />

<strong>Un</strong> disegno di grande intensità espressiva che mostra la stessa,<br />

convulsa drammaticità legata, da un lato, al tardo, cupo Liberty<br />

italiano, reso più intenso e coinvolgente da una componente<br />

tardo-espressionista che Lippi ha sempre perseguito. Il segno<br />

mosso, sottile, talvolta spezzato, evidenzia i diversi livelli e i<br />

rilievi del corpo secondo gli spessori di un’opera tridimensionale,<br />

essendo, comunque, il disegno preparatorio di uno scultore.<br />

C’è una precisa descrizione dell’anatomia dei corpi fortemente e<br />

pesantemente intrecciati.<br />

28<br />

29


Andrea Lippi<br />

Scioperanti, 1913<br />

gesso, cm 150 x 65<br />

Ho già scritto che l’andamento di questa scultura, nella sua<br />

complessa unità, sembra, prima che ci avviciniamo a coglierne<br />

i molti, drammatici e intricati particolari, quello di una morbida<br />

figura femminile piegata verso destra, secondo i modi di un<br />

tardo Liberty italiano alla Bistolfi. È quando ci avviciniamo che<br />

possiamo coglierne il diverso contenuto corale, l’arrampicamento<br />

faticoso e dinamico, il groviglio dei personaggi che salgono<br />

in un avvolgimento vertiginoso verso l’alto, che appare quasi<br />

irraggiungibile. Prima del vertice, al di sopra della mano<br />

nervosamente aggrappata di una donna, una testa, più grande<br />

delle altre, sembra ispirarsi, pur nella sua abbreviata definizione,<br />

alla testa incappucciata della Pietà Rondanini di Michelangelo.<br />

Cosa che non meraviglia. Lippi adorava Michelangelo, che<br />

giudicava “il più grande artista di tutti i tempi”. Ma tutta<br />

l’opera è un addensarsi di personaggi inquietanti, tormentati,<br />

uniti in una sorta di cerchio della morte, immersi nel buio dal<br />

quale emergono, nell’ alternarsi di luce e di ombra, per alcuni<br />

particolari dei corpi convulsi. Suggestioni di un espressionismo<br />

esasperato si uniscono ad allusioni secessioniste che fanno di<br />

questo lavoro (in realtà un grande bozzetto lasciato non finito<br />

nella parte posteriore), una sorta di modello di un sentire<br />

violentemente drammatico.<br />

30<br />

31


Mario Nannini<br />

Buriano, Quarrata 1895 – <strong>Pistoia</strong> 1918<br />

Nel 1905, alla morte del padre, la famiglia (di proprietari terrieri), si trasferisce<br />

a <strong>Pistoia</strong> mentre, nel 1915, Nannini conseguiva la licenza in chimica all’Istituto<br />

Buzzi di Prato. Ostacolato dalla madre nella sua vocazione artistica, lasciava<br />

allora <strong>Pistoia</strong> per tornare a Buriano, presso la zia Ester, della quale egli realizzerà<br />

alcuni notevolissimi ritratti.<br />

Lavorerà, come la maggior parte degli artisti pistoiesi, nella campagna, accanto<br />

all’amico Caligiani. Iniziava a disegnare e a dipingere a quattordici anni.<br />

Dipingerà, inizialmente, volti di vecchi contadini, consapevole che “su quei<br />

corpi provati all’eccesso si innestano i germi rivoluzionari della poesia. Poesia<br />

uguale verità, e dunque anche per lui protesta sociale, non arte sociale”. (R.<br />

Morozzi, Gli anni delle avanguardie).<br />

I primi lavori di Nannini si ispirano a quel socialismo umanitario che stava<br />

sorgendo anche nella provincia toscana. Ma Arrigo Levasti, su “La Tempra”<br />

critica i suoi dipinti (Suono dell’organo, una xilografia dura, che si ispira alla grafica<br />

tedesca antica; La sera dei morti, 1915, commosso omaggio al dolore degli<br />

umili; Primo ritratto della zia Ester, ’13-’14, nel quale la donna, dal volto intenso,<br />

vestita di nero, seduta su una poltrona dai colori chiari che fa da sfondo al<br />

quadro, tiene una mano sopra un libro di preghiere). Il giudizio di Levasti può<br />

essere una delle cause per le quali, dal ’15, prima ancora di esser sollecitato<br />

anche dai racconti degli artisti che avevano fatto un viaggio a Parigi, elaborava<br />

i suoi primi tentativi di scomposizione e compenetrazione dei piani di cui<br />

scriveva a Primo Conti. Significa, come suggerisce Rosanna Morozzi, che egli<br />

aveva meditato sulla tecnica divisionista prefuturista di Balla e di Boccioni.<br />

Già nel Secondo Ritratto della zia Ester la tecnica pittorica, la luce contro la<br />

quale si staglia la figura vestita di nero si impostano secondo una nuova visione.<br />

Con la Mostra d’Arte alla Reale Accademia degli Armonici (1915) oltre a<br />

Mario Nannini, anche Innocenti, Michelucci, Lega si presentavano con lavori<br />

che li facevano segnalare dalla stampa locale come “ala sinistra, anzi estrema<br />

sinistra”. “Il Popolo Pistoiese” ne riconosceva, peraltro, “lo sforzo di rinnovamento”.<br />

Innocenti, intanto, veniva addirittura invitato a pubblicare sul giornale<br />

“Perla” le sue “parole in libertà”.<br />

I primi lavori futuristi di Nannini hanno ancora molti riferimenti naturalistici<br />

(Strada di campagna, ’15, che Rosanna Morozzi definisce “un capolavoro cubofuturista<br />

capace di reggere il confronto con un paesaggio di Braque”; Paesaggio,<br />

’16), anche se i riferimenti sono ancora Conti e Soffici. Scriveva allora<br />

Nannini a Lega: “Non confondere [...] Soffici ha raggiunto la sintesi per la<br />

forma ma anche pel colore, mentre io sono sempre sulla verità – colore delle<br />

viti – degli ulivi – dei monti – delle case –, e il paesaggio è il solito di quello<br />

che facevo nel ’14 (ricordate ?) soliti grigi e solita tavolozza”.<br />

Del ’16 è anche il lavoro Natura morta con bottiglia (1916?), presente in questa<br />

collezione e che Rosanna Morozzi avvicina ai lavori della russa Alexandra<br />

Exter. Vi appare la lettera tipografica che Soffici definisce “non più muto segno<br />

di convenzione, ma forma viva tra forme vive, la lettera può far corpo con<br />

la materia della rappresentazione”. Nannini continuerà coi lavori del ’17 e del<br />

’18 ad approfondire e chiarire la sua ‘sintassi’ pittorica con opere di grande<br />

abilità compositiva e di grande maturità, sia nell’uso del colore sia nella maestria<br />

con la quale riesce a inserire nella composizione, come elementi strutturali,<br />

ritagli di giornale, strisce di stampa...<br />

Nel Quarto ritratto della zia Ester (’17) Nannini<br />

raggiunge, nella sicurezza compositiva<br />

e nella dinamica del quadro, una padronanza<br />

che niente ha da invidiare a molte esperienze<br />

francesi. Con Luce+aereo+notte (’17) egli arriva<br />

a una intensità, anche emotiva, di grandissimo<br />

significato.<br />

Nel ’18 Nannini scriveva a Conti di voler costituire<br />

un gruppo futurista a <strong>Pistoia</strong>. Intendeva<br />

con Conti, Venna, Notte, Lega. Ma questi artisti,<br />

che nel frattempo tentavano loro di formare<br />

questo gruppo futurista senza riuscirvi,<br />

lo avevano escluso. E certamente la sua qualità<br />

va ben oltre i limiti del Futurismo in Toscana.<br />

“Solo la sua morte, nel ’18, impedì a <strong>Pistoia</strong> di<br />

diventare un luogo effettivo dell’avanguardia”<br />

(R. Morozzi).<br />

Giulio Innocenti raccoglieva allora i dipinti e i<br />

disegni di quel “figlio ribelle” che la famiglia,<br />

la madre per prima, rifiutava, assieme al suo<br />

nome.<br />

Cenni bibliografici<br />

Alessandro Parrochi, Il futurista in incognito<br />

Mario Nannini, in “Paragone”, 1957, VIII, 85,<br />

pp. 87-99.<br />

A. Parrochi, Artisti toscani del primo Novecento,<br />

Firenze 1958.<br />

S. Bartolini, Mario Nannini. Dipinti e disegni<br />

nella raccolta della Casa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e<br />

Pescia, <strong>Pistoia</strong> 1984.<br />

R. Morozzi, Mario Nannini. <strong>Un</strong> futurista a<br />

<strong>Pistoia</strong> (1895-1918), cat. mostra <strong>Pistoia</strong> 1995.<br />

M. Pratesi, A. Scappini, Il disegno in Toscana<br />

1900-1945, cat. mostra Poggio a Caiano,<br />

Firenze-Siena 1998.<br />

Mario Nannini nel laboratorio dell’opera. Disegni<br />

e dipinti 1913-1918, cat. mostra a cura di A.<br />

Iacuzzi, Centro di Documentazione sull’Arte<br />

moderna e contemporanea pistoiese, 2007<br />

<strong>Pistoia</strong>.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, 2007.<br />

R. Morozzi, Gli anni delle avanguardie. Andrea Lippi<br />

e Mario Nannini, in Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>,<br />

<strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

Mario Nannini (1895-1918), cat. mostra a cura<br />

di R. Morozzi, Galleria Enrico Frascione,<br />

Firenze 2009.<br />

32<br />

33


Mario Nannini<br />

Natura morta con bottiglia, 1916<br />

tecnica mista (olio e collage) su cartone, cm 43,5 x 25,5<br />

Già costruito con sicura abilità tecnica, questo lavoro appartiene<br />

al primo periodo dell’esperienza futurista di Nannini, che avrà,<br />

purtroppo, breve durata perché, come si è visto, troncata da una<br />

morte prematura; ma già qui presenta una maturità che non<br />

molti artisti, anche con maggior tempo a disposizione, hanno<br />

raggiunto. Coerente e precisa la scomposizione dei piani, trattati<br />

per passaggi di colore ancora tonali, mentre la bottiglia è trattata<br />

à plat. Perfetta la disposizione delle strisce di giornale inserite<br />

a collage. Il riferimento è ancora il futurismo di Conti e di<br />

Soffici, ma già si indovina una tensione personale, la ricerca di<br />

un linguaggio aperto verso orizzonti più vasti. Rosanna Morozzi<br />

come ho già detto, avvicina questo quadro a quelli di Alexandra<br />

Exter. Ma è chiaro che il lavoro precedente gli è servito per<br />

raggiungere questa morbidezza dei passaggi dei piani e del<br />

colore. Anche nei suoi quadri futuri, di una complessità e di<br />

una maturità perfettamente autonome, opere accostabili alle<br />

più importanti realizzate a livello nazionale e internazionale,<br />

il riferimento al “vero”, che egli rivendica, gli permetterà una<br />

profondità e una sensibilità assolutamente personali.<br />

34<br />

35


Mario Nannini<br />

Doppia scomposizione di figure, 1916-1917<br />

carboncino su carta beige, cm 26,5 x 35,5<br />

La prima figura di donna seduta col lavoro in mano, ancora<br />

chiaramente distinguibile, si articola su una sorta di semicerchio<br />

formato dalle spalle e dalle braccia chiuse su un lavoro a maglia o<br />

di ricamo; a questa è sovrapposta una massa piccola, la testa della<br />

donna, i cui particolari si definiscono con fitti segni; ed è come<br />

divisa dal corpo da due grandi linee incrociate; la parte inferiore,<br />

dai fianchi alle gambe è solcata da segni fitti a disegnare ombre,<br />

linee che si scontrano formando, in complesso, come un<br />

grande guscio morbido e concluso. In definitiva una profonda<br />

ricerca portata avanti da Nannini nei suoi ultimi anni, tesa alla<br />

definizione di un suo particolare cubo-futurismo, che diverrà uno<br />

tra gli esempi più vivaci e particolari di questa linea, evidente<br />

anche negli ultimi quadri dell’artista. La seconda parte del<br />

disegno, divisa da una linea verticale, presenta una più profonda<br />

definizione nella scomposizione dei volumi che segni netti e<br />

tracce fitte riescono a trasformare in una stravolta immagine di<br />

donna seduta al lavoro vista di profilo.<br />

36<br />

37


Mario Nannini<br />

Figura di donna, 1917 ca<br />

carboncino e collage su carta beige, cm 34,5 x 23,5<br />

Questo bel disegno è ancora un esempio più maturo del<br />

peculiare cubo-futurismo di Nannini che ancora si riferisce alle<br />

sue interpretazioni nei molti ritratti della zia Ester; il lavoro si<br />

arricchisce di un numero disegnato o stampato a sinistra; a destra<br />

un collage di fogli di giornale sovrapposti che contorna la figura<br />

della donna dalle spalle al fondo del foglio; ancora, a destra<br />

verso l’angolo del quadro, il disegno è coperto da un collage di<br />

colore giallo a caratteri grandi neri che aggiunge un tocco vivo<br />

di colore. Si evidenzia sempre più il carattere particolare del<br />

linguaggio di Nannini che si differenzia da quello del futurismo<br />

italiano (e toscano): Nannini non grida mai “alla guerra sola<br />

igiene del mondo”, al mito della macchina e della velocità, ma<br />

intende, comunque, essere sempre legato alla natura, alla realtà,<br />

all’eredità artistica della sua città, che si riflette anche nei suoi<br />

lavori freschi, ispirati alla leggerezza, del suo ultimo, bel periodo<br />

futurista.<br />

38<br />

39


Mario Nannini<br />

Scomposizione di figura (Zia Ester con l’ombrellino), 1917<br />

olio su cartone, cm 56 x 34, 5<br />

<strong>Un</strong> lavoro di grande interesse, dove la ricerca di Mario Nannini<br />

si esprime nella sua complessità, dalla definizione della figura,<br />

la cui scomposizione è anche qui svolta per volumi. La donna<br />

è rivolta per tre quarti verso sinistra, col piccolo volto sotto il<br />

cappello che le fa ombra; il movimento sembra affidato ai volumi<br />

delle vesti, dall’azzurro della sciarpa, al cappotto bordato di<br />

pelliccia, che forma triangoli acuti che finiscono, in basso, alla<br />

destra della figura, nel lungo triangolo dell’ombrellino e, a metà<br />

busto, nel manicotto cilindrico. Sul fondo gli edifici della città,<br />

distinti dall’andamento verticale, dal colore delle mura e degli<br />

intonaci; nell’angolo in alto, a destra, un numero nero su bianco<br />

(un’insegna, un simbolo caratteristico del fare di Nannini?).<br />

La maturità del linguaggio, la vitalità del suo segno, il rapporto<br />

luce-ombra, la profondità della ricerca non impediscono,<br />

comunque, all’autore, di esprimere un rapporto, anche<br />

affettuoso, verso la persona che è sempre stata, per lui, un<br />

riferimento di vita.<br />

40<br />

41


CONTRIBUTI CULTURALI<br />

ALLO SVOLGIMENTO<br />

DELL’ARTE A PISTOIA<br />

Giovanni Costetti<br />

Galileo Chini<br />

Giovanni Michelucci<br />

43


Giovanni Costetti<br />

Reggio Emilia, 1874 – Settignano, Firenze, 1949<br />

A Parigi, circa ventenne, con Ardengo Soffici, Gino Brunelleschi, Gino Melis,<br />

si stabiliva subito dopo a Firenze, dove resterà fino agli anni Quaranta, quando<br />

arriverà in Olanda e viaggerà per l’Europa. A Firenze era subito entrato<br />

in rapporto con gli esponenti della cultura, da Papini, per il quale realizzava<br />

l’incisione di testata per la sua rivista “Leonardo”, a Gabriele D’Annunzio.<br />

Dal ’14 ha inizio la sua collaborazione con la rivista pistoiese «La Tempra»,<br />

allora diretta dall’amico Renato Fondi, noto critico, che forse è stato il primo a<br />

parlare di “Scuola pistoiese”, per la quale Costetti scrive poesie, recensioni e<br />

saggi ideologici. È attraverso questa rivista che Costetti iniziava a trasmettere<br />

agli artisti pistoiesi la sua concezione di arte “pura”, cioè libera da influssi<br />

letterari, filtrata attraverso la lezione del Postimpressionismo e di Cézanne, il<br />

cui principale tramite è il colore, “bellezza che si estrae dalla natura”, ma che<br />

ha origine nello spirito. Il colore assume, per Costetti, un significato misterioso,<br />

magico e simbolico, e si pone all’origine della forma dell’opera pittorica,<br />

anche della sua strutturazione. E si ricordi che, nel 1911, era uscito, di Kandinskij,<br />

Lo spirituale nell’arte...<br />

Scriveva Costetti in Consigli generosi ai critici ne “La Tempra”, I, 4, maggio<br />

1914: “Avendo dunque il colore un valore di plasticità ecco dunque svilupparsi<br />

la forma, e il sentimento essendo il risultato della sensibilità pittorica,<br />

ecco dunque apparire la composizione, l’architettura del quadro. Ecco tutto<br />

quel mondo apparso più vivo per averlo guardato sotto il chiaro aspetto della<br />

pittura pura”.<br />

Costetti sarà tra i promotori della famosa Mostra del Bianco e Nero a <strong>Pistoia</strong><br />

del 1913, alla quale furono presenti tutti i più noti artisti toscani, quasi tutti<br />

dediti alla xilografia, da Viani a Lega, a Rosai.<br />

Con la nascita del “Cenacolo”, i cui esponenti si riunivano, dal ’24, nella fattoria<br />

di Agostini (da Bugiani, Cappellini, Mariotti, Zanzotto, Caligiani, Michelucci<br />

e, probabilmente Marino Marini) si concretizzava quel clima di rinnovamento<br />

promosso da Costetti, fondato sul “contatto francescano con la natura<br />

alla luce dei grandi ‘primitivi’” (R. Campana 2003).<br />

Già era presente a <strong>Pistoia</strong> Giuseppe Lanza del Vasto, giovane filosofo e poeta,<br />

nato in Puglia da famiglia sveva, che, dopo aver studiato a Parigi, era venuto<br />

in Toscana per studiare filosofia a Pisa, e che molto contribuirà alla conoscenza<br />

all’estero dell’arte pistoiese del Novecento.<br />

Lo straordinario rapporto di Costetti col colore, “la cui materia pittorica” come<br />

ancora scrive Rossella Campana “intende gli spagnoli attraverso Cézanne, in<br />

una sintesi straordinaria di passato e presente, che trasfigura i personaggi rap-<br />

presentati, spiritualizzandoli quasi fossero dei<br />

moderni El Greco”, resta, a mio avviso, la sua<br />

qualità più notevole.<br />

Basterebbero i due splendidi ritratti presenti<br />

in questa collezione, quello di Dino Campana<br />

(incerto, non documentato), tutto giocato sul<br />

rapporto tra il volto dai tratti vibranti, gli occhi<br />

intensi, dorati, quasi stralunati, i capelli, la<br />

barba, i baffi biondi e il verde cangiante della<br />

giacca e del panciotto (forse di velluto), in contrasto<br />

col triangolo bianco della camicia.<br />

O quello di Marino Marini, straordinario esempio<br />

di un rapporto privilegiato tra l’eleganza<br />

quasi modiglianesca della figura e il colore stupendamente<br />

calibrato, nella morbidezza degli<br />

impasti e nelle raffinatissime scalature che<br />

culminano nello splendore dell’azzurro della<br />

camicia, con lievi sfumature d’ombra, col morbido<br />

trascorrere nei toni rosati della faccia, e il<br />

fondo di un cielo sereno.<br />

Cenni bibliografici<br />

G. Costetti, Lezione generosa di critica d’arte a<br />

chi d’arte scrive senza capirne un’acca, in “La<br />

Tempra”, <strong>Pistoia</strong>, a. I, n. 2, 1 aprile 1914.<br />

G. Costetti, Dopo una dichiarazione, in “La<br />

Tempra”, 1 aprile 1914.<br />

Vita e morte: poesie e disegni di Giovanni Costetti,<br />

a cura di M. Sewell Costetti e E. Vallecchi,<br />

Firenze 1950.<br />

Grafica di Giovanni Costetti, Reggio Emilia 1976.<br />

Giovanni Costetti, cat. mostra a cura di R. Barilli<br />

e G. Ambrosetti, Milano 1983.<br />

S. Ragionieri, Giovanni Costetti e le “Danze del<br />

cielo”, in “Artista”, I, 1, 1989, pp. 18-32.<br />

Giovanni Costetti: Maestro del Novecento Italiano,<br />

cat. mostra a cura di Giuseppe Paccagnini,<br />

<strong>Pistoia</strong> 1998.<br />

R. Campana, Renzo Agostini, ‘Il cenacolo’ di Giovanni<br />

Costetti e l’alternativa del colore, in Renzo<br />

Agostini, cat. mostra Centro di Documentazione<br />

sull’Arte moderna e contemporanea pistoiese,<br />

<strong>Pistoia</strong> 2003.<br />

<strong>Un</strong> interludio fiorentino. Giovanni Costetti, Anieka<br />

Leggett e i disegni per Poggiochiaro, a cura di S. De<br />

Rosa, Firenze 2004.<br />

Giovanni Costetti 1874-1949, a cura di G.<br />

Paccagnini, Montecatini Terme 2004.<br />

Carlo Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong><br />

2007.<br />

44<br />

45


Giovanni Costetti<br />

Ritratto di Mai Sewell Costetti, s.d.<br />

olio su cartone riportato su tela, cm 60 x 49<br />

<strong>Un</strong> bel ritratto della moglie, nel quale Costetti esprime, come<br />

sempre, il suo rapporto privilegiato, mistico e simbolico, ma<br />

anche profondamente estetico, col colore, anche se qui il colore<br />

è tenuto costantemente su toni bassi e non sul rapporto vivo di<br />

colori luminosi e chiari, come in altre opere. Anche in questo<br />

ritratto, comunque, il profilo della donna riesce a emergere dal<br />

fondo di un rosso scuro, attraverso una lieve luce che fa risaltare<br />

il morbido incarnato del volto e l’oro dei capelli.<br />

Dietro la figura della donna una lunga tavola a fondo oro<br />

presenta una figura sottile di donna il cui volto fa pensare a certi<br />

ritratti del Fayum, ma anche a certi fondi oro medievali secondo<br />

la tendenza eclettizzante del momento. Si tratta di un altro<br />

saggio della grande abilità di Costetti nel trattamento del colore<br />

e della luce.<br />

46<br />

47


Giovanni Costetti<br />

Ritratto di Dino Campana (?), 1909 (?), da posticipare al 1914 (?)<br />

olio su tela, cm 100 x 60, firmato in basso a sinistra con data 1909<br />

Lascio, intenzionalmente, il punto interrogativo nel titolo, nella data di esecuzione,<br />

e in quella da me presunta, dell’opera, perché so quanto siano ancora difficili alcune<br />

datazioni relative alla durissima vita di uno dei nostri più grandi poeti, poco riconosciuto<br />

in vita, se non da qualche intellettuale e da qualche poeta (<strong>Un</strong>garetti e De Robertis,<br />

per esempio), vittima di sgradevoli soprusi. Si pensi alla brutta avventura del suo unico<br />

manoscritto de I Canti Orfici – inizialmente Il più lungo giorno – che egli, a Firenze, nel<br />

1913, aveva consegnato a Papini, e questo a Soffici, il quale, alla successiva richiesta<br />

del poeta, negò di averlo mai ricevuto, costringendolo a un lavoro massacrante per<br />

una nuova stesura, con parti del tutto a memoria, del testo. Si ritroverà alla morte di<br />

Soffici (’71), tra le sue carte. Smemoratezza? Disprezzo? Invidia? Personaggio inquieto,<br />

nevrotico, certamente fuori dalle righe, che, dati i tempi, ad ogni trasgressione veniva<br />

arrestato e chiuso in manicomio... I genitori inoltre, quando lo mandarono in Argentina,<br />

gli procurarono un permesso-passaporto di sola andata... Il ritratto porta la data del 1909.<br />

Molto probabilmente (già alcuni critici discutono su alcune datazioni dei lavori di Costetti)<br />

è da spostarsi al ’13-’14, quando si pubblicavano I Canti Orfici e sembra sia questo il ritratto<br />

cui allude Campana nella sua lettera a Emilio Cecchi del ’16. Mentre il ritratto successivo,<br />

anch’esso eseguito da Costetti, confrontato con alcune fotografie (di cui una inedita) di<br />

Campana, sarebbe da spostare almeno verso la soglia degli anni Venti, anni dopo i quali il<br />

poeta restò definitivamente in manicomio. Comunque io ho confrontato questo superbo,<br />

fiero ritratto, con quello successivo. Ho osservato i tratti somatici: lo stesso naso, la stessa<br />

bocca, la stessa scriminatura dei capelli, lo stesso il taglio dei baffi e della barba. La faccia<br />

di Campana nelle fotografie è più rotonda. Certo, nel secondo ritratto si è come imbolsita,<br />

gli occhi sono spenti, le palpebre abbassate. Ma si pensi a come può essere stata stroncata<br />

una persona (e in questo caso un poeta), costretta alle ‘cure’ di un manicomio dei primi<br />

anni del ‘900. È vero che nella lettera a Cecchi Campana scrive: “Io ero un povero<br />

disgraziato esaurito, vestito da contadino con i capelli lunghi…”. Ma non è forse possibile<br />

che un mago del colore come Costetti sia riuscito a fare di questo “disgraziato”, un poeta<br />

(che egli ammirava), un eroe “vagabondo e audace”, e trasfigurato? (cfr. “La Tempra” II,<br />

1915, 1, dove Costetti scrive: “La musica invade il poema che è pieno di colori – la musica<br />

è nelle parole commosse, nelle immagini nuove – la pittura è in tutto...”. E “una sincerità<br />

che solo gli spiriti vagabondi e audaci... hanno”). Il mio giudizio è del tutto legato allo<br />

sguardo, al confronto visivo. È chiaro che posso sbagliare. Del resto su Campana le incertezze<br />

sembrano infinite e ogni anno nasce una nuova scoperta, come quella del ritratto di Tramonti<br />

(suo compagno di liceo) scambiato per il suo e per tanto tempo anche sulla copertina delle<br />

pubblicazioni dei Canti Orfici. Comunque questo primo ritratto è un altro simbolo perfetto<br />

della passione per il colore (ma anche per l’intuizione psicologica) di Costetti: il rapporto tra<br />

il biondo dei capelli e dei baffi, il colore dorato degli occhi, fieri e corruschi (“<strong>Un</strong>a volta una<br />

signora s’innamorò dei miei occhi di fauno”, Arabesco-Olimpia), col verde della giacca e del<br />

panciotto – forse di velluto un po’ cangiante, il triangolo bianco della camicia (quasi identico<br />

a quello nell’altro ritratto), il fondo chiaro, fanno di questo lavoro uno straordinario esempio<br />

della qualità pittorica di Costetti. Tuttavia il punto interrogativo resta, per prudenza.<br />

48<br />

49


Giovanni Costetti<br />

Ritratto di Marino Marini, 1926<br />

olio su tela, cm 120 x 94, firmato in basso a destra<br />

Splendido lavoro, tutto giocato sul colore, “una bellezza che si<br />

estrae dalla natura e la natura è, di fronte al colore, come la terra<br />

pietrosa che contiene il diamante”. Il colore è carico di “energia<br />

lirica” da trasformare in “scoperta, canto spiegato, luce”. Se si<br />

dovessero citare tutte le definizioni di Costetti relative al colore,<br />

non si finirebbe più.<br />

Ma, al di là delle sue teorie sul significato orfico spiritualista del<br />

colore, ne è straordinario l’uso nel suo lavoro.<br />

Questo ritratto è forse il simbolo più esaltante del suo rapporto<br />

pittorico col colore, che diventa protagonista di un’opera che, a<br />

mio avviso, rasenta la perfezione.<br />

“Avendo dunque il colore un valore di plasticità ecco dunque<br />

svilupparsi la forma [...] e il sentimento essendo il risultato della<br />

sensibilità pittorica, ecco dunque apparire la composizione,<br />

l’architettura del quadro”. Ripeto questa definizione, già citata,<br />

che mi sembra la lettura più esatta di questo quadro, impostato<br />

tutto sull’azzurro, dalla camicia nella quale il colore vivo si<br />

stempera in sfumature d’ombra, si interrompe nell’impasto<br />

morbido del giovane volto di Marino, riprende sul fondo azzurro<br />

chiaro che trascolora in grigio. È come l’esaltazione e il trionfo di<br />

una gioventù orgogliosa, forte del suo sicuro avvenire.<br />

50<br />

51


Galileo Chini<br />

Firenze, 1873-1954<br />

Dopo un inizio, in giovanissima età, dèdito al restauro e alla decorazione parietale,<br />

si dedicava alla manifattura ceramica. Apriva, nel 1896, con alcuni suoi<br />

familiari, una piccola fabbrica dandosi alla creazione di splendidi vasi, per i<br />

quali faceva uso di tecniche diverse, recuperando anche antichi metodi di<br />

lavorazione con i quali, pur usando moduli quattro e cinquecenteschi, riusciva<br />

ad elaborare progetti di forme e di decorazione in termini di modernità, acquistando,<br />

così, una notevole fama come ceramista. Si presentò, con successo,<br />

a varie mostre internazionali (Esposizione <strong>Un</strong>iversale di Parigi, 1900, Esposizione<br />

<strong>Un</strong>iversale di Torino, 1902). È nota la sua collaborazione con importanti<br />

architetti per la decorazione parietale di facciate e di interni di strutture architettoniche<br />

in Italia e fuori, che riusciva a interpretare non solo come espressione<br />

decorativa, ma anche realizzando lavori che divenivano parte integrante dello<br />

spazio architettonico. A Firenze lavorò soprattutto nelle architetture di Michelazzi<br />

(tra le altre al Villino Broggi-Caraceni, 1911).<br />

Nel 1909 eseguiva i cartoni per la decorazione della sala centrale del palazzo<br />

della Biennale di Venezia per la quale si ispirava alle rutilanti decorazioni,<br />

al prezioso corpuscolarismo e al simbolismo allegorico dei mosaici di Klimt.<br />

Nel 1911, chiamato dallo scià, che aveva visto i suoi lavori alla Biennale di<br />

Venezia, si trasferiva in Persia, dove rimaneva fino al 1913, per realizzare la<br />

decorazione parietale del Palazzo del Trono, progetto dell’architetto italiano<br />

Rigotti. Riporterà da questo soggiorno anche un arricchimento stilistico e<br />

formale di carattere orientalizzante, di cui farà tesoro nei suoi lavori ceramici<br />

e nelle decorazioni per vetrate. Nel suo lavoro decorativo aderiva, non senza,<br />

peraltro, interpretazioni personali, ai modi della Secessione viennese, ma si è<br />

poi sempre più ispirato alle decorazioni rinascimentali, interpretate in termini<br />

di un suo personale modernismo. Se infatti i suoi Putti sono più direttamente<br />

ispirati al Quattrocento fiorentino, le sue immagini femminili, pur riferendosi,<br />

anch’esse, a moduli quattrocenteschi, si distinguono sempre per un preciso<br />

riferimento al mondo contemporaneo. Invece nella pittura, che ha sempre<br />

continuato a portare avanti, ha seguito una linea legata ad un morbido, fresco<br />

naturalismo postimpressionista, con qualche riferimento fauve. Ne è un<br />

esempio l’arioso Autoritratto (1901), esposto in questa mostra. Il suo rapporto<br />

con <strong>Pistoia</strong> risale al periodo nel quale realizzava le decorazioni parietali interne<br />

del Palazzo della Cassa di Risparmio (1904-1905). “È dunque giunto<br />

Galileo Chini, nervoso, improvvisatore, libero e senza disciplina, con in petto<br />

uno sterminato orgoglio e un fuoco insostituibile. Dall’atrio alle gallerie, dalla<br />

scala alla sala delle adunanze, egli ha travolto tutto, operando di sorpresa, in<br />

un sol getto. Ha steso arazzi ovunque, ha sfondato vòlte, ha iniettato di rosso<br />

pompeiano gli interstizi della pietre, ha impallinato di frantumi d’oro ciò che<br />

gli pareva spento, persino le luminose lunette invetriate della sala maggiore,<br />

traslocando le robbiane di Cantagalli su un fondo viennese da Kolo Moser. E<br />

con Cantagalli egli ha duettato costantemente, sin da Fortezza e Abbondanza,<br />

le due donne accanto alla porta d’ingresso ed occhieggianti la leggiadria botticelliana<br />

[...]”, (C. Pizzorusso 2006).<br />

Questo lungo e variato lavoro di Chini tende “a una maggiore monumentalità,<br />

propria dell’Accademia di Belle Arti di Bologna”, come scrive Mirella<br />

Branca (1997), con motivi che essa definisce, con felice intuizione, “di ispirazione<br />

mantegnesca”. Il lavoro di Chini fu ostacolato dagli artisti pistoiesi<br />

come molti altri lavori eseguiti a <strong>Pistoia</strong> da artisti non pistoiesi, in nome di un<br />

preteso diritto di prelazione. In particolare Fabio Casanova, Lorenzo Guazzino<br />

e Francesco Chiappelli dichiaravano il ‘fregio policromo’ di Chini “ostico<br />

all’occhio toscano, il quale non poteva ammettere colori dove già brillavano i<br />

rilievi robbiani”; in realtà l’azzurro lapislazzuli che fa da fondo ai putti della<br />

sala si riporta proprio, nel tono, a quello delle<br />

ceramiche robbiane...<br />

“Chini” scrive ancora Mirella Branca “ora ragiona<br />

da decoratore in senso ampio [...]; c’è<br />

tutta l’adesione al naturalismo toscano e, insieme,<br />

la capacità di accompagnare le partiture<br />

architettoniche senza per questo esserne<br />

limitato”. E ancora: “Nel fregio”(interno) “con<br />

putti si esprime con una vera e propria felicità<br />

decorativa, che viene dalla capacità dal pittore<br />

di riflettere e poi inventare liberamente [...]”.<br />

La lucentezza dei putti di Galileo Chini si richiama<br />

a quella delle terrecotte invetriate di<br />

Luca della Robbia. Ma è anche evidente la modernità<br />

del suo lavoro, nutrito della sua cultura<br />

artistica che unisce la conoscenza dell’arte del<br />

passato con quella contemporanea. Per quanto<br />

riguarda il suo rapporto con gli artisti pistoiesi,<br />

va ricordato che molti sono stati suoi allievi<br />

quando insegnava a Firenze all’Accademia.<br />

Cenni bibliografici<br />

C. Marsan, Galileo Chini 1873-1956, cat. mostra,<br />

Borgo San Lorenzo 1971.<br />

L.-V. Masini, Art Nouveau, Firenze 1976.<br />

Galileo Chini 1873-1956, cat. mostra a cura di<br />

P. Chini Polidori, C. Paolicchi, L. Stefanelli<br />

Torossi, Milano 1987.<br />

Gilda Cafariello Grosso, Raffaele Monti, La<br />

manifattura Chini, Roma 1989.<br />

M. Branca, Decorazione murale tra <strong>Pistoia</strong> e Firenze:<br />

1900-1950, in “Bollettino quadriennale<br />

dell’Istituto Regionale di ricerca sperimentale”,<br />

n. 3, Firenze 1997.<br />

Il Tarlo polverizza anche la Quercia, Le memorie di<br />

Galileo Chini, a cura di F. Benzi, Firenze-Siena<br />

1998.<br />

Ad Vivendum, Galileo Chini e la stagione<br />

dell’incanto, cat. mostra a cura di F. Benzi,<br />

<strong>Pistoia</strong> 2002.<br />

Galileo Chini 1873-1956, a cura di P. Pacini,<br />

Firenze 2003.<br />

<strong>Un</strong> palazzo nuovo di stile vecchio. La sede della<br />

Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong>, a cura di G.<br />

Chelucci, <strong>Pistoia</strong> 2006.<br />

C. Pizzorusso, Ode a <strong>Pistoia</strong> 1898-1915. <strong>Un</strong> apocrifo<br />

del Comm. Giulio de’ Ricci sulle decorazioni in<br />

<strong>Un</strong> palazzo nuovo...cit.<br />

52<br />

53


Galileo Chini<br />

Autoritratto, 1901<br />

olio su tela, cm 100 x 100; firmato in basso a destra con data 1901<br />

Questo quadro appartiene al periodo nel quale Galileo Chini<br />

si occupava, in modo particolare, di arti applicate: decorazione<br />

parietale, splendide creazioni ceramiche che lo portavano a<br />

esporre nelle più importanti mostre nazionali e internazionali.<br />

Portava avanti, peraltro, anche la pittura da cavalletto, che ha<br />

sempre seguito una linea legata a un postimpressionismo che<br />

esalta la funzione della luce e del colore. Questo Autoritratto<br />

è già non del tutto consueto nel formato quadrato, mentre<br />

generalmente l’autoritratto si svolge in verticale. Ma è proprio<br />

questo formato che consente a questo lavoro di configurarsi con<br />

questa dilatata ariosità. <strong>Un</strong>’altra originalità è che il quadro è stato<br />

realizzato all’aperto, davanti al mare e al cielo luminoso, cosparso<br />

di nubi bianche che, a tratti, filtrano il sole; del quadro compare,<br />

sulla sinistra, una parte del retro; l’autore guarda con attenzione<br />

verso l’osservatore, il volto in parte in ombra. La mano sinistra<br />

sorregge la tavolozza rettangolare con alcuni pennelli; la mano<br />

destra è appena accennata.<br />

È un’opera di tutto rispetto, piacevole, serena, malgrado lo<br />

sguardo un po’ severo del protagonista.<br />

54<br />

55


Giovanni Michelucci<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1891 – Firenze, 1990<br />

Avviato all’amore per l’arte nell’officina della famiglia, nota per la lavorazione<br />

artigianale e artistica del bronzo (che, alla morte dei fratelli, nel ’22, egli<br />

sostituì con una delle più importanti fonderie artistiche del bronzo a <strong>Pistoia</strong>),<br />

seguì dapprima gli studi tecnici, diplomandosi poi a Firenze alla Scuola di Architettura<br />

dell’Accademia di Belle Arti di Firenze (non c’era ancora la Facoltà<br />

universitaria di Architettura). Mentre a Firenze si avvicinava a Fattori, Papini,<br />

Rosai, frequentava, a <strong>Pistoia</strong>, gli artisti della prima generazione del ‘900<br />

(Lippi, Nannini, Innocenti, Caligiani...), coi quali esponeva le sue xilografie.<br />

La sua attività grafica aveva infatti inizio nel 1913 e sarà portata avanti fino al<br />

’24-‘25, quando lascerà <strong>Pistoia</strong> per Roma per dedicarsi quasi esclusivamente<br />

all’ architettura.<br />

Acquistava, in questi anni, un’autonomia del segno, un tratto grafico un po’<br />

arcaicizzante, duro, netto, assolutamente personale, un linguaggio che, pur<br />

variando secondo i temi e i periodi, assolutamente inconfondibile, che rimarrà,<br />

pur in una gestualità più dinamica, anche nei tratti dei suoi progetti architettonici.<br />

Dai primi lavori (I taglialegna, 1913, I covoni, 1914, l’unica sua xilografia pubblicata<br />

su “La Tempra”), fino ai lavori degli ultimi anni passati a <strong>Pistoia</strong> (le<br />

piccole xilografie in formato ovale raffiguranti “illustri pesciatini”, i legni per<br />

una edizione (mai uscita) dei Fioretti di San Francesco, alcuni dei quali pubblicati<br />

sull’“Eroica”, Michelucci aveva realizzato un corpus notevolissimo di<br />

opere grafiche. Profondamente amico di Renato Fondi, letterato e critico, tra<br />

i fondatori de “La Tempra” (1914) progettava le illustrazioni xilografiche dei<br />

suoi lavori letterari L’ombra del tempo e Io e Giovanni (che non usciranno).<br />

A <strong>Pistoia</strong>, dopo il suo diploma, aveva aperto uno studio e iniziato il suo insegnamento<br />

presso la Scuola d’Arte di Casanova, diventando, con Costetti,<br />

Lanza del Vasto, Chini, uno dei cardini della cultura artistica dei giovani artisti<br />

pistoiesi e un maestro di vita, di formazione etica e spirituale per Bugiani,<br />

Cappellini, Mariotti, Zanzotto…, che spesso accompagnava nelle loro gite di<br />

studio e di lavoro nella campagna pistoiese, per lavorare con loro e per portare<br />

avanti la sua missione culturale con letture, discussioni, approfondimenti, che<br />

faranno della Scuola pistoiese un modello di grande interesse.<br />

Nel 1925, si è visto, Michelucci lascerà <strong>Pistoia</strong> per Roma, dove nei primi anni<br />

invitava gli amici artisti per collaborare ai suoi lavori di interni (Bugiani in<br />

particolare).<br />

Ma ormai il suo contributo culturale a <strong>Pistoia</strong> era praticamente finito.<br />

Ma non si può non citare, per grandi linee, senza proporre alcun approfondimento,<br />

che sarebbe estraneo al nostro tema, lo svolgimento del suo lavoro se-<br />

guente, non solo rivolto all’insegnamento ma inteso al rinnovamento dell’architettura<br />

italiana, seppure facendo tesoro della lezione della tradizione.<br />

Dal ’28 al ’36 era professore di architettura e decorazione presso l’Istituto Superiore<br />

di Architettura di Roma, dal ‘33 professore anche a Firenze dove, col<br />

suo gruppo di allievi (Baroni, Berardi, Gamberini, Guarnieri, Lusanna) vinceva<br />

il concorso per la Stazione di Santa Maria Novella a Firenze (1932-’35); dal<br />

’36 era libero docente di Architettura degli Interni e di Arredamento presso la<br />

Facoltà di Architettura, in seguito professore di Urbanistica e Composizione<br />

architettonica. Dal ’47 preside, sempre a Firenze. Dal ’40 al ’46 dirigeva la<br />

rivista “La Nuova città” e da ’49 “Esperienza Artigiana”. Nel dopoguerra era<br />

attivo nei problemi di restauro e di ricostruzione<br />

del centro storico di Firenze. Tra i suoi<br />

progetti la Chiesa di Collina a Pontelungo di<br />

<strong>Pistoia</strong> (’46-’53), la Borsa Merci di <strong>Pistoia</strong> (’40-<br />

’50), la Chiesa della Vergine (’47-’56), ancora<br />

a <strong>Pistoia</strong>, la Chiesa di San Giovanni Battista<br />

(’62-’64), dell’Autostrada del Sole, per citare<br />

solo alcuni dei suoi tanti lavori.<br />

Nell’82 nasceva a Fiesole, nella sua casa-studio,<br />

la “Fondazione Michelucci”, ad opera del<br />

Comune di Fiesole e della Regione Toscana,<br />

che raccoglie il suo archivio e porta avanti la<br />

conoscenza e lo studio del suo lavoro.<br />

Cenni bibliografici<br />

Michelucci il linguaggio dell’architettura, a cura di<br />

M. C. Buscioni, Roma 1979.<br />

Le Officine Michelucci e l’industria artistica del<br />

ferro in Toscana (1834-1918), a cura di M. Dezzi<br />

Bardeschi, <strong>Pistoia</strong> 1981.<br />

G. Michelucci, La felicità dell’architetto (1948-<br />

1980), <strong>Pistoia</strong> 1981.<br />

Giovanni Michelucci. <strong>Un</strong> viaggio lungo un <strong>secolo</strong>,<br />

cat. mostra a cura di M. Dezzi Bardeschi,<br />

Firenze, 1987-1988.<br />

Michelucci mago, a cura di R. Bertoni, Firenze<br />

1991.<br />

L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />

Itinerari michelucciani a <strong>Pistoia</strong>, a cura di F.<br />

Agnoletti e F. Bevilacqua, Firenze 2001.<br />

C. Conforti, R. Dulio, M. Marandola, Giovanni<br />

Michelucci 1891-1990, Milano 2006.<br />

56<br />

57


Giovanni Michelucci<br />

I covoni, 1914<br />

xilografia su foglio a stampa, cm 19 x 25<br />

pubblicata su “La Tempra”, a. I, n. 6, 16 giugno 1914<br />

<strong>Un</strong>’immagine semplice, arcaicizzante, dal segno fortemente<br />

incisivo, dai contorni come ripresi e ribattuti, un segno<br />

che delinea tutto il paesaggio, dalle basse colline ai covoni<br />

tondeggianti, vicini l’uno all’altro, ai due personaggi intenti a<br />

comporli, nella loro compattezza.<br />

È lo stesso segno che crea, con sicuro andamento lineare, spesso<br />

e libero, la cornice rettangolare del lavoro. Questa xilografia è<br />

forse una delle più sintetiche, libere, essenziali, di Michelucci.<br />

Negli anni successivi le sue incisioni si faranno più complesse,<br />

i fondi saranno riempiti di linee orizzontali, i paesaggi si<br />

riempiranno di morbidi addensamenti di tratti leggeri (La nuvola<br />

e il pastore, 1919 ca), di drammatici intrecci di rami e tronchi<br />

(Paesaggio collinare – monte conico, s.d.), di cieli tempestosi e nere<br />

ombre (Casa colonica, 1921). Nelle xilografie preparate per I<br />

Fioretti dominano una strutturazione architettonica più razionale<br />

e un clima di maggior serenità (Quando gli altri frati mangeranno<br />

tu mangerai fuori della porta del luogo, 1920-’24).<br />

58<br />

59


IL PRIMO NOVECENTO<br />

NELL’ARTE A PISTOIA<br />

Francesco Chiappelli<br />

Alberto Caligiani<br />

Giulio Innocenti<br />

Renzo Agostini<br />

Pietro Bugiani<br />

Alfiero Cappellini<br />

Umberto Mariotti<br />

Egle Marini<br />

Corrado Zanzotto<br />

61


Francesco Chiappelli<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1890 – Firenze, 1947<br />

Dopo aver frequentato, a <strong>Pistoia</strong>, il Liceo, si trasferiva a Firenze dove seguiva<br />

gli studi artistici all’Istituto d’arte e, di seguito, all’Accademia, dove frequentava<br />

la Libera Scuola dell’Acquaforte di Celestini e Tommasi, che si era<br />

aperta, sulla spinta dell’interesse crescente per l’incisione, già dal 1912 e che<br />

culminerà nella Mostra del Bianco e Nero a <strong>Pistoia</strong> del ’13.<br />

Eseguiva allora grandi lastre i cui temi, molto variati, si distinguono per la<br />

sensibilità dei rapporti luce-ombra. Di seguito subirà una certa influenza dalle<br />

prospettive architettoniche di Rosai, che conosceva, appunto, durante la Mostra<br />

del Bianco e Nero. Note le sue Sguerguenze (fine anni Trenta), incisioni<br />

nelle quali la sua vena ironica, derivatagli dallo studio delle opere grafiche<br />

degli incisori del Settecento e dell’Ottocento (da Goya a Daumier), si manifesta<br />

con forza.<br />

Dal ’28 Chiappelli si sposta definitivamente a Firenze dove, dal ’31 è chiamato<br />

ad insegnare Arti Grafiche all’Istituto d’Arte di Firenze, a Porta Romana.<br />

La pittura di Chiappelli è sempre stata legata<br />

al clima artistico pistoiese. Era amico di tutti i<br />

più noti artisti pistoiesi che seguiva nelle loro<br />

incursioni collettive e nelle loro esperienze<br />

dirette nel paesaggio pistoiese, molto più di<br />

quanto non seguisse gli studi presso l’Istituto<br />

d’Arte di Firenze. Aderiva anche ai consigli di<br />

Costetti, che propugnava, nella stampa locale,<br />

la severa semplicità della visione artistica<br />

di Cézanne, in chiave simbolico-spirituale,<br />

unita con quella predisposizione che lo steso<br />

Costetti aveva riconosciuto nel “carattere poeticamente<br />

malinconico, ma forte, della terra<br />

pistoiese”.<br />

La sua pittura si riconosce per l’attenzione per<br />

la figura umana (quindi per il “ritratto”), secondo<br />

un intimismo di grande sensibilità, ma<br />

la sua grande maestria si esprime soprattutto<br />

nelle incisioni.<br />

Cenni bibliografici<br />

Personale di Francesco Chiappelli alla Galleria<br />

Trieste, cat. mostra, 3-18 dicembre 1934.<br />

U. Apollonio, Francesco Chiappelli, in<br />

“Emporium”, LXXX, 1934, pp. 378-379.<br />

Francesco Chiappelli alla Galleria Gian Ferrari,<br />

cat. mostra, Milano, 6-17 gennaio 1940.<br />

C.A. Petrucci, Mostra retrospettiva delle incisioni<br />

di Francesco Chiappelli, cat. mostra, Roma, 1949.<br />

Le incisioni di Francesco Chiappelli, a cura di O.<br />

Pogliaghi e F. Chiappelli, Firenze 1965.<br />

E. Bardazzi, La mostra del Bianco e Nero a<br />

<strong>Pistoia</strong> nel 1913 e la rinascita dell’incisione in<br />

Italia nel primo Novecento, in Cultura figurativa<br />

fra le due guerre. <strong>Pistoia</strong> e la situazione italiana,<br />

atti del corso di aggiornamento a cura di C.<br />

Sisi, Scuola IRRSAE Toscana, <strong>Pistoia</strong> 1997,<br />

pp. 46-47.<br />

Francesco Chiappelli incisore, cat. mostra,<br />

Firenze 1999.<br />

S. Tucci, Francesco Chiappelli, in “Il Tremisse<br />

pistoiese”, a. XXIV n. 70, settembre-dicembre<br />

1999.<br />

G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />

Firenze 2000, pp. 51-73.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

63


Francesco Chiappelli<br />

Senza titolo (<strong>Pistoia</strong> vista da viale Arcadia), s.d.<br />

firmato in basso a destra<br />

acquaforte, n. 13/50, cm 41 x 44 interno (65 x 62 esterno)<br />

Bella acquaforte di uno degli artisti pistoiesi della prima<br />

generazione del Novecento, che hanno lavorato tra le due guerre<br />

e che si è caratterizzato soprattutto nella sua abilità grafica,<br />

particolarmente nell’acquaforte; interesse che ha contribuito a<br />

diffondere in tutta Italia e che porterà a quello che rappresenta,<br />

in Toscana, uno degli avvenimenti più importanti del periodo,<br />

la grande Mostra del Bianco e Nero a <strong>Pistoia</strong>, 1913, organizzata<br />

dalla “Famiglia Artistica”, di cui erano membri anche Renato<br />

Fondi e Giovanni Michelucci, che sarà presentata da Costetti.<br />

Alla mostra partecipavano, oltre ai pistoiesi e ai fiorentini, artisti<br />

da tutta Italia.<br />

Chiappelli è noto per la sensibilità e la bellezza delle sue<br />

acquaforti dal segno netto e sottile, la luminosità, il rapporto vivo<br />

tra luce e ombra; caratteri che, purtroppo, in questa acquaforte<br />

si devono per gran parte dare per scontati guardando le sue<br />

poche parti integre: il bel profilo della città, la luce morbida che<br />

scende, a destra, fino a una sorta di emiciclo erboso e, ancora,<br />

verso una strada in primo piano sulla quale la luce scende,<br />

creando giochi di ombre. Poco di più si può dire perché questo<br />

esemplare è stato bruciato dagli acidi durante la stampa. È<br />

andata completamente persa la parte sinistra, coperta da una<br />

grande macchia nera che, pur alleggerita, si estende a oscurare<br />

tutta la sezione mediana verso destra nascondendo la parte più<br />

bassa della città, la lunga serie delle case, prolungando il peso<br />

della macchia scura in tutta la sezione centrale.<br />

Questa rimane, purtroppo, l’unica acquaforte presente in questa<br />

collezione.<br />

64<br />

65


Alberto Caligiani<br />

Grosseto, 1894 – Firenze, 1973<br />

Legato a <strong>Pistoia</strong> dalla sua famiglia, che in città aveva beni immobili e interessi<br />

e che perciò egli ha sempre frequentato fin dalla prima infanzia, si trasferiva<br />

definitivamente con la famiglia a Bussotto, un paese immerso nella campagna<br />

pistoiese, che forniva al giovanissimo Caligiani il mezzo principale del suo<br />

esprimersi. Dopo una dolorosa malattia agli occhi che a undici anni lo costringeva<br />

a letto per lungo tempo, studiava per un anno all’Accademia di Belle Arti<br />

di Firenze (<strong>1910</strong>). Ha mantenuto sempre rapporti di lavoro e di amicizia con<br />

gli artisti pistoiesi emergenti, ma anche con la vita artistica nazionale. Amico<br />

di Lippi, Nannini, Michelucci, Innocenti, coi quali condivideva l’amore per<br />

la campagna e l’aspirazione a un’arte intimista e praticamente lontana dai problemi<br />

legati alla situazione reale dell’Italia del tempo, partecipava con loro alle<br />

riunioni della Famiglia Artistica pistoiese, frequentando anche Lega e Rosai.<br />

Giovanissimo, fu presente alla nota Mostra del Bianco e Nero, dove presentava<br />

lavori ispirati a quelli di Lorenzo Viani, che lo interessava particolarmente,<br />

da quando si era dedicato anche alla grafica, soprattutto alla xilografia.<br />

Dal ’15 circa collaborava con la rivista spezina “L’Eroica” ed esponeva con<br />

Viani, De Witt, Casorati e Sensani alla III Mostra della Secessione a Roma<br />

(1915). Durante la prima guerra mondiale contrasse, nella lunga campagna<br />

del Carso, una pesante invalidità polmonare. Al ritorno dalla guerra, essendosi<br />

dedicato, con gli amici Nannini e Innocenti, a una sua ricerca sul Futurismo,<br />

tenne una personale presso la Casa d’Arte di Enrico Prampolini e Mario Recchi.<br />

Nel ’21 era in America, ma dovette tornare in Italia per l’aggravarsi della<br />

malattia polmonare. Dalla quale lo salvò il soggiorno nelle montagne pistoiesi,<br />

dove si ritirava con la moglie.<br />

Continuerà, comunque, i suoi rapporti con la vita artistica nazionale, in contatto<br />

con Marino Marini, Libero Andreotti e, a <strong>Pistoia</strong>, con Giovanni Costetti,<br />

Giovanni Michelucci, e con gli artisti più giovani del “Cenacolo”: Agostini,<br />

Bugiani, Cappellini, Mariotti.<br />

Dal ’24 si avvicinava al movimento del Novecento Italiano e dal ’26 collaborava<br />

alla rivista “Solaria”. Presente alla Prima mostra del Novecento italiano a<br />

Milano e alla quindicesima Biennale di Venezia.<br />

Di seguito parteciperà alla diciottesima, alla diciannovesima, alla ventesima,<br />

alla ventiduesima Biennale fino al 1942; alle prime tre edizioni della Quadriennale<br />

romana, ottenendo premi nel ’35 e nel ’39.<br />

Dagli anni Trenta a Firenze, tiene una cattedra di Figura all’Istituto d’Arte. Si<br />

dedicava anche alla poesia e alla narrativa.<br />

Alla Prima Sindacale del ’33, scrive Annamaria Iacuzzi (2006): “si propon-<br />

gono temi consueti al ‘novecentista’ Caligiani,<br />

permeati da una malinconia poetica intimistica<br />

e paesana, propria della scuola pistoiese all’interno<br />

del più generale indirizzo del novecento<br />

toscano, prediligendo in gran parte le visioni<br />

delle colline tra Prato e <strong>Pistoia</strong>, di San Pellegrino<br />

o della Val di Bure”. Iacuzzi riporta anche le<br />

parole di Vittorini, impostate a quel “sano realismo<br />

inconfondibile e senza tristezza”. E parla<br />

di “colori sornioni che rendono pesa, gonfia,<br />

e pur non ingombra, la tela. È oscuro come di<br />

una gioia nascosta; di una gioia non propriamente<br />

visiva, che cova profonda sotto la cenere<br />

della materia”. I suoi ritratti raggiungono<br />

spesso una straordinaria intensità e, talvolta,<br />

una dolcezza che tradisce un senso di umanità<br />

e una sensibilità di tratto che esprimono una<br />

maturità artistica insuperabile.<br />

Cenni bibliografici<br />

G. Settala, Alberto Caligiani, Galleria d’Arte<br />

Firenze, Firenze 1935.<br />

G. Ferroni, Alberto Caligiani, Galleria<br />

Gianferrari, Milano 1939.<br />

U. Sabatini, Quattro Pittori alla Galleria<br />

Michelangelo, cat. mostra, Firenze 1949.<br />

Alberto Caligiani, cat. mostra, Galleria Giorni,<br />

Firenze 1975.<br />

La città e gli artisti. <strong>Pistoia</strong> tra avanguardia e<br />

Novecento, cat mostra a cura di M. C. Mazzi e C.<br />

Sisi, Firenze 1980.<br />

Alberto Caligiani, in Il Novecento italiano<br />

1923/33, Milano 1983.<br />

G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />

Firenze 2000, pp. 83-95.<br />

E. Crispolti, A. Mazzanti, L. Quattrocchi, Arte<br />

in Maremma nella prima metà del Novecento, cat.<br />

mostra, Cinisello Balsamo 2006.<br />

A. Iacuzzi, Alberto Caligiani, in Arte in<br />

Maremma... cit.<br />

E. Vittorini in A. Iacuzzi, Alberto Caligiani, in<br />

Arte in Maremma... cit.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

66<br />

67


Alberto Caligiani<br />

Poggiolo a Montemurlo, 1930<br />

olio su cartone, cm 65 x 74; firmato in basso a destra<br />

<strong>Un</strong>’immersione realistica nella natura, una grande casa nel verde,<br />

il colore “sornione” (E. Vittorini citato in A. Iacuzzi 2005) un<br />

po’ basso, il segno preciso, la descrizione esatta della casa, degli<br />

alberi, dei cannicci, dei particolari, sembrano in netto contrasto<br />

con una pennellata, trattata quasi a macchia, in mezzo al prato,<br />

a destra (forse una piccola fontana in marmo, o un’erma?). <strong>Un</strong><br />

piccolo mistero in una visione fin troppo descritta.<br />

68<br />

69


Alberto Caligiani<br />

Bambina assonnata (nella targhetta:<br />

Bambina che scrive), 1936<br />

olio su tela, cm 50 x 70; firmato e datato in basso a destra<br />

Questo ritratto, dal colore basso, quasi monocromo, dai passaggi<br />

cromatici morbidi e dolci, dimostra una sensibilità pittorica<br />

raffinata, un’analisi del personaggio di un tratto delicato: la<br />

ragazzina, la mano ancora stretta attorno alla penna che sfiora<br />

il quaderno, le palpebre abbassate sotto la spinta di un sonno<br />

infantile, sembra immersa nella penombra che ammorbidisce le<br />

zone scure e lascia emergere il volto roseo, finemente disegnato.<br />

70<br />

71


Alberto Caligiani<br />

Paesaggio nell’Appennino pistoiese, 1937<br />

olio su tela, cm 87 x 80; firmato in basso a sinistra e datato 1937<br />

<strong>Un</strong> bel paesaggio tra Prato e <strong>Pistoia</strong>, dai colori densi, “sornioni”<br />

(li definisce Annamaria Iacuzzi 2006) “che rendono pesa, gonfia,<br />

e pur non ingombra, la tela”. <strong>Un</strong> lavoro dall’impianto solido,<br />

fermo e pure vibrante e sensibile, ricco di particolari ben definiti:<br />

le case, il pagliaio, la scala che sale verso la parte alta di una casa.<br />

Non mancano tuttavia zone trattate con morbide pennellate<br />

libere: nella parte in basso leggeri ciuffi erbosi. La scena si<br />

stempera verso il fondo, nelle colline azzurre e nel cielo solcato<br />

da nubi bianche. C’è tutta la linea morbida della pittura pistoiese<br />

del periodo ma, come scrive Vittorini “svolta secondo quel sacro<br />

realismo inconfondibile”.<br />

72<br />

73


Giulio Innocenti<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1897 – Firenze, 1968<br />

Autodidatta, eclettico, appassionato delle attività più diverse, dalle “luci della<br />

ribalta” come ipnotizzatore e “mago” dell’occulto fin dai suoi quattordici<br />

anni ma, come scrive Sigfrido Bartolini (1997), tra gli artisti suoi amici, ma<br />

anche suo esegeta “passibile invece di gravi turbamenti avrebbe potuto essere<br />

l’interruzione improvvisa di quel bel sogno realissimo per rientrare in un<br />

anonimato di provincia” quando una legge proibiva i pubblici spettacoli di ipnotismo,<br />

facendolo rientrare nei ranghi, introducendolo “alla vita mediocre”<br />

(A. Stanghellini 1920). “Il gusto del personaggio pubblico” continua Bartolini<br />

“magari con un po’ di successo, non lo lascerà mai: dal teatro allo sport, ai<br />

tornei di biliardo, di scacchi e di scopone [...] Di natura versatile e d’interessi<br />

poliedrici, può dedicarsi a cose diversissime tra loro, districandosi con acume<br />

e abilità; può far bene un po’ di tutto, ma solo per un po’”. A poco più di<br />

quindici anni Alberto Caligiani, “pittore di vaglia” lo “stradò all’arte della<br />

xilografia”. “Fui xilografo” scrive Innocenti “e credo che morirò xilografo:<br />

quindi, per prima cosa, il nero sul bianco” (G. Innocenti 1955). E la xilografia<br />

resterà per tutta la sua vita una vera passione: dalle prime, ingenue, xilografie<br />

che trattava a grossi tratti neri, sulla scia di Caligiani (e di Viani), che inviava a<br />

Gianna Manzini, nella loro corrispondenza segreta (quando la futura scrittrice,<br />

già sua vicina e suo primo amore, era partita per Firenze, avviata alla sua bella<br />

carriera), a quelle che realizzerà per tutta la sua vita, forse tra le sue opere<br />

migliori (L’Aquilone, ’39, a fittissimi tratti paralleli, a definire il mare e il cielo,<br />

solcato da grandi nubi bianche). “È impossibile” scrive Bartolini “guardare<br />

L’Aquilone senza pensare ai versi che Pascoli ha dedicato, circa mezzo <strong>secolo</strong><br />

prima, allo stesso soggetto, con lo stesso titolo: rara e felice commistione tra<br />

arti figurative e poesia”. Arruolato dal ’16 al ’20, in guerra, ufficiale del genio,<br />

trovava nel disegno un suo ruolo determinante. Anche Innocenti, ai suoi inizi<br />

in pittura, come gli altri pistoiesi, amerà il tema della campagna, secondo una<br />

sua visione legata alle semplici abitudini della via quotidiana, familiare. Ma,<br />

dopo un primo, frenetico periodo di lavoro “ecco entrare in ballo una delle<br />

caratteristiche del nostro artista, l’indolenza” (Bartolini). Gli si riconoscono<br />

comunque buone qualità di pittore e di scrittore. Artista bizzarro, con una<br />

madre arguta e intelligente (che peraltro, durante la seconda guerra, sostituiva<br />

un vetro rotto durante un bombardamento con la metà segata di un quadro<br />

del figlio) e con quattro sorelle colte che lo adoravano (tra l’altro è forse il solo<br />

a trattare il tema degli interni casalinghi, che durerà per tutta la vita: Donna<br />

che lava i piatti, ’15; Giocatori di scacchi, ’44; Caffè, La domenica dell’ulivo, ’55;<br />

Lavori di casa, ’55; Amici all’osteria, ’55). Amico di Fernando Melani; amicizia<br />

almeno strana, la loro, date le rispettive impostazioni ideologiche: laico e immerso<br />

nella sua ricerca quantistica, nello studio della qualità del colore e teso<br />

all’astrazione assoluta Melani, cattolicissimo e insieme dedito a una ricerca<br />

sulla figurazione, Innocenti. I due, sempre persi in discussioni animate, erano<br />

legati da affetto e rispetto reciproco. Nel suo opuscolo su Innocenti Addio<br />

Giulio!, Melani riconosceva all’amico l’uso del colore “come accessorio [...]<br />

in questo merletto”, quello della sua pittura, avvolta “entro una tela di ragno<br />

continua”, come un colore “tipico dei ‘naïf’: ingenuo [...]”; ma gli riconosceva<br />

anche “una costante sola – la luce”; e scriveva ancora Melani: “una tenue<br />

luminosità, un filo di luce diffusa si stacca dalle sue tele”, e si chiede se “la<br />

qualità di questo ‘lume’ divenuto sommessa poesia è, sarà sufficiente”. Lui,<br />

che aveva studiato scientificamente la qualità della luce e del colore...<br />

Melani parla del lavoro di Innocenti come di un “fatto minore, ma complesso<br />

nelle sue istanze [...] la sua scala cromatica emerge come un arcobaleno fra<br />

nere nuvole: i colori sono emersioni sullo scuro fondo retinico dell’occhio... In<br />

altre parole Giulio, stando al concetto classico della ‘Genesi’, scrittura chiara,<br />

ritiene fermamente che il ‘colore luce’ sia un’apparizione ‘magica’ di forme<br />

emerse dal fondo caotico delle tenebre; per Giulio il fondo del quadro pittorico<br />

non è il bianco [...] ma il naturale fondo ‘retinico’ oculare, che è approssimativamente<br />

il colore del sangue, il rosso fegato”.<br />

Ma Innocenti, che nel tempo si era avvicinato all’arte internazionale, soprattutto<br />

attratto dai Nabis, dai Fauves, da Matisse, andava schiarendo la sua<br />

tavolozza, sia nelle nature morte, nelle quali<br />

è sempre presente il riferimento alla vita<br />

quotidiana, sia nelle rappresentazioni di paesaggio,<br />

nelle quali la figura umana è definita<br />

a macchie di colore piatto, timbrico, ma dove<br />

il paesaggio si traduce in morbide trasparenze<br />

di colore o in trame segniche (Lavandaie, ’51;<br />

Donna al lavatoio, ’51). Dal ’56 Innocenti si<br />

trasferirà a Firenze, dove tenterà nuove strade,<br />

senza però raggiungere la forza espressiva<br />

del suo periodo precedente.<br />

Cenni bibliografici<br />

A. Stanghellini, Introduzione alla vita mediocre,<br />

<strong>Pistoia</strong> 1920.<br />

F. Melani, Addio Giulio, 1955 <strong>Pistoia</strong>.<br />

G. Innocenti, Autobiografia, in F. Melani, Addio<br />

Giulio! cit.<br />

S. Bartolini, Giulio Innocenti (1897-1968),<br />

Firenze 1997.<br />

Giulio Innocenti, a cura di S. Bartolini, <strong>Pistoia</strong><br />

1997.<br />

G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />

Firenze 2000, pp. 96-99.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

74<br />

75


Giulio Innocenti<br />

Figura sul mare, 1927 ca<br />

olio su compensato, firmato in basso a destra, cm 85 x 49<br />

Deliziosa composizione marina, dominata dalla figuretta sottile<br />

di una giovane donna vista di spalle, di fronte al mare. La<br />

donna, con una fresca pettinatura ‘alla garçonne’, l’abito a righe<br />

diagonali bianche e rosse appena mosso dal vento, fermato in<br />

vita da una cintura dello stesso tessuto del vestito, con le righe<br />

in direzione opposta, le gambe fasciate da calze di seta – si<br />

intravede la riga lungo la gamba – le scarpette bianche allacciate<br />

alla caviglia.<br />

È una classica figuretta déco, quasi da rivista di moda. Ma il<br />

lavoro, come scrive Chiara Toti (Dentro la città e fuori le mura:<br />

percorsi espositivi di artisti pistoiesi tra le due guerre in Arte del<br />

Novecento a <strong>Pistoia</strong>, cit.) risente “[...] di suggestioni matissiane”,<br />

nella stesura piatta del colore, nei contorni netti. Nella raffinata<br />

composizione, dal verde della riva, da cui la fanciulla guarda il<br />

mare con un dolce atteggiamento pensoso che si indovina dal<br />

lieve curvarsi della testa, si alza un triangolo di mare azzurro, due<br />

vele bianche sul fondo; dietro un cielo solcato da una grande,<br />

luminosa nube bianca.<br />

76<br />

77


Giulio Innocenti<br />

Sant’Alessio, 1940<br />

olio su cartone, cm 33,5 x 41,5<br />

Al centro, sul fondo, la piccola chiesa inquadrata contro una<br />

breve staccionata tra due pilastri rosa con un muretto ai due<br />

lati. <strong>Un</strong>a visione quasi idilliaca legata ancora a quella serena<br />

morbidezza della pittura pistoiese degli anni precedenti.<br />

78<br />

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Giulio Innocenti<br />

Scardazzatrice di lana, 1955<br />

olio su compensato, cm 70,5 x 63<br />

Pittore eclettico, appassionato di molte, diverse attività,<br />

Innocenti passa, anche in pittura, da una figurazione “avvolta”<br />

scriveva Fernando Melani “entro una tela di ragno continua”<br />

di cui riconosceva però “il colore come accessorio”, a una<br />

successiva chiara e timbrica, in cui è evidente il riferimento ai<br />

Nabis. Questo lavoro, con la scardazzatrice di lana seduta su una<br />

sedia impagliata, una gamba piegata all’indietro, al piede dentro<br />

una ciabattina rossa, in mezzo a una natura rigogliosa, piena di<br />

verde e di colore nei piccoli fiori sparsi tra l’erba, è inserita in un<br />

fondo abbastanza scuro, da cui emerge, tra le mani della donna,<br />

una piccola palla di lana da sbrogliare (scardazzare), di un bianco<br />

abbagliante (in realtà del tutto irreale quando la lana è ancora<br />

vello), proprio al centro del quadro, con rimandi, in diagonale,<br />

ai due lati che, collegandosi al bianco delle nubi, sul fondo,<br />

rendono il quadro scattante e vivo.<br />

80<br />

81


Giulio Innocenti<br />

Interno della cattedrale di <strong>Pistoia</strong>, 1950<br />

olio su cartone, cm 73 x 103,5<br />

Innocenti, a poco più di quindici anni, aveva imparato da Alberto<br />

Caligiani, che egli dichiara “pittore di vaglia”, la tecnica della<br />

xilografia e certo aveva visto la Mostra del Bianco e Nero del<br />

’13, dove Rosai era presente con parecchi lavori di grafica; tra<br />

questi un Notturno (sull’Arno), un’acquaforte al cui taglio sembra<br />

ispirarsi questo lavoro di Innocenti che, alla verticalità delle<br />

colonne (o dei pilastri di Rosai), aggiunge la dinamica diagonale<br />

della luce che le ombre tagliano. Le piccole immagini dei<br />

fedeli e delle funzioni della chiesa, a destra, nella semioscurità,<br />

vitalizzano questo lavoro di grande interesse per il taglio<br />

coraggioso e per la forte carica dinamica.<br />

82<br />

83


Renzo Agostini<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1906-1989<br />

“Renzo Agostini è una fonte offerta a chi ha sete di poesia”. Così Sigfrido Bartolini<br />

(2003). E pone la “schiettezza” come sua “dote primaria” dichiarando<br />

che “lo slancio creativo dell’artista romantico in lui si è sposato al ‘fanciullino’<br />

del Pascoli”. Agostini non ha mai smentito la sua origine contadina. Anzi,<br />

nell’aia del podere paterno, anche quando aveva cominciato a seguire le lezioni<br />

private di Fabio Casanova, accoglieva le riunioni del “Cenacolo” (il gruppo<br />

che, mirando al recupero del valore formale della pittura, quasi fine a se stessa,<br />

secondo quell’intimismo caratteristico, nel periodo, dei pittori pistoiesi, faceva<br />

capo a Giovanni Michelucci e riuniva Bugiani, Cappellini, Mariotti, Zanzotto,<br />

gli artisti che, in seguito, come Gruppo pistoiese, parteciperanno alle rassegne<br />

regionali e nazionali).<br />

Con loro Agostini condivideva quella “poetica del reale”che lo portava verso<br />

la rappresentazione del quotidiano, in particolare della vita della campagna,<br />

che ne risultava, secondo la loro intenzione, spiritualmente nobilitata. Questa<br />

era anche la linea che suggeriva il Sindacato Fascista delle Arti per la provincia<br />

italiana, che ne risultasse, da un lato, spiritualmente, appunto, “nobilitata”, ma<br />

che, dall’altro, corrispondesse alle regole di una visione autonoma nei confronti<br />

delle tendenze innovative e rivoluzionarie delle avanguardie internazionali<br />

e fosse più in chiave con le premesse di indirizzo fascista della Sarfatti.<br />

L’ingenuità e il candore del dipingere del giovane Agostini conquistavano,<br />

subito dopo, anche Giovanni Costetti, presente e attivo a <strong>Pistoia</strong> dal 1914, che<br />

prediligeva la sua semplicità “francescana” e sollecitava il suo spiritualismo,<br />

seguendolo con tale costanza da suscitare, in qualche modo, l’invidia degli altri<br />

artisti seguaci di Costetti. Farà seguito anche l’entusiasmo per Agostini del<br />

poeta Lanza del Vasto. “Il desiderio di sfiorare il sublime accoglie la possibilità<br />

di calarsi attraverso la poesia che si fa interprete di una sacralità della natura”<br />

(Ragionieri 1989). Lanza del Vasto, già presente alla prima mostra del Palazzo<br />

del Comune nel 1928, cercherà di far conoscere a Berlino, a Parigi, negli Stati<br />

<strong>Un</strong>iti il gruppo pistoiese.<br />

Agostini frattanto, di ritorno dal servizio militare (’28) che aveva passato a Torino,<br />

trovava lavoro a Nizza come operaio negli stabilimenti cinematografici della<br />

città. Di seguito, con la giovane moglie, si stabiliva presso Parigi, a Joinville,<br />

dove lavorò, oltre che come operaio nel cinema, come disegnatore di vetri sabbiati,<br />

incrociando Miró e altri artisti, senza neppure provare a cogliere qualche<br />

possibile occasione. Dipingeva nei momenti liberi dal lavoro e raggiungeva,<br />

dal ’28 alla fine degli anni Trenta, il suo momento più alto, arricchito anche<br />

dalla conoscenza dell’arte francese postimpressionista, secondo la lezione di<br />

Cézanne, che già gli era stata trasmessa, in Italia, da Costetti sul “sensoriale<br />

delle cose”, espresso anche nell’interpretazione umana delle cose stesse.<br />

Nel ’35 Agostini veniva accettato al Salon d’Automne e nel 1938 a una mostra<br />

all’Accademia di Artisti italiani a Parigi.<br />

Durante la seconda guerra mondiale, con l’arrivo dei tedeschi a Parigi, abbandonava<br />

la Francia, dimenticando in una valigia il suo lavoro di anni di pittura,<br />

sia quei lavori (dipinti e disegni), realizzati a <strong>Pistoia</strong>, sia quelli portati avanti<br />

nei suoi ritagli di tempo libero in Francia. Lavorerà ancora a Roma, a Cinecittà,<br />

per la Scalera Film, finché non sarà richiamato soldato fino all’8 settembre<br />

1944, quando tornerà prima a Roma, di là a Firenze e a <strong>Pistoia</strong>. Stabilitosi a<br />

Firenze otteneva il posto di assistente per l’insegnamento all’Istituto d’Arte.<br />

I suoi lavori sono di un primitivismo quasi infantile, ma di una straordinaria<br />

freschezza che il colore raccorda in dolci, morbide sinfonie; si fanno per lui<br />

(si pensi alla Deposizione del ’24), i nomi di Gauguin e Bernard, ma anche di<br />

Chagall e Kandinskij; ma, al di là dei riferimenti colti, è sempre la semplicità,<br />

è il rapporto spontaneo delle forme e dei colori che Agostini ritrova nella sua<br />

campagna, nelle sue casette, nei suoi olivi chiari e come spumosi, che torna<br />

nelle sue stradine di campagna, nella sua Casa rosa (1930), col grande albero<br />

dal colore solare, col piccolo pagliaio giallo e azzurro, nel bianco dei panni stesi<br />

e, oltre il lungo tetto della casa, nelle morbide<br />

colline, che si riproporrà in mille modi, nella<br />

sua bella Chiesa di Candeglia, del ’28, nei suoi<br />

paesaggi, nei quali si ripetono i suoi rapporti<br />

tonali, dal bianco al rosa al giallo delle case,<br />

al verde che sfuma in un morbido marrone e,<br />

in lontananza, nell’azzurro delle colline e del<br />

cielo (La casa del Tordo, del ’28). È lo stesso<br />

colore che si stempera nelle nature morte,<br />

come quella del ’27, dove la tovaglia taglia in<br />

diagonale il bruno del tavolo; o negli interni; si<br />

veda Il camino, del ’25, con la piramide tronca<br />

del camino, la scala che riapre la chiusa salita<br />

del camino, il merlo sulla scala, il tavolo con la<br />

tovaglia spiegazzata in primo piano, il tocco di<br />

rosa e azzurro a destra.<br />

E i ritratti, un po’ spauriti, coi grandi occhi tristi,<br />

come aperti da un taglio netto sulla pelle.<br />

Cenni bibliografici<br />

Renzo Agostini, Galleria d’Arte Vannucci, <strong>Pistoia</strong><br />

1962.<br />

Renzo Agostini, cat. mostra Museo Civico di<br />

<strong>Pistoia</strong> 1971.<br />

G. Marchi, Renzo Agostini, cat. mostra<br />

Accademia delle Arti del Disegno, Firenze<br />

1971.<br />

G. B. Bassi, Settanta opere di Renzo Agostini,<br />

Galleria d’arte Silvana, <strong>Pistoia</strong> 1976.<br />

La città e gli artisti. <strong>Pistoia</strong> tra avanguardia e<br />

Novecento, cat. mostra Officine San Giorgio<br />

<strong>Pistoia</strong> a cura di M. C. Mazzi e C. Sisi, Firenze<br />

1980.<br />

C. Sisi, S. Bartolini, Omaggio a Renzo Agostini,<br />

<strong>Pistoia</strong> 1989.<br />

S. Ragionieri, Giovanni Costetti e le “Danze del<br />

cielo”, in “Artista”, I, 1, 1989, pp. 18-32.<br />

G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />

Firenze 2000, pp. 144-147.<br />

S. Bartolini, Candido Agostini in Renzo Agostini.<br />

Il “Cenacolo” pistoiese di Giovanni Costetti e<br />

l’alternativa del colore, Siena-Prato 2003.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

84<br />

85


Renzo Agostini<br />

Strada di campagna, 1923<br />

olio su cartone, cm 50 x 40, firmato in basso a destra<br />

Ingenuità, uso di un colore chiaro, limpido, in rapporti di<br />

morbida dolcezza, questo lavoro, come quasi tutti quelli di<br />

Agostini, risponde pienamente agli ideali di “arte pura” di<br />

Giovanni Costetti e, di seguito, di Lanza del Vasto; appartiene<br />

al primo periodo pistoiese di Agostini: la casa rosa, cui si accosta<br />

una piccola costruzione bianca, quasi come sfondo, e una strada<br />

bianca tra due bassi muretti che la delimitano e la dividono dai<br />

campi, dai quali si levano gli alberi soffici, come fatti di spuma<br />

o di ovatta; lungo i muretti un breve filare di cespugli che<br />

sembrano quasi una decorazione direttamente dipinta sui muri<br />

stessi; una madre con un bambino per mano, appena delineati a<br />

macchia, arricchiscono la scena, perfettamente equilibrata.<br />

86<br />

87


Renzo Agostini<br />

La chiesa di Candeglia, 1928<br />

olio su cartone, cm 49 x 42; firmato in basso a destra<br />

Tra i lavori più famosi di Agostini, questo quadro, la cui data<br />

coincide col suo ritorno dal servizio militare, incarna il significato<br />

più autentico del suo dipingere: il colore chiaro che dagli alberi<br />

più alti, secondo il suo fare, morbidi e bianchi come piumini,<br />

venati di un leggero azzurro, sale verso la chiesa che domina la<br />

scena, sulle costruzioni più basse che si susseguono sul retro,<br />

interrotte dalle linee rosse dei tetti, per perdersi in un rapporto<br />

tonale perfettamente calibrato, verso le colline azzurre. In<br />

primo piano, di scorcio, una strada tra cipressi dal verde vivo e, a<br />

sinistra, una donna con una pecora e un agnellino, in un rapporto<br />

prospettico sfasato e fuori scala, che sembrano, da un lato, un<br />

disegno infantile, ma anche immagini tratte da un codice antico.<br />

<strong>Un</strong> lavoro, secondo la stampa del tempo, in cui “ogni aspetto<br />

trovava il suo arabescato ordine, come se prati, boschi, ruscelli, si<br />

componessero per un gioco del caso”.<br />

88<br />

89


Renzo Agostini<br />

La casa rosa, 1930<br />

olio su cartone, cm 32 x 41; firmato e datato in basso a destra<br />

Il mondo pittorico di Agostini si elabora secondo la sua visione<br />

chiara, diretta, di una semplicità disarmante: in questo quadro<br />

la casa ‘rosa’ (un rosa chiaro), occupa il centro del lavoro che<br />

taglia quasi a metà in orizzontale; ci sono tutti gli ingredienti di<br />

una visione limpida, bucolica, serena, quasi da favola: la lunga<br />

casa, il piccolo tabernacolo a sinistra, le lenzuola stese, che fanno<br />

partire il quadro dal bianco di base, per salire al rosa della casa, al<br />

giallo e viola del piccolo fienile, a sinistra la macchia dorata di un<br />

albero, piumoso, secondo l’uso dell’autore; sul dietro le colline<br />

che sfumano dal verde all’azzurro.<br />

“Il desiderio di sposare il sublime accoglie la possibilità di<br />

catarsi attraverso la poesia che si fa interprete della sacralità<br />

della natura”, scriveva Lanza del Vasto a proposito del lavoro di<br />

Agostini (Ragionieri 1989).<br />

La casa rosa è tra i lavori che appartengono al periodo migliore<br />

di Agostini, quando, di ritorno dal servizio militare, stava per<br />

spostarsi, in cerca di lavoro, a Nizza e, di seguito, a Joinville,<br />

presso Parigi.<br />

90<br />

91


Pietro Bugiani<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1905-1992<br />

“Attraverso la pittura di Bugiani emergono i più tipici e originali orientamenti<br />

di tutto il gruppo pistoiese, trovando una formulazione che può essere considerata<br />

perciò emblematica di quel periodo. Non è infatti l’unicità o l’individualità<br />

del suo percorso il carattere più degno di attenzione, giacché la<br />

sintonia e la vera fratellanza con alcuni altri artisti lo indirizzano lungo binari<br />

abbastanza frequentati dove si trovavano capisaldi di indiscusso valore, quali<br />

Giotto, Beato Angelico, Masaccio, Fattori, Cézanne”, scriveva Chiara d’Afflitto<br />

(1999). Ciò non toglie, come prosegue Chiara d’Afflitto, che non si debbano<br />

attribuire qualità artistiche e “di primo piano” a Bugiani; qualità che, a mio<br />

avviso, non sono soltanto “la semplicità, la freschezza, la sintesi, il lirismo”<br />

che già Costetti gli attribuiva nel 1924. Pietro Bugiani, dapprima autodidatta,<br />

fu poi allievo della Scuola d’Arte applicata all’Industria di Santa Croce a Firenze,<br />

dove studiava decorazione murale, per divenire poi, a <strong>Pistoia</strong>, assistente<br />

di Fabio Casanova, pittore e fondatore (1920) della Scuola d’Arte, dove fu<br />

anche allievo di Giovanni Michelucci, di Galileo Chini, di Giovanni Costetti<br />

ed ebbe amici e compagni Agostini, Mariotti, Cappellini, Zanzotto. Nel suo<br />

lavoro passava da un naturalismo postmacchiaiolo, attraverso uno studio profondo<br />

del Tre e Quattrocento fiorentino e della letteratura del periodo (sotto<br />

il continuo incoraggiamento di Michelucci), a una responsabile apertura verso<br />

un aggiornamento che ritrovava, inizialmente in Soffici, poi in Cézanne, la<br />

corrispondenza moderna ai suoi studi. Il disegno e la grafica e lo studio continuo<br />

della natura erano divenuti per lui gli strumenti essenziali di elaborazione<br />

di una visione plastica e compositiva rispondente alla lezione di Costetti,<br />

tendente a un’arte che equivalesse alla dimensione dello spirito. Frattanto,<br />

chiamato militare a Torino, conosceva, presentato da Costetti, Casorati, che<br />

fu suo amico e consigliere. Decorava, allora, alcune pareti della sua caserma.<br />

Michelucci intanto, trasferitosi a Roma e insegnante presso la Scuola Superiore<br />

di Architettura, realizzava alcune tra le sue prime opere architettoniche e lo<br />

chiamava presso di sé per affidargli alcune decorazioni murali, di cui peraltro<br />

non si hanno notizie, se non da qualche progetto. Tornato a <strong>Pistoia</strong>, elaborava<br />

alcuni dei suoi lavori più importanti, quelli realizzati nella campagna presso<br />

il Mulino della Bure, dove aveva seguito la giovane moglie, che vi insegnava.<br />

Pensiamo a La casa rosa (Sera sull’aia), ’29, che appare quasi il più straordinario<br />

raggiungimento del periodo, ammiratissima anche da Lanza del Vasto,<br />

filosofo e poeta che, spostatosi in Toscana da San Vito dei Normanni, seguiva<br />

con passione il lavoro degli artisti pistoiesi. Comunque il periodo che esprime<br />

la più alta definizione del lavoro di Bugiani è quello che va dagli anni ’22-’24<br />

agli anni ’40. E c’è, nel suo lavoro, quel senso di attesa, quasi di sospensione,<br />

quella “poetica dell’addio e della perdita con cui Pietro Bugiani cinge d’un<br />

assedio tenero e dolorante un mondo in attonito smarrimento, rapisce e spinge<br />

la sua solida iconicità verso un’astrazione fatta di quello squillante valore<br />

simbolico” per cui “le forme vengono rapite entro una dimensione estatica<br />

di squisita e suggestiva rarefazione. Voglio dire che, oltre l’astrazione, proprio<br />

l’‘estatico’ è la cifra dell’addio”. Così Pietro Bellasi, nel catalogo citato, definisce<br />

la “nostalgia” di Bugiani, che io avvicinerei pure a quello che, in anni<br />

successivi, e in termini diversi, si diffondeva anche a Firenze, la ripresa, cioè,<br />

di un “realismo magico”, quell’“aura che circonda, anzi, che ritaglia gli oggetti<br />

del mondo” di Bugiani: i suoi silenziosi paesaggi incantati, dai colori morbidi<br />

e soffusi, dove piccoli personaggi della campagna pistoiese sembrano perdersi<br />

nel silenzio, dove gli animali immobili, sembrano “presi per incantamento”<br />

(come nel “vasello” di Dante) i ritratti, che sembrano chiusi in un’atmosfera<br />

di magico silenzio, le sue Madonne, dalla Natività, 1928, alla Madonna in<br />

preghiera, 1928. Si pensi soprattutto alla Madonna dal manto rosso, 1931 ca, di<br />

un livello artistico difficilmente raggiungibile, presente in questa mostra: una<br />

Madonna che il manto avvolge di un colore piatto, timbrico, compatto e leggero,<br />

desunto dai Nabis e da Matisse (dove si respira il ricordo dell’Angelico,<br />

ma anche quello della Madonna del parto di Piero nella lunga apertura nera<br />

da cui esce la mano). Ma anche molte opere<br />

successive, dove figure umane, lievemente<br />

indefinite, come la Madonna, vengono in primo<br />

piano, compatte, quasi giottesche, L’appuntapali,<br />

1930, La maestra, 1932, le diverse<br />

versioni de L’attesa, 1932 e 1961, Contadini al<br />

lavoro, ’30 ca, le nature morte, opere che Costetti<br />

non approvava perché sembravano affrontare<br />

temi più sociali o più “naturalistici”.<br />

(“L’ora estrema del naturalismo è venuta e<br />

tu t’imbarchi con lui...”!, Ragionieri 1998); e<br />

molti, straordinari disegni, che sembrano aver<br />

assorbito e resa personale la lezione di secoli<br />

di artisti, da Giotto, a Masaccio, a van Eych, a<br />

Soffici, a Casorati, a Rosai (ma con una diversa<br />

impostazione, dura e cittadina quella di Rosai<br />

– “Firenze è una città dura” come ripeteva<br />

spesso nei suoi scritti Piero Santi – morbida e<br />

dolce la sua), ai francesi contemporanei...<br />

Cenni bibliografici<br />

P. Bugiani, Autobiografia, in “Il Frontespizio”,<br />

1939, n. 6, pp. 382-385.<br />

B. Occhini, Mostra del pittore Pietro Bugiani,<br />

Firenze, Galleria “Il Ponte”, 16-25 marzo 1942.<br />

A. Soffici, Pietro Bugiani, cat. mostra,<br />

Accademia delle Arti e del Disegno, Firenze,<br />

24 aprile1954-8 maggio 1954.<br />

P. Bellasi, Pietro Bugiani, <strong>Pistoia</strong> 1963.<br />

P. Bellasi, <strong>Un</strong> affresco di Pietro Bugiani al Convento<br />

di San Domenico di <strong>Pistoia</strong>, in “L’Osservatore<br />

Romano”, 17/3/1963, <strong>Pistoia</strong>, p. 6.<br />

G. Vigorelli, Pietro Bugiani, cat. mostra Galleria<br />

Turelli, <strong>Pistoia</strong> 1989.<br />

G. Vigorelli, Pietro Bugiani, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong><br />

1989.<br />

Pietro Bugiani. Gli anni tra le due guerre, cat.<br />

mostra, a cura di S. Ragionieri, Firenze-Siena<br />

1998.<br />

Chiara d’Afflitto, Presentazione, in Pietro<br />

Bugiani. Gli anni tra le due guerre cit.<br />

S: Ragionieri, Itinerario di uno spirito che si cerca,<br />

in Pietro Bugiani. Gli anni tra le due guerre cit.<br />

G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />

Firenze 2000, pp. 128-132.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

92<br />

93


Pietro Bugiani<br />

Natura morta con bricco, 1925<br />

olio su cartone cm 44 x 58; firmato sul lato destro<br />

Bella natura morta, impostata quasi a cannocchiale, come da un<br />

punto di fuga verso la parte posteriore del quadro, secondo le<br />

linee della finestra albertiana. Gioca sul rapporto tra il bianco<br />

del bricco e della tovaglia spiegazzata con la rotondità dei frutti<br />

– che sembrano non ignorare gli esempi di Cézanne. Al centro il<br />

cilindro in prospettiva del bicchiere pieno a metà di vino rosso,<br />

che si richiama al rosso della tenda sul fondo.<br />

94<br />

95


Pietro Bugiani<br />

Pomeriggio domenicale o Quiete domenicale o L’omino che pesca, 1928<br />

tempera su cartone, cm 60 x 80; firmato in basso a destra<br />

Bellissimo lavoro appartenente al periodo di quello che ho<br />

definito “realismo magico” di Bugiani, che esprime un senso<br />

di silenzio e di calma nel quale sembra perdersi l’omino seduto<br />

presso il fiume, intento a pescare nella calma di un pomeriggio,<br />

in mezzo a una natura viva e tranquilla (il pianoro sul bordo del<br />

quale l’uomo siede nel grande silenzio appare quasi come un<br />

cuscino morbido, accogliente, che gli alberi sembrano trapassare<br />

come uno spillo trapassa un cuscino di piume). È il sentimento<br />

di una natura amica che non rende solitario il silenzio.<br />

96<br />

97


Pietro Bugiani<br />

L’appuntatore di pali, 1930 ca<br />

carboncino su carta da scena, disegno monumentale, cm 148 x 100<br />

Questo è probabilmente anche il disegno preparatorio per<br />

L’Appuntapali del 1930: l’uomo e la donna alla sua destra sono<br />

qui descritti con maggior realismo di quanto non lo siano nel<br />

quadro. In quello la lezione giottesca è più evidente. La stessa<br />

cosa si può dire per il fondo. È peraltro un disegno che mostra, di<br />

Bugiani, la grande forza e la profonda esperienza costruttiva.<br />

98<br />

99


Pietro Bugiani<br />

Madonna col manto rosso, 1931 ca<br />

tempera su compensato, cm 94 x 69,5; firmato in basso a destra<br />

Appartiene al periodo del lavoro di Bugiani nel quale si<br />

avvicinava con maggiore interesse alla rappresentazione della<br />

vita umana, in particolare di coloro che lavoravano in campagna,<br />

espressa nella sua condizione, cioè rivolta più all’uomo che al<br />

paesaggio, trovando peraltro un suo modo particolarissimo di<br />

rappresentarlo, che riesce a cogliere la vita senza affondare in quel<br />

“naturalismo”che invece Costetti gli rimprovera: “L’ora estrema<br />

del naturalismo è venuta e tu t’imbarchi con lui”. Ma quello che<br />

Bugiani raggiunge non è affatto “quel” naturalismo; ho parlato<br />

infatti di “realismo magico”. Il suo “non finito”, che egli estende<br />

a molte opere di questo periodo (Contadini al lavoro, 1930 ca;<br />

L’Appuntapali, 1930) trova, a mio avviso, il suo punto più alto<br />

proprio in questa Madonna col manto rosso, che sembra portare a<br />

sublimazione la lezione dell’Angelico, di Piero della Francesca<br />

(nel netto taglio nero dal quale esce la mano della Madonna che<br />

chiaramente allude al taglio bianco nel grembo della Madonna del<br />

parto), di Matisse e dei Nabis nell’à plat timbrico del manto rosso<br />

e della montagna bruna retrostante, che è quanto di più lontano<br />

ci sia dal naturalismo, i passaggi del colore, dal sabbia delle rocce<br />

sulle quali siede la Madonna, al fondo piatto nel suo marrone<br />

uniforme come lo è il rosso nel manto. Non posso non pensare<br />

che questa opera possa degnamente collocarsi tra le più grandi del<br />

primo Novecento italiano.<br />

Sul verso del quadro, Pietro Bugiani, Natività, s. d.<br />

tempera su compensato, cm 66 x 90 ca<br />

Questo lavoro, in molte parti sciupato, ovviamente rifiutato da<br />

Bugiani che ne usò il supporto per il quadro della Madonna col<br />

manto rosso, tagliato e ricoperto da una sorta di imbracatura lignea<br />

a supporto della tavoletta, appartiene molto probabilmente agli<br />

anni nei quali Bugiani realizzava le sue prime Natività (1928 ca).<br />

Qui infatti la Madonna, all’interno di una stalla ben disegnata, con<br />

una luce ben dosata dalla porta semiaperta, è inginocchiata davanti<br />

al Bambino che non c’è (cancellato da una grande abrasione nella<br />

campitura), ha la testa completamente disegnata, scoperta; veste<br />

una blusa rossa su una gonna scura; il manto è azzurro; sul fondo,<br />

sulla paglia, a sinistra un bue accovacciato; a destra un cavallo<br />

grigio la cui testa è coperta dai listelli di contorno.<br />

100<br />

101


Pietro Bugiani<br />

Studio per il commiato o Viandanti, 1933<br />

carboncino su carta da scena, disegno monumentale<br />

cm 148 x 100<br />

<strong>Un</strong>o dei grandi disegni monumentali che evidenziano la<br />

straordinaria abilità di Bugiani e la partecipazione emotiva che<br />

egli ha sempre profuso nei suoi lavori dedicati alla figura umana;<br />

e anche la sua totale assimilazione della storia della cultura<br />

artistica del Tre e Quattrocento fiorentino, da Giotto a Masaccio,<br />

ma anche la solida lezione di Cézanne... È evidente la tensione<br />

emotiva delle due persone, dalle forme compatte, chiuse<br />

nelle loro vesti a difendersi dal freddo, un cappotto dal collo<br />

rialzato a coprire le orecchie dell’uomo, un piccolo scialle che,<br />

partendo dal davanti, copre a metà il volto della donna. Forte e<br />

commovente l’intensità della partecipazione dei due personaggi<br />

che si avviano probabilmente verso un triste ufficio. Ma anche<br />

qui non siamo di fronte a quel “naturalismo” che Costetti<br />

deprecava, ma a un realismo che si avvicina al “realismo magico”<br />

del periodo.<br />

102<br />

103


Alfiero Cappellini<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1905-1969<br />

Inizialmente legato agli artisti pistoiesi suoi coetanei, condivideva con loro<br />

l’impostazione artistica che vedeva nella natura il suo riferimento diretto, secondo<br />

i seduttivi incoraggiamenti di Costetti, verso un’arte espressione dello<br />

spirito, seppure nutrita dello studio dei grandi artisti fiorentini del Tre e Quattrocento,<br />

rivisitata da Carrà, Rosai, Soffici, ma con un occhio alle linee costruttive<br />

e strutturate del Novecento italiano e del Ritorno all’ordine, imposti dalla<br />

Sarfatti. Fu un testo di Bugiani su “L’Azione” del ’29, che lo definiva “uno<br />

dei giovani più promettenti del gruppo pistoiese”, che indirizzava tutta l’impostazione<br />

della critica sul suo lavoro, già peraltro volto a una interpretazione<br />

della natura in modo più drammatico di quanto non facesse per gli altri artisti.<br />

Quando, durante la seconda guerra mondiale, i nazisti entrarono in Toscana,<br />

Cappellini fu derubato di oltre sessanta quadri (quasi tutto il suo primo periodo)<br />

e spariva anche tutta la sua documentazione. A questo punto la sua linea<br />

di ricerca e di lavoro, consona al suo carattere ombroso, scontroso, fortemente<br />

impegnato politicamente e socialmente, si caratterizza per la sua violenza<br />

espressiva, di carattere quasi espressionista. Per lui il rapporto tra opera e impegno<br />

morale è sempre stato strettissimo. Il suo lavoro si fa quasi violento;<br />

“la sua pittura”come scriveva Mario Ciattini (1968) “non è mai un fenomeno<br />

di gusto, ma semmai di reazione”. E nello stesso volume Giancarlo Savino<br />

aggiungeva: “Cappellini non ha nostalgie [...] la pennellata è unicamente se<br />

stessa, e non segno d’altro; allo stesso modo della parola nella poesia [...] un<br />

segno carico di una forza espressiva e del peso di una sua intensità cromatica,<br />

il quale non piega mai a uno stimolo di narrazione contemplativa, capace di<br />

uscire dall’ambito di un’esperienza effimera, e finanche al compromesso di un<br />

suggestivo decorativismo”.<br />

I suoi temi sono ancora quelli caratteristici degli altri artisti pistoiesi: il paesaggio,<br />

la campagna, i contadini al lavoro, drammatiche e forti scene religiose... Si<br />

pensi al Bacio di Giuda (’35), un’opera di grande impatto, una sorta di violenta<br />

sinfonia corale; ai Funai di <strong>Pistoia</strong> (’37), dove la macchina e l’intricato avvolgimento<br />

delle funi invadono tutta la scena, chiudendo gli uomini che lavorano<br />

in una sorta di gabbia oppressiva (un lavoro di straordinaria forza dinamica);<br />

a Contadino che vanga (’46), dove si crea un chiasmo violento tra la gamba<br />

dell’uomo e lo strumento. C’è un lavoro Renaioli al Mugnone (‘49), nel quale<br />

un renaiolo ha quasi la stessa posizione di uno dei contadini ne L’appuntatore<br />

di pali (1930) di Bugiani.<br />

Ma quanto più dura, rigida è la figura del renaiolo di Cappellini: c’è tutto il<br />

dramma di una durissima condizione di vita; mentre l’immagine nella posi-<br />

zione simile di Bugiani assume un carattere più contemplativo, quasi bucolico.<br />

Ma si veda anche la Natura morta del ’27 (Museo Civico, <strong>Pistoia</strong>), con un<br />

uccello morto su un piatto, che Chiara Toti (2007) descrive “bloccata entro<br />

un’ascetica sintesi neogiottesca”, che a me sembra anche di una sconvolgente<br />

modernità.<br />

Le interpretazioni della vita locale (e italiana) del momento sono particolari<br />

e diverse dalle consuete: è diverso l’uso del colore che si fa spesso acido, timbrico,<br />

freddo, è diverso il suo segno, che si fa sprezzante della forma, quasi<br />

gestuale. Cappellini parla del suo lavoro e dell’arte contemporanea su alcuni<br />

suoi interventi, sempre improntati a una visione socio-politica sul “Ferruccio”<br />

nel ’33 e nel ’34 e continuerà su questa linea per tutta la vita, mantenendo la<br />

stessa coraggiosa violenza espressiva, anche se provato da una dura malattia.<br />

Nel catalogo della mostra di Cappellini al convento di San Domenico a <strong>Pistoia</strong><br />

(Alfiero Cappellini 1985) è riportato un testo di Cappellini pubblicato sul “Ferruccio”<br />

(n. 3, 3 giugno ’33): “In questa naturalezza del pensiero che interpreta<br />

sempre meno mimeticamente la natura corrisponde una nietzchiana concezione<br />

orfica di quest’ultima, a cui l’arte intesa<br />

nel suo farsi, deve necessariamente ricondursi.<br />

L’arte, come la natura è una cosa continuamente<br />

diversa ma non per sempre uguale. Come il<br />

mondo possiede la divina armonia rotativa il<br />

cui andare da nulla potrà essere impedito”.<br />

Presente a tutte le mostre regionali, nazionali,<br />

alla Biennale di Venezia nel ’36 e, nel ’40, con<br />

una personale.<br />

Negli anni Cinquanta fu invitato in Romania<br />

dove, spinto dal suo impegno sociale, tentava<br />

di far passare, nel suo lavoro, il significato dei<br />

complessi problemi sociali di quel paese.<br />

Cenni bibliografici<br />

A. Cappellini, Autopresentazione, in “Il<br />

Frontespizio”, 1939, n. XI, pp. 381.<br />

P. Conti, Alfiero Cappellini espone alla Galleria<br />

Vannucci, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 1960-1961.<br />

A. M. Ciattini, G. Savino, Alfiero Cappellini,<br />

Firenze 1968.<br />

M.C. Mazzi, C. Sisi, La città e gli artisti. <strong>Pistoia</strong><br />

tra Avanguardia e Novecento, Firenze 1980,<br />

pp 115-121.<br />

Alfiero Cappellini, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 1985.<br />

G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />

Firenze 2000, pp. 133-143.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

C. Toti, Dentro la città e fuori le mura: percorsi<br />

espositivi di artisti pistoiesi tra le due guerre in Arte<br />

del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, cit.<br />

104<br />

105


Alfiero Cappellini<br />

Bosco, s. d.<br />

olio su truciolare, cm 32 x 37; firmato in basso a destra<br />

<strong>Un</strong>’opera affidata al segno, che definisce, più realisticamente<br />

che in Paesaggio, le forme scheletriche degli alberi, ma anche<br />

qui con dense spatolate di colore, che creano l’albero in prima<br />

fila, coperto di rami fronzuti e grandi macchie di verde, e di<br />

un giallo luminoso a definire le macchie di sole, che filtrano<br />

tra gli alberi. Il fondo, più gradatamente miscelato, presenta<br />

un cielo morbidamente fuso; dietro gli alberi l’azzurro delle<br />

colline. Anche qui l’esempio di un lavoro a metà tra il realismo<br />

e la sua trascrizione in termini di più libera modernità tecnica e<br />

immaginativa.<br />

106<br />

107


Alfiero Cappellini<br />

Paesaggio, 1966<br />

olio su tela, cm 40 x 50; firmato in basso a destra<br />

Il quadro non parte da un disegno definito, ma si compone quasi<br />

esclusivamente di spatolate di colore che creano, nella loro<br />

variazione, l’immagine allusiva di un panorama ricco di verdi<br />

diversi, di ombra e di luce, di alberi, mentre i bianchi accennano<br />

a sentieri, a file di case, di acque. Nel fondo azzurri chiazzati<br />

disegnano le colline, tra le quali si affaccia la macchia gialla<br />

rotonda, di un grande sole. Appare chiara la volontà di rendere la<br />

realtà con nuovi mezzi espressivi, perfettamente e chiaramente<br />

assimilati.<br />

108<br />

109


Umberto Mariotti<br />

<strong>Pistoia</strong> 1905-1971<br />

Nato a <strong>Pistoia</strong> nel 1905, nel 1912 a seguito di un incidente, Mariotti subisce<br />

una lesione alla spina dorsale che lo costringe per lungo tempo ingessato.<br />

Il trauma ne compromette il pieno sviluppo fisico, ma la malattia però lo fa<br />

avvicinare velocemente alla pratica del disegno. Frequenta le scuole tecniche<br />

e contemporaneamente l’ambiente dell’azienda paterna, che è tipografo,<br />

apprendendo i primi rudimenti della litografia, delle tecniche d’incisione e<br />

cartellonistiche. Alla morte del padre nel 1917, si iscrive alla Scuola d’Arte di<br />

Fabio Casanova dove conosce gli amici che di lì a poco avrebbero formato il<br />

‘Cenacolo’ artistico, Agostini, Bugiani, Cappellini, Zanzotto, Rosatelli, Magni,<br />

Michelucci, coltivando fin dagli inizi un’amicizia privilegiata con Alberto<br />

Caligiani. Frequenti sono le uscite nella campagna pistoiese.<br />

Come gli altri del Cenacolo pistoiese i temi a lui cari sono le vedute di paesaggio,<br />

il ritratto e la natura morta, anche se con il tempo dimostrerà di avere una<br />

particolare sensibilità per gli ultimi due. Alla Terza Esposizione del Sindacato<br />

Toscano delle Arti del Disegno, nel 1927, Libero Andreotti acquista una sua<br />

bellissima Natura morta con tovaglia a righe; mentre alla Prima Mostra Provinciale<br />

d’Arte, organizzata dal Comune di <strong>Pistoia</strong> nelle sale del Palazzo civico,<br />

viene notato quale fulgida promessa dell’arte pistoiese per la sua Maternità,<br />

opera riprodotta su molta della stampa del momento.<br />

A questa altezza il suo linguaggio si esprime attraverso lavori di compiuta sintesi<br />

formale che, tra il 1927 e il 1930, scaturiscono dalla ricezione ben miscelata<br />

della lezione di Casorati e di Carena, dalla riflessione sugli antichi, seppur<br />

alla luce di Cézanne, dando vita a una peculiare e raffinata pasta cromatica che<br />

diviene la cifra per le opere di maggior rilievo di questo periodo. Sono opere<br />

che è difficile comprendere se non si tiene conto di quel ‘realismo magico’<br />

che già a quei tempi si respirava, seppur con altre modulazioni, nei paesaggi<br />

di Bugiani, nelle nature morte di Cappellini, di Eloisa Pacini Michelucci o di<br />

Egle Marini. Al largo degli anni Trenta Mariotti recepirà anche il colorismo di<br />

Spadini, portando avanti nel tempo una pittura fatta di minimi accordi di luce<br />

che inondano i dipinti accarezzando i corpi dei familiari affetti o degli amici;<br />

una pittura che avrebbe decretato all’artista una certa fama cittadina come<br />

fine esecutore di ritratti. (cfr. Iacuzzi 2005)<br />

Tra il 1929 e il 1934 partecipa alle più importanti esposizioni del Sindacato<br />

di Belle Arti a Firenze, alla Prima Regionale nel 1933, alla II, III e IV Mostra<br />

Provinciale pistoiese, con un buon successo di critica. Nel 1936 in contrasto<br />

con il regime, aderisce al partito di Giustizia e Libertà e tra il 1935 e il 1939<br />

è assente dalle mostre cittadine ufficiali per dissapori con il regime. Arrestato<br />

nel 1943 è costretto in seguito a rifugiarsi in clandestinità nelle campagne<br />

pistoiesi.<br />

Al termine della guerra, già dal 1944, Mariotti è tra i fautori della riapertura<br />

della Scuola d’Arte e ne viene nominato direttore; a lui si affiancano nell’insegnamento<br />

gli amici Pietro Bugiani, Vasco Melani, Alfiero Cappellini, Corrado<br />

Zanzotto che alternano con ottimismo le lezioni nelle aule alle gite all’aperto<br />

o negli studi degli artisti.<br />

Sullo scorcio degli anni Quaranta arriva anche la partecipazione alla V Quadriennale<br />

romana e si succedono nei due decenni le presenze a numerose<br />

esposizioni: Biennale di Venezia (1950), nel Mezzo <strong>secolo</strong> d’arte in Toscana a<br />

Firenze (1952), solo per citarne alcune.<br />

L’ultimo decennio della sua vita trascorre tra l’insegnamento e la pittura cui si<br />

dedica con proverbiale dedizione, insegnando pittura dal vero. La sua amicizia<br />

con il Gallerista Arrigo Valiani lo porta a fondare, insieme ad altri amici, la<br />

Brigata del Leoncino, associazione volta alla valorizzazione della cultura cittadina.<br />

Nel 2005 il Centro di Documentazione<br />

sull’Arte moderna e contemporanea pistoiese<br />

dedica al maestro un’ampia retrospettiva, curata<br />

da Annamaria Iacuzzi, ricostruendo le fasi<br />

artistiche del suo lavoro con opere storiche di<br />

riferimento all’interno dello sviluppo della sua<br />

attività.<br />

Cenni bibliografici<br />

Umberto Mariotti. 1905-1971, a cura di A.<br />

Iacuzzi, Centro di Documentazione sull’Arte<br />

moderna e contemporanea pistoiese, <strong>Pistoia</strong><br />

2005.<br />

C. Toti, Dentro la città e fuori le mura..., in C.<br />

Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

110 111


Umberto Mariotti<br />

Ritratto di Sigfrido Bartolini fanciullo (1945)<br />

olio su tela, cm 79,5 x 65; firmato in basso a destra<br />

Il ritratto del giovanetto Sigfrido Bartolini può a buon titolo<br />

essere rappresentativo di quella pittura di ‘intimi affetti’ che<br />

caratterizza la produzione ritrattistica di Umberto Mariotti<br />

degli anni Quaranta. A turno i giovani allievi della Scuola<br />

d’Arte posavano per l’insegnante che con incisività e maestria<br />

riusciva a cogliere i tratti più salienti delle acerbe personalità.<br />

L’interno dello studio di Porta Carratica a <strong>Pistoia</strong>, dove un ampio<br />

finestrone rischiarava con la sua luce l’ambiente è lo sfondo<br />

di questo ritratto tutto giocato sulle sottili tonalità pastello di<br />

bianchi, rosa pallidi e verdi. Sul cavalletto fa capolino il ritratto in<br />

fieri di un’allieva nel suo bel grembiule.<br />

112 113


Egle Marini<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1901 – Viareggio, 1983<br />

Gemella di Marino Marini, condivideva con lui un’infanzia e un’adolescenza<br />

amorosamente e attentamente seguite verso un futuro aperto e consapevole,<br />

prefigurato dalla propensione di entrambi all’arte, uniti in una comune e condivisa<br />

preparazione culturale e artistica.<br />

Luana Cappugi, curatrice del catalogo della mostra antologica dell’artista<br />

presso l’ex Centro Marino Marini nel Palazzo Comunale di <strong>Pistoia</strong> (Egle Marini<br />

1990) cita alcuni dolci passaggi dei testi letterari di Egle Marini sulla vita<br />

dei due fratelli: “[...] la stufa ardente, due seggioline eguali e quattro mani nel<br />

tepore di un grembo, donde un che di forte, di riparo certo, di roccia”. E “accovacciati<br />

in due sulla poltrona, e il grembiulino del fratello odora stranamente<br />

di scuola [...] Che tetri banchi e che finestre grigie! I doveri. Le domeniche<br />

accompagnate da riti. Certe lunghe preghiere la sera dei Morti... I giocattoli<br />

chiari. La medicina rossa. La ruota rossa della carrozza, l’odore di finimenti e<br />

lo svolare delle tendine...”.<br />

C’è sempre, in Egle Marini, una sensibilità dolce e allo stesso tempo sicura<br />

nei confronti dei rapporti familiari e degli oggetti quotidiani che traspare nei<br />

suoi quadri (in particolare in molti ritratti femminili, intrisi spesso di un luminoso<br />

intimismo e insieme di una sontuosità quasi settecentesca (Autoritratto al<br />

cavalletto, 1930; Figura in bianco, 1930; Testa di donna giovane, 1931 – in questa<br />

collezione – Ragazza seduta in giardino, s. d.; come avvolti in morbide, diffuse,<br />

dolci atmosfere). Altri lavori risentono di echi culturali e di amate predilezioni<br />

(Maschera, 1928, bel ritratto, assorto, la testa reclinata come quella di molti<br />

personaggi dei periodi rosa e blu di Picasso. Ne cito soltanto uno, del periodo<br />

blu, Il cieco, 1903). E ancora i lavori sapienti come Bambina con pupattola, s.d.;<br />

Bambino col grembiulino grigio, 1928; il superbo Autoritratto con la casacca blu,<br />

anni Cinquanta circa. E certe sapienti nature morte (Natura morta con pianta<br />

grassa, cestino di limoni ed anfora e Natura morta con pianta grassa, cesto di limoni<br />

ed anfora, di scorcio (s.d.), che certo non nascondono, come nota Luana Cappugi<br />

“il ricordo di nature morte spagnole del Seicento, segnatamente opere di<br />

Zurbaran”. E accenna a quella straordinaria della collezione Contini Bonacossi,<br />

oggi negli Stati <strong>Un</strong>iti.<br />

E ancora Veduta di uno stabilimento balneare, s.d., per il quale come si può non<br />

pensare alla deliziosa Rotonda Palmieri di Fattori?<br />

Per arrivare, infine, a Paesaggio (certamente dopo il ’60), dove vive, con grande<br />

autonomia e freschezza, un’allusione al Dubuffet delle Terre. E certi disegni, a<br />

tratti fitti, sottili, netti, che sembrano voler creare una sorta di bruma, (“similmente<br />

ad una cattedrale di Monet”), legato anche a un informale segnico...<br />

La dolcezza, la morbidezza, la “nostalgia” sono, nei lavori di Egle Marini,<br />

qualità che la avvicinano alle caratteristiche della pittura pistoiese del Novecento,<br />

ma coniugate in una sua personalissima, autonoma, aristocratica, forte e<br />

gelosa ritrosia, che peraltro non la fa rinunciare<br />

al suo “vigoroso e sensibile linguaggio poetico”<br />

che l’ha accompagnata per tutta la sua vita<br />

da quando, come scrivevo in un brevissimo<br />

testo del ’57, pubblicato ne “Il Ponte” (1962)<br />

portava avanti il suo vivace confronto tra lei<br />

e il fratello gemello, Marino, in “una sorta di<br />

gara vivace ed agile tra una scultura divenuta<br />

espressione di un mito moderno e un linguaggio<br />

plasticamente esaltante l’eroe caduto da<br />

un mondo superumano”.<br />

Cenni bibliografici<br />

L.-V. Masini, Egle Marini, in “Il Ponte”, n. 1,<br />

1962.<br />

E. Marini, Commenti poetici ispirati alle opere di<br />

Marino, Livorno 1975.<br />

Egle Marini 1924-1968, cat. mostra a cura di L.<br />

Cappugi, Milano 1990.<br />

G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />

Firenze 2000, pp. 119-120.<br />

M. Del Serra, D. Giuntoli, Egle Marini, La<br />

parola scolpita, <strong>Pistoia</strong> 2001.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

Egle Marini 1924-1968, cat. mostra a cura L.<br />

Cappugi, Milano 1990.<br />

114<br />

115


Egle Marini<br />

Ritratto, 1931<br />

olio su cartone telato, cm 49,5 x 34; firmato e datato in basso a destra<br />

I ritratti di Egle Marini esprimono, tutti, l’intensità della sua<br />

sensibilità, la forza del suo carattere schivo, e anche gentile,<br />

del suo dipingere orgogliosamente autonomo. Direi che i suoi<br />

ritratti si distinguono per essere, alcuni, come questo, risolti con<br />

estrema delicatezza: il colore chiaro, l’immagine trattata con<br />

finezza, tutta svolta dal bianco al lieve rosa del volto, all’azzurro<br />

del fondo, il tutto in un’atmosfera lievemente brumosa, come<br />

sotto un leggerissimo velo; altri che si propongono con più viva<br />

intensità, con una presenza quasi imperiosa, con una descrizione<br />

più realistica e insistita. Si pensi al bellissimo Autoritratto con<br />

la casacca blu, più tardo, che esprime tutto l’orgoglio del suo<br />

ombroso individualismo.<br />

116<br />

117


Egle Marini<br />

Paesaggio toscano, 1950 ca<br />

olio su compensato, cm 24,5 x 34,5; firmato in basso a destra<br />

<strong>Un</strong> paesaggio chiaro, dai colori luminosi, trattato a tocchi fitti e<br />

leggeri nella vegetazione dai verdi diversi, a spatolate più larghe<br />

nel terreno color sabbia rosato, con un morbido e leggero impasto<br />

nel cielo che gioca sull’azzurro chiaro, sul verde tenerissimo, sul<br />

bianco soffice, come soffiato. Non c’è dubbio però che i lavori di<br />

Egle dedicati ai ritratti, alle nature morte, alla descrizione degli<br />

oggetti le siano più congeniali ed esprimano più passione.<br />

118<br />

119


Corrado Zanzotto<br />

Pieve di Soligo, Cadore, 1903 – San Marcello Pistoiese, <strong>Pistoia</strong>, 1980<br />

“<strong>Un</strong>a carnalità malinconica”. Questa la definizione di Zanzotto nel dialogo tra<br />

Paolo Fabrizio e Annamaria Iacuzzi in Corrado Zanzotto e il dialogo dietro il paesaggio<br />

(2004) nel centenario della nascita dell’artista. <strong>Un</strong>a vita difficile, quella di<br />

Zanzotto, a <strong>Pistoia</strong> dagli anni giovanili, reso già claudicante da una poliomielite<br />

infantile. Poco si sa del suo lavoro prima della seconda guerra mondiale, durante<br />

la quale fu costretto a tornare a Pieve di Soligo perché, a <strong>Pistoia</strong>, “indesiderato”.<br />

Certo, non doveva essere persona facile e docile, già colpito dalla sorte come<br />

era stato e come fu, quando tornò, dopo la guerra, a <strong>Pistoia</strong>, e trovò la sua famiglia<br />

per metà distrutta da un bombardamento tedesco durante il quale furono<br />

irrimediabilmente rovinate moltissime sue opere plastiche. Senza mezzi, senza<br />

lavoro, armato solo della sua passione per l’arte, fu accolto presso la Casa di riposo<br />

per anziani al Villone Puccini. Si dedicava allora al suo disegno “da scultore”.<br />

I suoi soggetti erano i vecchi della casa di riposo dei quali, nel disegno (e anche<br />

nella scultura), egli privilegia il profilo, che “doveva essere ‘per lui’ sicuramente<br />

stimolante per cogliere lo scatto nervoso dei muscoli sottesi sotto l’epidermide.<br />

Usava spesso anche una costruzione dei volti che privilegiava la visione di<br />

profilo ma leggermente sfuggente, in cui l’attenzione si focalizza prima sulla<br />

nuca per poi trascorrere verso il limite esterno del volto”. Sono, i suoi, ritratti<br />

di una intensità di intuizione psicologica straordinaria, pietosa verso quella<br />

vita difficile che mostra nel volto tutto il suo passato. E soggetto erano anche i<br />

paesaggi del Villone Puccini. Dopo guerra insegnava, per qualche tempo, alla<br />

Scuola d’Arte di <strong>Pistoia</strong>. Dal ’52 si ritirava, in solitudine, in montagna, tra Pracchia<br />

e Sammommè. E sono, anche i suoi nuovi<br />

paesaggi, ‘da scultore’, con quelle montagne<br />

spoglie, a grandi blocchi, incombenti “dietro il<br />

paesaggio”. Le sue montagne sono trattate, infatti,<br />

come i suoi ritratti di vecchi contadini, nel<br />

disegno e nelle sculture, solcate come terreni<br />

rovesciati dall’aratro. Scrivono ancora Paolo Fabrizio<br />

e Annamaria Iacuzzi: “Zanzotto usa il lapis<br />

come fosse un aratro; come il contadino ara<br />

il campo, lui ara questi volti e queste superfici.<br />

Le figure sono sempre in stato di calma, non<br />

è né attesa né rassegnazione. È il tempo che<br />

si posa sulle figure, che scaturisce la pazienza<br />

sui volti”. Ciò che può applicarsi anche alle sue<br />

sculture.<br />

Cenni bibliografici<br />

M.Borghi, Pitture e sculture di Corrado Zanzotto,<br />

Roma 1956.<br />

Corrado Zanzotto. Opere dal 1956-1971, Roma<br />

1972.<br />

Donazione Corrado Zanzotto, Cassa di Risparmio<br />

di <strong>Pistoia</strong> e Pescia, <strong>Pistoia</strong> 1991.<br />

Corrado Zanzotto (1903-1980). Scultura, pittura,<br />

grafica, cat. mostra a cura di A.Parronchi, P. F.<br />

Iacuzzi, E. Dei, <strong>Pistoia</strong> 1987.<br />

G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />

Firenze 2000, pp. 124-127.<br />

Corrado Zanzotto. <strong>Un</strong> segno plastico, cat. mostra,<br />

Centro di Documentazione sull’Arte moderna<br />

e contemporanea, <strong>Pistoia</strong> 2004.<br />

P. F. e A. Iacuzzi, Corrado Zanzotto e il dialogo<br />

dietro il paesaggio, in Corrado Zanzotto. <strong>Un</strong> segno<br />

plastico, cit.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

121


Corrado Zanzotto<br />

Autoritratto con idea di figura, s.d.<br />

olio su tela, cm 80 x 100<br />

Autoritratto a mezzo busto, senza il solito tabarro che compare<br />

anche nell’Autoritratto in Collezione Cassa di Risparmio di<br />

<strong>Pistoia</strong> e Pescia S.p.A., con una sciarpa e il solito cappello da cui<br />

fuoriescono i capelli ricci e ispidi. Lo sguardo è, come altrove,<br />

abbastanza cupo, come quello di chi non si trova al suo massimo<br />

nella vita. A destra il profilo di un tavolo, tracciato a matita e,<br />

sulla parete di fondo, sempre a veloci tratti di matita, una “idea<br />

di figura”, come dal titolo. Il cappello in testa, la sciarpa al collo<br />

sopra la camicia bianca, dicono molto sulle dure condizioni di<br />

vita di questo forte, vitale scultore e pittore, sul freddo di una<br />

stanza (una soffitta?) dove non esiste neppure un filo di fuoco.<br />

Comunque un autoritratto che, con pochi segni sa rappresentare<br />

con crudezza ma anche con chiarezza psicologica, una condizione<br />

del vivere.<br />

122<br />

123


Corrado Zanzotto<br />

Cesarone, 1935<br />

bronzo, cm 28 x 40 x 28, firmato sul retro<br />

Si sono sempre definiti la pittura e il disegno di Zanzotto come<br />

espressioni “di uno scultore attento alle mosse e ai volumi da<br />

ritrarre” . Si è parlato della sua “attenzione tutta plastica verso il<br />

soggetto”. Fu Giovanni Michelucci che, vedendo la forza incisiva<br />

dei disegni di Zanzotto, lo spinse a dedicarsi alla scultura.<br />

Questo Cesarone è forse il lavoro scultoreo più caratterizzato di<br />

Zanzotto. La forte incisività del volto contratto, dalla fronte<br />

solcata da dense pieghe che convergono verso il centro, agli<br />

occhi dallo sguardo che sembra rivolto verso l’interno, la bocca<br />

contratta in un forzato mutismo, fortemente determinato. Tutto<br />

il volto sembra tendere verso il basso privilegiando secondo<br />

l’abitudine dell’artista “la visione di profilo, ma leggermente<br />

sfuggente, in cui la tensione si focalizza, prima nella nuca per poi<br />

trascorrere verso il limite esterno del volto, costruzione che gli<br />

permetteva di sintetizzare, in un ideale tutto tondo disegnativo<br />

e scultoreo l’intera testa”, come osservano nel loro dialogo Paolo<br />

Fabrizio e Annamaria Iacuzzi (in cat. Corrado Zanzotto, 2004).<br />

124<br />

125


Corrado Zanzotto<br />

Testa di donna con cicatrici, 1973<br />

bronzo, cm 38 x 15 x 26<br />

<strong>Un</strong>a bella testa di donna, la fronte e la guancia destra solcate<br />

da profonde cicatrici, il volto severo, gli occhi quasi chiusi,<br />

la bocca serrata e un po’ sporgente che esprimono una forte<br />

determinazione interiore (come quella del Cesarone, l’altra<br />

scultura di Zanzotto presente in mostra). I tratti di questa<br />

giovane donna, ben delineati, la fanno apparire come chiusa<br />

in una sua profonda, quasi cupa interiorità. I capelli, trattati a<br />

ciocche piatte sono legati dietro la testa e scendono raccolti, ad<br />

accentuare la tendenza di Zanzotto a chiudere l’immagine verso<br />

il davanti della faccia.<br />

126<br />

127


ARTISTI PISTOIESI VISSUTI<br />

FUORI DALLA CITTÀ<br />

Marino Marini<br />

Agenore Fabbri<br />

Mario Nigro<br />

Gualtiero Nativi<br />

129


Marino Marini<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1901 – Forte dei Marmi, 1980<br />

Da sempre legato alla sua città, dove partecipava, ai suoi inizi, a tutte le manifestazioni<br />

espositive promosse dal Sindacato Fascista di Belle Arti assieme ai<br />

giovani artisti pistoiesi, e dove tornava spesso, anche quando viveva a Milano,<br />

anche perché a <strong>Pistoia</strong> viveva la sorella gemella, Egle, che lo aveva sempre seguito<br />

condividendo con lui il periodo della sua formazione, e che a <strong>Pistoia</strong> portava<br />

avanti il proprio lavoro artistico, in una sua schiva autonomia. Marini aveva<br />

studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, allievo, tra gli altri, di Trentacoste<br />

e di Galileo Chini. Si dedicava, inizialmente, alla pittura e al disegno,<br />

seguendo, in questo, le idee di Costetti, relative all’uso del colore nel quale,<br />

come dichiarava Costetti, è “l’inizio di ogni idea”. Dagli anni Trenta affrontava<br />

anche la scultura.<br />

Frattanto era stato a Parigi, dove aveva incontrato la maggior parte degli artisti<br />

più noti, dagli italiani De Chirico, De Pisis, Magnelli, a Picasso, Kandinskij, Braque,<br />

e aveva visto la scultura di Rodin e di Medardo Rosso. Nello stesso periodo,<br />

dal ’29 al ’40, succedeva, presso la Scuola d’Arte di Monza, nella cattedra di Arturo<br />

Martini. Durante la seconda guerra mondiale visse nel Canton Ticino, dove<br />

conobbe Giacometti e dove affrontò l’attività di incisore che continuerà, con risultati<br />

straordinari, per tutta la vita. Dopo la guerra si trasferiva definitivamente<br />

a Milano. Ha portato avanti, con straordinaria creatività e con uno spirito innovativo,<br />

il suo lavoro di scultore. Non ha mai seguito infatti le linee del “Novecento<br />

italiano” e dei “Valori plastici”, allora dominanti, rivolti a proporre una posizione<br />

di “centralità nazionale”, secondo i canoni di Margherita Sarfatti e del Regime,<br />

che intendevano imprimere anche al gruppo pistoiese una forte impronta politica.<br />

Marino si volgeva invece verso una ricerca di plastica pura, rifacendosi anche<br />

a certi moduli astratteggianti dell’arte egizia e di quella etrusca, in termini di una<br />

rinnovata intenzionalità formale, tesa ad una nuova formatività scultorea che non<br />

rifiuta il naturalismo a tutto tondo, di forte impianto architettonico. Scriveva nel<br />

1992 Danilo Eccher: “L’arcaismo sottile di Marino Marini affonda [...] le proprie<br />

radici da un lato sull’opulenta visionarietà etrusca e dall’ altro lato in un sobrio e<br />

quasi barbarico medievalismo compositivo”. Si pensi alle sue magnifiche, esuberanti<br />

Pomone, bloccate e monumentali, ai suoi Giocolieri, così agili in scultura, così<br />

vivi e ricchi di colore in pittura, ai suoi straordinari ritratti, di una rara e preziosa<br />

intensità psicologica, tra le realizzazioni più importanti, sul tema, nell’ ambito<br />

della scultura contemporanea, che si ispirano, pur nella loro assoluta autonomia,<br />

alla scultura del Rinascimento e a quella romana, e che superano il riferimento<br />

realistico al soggetto per evidenziarne la personalità più segreta. “<strong>Un</strong>isono a<br />

una somiglianza spesso angosciante anche un alto livello di transvisualizzazio-<br />

ne spirituale” (Erich Steingräber 1992). Si ricordino anche le sue tante versioni<br />

di cavaliere e cavallo, uniti spesso in una sola, dinamica, ambigua, drammatica<br />

creatura. Pensiamo allo straordinario Miracolo del ’43, che apre il suo periodo<br />

definito “gotico”, nel quale il blocco si apre come per una esplosione interna, in<br />

gestualità scattanti, in uno slancio violento, trasformando il gruppo equestre in<br />

una dinamica, simbolica, disperata esistenzialità. “Il cavaliere rappresenta per lui<br />

una figura tragica. Lo vede come simbolo del dramma umano. Balza immediatamente<br />

all’occhio la relazione che intercorre tra i cavalieri di Marini e la desolata<br />

situazione esistenziale del dopoguerra”. “Le mie figure di cavaliere” dichiarava<br />

lo stesso Marini “sono simboli dell’affanno che mi prende quando guardo la<br />

mia epoca. I miei cavalli diventano sempre più inquieti; i cavalieri sempre più<br />

incapaci di controllarli. La catastrofe che schiaccia uomo e animale assomiglia<br />

a quelle che distrussero Pompei e Sodoma”. Su questa via Marino arriverà alla<br />

totale scarnificazione della forma. Per quanto riguarda la pittura, il disegno e la<br />

grafica cito ancora una frase di Marino: “Per me il dipingere è innato, un’esigenza<br />

originaria e potente che mi spinge a cercare il colore. Non c’è scultura che non<br />

sia passata attraverso questa esperienza”. Ma pittura, scultura, grafica, non sono<br />

per lui solo le premesse della scultura; rappresentano momenti essenziali del suo<br />

fare: anche se i temi sono gli stessi, sia in pittura,<br />

che nel disegno e nella grafica, spesso egli travalica<br />

il “figurale” per arrivare a sintesi formali<br />

praticamente (o apparentemente) astratte, che<br />

tendono a rendere più drammatici i temi inquietanti<br />

trattati in scultura. Bisognerà dire che,<br />

per il disegno e la grafica, egli viene da una città<br />

che nel 1913 aveva dato vita alla Mostra del<br />

Bianco e Nero, che avrà peso e risonanza per gli<br />

artisti pistoiesi per tutto il Novecento. “Il disegno”<br />

scrive ancora Erich Steingräber “incarna<br />

l’ aspetto più originario e geniale dell’atto creativo,<br />

la prima traduzione della visione e l’idea<br />

o il concetto, come venne chiamato l’atto creativo<br />

a partire dal Rinascimento”. I disegni e le<br />

grafiche di Marino (anche se restano disegni e<br />

grafiche di scultore), tendono sempre più, dal<br />

secondo dopoguerra, ad una “riduttività” verso<br />

forme elementari, ma violentemente spezzate e<br />

sempre più tese, espressione della sempre più<br />

minacciata distruzione del mondo occidentale.<br />

Cenni bibliografici<br />

U. Apollonio, Marino Marini scultore, Milano<br />

1953.<br />

Marino Marini. L’opera completa, Milano 1970.<br />

C. Pirovano, Marino Marini scultore, Milano<br />

1972.<br />

Marino Marini, cat. Centro di Documentazione<br />

dell’opera, a cura di Giorgio e Guido Guastalla,<br />

<strong>Pistoia</strong> 1979.<br />

Marino pittore, cat. mostra a cura di M. De<br />

Micheli e C. Pirovano, Milano 1987.<br />

M. De Micheli, Marino Marini, <strong>Pistoia</strong> 1990.<br />

Il Museo Marino Marini di Firenze, cat. mostra a<br />

cura di C. Pirovano, Milano 1990.<br />

Marino Marini, a cura di D. Eccher, Galleria Civica<br />

di Arte contemporanea, Trento 1992.<br />

E. Steingräber, Marino Marini, in Marino<br />

Marini, a cura di D. Eccher, Galleria Civica di<br />

Arte contemporanea, Trento 1992.<br />

L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />

Marino Marini. Catalogo ragionato della scultura,<br />

saggio introduttivo di G. Carandente, Milano<br />

1998.<br />

M. Bazzini, M.T. Tosi, Marino Marini, la forma<br />

del colore, <strong>Pistoia</strong> 2001.<br />

E. Steingräber, M. Bazzini, Marino Marini e il<br />

ritratto, <strong>Pistoia</strong> 2004.<br />

M.T. Tosi, V. Gaiffi,Marino Marini e il nudo,<br />

<strong>Pistoia</strong> 2005.<br />

130<br />

131


Marino Marini<br />

Arlecchino, 1939<br />

bronzo a patina verde, cm 161,5 x 4 x 13,6, base in pietra<br />

Bel ritratto di giovane uomo librato in un inizio di salto, il<br />

braccio sinistro alzato, come a voler difendere, con la mano,<br />

quel che resta del braccio destro mozzato a metà avambraccio,<br />

ad evidenziare il riferimento diretto a statue etrusche e<br />

romane. Intensa l’espressione del volto, come rivolto verso una<br />

mèta lontana, che questo giovane uomo non può mancare di<br />

raggiungere.<br />

Opera giovanile, perfetta, che appare come il simbolo della<br />

volontà del giovane Marino di prefigurarsi un destino eroico.<br />

132<br />

133


Marino Marini<br />

Il giocoliere, 1944<br />

bronzo, cm 88,4 x 37,8 x 67,7<br />

L’uomo, dal corpo solido e compatto, seduto su un piedistallo<br />

cubico, in legno, una gamba piegata sotto l’altra, la mano sinistra<br />

appoggiata sul piedistallo, ha il braccio destro mozzato sotto la<br />

spalla. Questo avrebbe dovuto essere il braccio alzato intento a<br />

far volteggiare, in alto, piccoli elementi (cerchi, palline...) verso il<br />

cui movimento è rivolto il volto alzato dell’uomo, con lo sguardo<br />

intento.<br />

134<br />

135


Marino Marini<br />

Nudo di fanciullo, s.d.<br />

cera su tavoletta di compensato, cm 44 x 34,3 x 16<br />

Morbido nudo di bambino che agita le braccia e punta un piede<br />

sulla tavoletta sulla quale è collocato, quasi a volersi liberare da<br />

questa posizione. La morbidezza della cera accentua il senso di<br />

delicatezza del giovane corpo, anche questo di una naturalezza<br />

che dimostra quanto la ricerca di Marini tendesse, fin dai suoi<br />

inizi, ad una nuova, più libera formatività scultorea, che non<br />

rifiuta il naturalismo di forte impianto architettonico.<br />

136<br />

137


Marino Marini<br />

Acrobata, 1952<br />

inchiostro su carta, cm 64,5 x 39; firmato in basso a destra<br />

<strong>Un</strong>a morbida figura di donna descritta da un segno che ne<br />

definisce il contorno e che prosegue attorno al collo a mostrare<br />

la presenza, altrimenti indecifrabile, di una maglia bianca intera.<br />

La qualifica di acrobata si rivela solo attraverso la posizione delle<br />

gambe e dei piedi quasi incrociati e nell’accentuato piegamento<br />

laterale della testa.<br />

Dietro la figura, chiusa nel suo contorno lineare, una traccia<br />

scura, a grossi tratti di inchiostro, le crea attorno un’ombra scura,<br />

che la fa risaltare in primo piano.<br />

138<br />

139


Marino Marini<br />

Chevaux et Cavaliers I, 1972<br />

litografia a colori, es. XXI / XXX, cm 38 x 50 interno<br />

(50 x 65, esterno); firmata in basso a destra<br />

Chevaux et Cavaliers VIII, 1972<br />

litografia a colori, es. XXI / XXX, cm 39 x 52 interno<br />

(49,5 x 65, esterno); firmata in basso a destra<br />

Due bellissime incisioni, di una grande libertà, di forte e sicuro<br />

impianto, dai colori vivi. Come quasi tutto il lavoro grafico di<br />

Marino, queste due incisioni, di una dinamicità quasi violenta<br />

nel raddoppiamento e rovesciamento delle immagini, esprimono<br />

la carica espressiva, la sinteticità, la drammatica tensione del<br />

periodo maturo della sua ricerca.<br />

140<br />

141


Agenore Fabbri<br />

Barba, <strong>Pistoia</strong>, 1911 – Savona, 1998<br />

Già dimostrava, da giovanissimo, la sua chiara propensione verso la scultura; è infatti<br />

del ’29 il suo bel Ritratto della madre, in terracotta; partecipava, con gli altri artisti<br />

pistoiesi, alle mostre regionali e provinciali. Nel ’32 era ad Albissola, sede privilegiata<br />

per il lavoro ceramico e frequentata da tanti artisti, e dove nel ’54 Jorn, del<br />

Gruppo Cobra, avrebbe organizzato gli “Incontri Internazionali della Ceramica”,<br />

a cui partecipavano Fontana, Baj, Dangelo, Scanavino, Appel, Corneille, Matta,<br />

Koenig, Pinot Gallizio... Fabbri lavorava in un piccolo laboratorio La Fiamma, ma<br />

già si avvicinava al gruppo di artisti che si ritrovavano ad Albissola, che continuò<br />

a frequentare anche quando, dal ’45, si trasferiva definitivamente a Milano. Dava<br />

inizio allora alle sue sculture il cui tema era la lotta tra uomo e animale. Presente<br />

alla Biennale veneziana dal ’48, alla Quadriennale di Roma dal ’52, consegnava<br />

direttamente e prepotentemente la sua presenza nell’ambito della nuova scultura<br />

italiana della metà del Novecento. Da un naturalismo luministico legato al Novecento<br />

italiano passerà a una sua interpretazione della scultura, dapprima ancora<br />

figurativa, ma già espressione di un’energia ostinata, di una “tragicità allucinata”.<br />

“Per quanto torturata” scriveva Dieter Ronte (1997) “la figura umana vista da<br />

Fabbri rimane stabile, eretta, orgogliosa, lineare, si impone, quasi a contrasto con<br />

la condizione che esprime, secondo moduli plastici, di volumi di impostazione,<br />

che suggeriscono un distacco, un allontanamento”. La collocazione di alcune sue<br />

sculture, singole o a coppie, su sedie altissime, filiformi, fuori scala, ne accentua<br />

l’ambigua, improbabile condizione: “E se l’insistita operazione di stravolgimento<br />

a cui tutte le opere di Fabbri sono sottoposte” prosegue Ronte “è il segno di<br />

una volontà di distruzione della forma, di ‘abolizione della materia con cui l’atto<br />

drammatico vorrebbe esprimersi allo stato puro’, ciò significa non solo che lo<br />

scultore, per analogia, compie tale operazione di<br />

stravolgimento per rappresentare una condizione<br />

appunto stravolta, di umanità tradita, ferita nella<br />

coscienza attraverso la ferita visibile inflitta al<br />

corpo”. Dal ’57 Fabbri utilizza il bronzo e volge<br />

verso uno stravolgimento dinamico del figurativo,<br />

realizzando lavori in chiave con quelli europei<br />

contemporanei (Butler, Chadwick...), che<br />

sembrano prefigurare un’umanità trasformata in<br />

macchina distruttiva, in un mondo già in via di<br />

estinzione. Dedito dal 1982 anche alla pittura, vi<br />

esprime con la materia e il colore la forza della sua<br />

drammaticità.<br />

Cenni bibliografici<br />

M. Valsecchi, Sei artisti milanesi 1960-1965, cat.<br />

mostra di Bruno Cassinari, Agenore Fabbri,<br />

Toni Fabris, Franco Francese, Umberto<br />

Milani, Ennio Morlotti, Verona 1966.<br />

M. de Micheli, G. Gassiot Talabot, Fabbri,<br />

Milano 1972.<br />

Agenore Fabbri, cat. mostra a Palazzo Reale,<br />

Milano, 1975.<br />

R. Sanesi, D. Ronte, Agenore Fabbri, Opere<br />

1929-1995. Acquisizione, Collezione 1, a cura<br />

di C. d’Afflitto, <strong>Pistoia</strong> Palazzo Fabroni,<br />

Poggibonsi 1997.<br />

G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />

Firenze 2000, pp. 148-149.<br />

G. Uzzani, M. De Micheli, C. Cappellini,<br />

Agenore Fabbri. Il mito di Orfeo, <strong>Pistoia</strong> <strong>2010.</strong><br />

143


Agenore Fabbri<br />

Personaggio, 1962<br />

bronzo, cm 66 x 57 x 18; firmato sulla base<br />

Questo lavoro appartiene al momento nel quale la stilizzazione<br />

stravolta del figurativo, provocata dalla profonda crisi esistenziale<br />

che segue la seconda guerra mondiale, (crisi che Argan<br />

definiva “delle scienze europee”) che si manifesta, in arte, con<br />

l’Informale, in tutte le sue forme, espressione del grande disagio<br />

del sistema culturale europeo, sul filo dell’irrazionalismo: una<br />

frattura emotiva, strutturale; anche perché la seconda guerra<br />

mondiale, pur con tutto il suo orrore, aveva aperto i confini e,<br />

in certo senso, spazzato via le differenze nazionali. Quasi tutta<br />

la scultura europea risponde a questa nuova esigenza. Anche le<br />

sculture di Fabbri si fanno scheletriche, si allineano in questo<br />

percorso con quelle europee (Butler, Chadwick) elaborando<br />

queste presenze martoriate e scarnificate.<br />

144<br />

145


Agenore Fabbri<br />

L’uomo atomizzato, s.d.<br />

bronzo, cm 38,5 x12,5 x 6,5; titolo e firma sulla base<br />

Anche questa piccola scultura, contorta, bruciata come da<br />

un bombardamento atomico, fa parte dei lavori realizzati nel<br />

secondo dopoguerra, provato dalle devastazioni disumane, anche<br />

nella memoria della sorte di Hiroshima. Fa pensare alla fine della<br />

civiltà, alla fine dell’umanità, come la si è fin qui conosciuta.<br />

È un documento forte di quanto l’arte riesca ad esprimere<br />

criticamente la situazione nella quale si produce, senza rivelarne,<br />

come purtroppo avviene oggi, sempre più spesso, la compiaciuta<br />

e sempre più vuota e intollerabile indifferenza.<br />

146<br />

147


Agenore Fabbri<br />

Personaggi spaziali, s. d.<br />

tecnica mista su tela, firma e titolo sul verso della tela<br />

cm 120 x 100<br />

Bel lavoro, di grande impatto visivo, che sembra alludere a un<br />

cielo solcato da esplosioni laceranti tra raggi/nuvola bianchi,<br />

gialli, rossi, di carattere informale e allo stesso tempo gestuale e<br />

segnino, all’interno del quale si indovinano apparizioni confuse,<br />

occhi gialli spalancati su quelli che appaiono quasi musi azzurri,<br />

neri, di animali dalle lunghe orecchie che sembrano attraversare<br />

e sfondare nubi inquiete in un magma generale, in continuo<br />

sconvolgimento.<br />

Appartiene al secondo periodo del lavoro di Fabbri, quando si<br />

dedica anche alla pittura.<br />

148<br />

149


Mario Nigro<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1917 – Livorno, 1992<br />

Da <strong>Pistoia</strong> si trasferiva prima a Livorno, dove viveva fino al ’57 e dove, ai suoi<br />

inizi, era vicino agli artisti fiorentini del movimento dell’ “astrattismo classico”.<br />

Si trasferiva poi a Milano, dove fu parte integrante del MAC (Movimento Arte<br />

Concreta), fondato nel ’48 a Milano da alcuni artisti tra i quali Munari, Dorfles,<br />

Soldati. Portava avanti, allora, le sue ricerche progettuali e pittoriche su quello<br />

che definiva “tempo totale”. Ha quasi sempre composto i suoi quadri a mezzo<br />

di un “colore-segno”, organizzato secondo una raffinata e sottile strutturazione<br />

ritmica e dinamica, dapprima elaborata in rapporto alla storia dell’astrattismo<br />

dagli anni Trenta ai Cinquanta, così da formare un incastro di elementi geometrici,<br />

svolto secondo variazioni di direzione, con continui imbrigliamenti, a<br />

suggerire condizioni di ansia, di angoscia, cui corrispondono aperture di campo<br />

ritmiche, come respiri di speranza. Dalle Stagioni esposte alla Biennale veneziana<br />

del ’68, un lavoro composto di quattro elementi componibili per 12 metri<br />

lineari, a Lettere di un nuovo amore (’72), una variante del lavoro precedente,<br />

arrivava, nel ’73, ad un’opera composta di sette rombi incastrati tra loro, che titolava<br />

Sogno di un vero amore, come scriveva allora Marisa Volpi: “Il tragico può<br />

essere alluso non più dalla curva (Mondrian), ma dalla retta diagonale, e […]<br />

i percorsi dinamici della diagonale non conducono all’assoluto (Malevič), ma<br />

all’angosciosamente limitato” (1965). Nigro arriverà ad un linguaggio più lirico,<br />

più disteso, occupando, con le sue forme, spesso a rombo, pareti e pavimento,<br />

che disponeva secondo un equilibrio libero e dinamico, variando l’aggregazione<br />

dei segni colorati sulla tela bianca, teso ad una serenità contemplativa,<br />

di grande sensibilità ed eleganza, verso quella sua interpretazione di “Spazio<br />

Totale”che “visualizza il compenetrarsi di diversi gradi di realtà e di dimensioni,<br />

riferendosi al contempo alla scienza relativistica<br />

e alla tragicità del divenire dell’ esistenza,<br />

rese presenti in immagine nelle fughe prospettiche<br />

irriducibili di reticoli ottico-percettivi che<br />

l’ artista movimenta sia in termini strutturali<br />

cromatici”. (G. Celant 2006). La scelta di una<br />

pittura di tessitura geometrica e colori piatti, vicina<br />

alla concezione neoplastica del De Stijl di<br />

van Doesburg, si carica sempre più, nel lavoro<br />

di Mario Nigro, di energia vitale che si manifesta<br />

nelle sue strette griglie di verdi acidi, gialli<br />

accesi, con interventi svolti spesso in rapporti<br />

rovesciati, di rossi.<br />

Cenni bibliografici<br />

M. Volpi, Mario Nigro, cat. mostra, Roma 1965.<br />

Mario Nigro, cat. mostra a cura del Comune di<br />

<strong>Pistoia</strong>, Milano 1984.<br />

L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />

Correnti astratte in Toscana 1947-1955, cat.<br />

mostra a cura di O. Casazza, M. Moretti, 1997<br />

Pisa.<br />

Mario Nigro. Opere 1987-1992, cat. a cura di G.<br />

M. Accame, Archivio Artistico Mario Nigro,<br />

Milano 1998.<br />

Mario Nigro. Meditazioni, cat. mostra a cura di<br />

G. Verzotti, Milano 2006.<br />

G. Celant in Omaggio a Mario Nigro, Collezione<br />

Peggy Guggenheim, Venezia 2006<br />

G. Celant, Mario Nigro: catalogo ragionato, 1947-<br />

1992, Milano 2009.<br />

151


Mario Nigro<br />

Spazio totale, 1953<br />

tempera verniciata su tela, cm 150 x 120<br />

firma, data e titolo sul retro<br />

Bel lavoro, tutto giocato sul blu del fondo, il giallo e il rosso delle<br />

consuete successioni di bande che si incrociano, dal basso in<br />

alto e viceversa, ciascuna composta di piccoli quadrati gialli che<br />

linee rosse incrociano; bande che, protendendosi in avanti, dal<br />

fondo, trasformano la visione piatta in tridimensionale, portando<br />

in primo piano e ingrandendo i piccoli quadrati, trasformandoli<br />

in una sorta di luce raggiata, mentre quelle che degradano verso<br />

il fondo, ne abbassano la luminosità e le dimensioni. Si crea così<br />

una dinamica fortemente tesa, un movimento altermo continuo,<br />

che sembra trasformare le bande stesse in raggi che percorrono lo<br />

spazio di un cielo virtuale, a indagarne la possibilità di pericolose<br />

incursioni.<br />

Ne derivano, allo stesso tempo, un’estetica di straordinaria forza<br />

emotiva e un senso continuo di allarme.<br />

152<br />

153


Mario Nigro<br />

Spazio Totale, 1955<br />

olio su tela, cm. 50 x 60<br />

<strong>Un</strong>’opera del periodo nel quale Nigro si era trasferito da <strong>Pistoia</strong><br />

a Livorno. Si articola secondo una sua strutturazione dinamicoritmica<br />

a creare incastri di elementi geometrici, qui rettangoli<br />

azzurri percorsi da una rete quadrata che incrocia quadrati di<br />

diversa misura per ogni rettangolo, dal bianco al rosa acceso. I<br />

rettangoli si sovrappongono l’uno sull’altro, a creare una continua<br />

variazione di direzioni e una sensazione di suspense. <strong>Un</strong>a sorta<br />

di “spazio totale”, appunto, una mappa complessa, stimolante<br />

che suggerisce emozioni forti che passano dall’apprensione<br />

all’angoscia, alla distensione, che una complessa armonia,<br />

seppure inquieta, può suggerire.<br />

154<br />

155


Mario Nigro<br />

Spazio Totale 18; Simultaneità ritmiche, 1955<br />

tempera verniciata su tela, cm 65 x 100; firma, data e titolo sul retro<br />

<strong>Un</strong>o “Spazio Totale” nel quale dalla parte alta, a destra si<br />

dispiegano allargandosi e dilatandosi verso il basso, bande<br />

sovrapposte ognuna coperta di piccoli quadrati gialli crociati<br />

in rosso, su base verde, bande che si sovrappongono aprendosi<br />

l’una all’altra, in direzione raggiata, realizzando una dilatazione<br />

luminosa nello spazio brulicante di reticoli di piccole figure<br />

geometriche che si incontrano assumendo direzioni diverse.<br />

<strong>Un</strong>o spazio, comunque, ancora lievemente angoscioso<br />

quell’“angoscioso limitato” di cui scriveva Marisa Volpi (1965)<br />

a proposito dei lavori più vecchi dell’artista, che si apriranno, in<br />

seguito, a una maggiore distensione.<br />

156<br />

157


Mario Nigro<br />

Vibrazioni simultanee, 1961<br />

tempera su carta riportata su tela, cm 72 x 50,5; firmato e datato<br />

in basso a destra<br />

È come un’esplosione “simultanea” di tanti fuochi d’artificio<br />

che si formano sull’incontro di quattro angoli retti, ciascuno dei<br />

quali incastona un fuoco che si espande da una prima esplosione<br />

di fondo di raggi verdi, che successivamente esplodono in<br />

una sorta di fuoco sul viola, fatto di raggi sfrangiati. Raggi che,<br />

scontrandosi con quelli emergenti dai triangoli accostati, creano<br />

punte acuminate, ad accentuare l’intensità della tragica carica<br />

emotiva delle diverse forze.<br />

158<br />

159


Gualtiero Nativi<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1921 – Greve in Chianti, Firenze, 1999<br />

Figlio di Giuseppe Nativi, sindaco socialista di Sambuca Pistoiese e della<br />

pittrice Angela Pericoli. Laureato in lettere a Firenze, si avvicinava al gruppo<br />

di artisti riuniti attorno al giornale “Torrente” e in seguito al gruppo di<br />

ispirazione marxista Arte d’oggi, cui erano vicini anche Vinicio Berti (che<br />

Nativi già aveva conosciuto nella redazione di “Torrente”), Bruno Brunetti,<br />

Alvaro Monnini, Mario Nuti. Con loro firmava, nel 1950, il Manifesto<br />

dell’Astrattismo classico, quando il critico e professore di estetica Ermanno<br />

Migliorini ne stilava il testo, inizialmente firmato con il titolo di “Fine<br />

dell’Astrattismo”.<br />

Delle intenzioni del manifesto Nativi ha espresso, forse più di tutti gli altri,<br />

nella purezza del suo lavoro, la radice razionale, astratta, nutrita di una<br />

cultura classica e severamente umanistica, in una trascrizione astratta della<br />

prospettiva rinascimentale toscana, ma anche delle metafisiche astrazioni di<br />

Piero della Francesca e della “finestra” albertiana.<br />

Nativi ha portato avanti il suo lavoro, elaborato attraverso studi e ricerche<br />

sulla dinamica espressiva della forma, che traduceva in scansioni cristalline,<br />

nella ricerca di un colore luminoso, chiaro, timbrico, che lo distingue fortemente<br />

dagli altri esponenti dell’Astrattismo classico, che sceglievano spesso<br />

una tavolozza scura e un cromatismo generalmente basso, quasi tonale.<br />

C’è, nel lavoro di Nativi, una componente “riduttiva”, “minimale”, un’intenzionalità<br />

fortemente sociale, alla ricerca delle “strutture profonde” del<br />

dipingere. Ha anche perseguito, nel suo lavoro, un’indagine sulla possibilità<br />

di strutturazione tridimensionale, nella quale ha anche recuperato certa<br />

scansione ritmica, quasi a gradienti, che si è tradotta nell’esperienza della<br />

scultura, nella quale ha anche trasformato in “reale” la virtualità “spaziale”<br />

della sua pittura.<br />

Tra il ’47 e il ’60 le opere di Nativi, impostate secondo un astrattismo dinamico<br />

e ritmico, si denotavano come “Oggetti Spazio” (Simbolo, ’48, Modulazioni,<br />

’49; Spazio dinamico, ’51); quelle dal ’60 al ’70 punteranno a un rigore<br />

compositivo fortemente significante e drammatico (Lacerazione, ’60-’64,<br />

uno dei lavori presenti in mostra, Momento dinamico, ’67; Momento magico,<br />

’68; Messaggio, ’68).<br />

Altro suo tema quello degli “scontri” spazio-dinamici, tendenti a una visione<br />

spaziale architettonica, evidente anche nei lavori presenti in questa<br />

mostra.<br />

Scrive di lui Piero Pacini (1976): “La pittura di Nativi manifesta una toscanità<br />

che lo imparenta a due artisti altrettanto toscani ed europei, qua-<br />

li Magnelli e Severini, che lo ha portato per<br />

decenni a perseguire utopisticamente ma<br />

con tenacia e lucidità mentali un antico sogno<br />

umanistico prodotto da civiltà raffinate<br />

in una situazione visibile di elevato equilibrio<br />

spirituale e proteso ad affermare quanto<br />

di più elevato si affaccia all’immaginazione<br />

dell’uomo”. Nativi ha fatto parte anche del<br />

gruppo “Espace” di Parigi. Ricordiamo che,<br />

tra i molti riconoscimenti, nel ’47 vinse il Premio<br />

“Cino” della città di <strong>Pistoia</strong>. Da sempre<br />

legato alla sua città di origine,cui ha sempre<br />

tenuto, continuando a passare spesso l’estate<br />

a Sambuca Pistoiese.<br />

Cenni bibliografici<br />

Gualtiero Nativi : astrattismo classico 1947-1950,<br />

cat. mostra, Firenze 1973.<br />

P. Pacini, Nativi, Galleria Michaud, Firenze<br />

1976.<br />

E. Crispolti, P. Pacini, Astrattismo Classico, cat.<br />

mostra, Firenze 1980.<br />

E. Crispolti, Nativi. Per un modello formale<br />

dell’<strong>Un</strong>iverso. Trentacinque anni di ricerca, cat.<br />

mostra, <strong>Pistoia</strong> 1982.<br />

Firenze anni Sessanta: Riccardo Guarneri,<br />

Gualtiero Nativi, Luciano Ori, cat. mostra a cura<br />

di A. Alibrandi, Galleria Il Ponte, Firenze 1989.<br />

L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />

Correnti Astratte in Toscana, cat. mostra, Pisa<br />

1997.<br />

Nativi 1947-1956, cat. mostra a cura di L.<br />

Caramel, Sarzana 2008.<br />

Gualtiero Nativi. Lo spazio astratto, Sculture e<br />

opere scelte 1947-1963, cat. mostra, Verona 2009.<br />

160<br />

161


Gualtiero Nativi<br />

Senza titolo o Lacerazione, 1960/1964<br />

tempera acrilica su tavola, cm 130 x 80<br />

<strong>Un</strong> lavoro “classico”, giocato sul rapporto severo di lunghe spine<br />

lanceolate che tagliano il quadro in verticale, con una lieve<br />

angolatura, in una sorta di scansione cristallina, sovrapposte l’una<br />

all’altra, dal nero all’azzurro al blu, per terminare al fondo con<br />

un grigio freddo su bianco. Ogni successiva spina si protende<br />

in lunghe diramazioni regolari che fanno pensare a una lotta<br />

violenta e, appunto, a una lunga “lacerazione” interna, peraltro<br />

fortemente contenuta, come congelata in una fissità che ricorda<br />

certe lame nelle mani statiche di alcuni guerrieri dalla fissità<br />

immota di Piero della Francesca.<br />

162<br />

163


Gualtiero Nativi<br />

Grande Apocalisse, 1983<br />

tempera grassa su tela, cm 111,5 x 161,5; firmato in basso a<br />

sinistra<br />

<strong>Un</strong>’opera complessa nella quale da un fondo viola e rosso scuro,<br />

interrotto da una fascia regolare, per metà bianca, per metà circa<br />

di un lilla sordo si sporgono grandi forche aguzze, che alternano<br />

verdi diversi e sembrano rovesciarsi verso una totale catastrofe,<br />

in sottili barre geometriche spezzate, anche se ancora legate ad<br />

uno schieramento ordinato dal colore blu acceso. <strong>Un</strong>o scontro<br />

travolgente, una apocalisse tra forze troppo diverse che già<br />

hanno travolto il piccolo esercito lineare che cerca, in un ultimo<br />

allineamento, una impossibile salvezza. <strong>Un</strong> lavoro di grande<br />

forza dinamica e di un impatto duramente drammatico.<br />

164<br />

165


LA GENERAZIONE DI MEZZO:<br />

CONTRASTO TRA FIGURAZIONE<br />

E ASTRAZIONE<br />

Sigfrido Bartolini<br />

Marcello Lucarelli<br />

Jorio Vivarelli<br />

Mirando Iacomelli<br />

Lando Landini<br />

Valerio Gelli<br />

Aldo Frosini<br />

Fernando Melani<br />

Remo Gordigiani<br />

167


Sigfrido Bartolini<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1932-2007<br />

Pittore, incisore, critico e polemista, ricco di intuizione e di sensibilità. Vivaci e intelligenti<br />

le sue presentazione di amici artisti; è stato autore di molte monografie<br />

(Soffici, Sironi, Innocenti, Lega, Rosai, Cremona, Boldini...); noto per le sue accese<br />

polemiche sul giornale “Totalità”, che fondava nel ’66 con Barna Occhini – considerato<br />

erede de “La Voce” e di “Lacerba”; collaborerà in seguito col “Borghese”,<br />

poi col “Giornale” e con “Libero”. Ha illustrato (con disegni e xilografie) libri di<br />

molti autori noti (Bernardo di Clairvaux, Vieira de Silva, Petrocchi, Serpieri, Savinio,<br />

Cattabianchi, Narni, Beatrice di Pian degli Ontani), e il Vangelo (2000). Per il<br />

centenario dell’uscita di Pinocchio ne curava la pubblicazione monumentale arricchendola<br />

di 309 xilografie in nero e a colori (dodici anni di lavoro accanito, dal 1983,<br />

che porterà ad una grande mostra che ha fatto, praticamente, il giro del mondo).<br />

Nel 2000 gli è stata dedicata una mostra nel palazzo della Triennale a Milano. ll suo<br />

ultimo grande lavoro sono state quattordici vetrate per la chiesa dell’Immacolata a<br />

<strong>Pistoia</strong> (2006). Il suo libro più noto è la raccolta di molti suoi articoli critici, La Grande<br />

Impostura (2002), dove si scaglia contro moltissimi artisti del XX <strong>secolo</strong>, mostrandosi<br />

chiuso e anacronistico nei confronti dell’arte moderna e contemporanea, che legge<br />

quasi esclusivamente come manifestazione di mercato. Legato, ostinatamente, al<br />

figurativo, ma un figurativo, come scrive Stelio Solinas nel 2007 “anomalo, senza<br />

figure, senza volto, una specie di mondo ai confini del mondo, dove l’essere umano<br />

era scomparso e rimanevano le vestigia del suo passato; case che sembravano<br />

fortezze, spiagge solitarie, paesaggi con rovine...”. La sua pittura, che ha dichiaratamente<br />

come punti di riferimento Carrà e Soffici, si distingue per la naturalezza<br />

dello sguardo malinconico sulla natura dove è intervenuto l’uomo, per la sua visione<br />

netta, chiara, impietosa del reale come in Rudere, qui in mostra, un lavoro intenso,<br />

raggelato. “L’architettura rovinata, abbandonata<br />

sul limite di spiagge infinite, di paesaggi solitari,<br />

si vela adesso di cromie cupe, livide, austere”, Iacuzzi<br />

2007. Le sue incisioni (pensiamo soprattutto<br />

alle 309 xilografie delle Avventure di Pinocchio,<br />

su legno di ciliegio, acero, bossolo, olivo, essenze<br />

esotiche, e ai 73 “linoli” per le tavole fuori testo a<br />

tre colori) esprimono in pieno la qualità della sua<br />

sensibilità e della sua energia espressiva. Comunque,<br />

malgrado la sua notorietà in campo nazionale<br />

Bartolini rimase sempre legato alla sua città, dove<br />

continuò ad insegnare incisione all’Istituto d’Arte<br />

di <strong>Pistoia</strong>.<br />

Cenni bibliografici<br />

Sigfrido Bartolini testimone del suo tempo, cat.<br />

mostra a cura di C.F. Carli, Milano 2000.<br />

Quattordici vetrate moderne di Sigfrido Bartolini<br />

nella chiesa dell’Immacolata a <strong>Pistoia</strong>. Le Sette<br />

Opere di Misericordia. I Sette Sacramenti, a cura di<br />

S. Simoncini, Firenze 2007.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

A. Iacuzzi, Cultura artistica dal dopoguerra a<br />

<strong>Pistoia</strong>, in Arte de Novecento, cit.<br />

Sigfrido Bartolini e il suo mondo: Soffici, Sironi,<br />

Carrà... Le favole e il paesaggio italiano, cat.<br />

mostra a cura di E. Pontiggia, Milano 2008.<br />

B. Buscaroli, Sigfrido Bartolini. La forma del<br />

tempo, cat. mostra, Firenze 2009.<br />

E. Pontiggia, Sigfrido Bartolini. Monotipi 1948-<br />

2001, catalogo generale, Firenze <strong>2010.</strong><br />

169


Sigfrido Bartolini<br />

Rudere, 1984<br />

olio su faesite, cm 50 x 69; firmato in basso a destra<br />

Anche questo quadro può darsi come specchio del carattere di<br />

Sigfrido Bartolini, testimone della sua grande abilità, ma anche<br />

del suo pessimismo, che sceglie a modello una casa abbandonata<br />

che sembra esprimere la tristezza della solitudine attraverso le<br />

orbite vuote delle finestre, le macchie scure di un intonaco una<br />

volta bianco, attraverso il grigio smorto dei ciuffi di erba secca<br />

che la circondano, le rade, piccole isole d’erba bassa.<br />

Qualche tocco di rosso nel breve tetto della parte aggiunta<br />

sulla facciata della casa e in qualche casa lontana. A sinistra un<br />

triangolo di mare di un blu gelido, che si lega all’azzurro sbiadito<br />

del cielo. Comunque un lavoro magistrale, di impianto solido e<br />

forte, esempio notevole della grande abilità pittorica di Bartolini,<br />

e anche della sua natura orgogliosa e ribelle..<br />

170<br />

171


Marcello Lucarelli<br />

<strong>Pistoia</strong> 1923-2010<br />

Studiava dal ’38 alla Scuola d’Arte di <strong>Pistoia</strong>, dove incontrava Remo Gordigiani<br />

e Aldo Frosini, coi quali farà poi parte della cosiddetta generazione di mezzo<br />

degli artisti pistoiesi.<br />

A Firenze presso l’Istituto d’Arte di Porta Romana, completerà la sua formazione.<br />

Rimarrà a Firenze fino al ’46. Collabora allora col suo professore Giuliano<br />

Zeti alla realizzazione di una serie di affreschi nella chiesa di Montemurlo. Di<br />

seguito, nello studio di Cesare Fiumi, (dove dipinge pannelli in creta), poi in<br />

quello di Primo Conti, frequenta Farulli e Guasti. A Firenze ha modo di seguire<br />

le mostre di Morandi, De Chirico, De Pisis e di conoscere direttamente nei<br />

musei e nelle chiese Giotto, Masaccio... Dal ’46 al Magistero segue la sua inclinazione<br />

verso l’insegnamento. Assistente a <strong>Pistoia</strong> di Pietro Bugiani, alla Scuola<br />

d’Arte e insegnante al Liceo Scientifico, si presenta con Frosini, Gordigiani,<br />

Vivarelli alla mostra presso la Saletta Masaccio a <strong>Pistoia</strong>. Anche per lui sarà determinante<br />

la visita alla Biennale del ’48; lo affascinano il lavoro di Kandinskij<br />

e l’astrattismo in generale. Infatti, dopo un primo periodo legato al naturalismo<br />

pistoiese tenterà una sua adesione a forme di astrattismo, legate, peraltro, “ad<br />

una interpretazione coloristica del dato reale” (Iacuzzi 2007).<br />

Nel ’50 gli viene proposta una cattedra di disegno in Sardegna, prima ad<br />

Ales, poi a Cagliari. L’incontro con la natura, il paesaggio, la cultura del luogo,<br />

così forti e caratterizzati, produce in Lucarelli un effetto straordinario, che lo<br />

porta a recuperare nella sua pittura il paesaggio,<br />

che diventa, secondo Iacuzzi, una sorta di<br />

“rielaborazione della memoria, fatta di ricordi<br />

e suggestioni disparate nel tempo, nata da piccoli<br />

appunti schizzati dal vero e poi ripensati<br />

nello studio”.<br />

Dal ’60 di nuovo a <strong>Pistoia</strong>, insegna all’Istituto<br />

Tecnico e, amico di Gordigiani, ne condivide<br />

lo studio. La sua ricerca dedicata a un dialogo<br />

incessante con il paesaggio lo accompagna per<br />

tutto l’arco della vita.<br />

Cenni bibliografici<br />

Marcello Lucarelli mostra antologica. Opere dal<br />

1943 al 1996, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 1997.<br />

S. Naitza, G. Pellegrini, Galleria Comunale<br />

d’Arte. La Collezione Sarda 1900-1970. Guida<br />

all’esposizione permanente, a cura di A.M.<br />

Montaldo, Cagliari 2003.<br />

N. Miceli, S. Simoncini, Percorsi della<br />

Figurazione a <strong>Pistoia</strong>. Dalle antologie della<br />

Circoscrizione 2 alle opere recenti, <strong>Pistoia</strong> 2006.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

A. Iacuzzi, Cultura artistica del dopoguerra a<br />

<strong>Pistoia</strong>, in Arte del Novecento... cit.<br />

173


Marcello Lucarelli<br />

Vagoni a Golfo Aranci, 31 agosto 1972<br />

olio su compensato, cm 50 x 60; firmato in basso a destra<br />

<strong>Un</strong>a visione accesa e forte del paesaggio sardo, dai “toni riarsi<br />

e affocati della Sardegna a quelli pacati e trascorrenti della<br />

campagna pistoiese, che è costantemente atto di memoria<br />

rielaborato nel chiuso dello studio” (A. Iacuzzi 2007),<br />

nell’azzurro intenso del mare contro un paesaggio collinare<br />

dove il verde si alterna ad un azzurro vivo che gioca con libertà<br />

e con un felice e netto uso del colore (rosso e verde) nei blocchi<br />

geometrici dei vagoni (arancio e rosa ultravioletto), degli invasi<br />

dove si collocano. Perfetto il taglio dell’inquadratura del lavoro.<br />

174<br />

175


Jorio Vivarelli<br />

Fognano, Montale, 1922; vive a <strong>Pistoia</strong><br />

Avviato al lavoro del marmo dal padre, studiava prima presso la Scuola Artigiana<br />

di <strong>Pistoia</strong>, poi presso l’Istituto d’Arte di Firenze. Durante la seconda guerra<br />

mondiale, ferito, fu fatto prigioniero sul fronte balcanico dai tedeschi e inviato<br />

in un campo di concentramento in Bulgaria; di seguito, ancora prigioniero,<br />

in <strong>Un</strong>gheria, Austria, Germania. Di qui riusciva a fuggire in Belgio, di là in<br />

Lussemburgo, finché, nel ’46, riusciva a tornare a <strong>Pistoia</strong> dove riprendeva gli<br />

studi e il suo lavoro.<br />

Iniziava con un approfondimento continuo di ricerca sulla figura umana, sui<br />

volti e sulle espressioni, studiati dal vero, ma anche alla luce dell’approfondimento<br />

sulla scultura antica fino a quella della scuola pisana. Lavorava il legno,<br />

la pietra (si pensi alla sua famosa Etruria, ricavata da una grande pietra trovata<br />

nel ’50 in un torrente ai piedi del Cimone e lavorata in loco), il marmo e realizzava<br />

lavori in terracotta, per arrivare alla fusione in bronzo quando entrava a<br />

lavorare nella Fonderia Michelucci. Nel ’51 aveva inizio la sua collaborazione<br />

con Giovanni Michelucci, per il quale realizzava i Crocifissi per la chiesa di<br />

Larderello, per la chiesa della Vergine (‘56) a <strong>Pistoia</strong>, per la chiesa dell’Autostrada<br />

del sole (’63).<br />

È forse questo il suo periodo più intenso, più drammatico, con accenti quasi<br />

espressionisti.<br />

Intanto il suo nome acquistava notorietà anche a livello critico. La conoscenza,<br />

la collaborazione e l’amicizia con Oskar<br />

Stonorov, un noto architetto americano, faceva<br />

uscire il suo nome e la sua fama a livello<br />

internazionale. Anche il suo linguaggio cambiava,<br />

assumendo una formatività più fluida,<br />

elastica, vicina, per certi aspetti, alla scultura<br />

lievemente manierista di Emilio Greco (Acrobati,<br />

’61; Figura nello spazio, ’64), con molte<br />

uscite verso un’astrazione surrealisteggiante<br />

(Le cariatidi, ’64).<br />

Realizzava opere monumentali come le fontane<br />

negli Stati <strong>Un</strong>iti (Riti di primavera, ’64; Ragazze<br />

toscane, ’67, Philadelphia).<br />

Ha realizzato grandi opere architettonicoscultoree<br />

anche in Italia e, soprattutto, in Toscana.<br />

Cenni bibliografici<br />

Storia ideale di una scultura, Galleria d’arte<br />

Cairola, Milano 1964.<br />

G.B. Bassi, J. Vivarelli, Sulla casa-studio<br />

Vivarelli, in “L’Architettura, cronache e storia”,<br />

n. 200, 1972.<br />

Jorio Vivarelli, 1933-1983, cat. mostra, Firenze<br />

1984.<br />

Jorio Vivarelli, <strong>Pistoia</strong> 1991.<br />

<strong>Un</strong> seme per le grandi sculture. Jorio Vivarelli, cat.<br />

mostra, Verona 1999.<br />

Jorio Vivarelli, 1933-2003, Verona 2002.<br />

Jorio Vivarelli. <strong>Un</strong> ponte tra Firenze e le Americhe,<br />

Cataloghi dell’Accademia delle Arti del<br />

Disegno, 23, Firenze 2004.<br />

Jorio Vivarelli. Disegni, a cura di V. Ferretti,<br />

Verona 2006.<br />

Jorio Vivarelli scultore. La materia della vita, a<br />

cura di V. Ferretti, Verona 2007.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

177


Jorio Vivarelli<br />

Autoritratto, 1952<br />

matita su carta da spolvero, cm 37 x 24; firma, titolo e data<br />

in basso, al centro<br />

<strong>Un</strong> disegno veloce, del periodo nel quale Vivarelli indagava sulla<br />

forma e sull’espressione del volto umano, condotto con una netta<br />

definizione, mentre le ombre sono evidenziate a mezzo di fitti e<br />

veloci tratti paralleli. Lo sguardo fisso, intento nell’osservazione<br />

della propria immagine, si fa quasi strabico. <strong>Un</strong> bel disegno<br />

giovanile, un esempio dell’ abilità, anche tecnica, dell’autore.<br />

178<br />

179


Jorio Vivarelli<br />

Testa di vecchio, 1952<br />

matita su carta da spolvero, cm 35 x 23; firma e data in basso<br />

Il disegno insiste sulla definizione di un profilo intenso, chiuso in<br />

una smorfia tra l’ironico e l’amaro, solcato da rughe evidenziate<br />

da segni fitti e ripetuti, che si sfrangiano verso il dietro della testa<br />

che non è disegnato, mentre sopra la testa è accennata l’idea di<br />

un cappello con tesa. Profondamente incavato, l’occhio sembra<br />

irridere il mondo e la realtà che lo circonda.<br />

180<br />

181


Mirando Iacomelli<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1929-2007<br />

Educato all’arte nella bottega dello scultore Cleto Lapi, dal ’45 studente presso<br />

la Scuola d’Arte di Casanova a <strong>Pistoia</strong>, sotto la guida di Zanzotto, Bugiani, Mariotti,<br />

Cappellini, fa parte di quella che si definisce “la generazione di mezzo”<br />

degli artisti pistoiesi. Iniziava il suo lavoro dopo la fine della seconda guerra<br />

mondiale, dalla metà degli anni Quaranta con una pittura “di macchia”, nei suoi<br />

paesaggi eseguiti all’aperto presso la Bure, zona resa nota anche dal “realismo<br />

magico” delle opere di Bugiani da cui Iacomelli si distacca, pur dandone per<br />

scontati i risultati, per una stesura morbida, severa, che già fa trapelare la sua<br />

tendenza a cogliere la fragilità e l’instabilità della realtà, alla quale, a suo modo,<br />

resterà sempre fedele.<br />

Si dedicava anche alla professione di restauratore presso la Soprintendenza che<br />

proseguirà per tutta al vita. Si presentava nel settembre del ’51 alla “Mostra<br />

Provinciale di pittura, scultura e disegno” organizzata nell’ambito del Settembre<br />

pistoiese “come punto di incontro tra popolo e artisti”. Sarà il momento nel<br />

quale si definiranno le due linee, figurativa e astratta, che caratterizzeranno,<br />

anche in seguito, l’arte a <strong>Pistoia</strong>.<br />

Anche per Iacomelli, come per quasi tutti gli artisti pistoiesi, le Biennali veneziane<br />

del ’48 e del ’52 costituiranno due momenti indimenticabili: vi scoprirà<br />

non tanto i Nabis, Matisse come altri (Melani, Gordigiani...), quanto Ensor.<br />

Amerà le “forzature”, come le definisce in un’intervista con Maurizio Tuci (Mirando<br />

Iacomelli 1990) di Van Gogh, Viani, Grosz... Quindi la sua linea sarà quella<br />

di un espressionismo allucinato che gli “suggeriva di scavare nella realtà, (lo)<br />

spingeva a proporla in un modo più crudo...” (Mirando Iacomelli, Storie, 1997).<br />

Nascono da allora le sue “figure” e i suoi personaggi satirici, dalle Processioni<br />

alle Pinzochere, dai Magistrati ai Politicanti, agli Accademici (trasformati in somari),<br />

dagli Uomini di cultura alle Femministe, alle Donne al caffè (e si pensi a Grosz),<br />

alle Manifestazioni, ai Dibattiti, alle Esposizioni d’arte, “dove si trovavano riunite<br />

tutte le attività cittadine. Io le trasponevo sul quadro cercando di evidenziare<br />

certi caratteri peculiari e di metterne in ombra altri: adoperando il colore per<br />

caratterizzare un tipo anziché un altro” come dice l’artista.<br />

<strong>Un</strong>a satira pungente ma sempre ironica, mai aspra, che colpisce la presunzione,<br />

la vanagloria, l’invidia, la maldicenza, la stupida tracotanza degli esponenti di<br />

tutti i ruoli sociali; immagini grottesche, maschere grondanti di macchie di colore<br />

acceso, dove il segno si perde.<br />

Arriverà, di mano in mano a immagini che quasi sembrano disfarsi fino a trasfigurarsi,<br />

dove l’artista, per dirlo con Paolo Fabrizio Iacuzzi (in Mirando Iacomelli,<br />

1990) “non trasfigura solo la sua ‘anarchica protesta’ ma anche la forma estre-<br />

ma di una resistenza creaturale, genetico-informale, al nulla, dalla quale poter<br />

infine tentare di ricostruire un cosmo diverso. Dunque, realista solo nel punto<br />

iniziale, l’occhio prima sugge, poi emulsiona il bianco – si direbbe – l’ambiente<br />

circostante, le figure, che sembrano pulcini dalle carni raggelate, appena usciti<br />

dall’incubatrice di un albume rassodato”.<br />

Questa sorta di tensione al disfacimento della forma si ritrova anche nei Paesaggi<br />

di questo periodo (dagli anni Settanta ai Novanta), nelle case sbilenche dei suoi<br />

paesaggi urbani, anche nelle sue belle Nature morte. Ma non ammetterà mai di<br />

essere entrato in un mondo pittorico diverso. Non lo vorrà mai riconoscere. Nel<br />

catalogo citato del ’97, alla domanda di Maurizio Tuci: “Quindi per te la pittura<br />

del Novecento è una pittura malata?”. “In un certo senso si” risponde. Di seguito<br />

il dibattito prosegue: “Mirando tu non dipingi né come i pittori del 1200,<br />

né come quelli di un <strong>secolo</strong> fa”. “Si, ma adopero lo stesso punto di vista”. “No,<br />

tu adoperi gli stessi mezzi, ma il punto di vista è opposto…”. “…come loro io<br />

voglio vedere nel quadro un pezzo di realtà…”. “… la tua realtà è dunque quella<br />

che rivedi nei quadri…”. “… è evidente, una<br />

realtà che è però fedele a quello che c’è…”. “…<br />

fedele a quello che c’è o fedele a quello che tu<br />

vedi, Mirando?” “Quello che vedo poi diventa<br />

quello che c’è”.<br />

L’ironia graffiante di Iacomelli si è sempre<br />

espressa anche attraverso i suoi vivaci epigrammi<br />

che hanno accompagnato il suo dipingere.<br />

Cenni bibliografici<br />

Mirando Iacomelli mostra antologica. Opere 1945<br />

al 1989, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 1990.<br />

G. Cecconi, Novecento pistoiese. I dipinti di<br />

Mirando Iacomelli, cat. mostra, Firenze 1997.<br />

Mirando Iacomelli, Storie, cat. mostra a cura di<br />

M. Tuci, <strong>Pistoia</strong>, 1997.<br />

Percorsi della figurazione a <strong>Pistoia</strong>. Dalle<br />

antologiche della Circoscrizione 2 alle opere recenti,<br />

cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 2005.<br />

182<br />

183


Mirando Iacomelli<br />

I giudici, 1975<br />

olio su cartone, cm 73 x 73; firmato in basso a destra<br />

Tre figure a mezzo busto due delle quali con occhiali neri, i<br />

cappelli con la banda gialla, il mantello rosso da giudici, le facce<br />

segnate da macchie livide e rossastre, che fanno dei volti, uno<br />

dei quali di profilo è rivolto verso la parete rossa, una sorta di<br />

maschera stravolta. Anche il volto del ritratto è trattato a macchie<br />

come quello dei personaggi: si tratta di una sorta di ironica e<br />

drammatica commedia umana che sembra voler annullare ogni<br />

pretesa di onorabilità, mettendo in luce, con impietosa violenza,<br />

la meschina realtà di personaggi indegni del proprio ruolo.<br />

184<br />

185


Lando Landini<br />

Bonelle, <strong>Pistoia</strong>, 1925<br />

La formazione di Landini, trasferitosi giovanissimo nel sud della Francia e di<br />

ritorno a <strong>Pistoia</strong> nel 1939, si svolge tra il liceo ginnasio e lo studio del pittore<br />

pistoiese Umberto Mariotti. Ben presto, il suo interesse si volge a Matisse e<br />

Monet, a cui avvicina la lezione di Piero della Francesca sullo spazio e la luce.<br />

Solo nel dopoguerra si avvicina ai maestri della generazione di pittori attiva tra<br />

le due guerre, con i quali condivide alcune esperienze espositive.<br />

Come avviene per altri esponenti del gruppo di artisti definiti della ‘generazione<br />

di mezzo’, come anche il più anziano Cappellini, a metà degli anni Quaranta<br />

la sua ricerca prende la via del realismo, al quale aderisce con fervore ideologico.<br />

L’avvicinamento al Partito Comunista (1947) lo porta sulla strada di una<br />

personale elaborazione del realismo socialista, mediato dalla lezione di Matisse,<br />

impostando la propria ricerca su un senso più cromatico della forma intesa come<br />

superficie luminosa e segno. Nel 1950 si laurea con Roberto Longhi alla Facoltà<br />

di Lettere a Firenze, divenendo in seguito collaboratore della rivista “Paragone”<br />

da Parigi, dove si era trasferito subito dopo la laurea. A questo periodo francese,<br />

tra il 1951 e il 1956, risalgono articoli su Picasso, Villon, i Cubisti, Dufy.<br />

Grazie a Longhi entra anche in contatto a Roma con Trombadori e Guttuso che<br />

nel 1955 presenterà la sua personale alla Galleria d’arte “Il Pincio”.<br />

Malgrado anche alcuni interventi critici sulla rivista “Realismo” (Landini 1954)<br />

circa il valore della scelta operativa dei giovani della propria generazione che<br />

avevano abbracciato il realismo nel tentativo di interpretare la realtà con forme<br />

e linguaggio nuovi, ma che vivevano un profondo dissidio tra cultura della<br />

metropoli e quella della provincia, l’opera di Landini, rimane schiva alle programmatiche<br />

direttive del realismo socialista. La sua attività, infatti, fatti salvi<br />

alcuni tentativi in questo senso, ben presto si volge ai linguaggi dell’informale<br />

e a personaggi come Rothko, Pollock, De Stael, del quale – primo in Italia – recensisce<br />

l’opera su “Paragone” nel 1956. Nello stesso anno si distacca dall’ideologia<br />

marxista, lascia Parigi e decide di dedicarsi completamente alla pittura<br />

abbandonando l’attività di critico d’arte.<br />

Nel 1958, tornato a Milano, porta avanti una ricerca incentrata su una peculiare<br />

forma di astrattismo emozionale, in cui la tela si ‘impressiona’ di suggestioni<br />

provenienti da sollecitazioni psicologiche interiori ed esteriori, giustapposte<br />

come frammenti. Le opere di questo periodo, poi esposte nel 1961 alla Galleria<br />

“Il Milione” a Milano, mostrano grande vicinanza linguistica con l’attività di<br />

De Stael, riscontrando un certo interesse nell’ambiente culturale milanese.<br />

Già nel 1964, come ebbe a dichiarare egli stesso in una Autopresentazione (Personale,<br />

“Galleria Vannucci”, <strong>Pistoia</strong>), cerca di coniugare il linguaggio astratto<br />

con sollecitazioni provenienti dalla realtà, pur mantenendo una libera struttura<br />

compositiva. Sulla fine del decennio le sue opere s’impostano a una sorta di<br />

‘collage’ pittorico, organizzato in sequenze di vere e proprie ‘visioni-frammenti’<br />

di vita quotidiana, composti in una sorta di continuità spazio-temporale-cromatica,<br />

in cui si può leggere una personale interpretazione della lezione artistica<br />

di Robert Rauschenberg. Sovente il suo lavoro prende spunto da materiali fotografici<br />

o pubblicitari che costituiscono la base dei frammenti visivo-pittorici che<br />

poi riconnette in unità sulla superficie del dipinto: a questa ricerca si riferiscono<br />

i dipinti eseguiti a Monza — città in cui si trasferisce con la moglie Donatella<br />

Giuntoli nel 1964. Gli anni successivi sono caratterizzati da una sorta di curiosità<br />

intellettuale e di ansia conoscitiva; frequenti gli spostamenti: i soggiorni a<br />

Barcellona per il Ministero della Pubblica Istruzione dal 1969 al 1972, a Lione<br />

nel 1978, i viaggi tra l’Italia e la Francia che hanno costituito una parte fondante<br />

della sua esistenza, dimidiata tra <strong>Pistoia</strong> e Parigi.<br />

Nelle opere eseguite dagli anni ottanta il suo lavoro è nuovamente impostato<br />

su problematiche di luce in cui la forma si smaterializza nel colore e il segno<br />

incide, con sensibilità tutta epidermica, spessi impasti di materia pittorica.<br />

Il processo di progressiva disgregazione del dato reale a opera della luce, risulta<br />

evidente anche in opere impostate sul segno, come nella serie di disegni di<br />

‘argini’ di fiume, di forte connotazione tellurica, eseguiti a partire dagli anni Novanta.<br />

Qui il tratto marcato è segnato da profonde fenditure di luce che si pongono<br />

come squarci della superficie visiva. È questo, un valido punto di partenza<br />

per la riflessione pittorica dell’ultimo decennio (mostra chiesa di San Giovanni<br />

Battista, 2003). Il valore di questo linguaggio<br />

poetico precocemente impostato alla trasfigurazione<br />

lirica del dato reale è sottolineato da Dino<br />

Carlesi (cat. mostra antologica 1994): “Giudicando<br />

serenamente quel periodo — e anche<br />

tutto l’insieme della produzione successiva —<br />

si avverte che l’alternanza tra figurazione e non<br />

figurazione ha rappresentato per Landini non<br />

uno scotto pagato saltuariamente alle mode ma<br />

una necessità intrinseca alla sua vivacità intellettuale<br />

e alla sua innata esigenza di trasfigurazione<br />

lirica della realtà”.<br />

Cenni bibliografici<br />

L. Landini, Pittori pistoiesi oltre la provincia, in<br />

“Realismo”, a. III, n. 23, luglio-agosto 1954<br />

Autopresentazione, in L. Landini, pieghevole<br />

mostra Galleria Vannucci, <strong>Pistoia</strong> 1964<br />

L. Landini. Mostra antologica, opere dal 1941 al<br />

1994, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 1994<br />

Museo di Arte Contemporanea e del Novecento.<br />

Collezione Civica “Il Renatico”, Monsummano<br />

Terme, Pisa 2001, pp. 115-117.<br />

A. Iacuzzi, Cultura artistica dal dopoguerra a<br />

<strong>Pistoia</strong>, in Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, a cura di<br />

C. Sisi, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />

L. Landini, Lo spazio luminoso. La mia ricerca<br />

artistica, <strong>Pistoia</strong> 2008<br />

186<br />

187


Lando Landini<br />

Figure, s.d. (fine anni Quaranta), firmato in basso a sinistra<br />

olio su cartone, cm 50 x 60<br />

<strong>Un</strong>a prova acerba sulla via del ‘realismo’ da riferirsi alla fine degli<br />

anni Quaranta: i volumi dei due personaggi si compongono lungo<br />

la linea prospettica di una fila di case. La visione di due uomini<br />

(forse operai, forse contadini) dagli ampi volumi, seduti su un<br />

muretto che costeggia le case dagli alti profili colorati, con le<br />

spalle allo spettatore, suggerisce l’atmosfera di una città desolata<br />

e silenziosa, di una pausa dal lavoro nei campi o in fabbrica; di<br />

una smisurata solitudine esistenziale che caratterizza spesso, in<br />

questi stessi anni, anche molte visioni di figure dedite al lavoro<br />

rappresentate da Francesco Melani (gli operai della San Giorgio,<br />

1949/1954) o da Alfiero Cappellini (i pescatori di Acitrezza o i<br />

funai, anni Cinquanta).<br />

188<br />

189


Valerio Gelli<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1932<br />

L’avvicinamento di Gelli all’arte risiede nell’età mitica dell’infanzia: lo stesso<br />

scultore ricorda l’impressione ricevuta dal piccolo volume sulla cappella degli<br />

Scrovegni, regalatogli dal nonno, ancora ragazzino; o la suggestione provata dalla<br />

conoscenza, già quattordicenne, dello scultore Corrado Zanzotto, che, ospite<br />

al Villone Puccini, costituiva per i ragazzi che, come Gelli, frequentavano quella<br />

colonia estiva, un personaggio di grande fascino.<br />

Per lui fu una sorta di folgorazione, soprattutto la visione dei disegni dello scultore:<br />

incisivi, taglienti, con tratti obliqui e veloci. E lo fu anche trovare Zanzotto,<br />

come insegnante di scultura, alla Scuola d’Arte, dove si iscrisse nel 1946. Qui<br />

studia con i coetanei Alfio Del Serra, Mirando Iacomelli e Sigfrido Bartolini.<br />

Passato a Firenze per frequentare i corsi liberi del nudo all’Accademia d’Arte,<br />

è avviato alla scultura da Giorgio Settala e all’acquaforte da Rodolfo Margheri<br />

mentre ha la possibiltità anche di entrare in contatto con Primo Conti, Rosai,<br />

Oscar Gallo e Quinto Martini.<br />

Ai primi anni Cinquanta, la sua attività è concentrata sul disegno e su alcune<br />

prime prove scultoree, dedicate a personaggi dell’ambiente familiare e della<br />

campagna pistoiese (Contadina 1950; Ritratto della nonna, 1952; Ritratto del<br />

nonno, 1955). Sono anni di lavoro intenso, durante i quali trova impiego come<br />

assistente alla cattedra di disegno al Liceo Scientifico di <strong>Pistoia</strong>, e segnati dalla<br />

conoscenza di Egle Marini e di Giovanni Michelucci, impegnato in alcune<br />

committenze cittadine, con il quale stringe una profonda amicizia. In collaborazione<br />

con l’architetto e con Corrado Zanzotto e Jorio Vivarelli partecipa alla<br />

realizzazione delle quattordici stazioni della Via Crucis all’interno della chiesa<br />

di Collina (Vinacciano, <strong>Pistoia</strong>). Il decennio si chiude con l’esposizione alla<br />

Galleria Alibert a Roma (1956) insieme ai pistoiesi Agostini, Bugiani, Mariotti,<br />

Bartolini e Gordigiani e con una prima personale all’Accademia pistoiese del<br />

Ceppo (1958). Intanto l’esperienza di Gelli si arricchisce di nuove sollecitazioni<br />

culturali: infatti nel corso degli anni Sessanta, e anche in seguito negli anni<br />

Settanta, riflette sulla lezione di grandi maestri come Marino Marini, Henry<br />

Matisse, Brancusi e Moore, maturando un segno plastico morbido e incisivo<br />

in un processo di sottile semplificazione formale che tuttavia pone una grande<br />

attenzione alla superficie ‘vibratile’ della scultura. Di questi anni Piccolo nudo<br />

sdraiato, 1959, Il bagno 1963, Il bacio, 1965, e una serie d’intensi ritratti in cui<br />

la superficie non completamente levigata dona alle opere una patina di antico.<br />

Si intuisce il dialogo intimo che l’artista instaura con il modello: lo si coglie,<br />

parola per parola, sussulti, sospiri, in ogni piccolo, cadenzato, scelto, lentissimo<br />

gesto con cui Gelli lavora la superficie dei volti ritratti. Così ne parla l’amico<br />

Michelucci, in una lettera (datata Fiesole, giugno 1987, in Valerio Gelli 1988):<br />

“[...] alcune tue sculture, generalmente di piccola dimensione (anche questo è<br />

significativo) nelle quali ho scorto una penetrazione sottile, paziente, commossa<br />

del soggetto rappresentato. La tua “Erminia “ ad esempio, è il risultato di un<br />

colloquio che non ha confini per penetrare negli spazi profondi della natura.”<br />

Altre volte i suoi ritratti assumono la forza di un totem: “Gelli costruisce dei<br />

volti come se fossero catapulte, con le quali sfonda il muro del reale: sono cunei<br />

aerodinamici che tendono lo spazio: magicamente in equilibrio si preparano al<br />

bacio della forma come se da lei chiedessero insistentemente di essere amati:<br />

sono totem selvaggi che esorcizzano ogni mimesi del quotidiano quanto più<br />

sembrano insistervi” (Iacuzzi 1988). Al largo dei decenni si pongono importanti<br />

partecipazioni a esposizioni come il XIX<br />

Premio internazionale del Fiorino a Firenze<br />

(1967), una personale al Palazzo comunale di<br />

<strong>Pistoia</strong> (1967).<br />

Dagli anni Ottanta la sua ricerca elegge a motivo<br />

poetico la figura di Erminia, sua compagna<br />

dal 1970, e il tema intimo e affettivo della<br />

maternità (Madre col bimbo, 1986; Mater Matuta,<br />

1986). <strong>Un</strong> processo di decantazione del segno,<br />

distillato, essenziale. Nel 1988 la Circoscrizione<br />

2 di <strong>Pistoia</strong> insieme a Comune e Provincia dedica<br />

all’artista una importante mostra antologica;<br />

Gelli continua a vivere e lavorare nella casa<br />

di via San Pietro che fu, un tempo, quella di<br />

Marino Marini.<br />

Cenni bibliografici<br />

Gelli, la scultura e la grafica dal 1949 al 1987, cat.<br />

mostra, <strong>Pistoia</strong> 1988.<br />

P. F. Iacuzzi, Il segno dell’uomo e il sogno della<br />

materia, in Valerio Gelli: la scultura, cit.<br />

T. Paloscia, <strong>Un</strong> arcaico stupore, in “La Gazzetta<br />

delle Arti”, XX, n. 7/8, settembre-ottobre 1988.<br />

T. Paloscia, Accadde in Toscana. L’arte visiva dal<br />

1941 ai primi anni 70, Firenze 1999.<br />

Museo di arte Contemporanea e del Novecento.<br />

Collezione civica “II Renatico” I, Monsummano<br />

Terme 2001, pp. 90-91<br />

Corrado Zanzotto. <strong>Un</strong> segno plastico, cat. mostra,<br />

<strong>Pistoia</strong>, Centro di documentazione sull’arte<br />

moderna e contemporanea pistoiese, 2004<br />

A. Iacuzzi, Cultura artistica dal dopoguerra a<br />

<strong>Pistoia</strong>, in Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, a cura di<br />

C. Sisi, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />

Valerio Gelli: L’uomo e l’artista, <strong>Pistoia</strong> 2009<br />

190<br />

191


Valerio Gelli<br />

Ritratto di Umberto Mariotti, 1964<br />

bronzo, cm h 25,5 x 15 x 20, titolo data e firma sul retro<br />

Il ritratto conservato in questa collezione è al tempo stesso un<br />

esemplare rappresentativo della ritrattistica dell’artista agli<br />

anni Sessanta e testimonianza affettuosa dell’amicizia che<br />

legava Gelli al più anziano Umberto Mariotti, suo insegnante<br />

alla Scuola d’Arte di <strong>Pistoia</strong>, nel secondo dopoguerra. Il bronzo<br />

ha una bella patina rossiccia che traspare dal sottile gioco di<br />

luci e ombre creato dalla leggera lavorazione della superficie,<br />

soprattutto in corrispondenza della calotta cranica e dei capelli.<br />

Il soggetto è rappresentato qui in un’attitudine introspettiva<br />

(come di sospensione dello sguardo, a cui concorre forse il<br />

particolare degli occhi con la pupilla scavata), carica di intensità<br />

emotiva, che mette in evidenza la frequentazione umana<br />

intercorsa con lo scultore.<br />

192 193


Aldo Frosini<br />

<strong>Pistoia</strong> 1924<br />

Appartiene alla seconda generazione di artisti pistoiesi che iniziano a lavorare<br />

dopo la seconda guerra mondiale. Membro di una famiglia per tradizione<br />

di decoratori, fin da giovanissimo attratto dal colore, studiava presso la Scuola<br />

serale d’arte di Fabio Casanova. Dal ’41 frequentava l’Istituto d’Arte di Porta<br />

Romana di Firenze, sotto la guida di Lunardi, Caligiani, Guerrini. Nel periodo<br />

fiorentino, interrotto dalla chiamata alle armi, si fa amico di Lucarelli e di Vivarelli,<br />

scopre con loro agli Uffizi, Giotto e Masaccio e ne rielabora la lezione<br />

nelle sue prime nature morte. Diplomato maestro d’arte, per circa tre anni si<br />

dedica alla realizzazione di giocattoli in legno. Assistente alla cattedra di disegno<br />

al Liceo Scientifico di <strong>Pistoia</strong>. Si avvicina allora ai pittori della prima generazione<br />

del Novecento (Bugiani, Cappellini, Mariotti). Restauratore dal ’54<br />

lavora costantemente, anche in giro per l’Italia, con Iacomelli, col quale tiene<br />

a Viareggio, presso la Bottega del Vageri, la sua prima personale. Seguiranno<br />

altre mostre assieme agli artisti pistoiesi. È il periodo nel quale si avvicina, nel<br />

colore vivo, ai Fauves e a Matisse, prediligendo una pittura di interni di raffinata<br />

fattura. Seguiranno una progressiva “semplificazione e interiorizzazione<br />

della figurazione” che negli anni Sessanta, col periodo delle Reti, lo avvicina<br />

alle ricerche geometriche concrete e alla Op-<br />

Art, ma allo stesso tempo gli fa scoprire la vena<br />

bizantina orientale dell’architettura romanica<br />

pistoiese (Tele romaniche). Seguirà, da allora un<br />

astrattismo geometrico ricco, sempre di colore e<br />

di riferimento figurativo. Dagli anni Novanta si<br />

dedica a una totale rarefazione geometrico-cromatica<br />

verso visioni di pura luce, monocrome,<br />

bianche candide.<br />

Cenni bibliografici<br />

L. Ladini, Personale di Aldo Frosini, cat. mostra<br />

Galleria d’Arte Vannucci, <strong>Pistoia</strong> 1981.<br />

Aldo Frosini mostra antologica. Opere dal 1941<br />

al 1989, cat. mostra, Edizioni del Comune di<br />

<strong>Pistoia</strong> 1989.<br />

N. Miceli, S. Simoncini, Percorsi della<br />

Figurazione a <strong>Pistoia</strong>. Dalle antologie della<br />

Circoscrizione 2 alle opere recenti, cat. mostra,<br />

<strong>Pistoia</strong> 2006.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

A. Iacuzzi, Cultura artistica del dopoguerra a<br />

<strong>Pistoia</strong> in Arte del Novecento, cit.<br />

195


Aldo Frosini<br />

Impalcatura e Palazzo dei Vescovi, 1980<br />

olio su faesite, cm 135 x 120, datato e firmato in basso a destra<br />

È un raffinato esempio del lavoro dell’artista nel quale, scoperta<br />

a Parigi l’arte astratto geometrica, recupera, in forma astratta,<br />

con una resa di delicata e morbida colorazione il significato<br />

e la raffinata forza dell’architettura romanica pistoiese che<br />

riesce a rendere in termini di astrazione geometrica che non è<br />

mai rigida e razionale, ma si stempera nella morbidezza delle<br />

scansioni libere e del colore. Questa linea di ricerca e di lavoro<br />

caratterizzerà la sua pittura dei decenni successivi, “in cui<br />

tassellature di colore trasfigurano liricamente la realtà in ritmi di<br />

grande raffinatezza cromatica” (Iacuzzi 2007).<br />

196 197


Fernando Melani<br />

S. Piero Agliana, <strong>Pistoia</strong>, 1907 – <strong>Pistoia</strong>, 1985<br />

È forse la personalità più interessante tra gli artisti del Novecento a <strong>Pistoia</strong>.<br />

Personaggio schivo, allo stesso tempo sempre presente nella vita cittadina dagli<br />

anni Cinquanta, da quando cioè iniziava ad applicare al “fare artistico” le sue ricerche<br />

teoriche e scientifiche. Inimitabile presenza mentale e fisica, lo si trovava<br />

vestito della sua tuta azzurra, sempre nitidissima, cui accompagnava, estate<br />

e inverno, una piccola sciarpa metà rossa, metà gialla: raffinato operaio, clown<br />

tragico e gentile, ha sempre portato avanti il suo lavoro artistico parallelamente<br />

alla sua teorizzazione, geniale nel suo approccio all’arte e alla scienza (“Arte<br />

= Riproduzione di se stessi – simile dal simile. Ma attenzione! <strong>Un</strong> riprodursi<br />

non per immagini, nascite spontanee o magia, ma attraverso gli inosservabili<br />

scambi di energia più o meno codificati, codificati o imprevisti che siano”,<br />

pubblicato in Brancolini 1986). È su questa sua teoria, della forza insita nella<br />

materia, dell’energia intesa inizialmente come caos, che poi, nel suo espandersi,<br />

si fa forma, teoria secondo la quale egli sembra, in certo senso, anticipare anche<br />

l’Arte Povera.<br />

Questa sua impostazione spiega anche il suo apparente eclettismo, il suo affrontare<br />

le “maniere” più diverse, sempre sul filo di un’apertura concettuale<br />

avant-lettre. Passava dall’elaborazione di stesure di colore puro, di cui analizzava<br />

le qualità fisiche, apparentemente legato al più limpido concretismo astratto<br />

(come quando inscenava un suo grottesco “bucato” appeso lungo lo studio),<br />

spaziando, con vitalità e freschezza, usando i materiali più diversi, le tecniche e<br />

le modalità operative più disparate, dalla pittura alla fotografia, oppure saldando<br />

tra loro fili di ferro sottile, a creare delicatissime ragnatele e osservandone<br />

il movimento, dalla piccola composizione all’oggetto boutade, ironico, sorridente,<br />

facendosi guidare da una concettualità che, come scrive Annamaria Iacuzzi<br />

(2007) “eliminava il rapporto emozionale che scaturisce dall’osservazione del<br />

reale, riducendo al minimo la presenza dell’io soggettivo dell’artista”.<br />

Ho altrove paragonato, paradossalmente, Melani a Beuys; paradossalmente<br />

poiché “tanto (Beuys) si distingue per il protagonismo, per la concezione<br />

dell’artista-eroe, per la durezza delle sue proposizioni, per l’assoluta mancanza...<br />

di qualsiasi accenno di ironia, quanto Melani è silenzioso, anti-eroe, antiartista,<br />

gentilmente e silenziosamente ironico. Né certo lo si può paragonare<br />

per l’importanza raggiunta sia nel sistema dell’arte, sia nell’incidenza e nel peso<br />

che la loro attività ha riscosso; così noto, così seguito Beuys, sia a livello critico<br />

che di mercato, così amato da pochi amici, quasi tutti artisti” (Fabro, Ranaldi,<br />

i colleghi pistoiesi...), e volutamente fuori dai circuiti commerciali, Melani.<br />

Ma c’è una qualità, una caratteristica che li avvicina e li fa, entrambi, apostoli<br />

di una rinnovata concezione dell’arte. È appunto<br />

il tema dell’energia insita nella materia.<br />

La sua ricerca, come scriveva Carla Lonzi nel<br />

’67 “attorno alla QUANTITÀ, considerando<br />

la qualità come una categoria concettuale che<br />

riflette ancora una volta l’abuso della presunzione<br />

dell’uomo. Egli ritiene che spingendo a<br />

fondo l’esame quantitativo si può giungere al<br />

rilievo delle strutture più nascoste, le più ricche<br />

e imprevedibili (altamente informative); da ciò<br />

il tentativo di rendersi sempre disponibile, nel<br />

suo operare, al rilievo di queste non calcolate<br />

armonie, aderendovi strettamente…”<br />

Cenni bibliografici<br />

C. Lonzi, Presentazione, in cat. mostra, Galleria<br />

Numero, Milano 1967.<br />

L.-V. Masini, Arte Cronaca, Attività artistiche in<br />

Toscana 1973-75, cat. mostra, Vinci 1976.<br />

F. Melani in A. Brancolini, Fernando Melani, gli<br />

scritti, Panzano in Chianti 1986.<br />

Bruno Corà, Fernando Melani. La casa-studio, le<br />

esperienze, gli scritti, dal 1945-1985, Milano 1990.<br />

L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />

B. Corà, D. Giuntoli, Fernando Melani. La Casa<br />

studio, <strong>Pistoia</strong> 2004.<br />

N. Miceli, S. Simoncini, Percorsi della<br />

Figurazione a <strong>Pistoia</strong>. Dalle antologie della<br />

Circoscrizione 2 alle opere recenti, cat. mostra,<br />

<strong>Pistoia</strong> 2006.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

A. Iacuzzi, Cultura artistica del dopoguerra a<br />

<strong>Pistoia</strong> in Arte del Novecento, cit.<br />

198<br />

199


Fernando Melani<br />

FM APR 54, n. 658, 1954<br />

olio su cartoncino, cm 36,5 x 49,5; firmato e datato in basso al<br />

centro<br />

<strong>Un</strong> esempio del continuo lavoro di Melani attorno al colore,<br />

relativo alle qualità fisiche, al significato dei rapporti tra i colori<br />

stessi: tre elementi irregolarmente geometrici, accostati uno<br />

all’altro ma delimitati da un netto profilo nero che si carica e si<br />

allarga verso il fondo dell’immagine, praticamente romboidale,<br />

al centro; il fondo, di un azzurro uniforme, quasi in un gioco di<br />

contrasti. I tre colori dell’immagine centrale, rosso, bianco, giallo<br />

carico, formano un nucleo che nasce dall’accostamento delle tre<br />

figure geometriche, come nel rifiuto giocoso di una formatività<br />

razionale in nome di una libertà calcolata, senza, peraltro,<br />

rifiutarne le matrici.<br />

200<br />

201


Fernando Melani<br />

L’attesa, s.d., (primi anni Cinquanta)<br />

stampa tipografica da fotografia in bianco e nero, cm 26 x 40<br />

siglato in basso a destra: “FM”<br />

Anche questa fotografia è giocata tutta sul rapporto di luceombra<br />

e sulla simmetria, appena squilibrata dalle ombre che<br />

i due piccioni a fronte creano nel contesto architettonico nel<br />

quale si collocano, quasi come piccole sculture decorative. Fa<br />

parte, assieme a molti altri piccoli lavori (composizioni, lavori<br />

realizzati con filo di metallo su carta, disegni, oggetti-gioco),<br />

della splendida cartella Arcobaleno nella quale egli coniuga la<br />

sua continua ricerca con un’ironia sottile, fresca, mai, peraltro,<br />

sarcastica. Nella cartella, contenuta in una scatola, si evidenziano<br />

anche una felice, estrema raffinatezza, una leggerezza e una<br />

libertà che hanno pochi confronti e che fanno del lavoro<br />

di Melani un unicum straordinario nel panorama artistico<br />

contemporaneo.<br />

202<br />

203


Fernando Melani<br />

Senza titolo (Battistero di <strong>Pistoia</strong>), s. d. (primi anni Cinquanta)<br />

stampa tipografica da fotografia in bianco e nero, cm 26 x 40<br />

foglio intero cm 34,5 x 46<br />

in basso a destra: “FM”<br />

Questa fotografia, che coglie, con felice “occhio”, una dinamica<br />

successione di linee parallele bianco-nere, colte in diagonale<br />

lungo la facciata dell’edificio gotico pistoiese fa parte della<br />

raccolta di lavori di Melani contenuti nella cartella Arcobaleno,<br />

che sembra raccogliere in sé tutta la carica concettuale ed<br />

espressiva, tutta la vitalità della ricerca dell’artista, che coinvolge,<br />

in una intensa complessità, i suoi profondi riferimenti teorici alla<br />

quantistica, alla filosofia, al tema dell’energia insita nella materia<br />

(anticipando anche i modi dell’Arte Povera e del Concettuale).<br />

Con questa inquadratura Melani riesce a trasformare una<br />

semplice successione di linee parallele in un gioco di grande<br />

vitalità nella forza dinamica e nel disegno che la visione laterale<br />

enfatizza nel rapporto tra le linee viste diagonalmente e la<br />

diversa gradualità dei piani.<br />

204<br />

205


Fernando Melani<br />

FM OTTOBRE 56, n. 873, 1956<br />

tecnica mista su carta, cm 36,5 x 49; firmato e datato sul retro<br />

<strong>Un</strong> bel lavoro impostato sulla forza dinamica del colore nella<br />

disposizione opposta e sfalsata delle due bande, rossa e verde<br />

chiaro, che vanno diminuendo di spessore, contro un fondo<br />

scuro uniforme, creando un senso di profondità e di dilatazione<br />

spaziale, di viva forza emotiva.<br />

206<br />

207


Fernando Melani<br />

FM GIU 56, n. 809, 1956<br />

assemblaggio di cartapaglia dipinta, cm 38,5 x 53; firmato e<br />

datato in alto a sinistra<br />

<strong>Un</strong>’altra composizione formata dall’accostamento e dalla<br />

sovrapposizione di carte colorate con tinte al metallo, a creare<br />

un rapporto dinamico tra forma e colore combinando assieme<br />

diversi elementi geometrici colorati, in un rapporto vitale, nel<br />

gioco verticale dei lunghi, sottili rettangoli bianchi, dei gialli in<br />

rapporti angolari, dei rossi che si uniscono l’uno all’altro dei due<br />

lati del quadrato nero centrale, che si lega col verde e l’azzurro.<br />

208<br />

209


Fernando Melani<br />

FM LUG 57, n. 986, 1957<br />

tecnica mista su carta, cm 58 x 38,5; firmato e datato in basso a<br />

destra<br />

<strong>Un</strong>o studio sul rapporto nello spazio di linee dritte di diverso<br />

colore e di tratto di vario spessore, a verificare l’effetto<br />

tridimensionale di una sorta di rete irregolare di colori diversi,<br />

su un fondo uniforme neutro, dove le linee creano ombre e aloni<br />

che addensano lo spazio. Si veda la straordinaria coincidenza con<br />

l’opera di Sol Lewitt sul soffitto della sede della Fondazione<br />

in Palazzo de’ Rossi: a distanza di circa cinquant’anni, a<br />

dimostrare l’anticipazione della ricerca di Melani nell’ambito del<br />

Concettualismo e l’unicità senza tempo della creazione artistica.<br />

210<br />

211


Fernando Melani<br />

FM 26 AP 61, n. 1842, 18.30 / 18.50, 1961<br />

pittura acrilica su carta, cm 61,5 x 34; firmato e datato in basso a<br />

destra<br />

<strong>Un</strong> lavoro fresco, felice, come un gioco di un attimo che può<br />

scomparire l’attimo successivo: una figuretta che sembra<br />

giocare con un bastoncino lanciato in alto, delineata con poche,<br />

liberissime pennellate di colore (rosso, giallo, verde, blu, un<br />

trattino nero – il bastoncino volante – un altro a terra...). Nessuna<br />

descrizione più realistica avrebbe potuto rendere con altrettanta<br />

leggerezza e felicità questo senso di aerea, lievemente ironica,<br />

spensieratezza.<br />

212<br />

213


Remo Gordigiani<br />

Empoli, 1926 – <strong>Pistoia</strong>, 1991<br />

Dal ’29 è a <strong>Pistoia</strong>, e qui dal ’38 al ’41 studiava presso la Scuola d’Arte, in<br />

seguito passava all’Accademia d’Arte di Firenze. Giovanissimo aveva raggiunto<br />

una maturità espressiva, in pittura, nutrita di un profondo studio<br />

della storia dell’ arte in tutte le sue manifestazioni.<br />

Da un figurativo cólto e maturo si incammina in un mondo personale di<br />

ricerca, ricco di un profondo amore per la natura, vista attraverso una trascrizione<br />

immaginifica, soffusa e rarefatta (il periodo delle Magnolie, fine<br />

anni Sessanta, e dei Vascelli, ‘61, per volgersi poi verso ricerche ispirate a<br />

studi sulle esperienze artistiche contemporanee internazionali. Costretto<br />

ad abbandonare la pittura a causa di una dermatosi cronica, causata<br />

dall’uso di sostanze chimiche contenute nei coloranti che aveva lungamente<br />

usato nel laboratorio della Scuola d’Arte, dove insegnava decorazione<br />

su stoffa.<br />

Dalla fine degli anni Sessanta si dedicava con maggiore assiduità al disegno<br />

e all’acquerello (la serie del Mare, anni Settanta, nella quale portava<br />

avanti una sperimentazione sulle variazioni della luce e del colore). Faceva<br />

seguito un suo personale ritorno al figurativo (che egli sentiva nell’aria):<br />

nascevano le Bagnanti (1975): disegni perfetti, dinamici, che sembrano<br />

ispirati a sequenze ritmiche, fotogrammi tratti da un video.<br />

Ma il suo irrinunciabile amore per la pittura lo portava a inventarsi un nuovo<br />

modo per raggiungere nel suo lavoro, con “altri” strumenti, le stesse<br />

condizioni (e, per lui, lo stesso appagamento) della pittura.<br />

Dal 1964 infatti, quando iniziava a usare come strumenti, non più il pennello<br />

e i pigmenti, ma il collage, usato in modo inusuale e personalissimo,<br />

attraverso il quale riusciva a realizzare un lavoro di una vitalità, di una<br />

energia creativa, di una freschezza straordinarie. Emergono, da allora, nei<br />

suoi quadri, una ricchezza di vibrazioni, un brulicare del colore, quasi senza<br />

precedenti. Affrontava i temi di una grafica new-dada e pop, per passare poi<br />

a opere nelle quali lo spazio del quadro è spartito in due sezioni, in orizzontale<br />

o in verticale, con zone di accelerazione di segni ripetuti in termini<br />

scalari, e zone monocrome; in alcuni lavori il segno si dispone a gradienti,<br />

in altri la disposizione dei piccoli tasselli di colore sembra mimare il “dripping”<br />

del pigmento; oppure si evidenzia la ricerca di una percezione di profondità<br />

tridimensionale. I diversi collage (in totale 161) sono raggruppati<br />

secondo vari temi: Il Prater di Vienna; Venezia; Aquileia...) tutte realizzazioni<br />

che passano da una freschezza luminosa e coloristica, a una forte tensione,<br />

talvolta a una solenne drammaticità.<br />

Si tratta di lavori che Gordigiani non ha mai<br />

presentato in vita, e che si sono potuti vedere,<br />

a diciassette anni dalla sua morte, in<br />

una bella retrospettiva realizzata dal “Centro<br />

di documentazione sull’Arte moderna e<br />

contemporanea a <strong>Pistoia</strong>”, a Palazzo Fabroni<br />

(2008-2009).<br />

Cenni bibliografici<br />

L.-V. Masini, Presentazione, in Gordigiani,<br />

Galleria Numero, Roma 1964.<br />

Il mare di Remo Gordigiani, cat. mostra, a cura di<br />

G. Bassi, <strong>Pistoia</strong> 1977.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

Remo Gordigiani. Il futuro nel passato, cat. mostra<br />

a cura di A. Iacuzzi, <strong>Pistoia</strong> 2008.<br />

214<br />

215


Remo Gordigiani<br />

Senza titolo (Romanico), 1961<br />

tecnica mista su carta, cm 32 x 40; firmato e datato in basso a<br />

destra<br />

<strong>Un</strong> lavoro degli anni Sessanta, vicino a quelli che Gordigiani<br />

definiva Romanici, che lascia intravedere, nella patina quasi<br />

uniforme, sul verde, spartizioni geometriche e rilievi dove<br />

traspaiono colori diversi, stesure rossastre, bordi di rilievi dorati,<br />

morbide trame luminose. <strong>Un</strong>’opera nella quale si individua<br />

uno strano connubio tra un’allusività informale-materica e una<br />

intenzionalità razionale-ordinatrice. Comunque un’opera densa,<br />

fortemente espressa, uniformata dalla morbidezza del colore.<br />

216<br />

217


Remo Gordigiani<br />

Foglie di magnolia autunnali, fine anni Sessanta<br />

tempera grassa su tela, cm 81,5 x 91,5<br />

Quest’opera apre un periodo di passaggio dalla pittura<br />

figurativa dell’artista, a uno legato anche alla sua passione per<br />

il naturalismo astratto, come quello di Morlotti e degli altri<br />

italiani del periodo. Si ricordi che del lavoro di Morlotti userà<br />

alcune strisce di copie di opere come supporto per alcuni dei<br />

suoi futuri collage. Questo periodo va dalla fine degli anni<br />

Cinquanta fino a tutto il ’60, ma già l’artista sperimentava<br />

tecniche e modalità diverse (Notturno, ’59, Colori nel vigneto,<br />

’59, cui seguivano Sottobosco ’61, Il fondo del fiume ’61) dove già<br />

sperimentava tecniche informali e nascevano i suoi evanescenti,<br />

poetici Vascelli. Questo lavoro è ancora un esempio della raffinata<br />

sensibilità di un artista che ha messo sopra ogni cosa il suo amore<br />

per la pittura, cui ha sottomesso ogni momento della sua vita,<br />

riuscendo, dalla metà degli anni Sessanta (quando, per gravi<br />

ragioni di salute, dovette abbandonare la pittura) a continuarne<br />

la realizzazione ricorrendo al mezzo del collage.<br />

218<br />

219


Remo Gordigiani<br />

Omaggio a Debussy, da Images; Reflets dans l’eau, 1974-1976<br />

collage su tela, cm 130 x 100; titolo, data e firma sul retro<br />

È uno dei 161 collage che Gordigiani ha realizzato, a iniziare dal<br />

’66, quando doveva abbandonare obbligatoriamente, a causa della<br />

grave malattia cutanea, contratta per l’uso di solventi durante i<br />

suoi corsi all’Istituto d’Arte di <strong>Pistoia</strong> sulla decorazione su stoffa,<br />

la pittura ad olio. Dopo aver lavorato, inizialmente, sul disegno<br />

e sull’acquerello (la serie del Mare, le Bagnanti...), ritrovava<br />

la gioia della pittura attraverso questa serie di collage, che ha<br />

tenuto quasi nascosti per tutta la vita, e che sono stati presentati<br />

nella sua grande mostra, Il futuro nel passato, a Palazzo Fabroni<br />

(2008-2009). Questo lavoro, impostato tutto su rapporti vivi di<br />

colore, usando il collage come pigmento, riducendolo spesso<br />

quasi ad un dripping organizzato secondo un ritmo perfettamente<br />

programmato, esprime una vitalità, una felicità “del dipingere”,<br />

nella quale Gordigiani ritrovava l’esplicazione totale della sua<br />

grande capacità espressiva.<br />

220<br />

221


LA SCUOLA DI PISTOIA<br />

Roberto Barni<br />

Umberto Buscioni<br />

Gianni Ruffi<br />

Adolfo Natalini<br />

223


Roberto Barni<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1939; vive a Firenze<br />

Membro della “Scuola di <strong>Pistoia</strong>” (denominazione che Cesare Vivaldi attribuiva<br />

al gruppo nel 1964, Vivaldi 1969), con Buscioni, Ruffi, inizialmente<br />

anche Natalini, che si trasferirà poi a Firenze e sarà il promotore dei gruppi di<br />

Architettura Radicale Archizoom e Superstudio.<br />

Artista inquieto, ombroso, esuberante si è sempre dedicato, con la stessa passione<br />

e intensità, alla scultura, alla pittura e, non certo con minor impegno e<br />

risultato, al disegno, secondo le leggi della storia dell’arte italiana, che egli ripercorre<br />

fin dagli anni Settanta, che da sempre ha dato grande importanza al<br />

concetto di “primato del disegno”, e che quasi tutti i pittori pistoiesi del ‘900<br />

hanno seguito.<br />

Iniziava ai primi anni Sessanta con un interessante, materiale e naturalistico<br />

concetto di “campo di intervento”, per passare a una sua interpretazione di<br />

“popular-art”, con le sue immagini colorate di oggetti tecnologici e ludici<br />

(catene, corde, tubi Innocenti, bastoncini dello Shangai), per volgere subito<br />

dopo verso la “citazione iconografica”, in un suo ripercorrimento della storia<br />

della pittura, dagli angeli di Piero della Francesca al recupero di una sorta<br />

di mitologismo allegorico, riferito per gran parte all’arte italiana degli anni<br />

Trenta.<br />

Affrontava, con grande violenza espressiva e con la irruente carica della sua “pittoricità”,<br />

l’enigma complesso della pittura di De Chirico, il “fascino discreto”<br />

della letterarietà pittorica di Savinio, che si rivela vincente nel suo disegno degli<br />

anni Ottanta, a recuperare anche certa matrice metafisica, che la sua grande mostra<br />

fiorentina del 2007 di scultura e pittura, Gambe in spalla, ha messo in luce.<br />

Tra l’altro, nella sezione organizzata da Mirella Branca, I passi mettono i rami, alle<br />

Pagliere esprimeva una sua grande forza sintetica e un’apertura essenziale in<br />

certi nuovi grandi lavori pittorici su fondo rosso, con violente gestualità di grandi<br />

tralci neri; lavori che, in certo senso, recuperano, “in progress”, certe istanze<br />

di alcune sue interessanti opere della metà degli anni Cinquanta.<br />

Porta avanti, con la stessa urgenza espressiva, non priva di una sottile ironia, anche<br />

il suo lavoro di scultore, incentrato sempre sul concetto dell’uomo, isolato e<br />

chiuso in una sua drammatica e profonda grandezza, nella sua astratta distanza<br />

dal mondo, come chiuso nella sua assenza totale.<br />

Cito qui alcuni pensieri dell’artista perché mi sembrano definire bene il significato<br />

che egli intende attribuire al suo Uomo che cammina (in Roberto Barni.<br />

Passaggi..., 1998): “L’arte all’inizio ti fa sentire un tutto uno con il mondo | in<br />

seguito quel tutto si allontana e l’arte ne misura la distanza”.<br />

E: “il pittore non riesce a tenere gli occhi aperti. Significati e simboli sono ani-<br />

mali che non possono essere lasciati liberi su<br />

territori troppo vasti, rischiano di perdersi. Gli<br />

artisti fanno il possibile per entrarci. La loro opera<br />

ne riceverà un’attribuzione di valore, gli sarà<br />

garantito il contatto col mondo ma anche il suo<br />

distacco, al di fuori di questo recinto che sarà la<br />

fine e un nuovo inizio”.<br />

Cenni bibliografici<br />

C. Vivaldi, Barni, Buscioni, Ruffi.<br />

<strong>Un</strong>’avanguardia in Toscana, Roma 1969.<br />

Roberto Barni. Disegni e sculture, cat. mostra a<br />

cura di G. Carandente, Firenze 1994.<br />

Roberto Barni. Affezioni, cat. mostra a cura di A.<br />

Boatto, <strong>Pistoia</strong> 1997.<br />

Roberto Barni. Passaggi di fortuna: scritti e<br />

disegnati, cat. mostra, Prato 1998.<br />

A. Boatto, Roberto Barni Sculptures, cat. mostra<br />

Marlborough Gallery Monaco 2007.<br />

Roberto Barni. Gambe in spalla, cat. mostra,<br />

Prato-Siena 2008.<br />

224<br />

225


Roberto Barni<br />

Groviglio, anni Sessanta<br />

olio su tela, cm 100 x 100; firmato sul retro<br />

Il quadro appartiene al primo periodo del lavoro dell’artista<br />

relativo alla sua ricerca su una trascrizione nuova della Pop Art,<br />

rivolta alla vita, al lavoro quotidiano, agli strumenti e agli oggetti<br />

che fanno parte dell’attività della gente ma, in questo lavoro,<br />

nel groviglio dei fili, probabilmente elettrici, mantiene anche<br />

un chiaro riferimento a una gestualità di memoria informale,<br />

tradotta, peraltro, in voluta, dinamica, colorata oggettualità.<br />

226<br />

227


Roberto Barni<br />

Macchina da cucire (o Groviglio), anni Sessanta<br />

olio su compensato, cm 80 x 80; firmato sul retro<br />

Ancora un intreccio di fili in gomma e piccole strutture metalliche,<br />

per un lavoro giocato tutto sul rapporto rosso/nero: forme elastiche<br />

in curve segniche, in nero; forme lineari, incrociate e imbullonate,<br />

come gesti netti, scattanti, che ricordano, di Barni, gli Shangai,<br />

praticamente dello stesso periodo, a creare, nella doppia tensione<br />

che si elabora sulla superficie bianca del fondo, una formatività<br />

complessa, allo stesso tempo libera e dinamica, ma anche<br />

perfettamente bilanciata e composta.<br />

228<br />

229


Roberto Barni<br />

Sonno, 1993<br />

tecnica mista, cm 165 x 115; firmato sul retro<br />

La grafica è sempre stata uno dei momenti importanti nel lavoro<br />

di Barni, dal disegno all’uso di tecniche diverse, che egli porta<br />

avanti, in vari modi, in ogni fase della sua ricerca e che, verso<br />

gli anni Novanta, si arricchì di grumi rilevati, fatti di carta di<br />

giornale pressato, a creare agglomerati in rilievo, allo scopo di<br />

rendere più mosso e dinamico tutto il lavoro, posti sui velli degli<br />

animali, sulla testa dei pastori; era il periodo nel quale l’uomosimbolo<br />

di Barni era, appunto, il pastore, con le sue greggi e,<br />

spesso, come in questo lavoro del ’93, con un cane, nettamente<br />

disegnato, la sola immagine perfettamente bianca in tutto il<br />

lavoro. È il solo essere sveglio, vigile nell’oscurità della notte.<br />

Qui la parte rilevata occupa quasi tutto lo spazio dell’opera, quasi<br />

in una sorta di horror vacui, facendone quasi un altorilievo, nel<br />

quale un uomo seduto, il pastore, a destra, all’interno di una<br />

caverna, è in stato di riposo. Attorno, a coprire tutta la superficie,<br />

animali arrampicati sulle rocce, nascosti in anfratti, in una densità<br />

di materia oscura, di una notte fatta solo di respiro.<br />

230<br />

231


Roberto Barni<br />

Rasoio, 2002<br />

bronzo, cm 50 x 38 x 21<br />

Questa piccola scultura si propone quasi a simbolo di tutta quella<br />

linea del lavoro scultoreo di Barni che parte dagli anni Ottanta,<br />

impostata sul concetto dell’“uomo che cammina” (uno dei suoi<br />

temi abituali, elaborati in mille varianti e in mille misure) che<br />

pone l’uomo, con tutte le sue inquietudini, i suoi rischi continui<br />

(camminare sul rasoio – sembra la traduzione, tra ironica e<br />

satirica, di un proverbio popolare: essere “sul filo del rasoio”),<br />

pone l’uomo, comunque, al centro del mondo, ma lo lascia quasi<br />

sempre solo. Qui le tre lunghe figure sembrano quasi cloni l’una<br />

dell’altra: ad evidenziare il senso di solitudine e la fragile nudità<br />

dell’uomo che cerca, in ogni modo, di andare avanti, di proporsi<br />

ostinatamente come eroe, in un mondo sempre più ingannevole<br />

e inquietante.<br />

232<br />

233


Umberto Buscioni<br />

Bonelle, <strong>Pistoia</strong>, 1931; vive a <strong>Pistoia</strong><br />

Tra gli esponenti della “Scuola di <strong>Pistoia</strong>” nata nel 1964 (con Barni, Ruffi,<br />

inizialmente anche con Natalini, architetto, trasferitosi poi a Firenze), Umberto<br />

Buscioni è quello più legato alla sua “spontanea vocazione pittorica”,<br />

a quella che Renato Barilli (’67) definiva la sua “felicità della pittura”, che lo<br />

costringeva (è ancora Barilli che scrive) ad “un limpido vedere e percepire”.<br />

Partiva da riferimenti a cose e materiali che costituivano l’esempio di un uso<br />

e di un consumo generale e “popular” (cravatte, camicie, tende, bandiere<br />

colorate mosse dal vento, ma tali da attrarre la sua passione per il colore), e<br />

di mano in mano ponendo sempre più l’accento sulla “piega” gonfiata dal<br />

vento (si pensi al concetto deleuziano di piega come simbolo di ridondanza,<br />

di fastosità e, in fondo, anche di occultamento). Usciva così, a poco a poco,<br />

dalla pittura timbrica, piatta, di superficie, caratteristica della Pop Art per<br />

affrontare il lievitare delle superfici: le stoffe si gonfiavano al vento portando<br />

sempre avanti la sua qualità di grande colorista; all’inizio, in lavori come Sul<br />

prato, del ’66, Particolare fra le bandiere, del ’67, manteneva ancora il senso<br />

di superficie piatta, come in Fedora del ’73, a pieghe piatte in una superficie<br />

distesa. Ma di seguito, cogliendone sempre più i riferimenti diretti alla storia<br />

della pittura le sue immagini di stoffe volanti diventavano panneggi sempre<br />

più fitti e pesanti come quelli dei dipinti manieristi e barocchi. Le superfici<br />

dei suoi lavori, dagli anni Settanta, si caricano di ombre cangianti che ne creano<br />

il volume; i riferimenti alla figura sono ancora solo allusivi; sono le vesti, le<br />

pieghe, gli avvolgimenti che continuano a prefigurare il corpo: drammatica la<br />

Deposizione fra cielo e terra, del 1981, nei colori acidi, raggelati del Manierismo,<br />

col bianco lenzuolo sostenuto da mani invisibili. E vediamo ancora Sudario<br />

con arcobaleno, ’81; un lavoro dinamico e “sonoro”; di un suono inudibile è La<br />

caduta degli angeli ribelli, ’82-’83, ancora senza figure.<br />

Dalla metà degli anni Ottanta appaiono, tra le agitazioni dei panni ampi mossi<br />

dal vento, i primi elementi del corpo umano, braccia, gambe, piedi, appena<br />

modulati dalle ombre: Testimoni di fuoco,’87-’88; Nostre ombre (La sera),’91:<br />

figure sempre avvolte da un vento impetuoso, violento, che rende il quadro<br />

come in continua levitazione. I volti, quando appaiono, sono come indistinti,<br />

inafferrabili.<br />

Da questo momento, peraltro, i lavori di Buscioni si caricano di immagini<br />

quasi surreali di santi, le cui vesti gonfie e drappeggiate li sostengono in una<br />

sorta di volo pesante e sospeso.<br />

Su questi temi egli ha eseguito anche i cartoni per le vetrate realizzate per la<br />

chiesa di S. Paolo a <strong>Pistoia</strong>, secondo una tradizione abbastanza comune nel la-<br />

voro degli artisti pistoiesi del ‘900. A proposito dell’apparire dei volti scriveva<br />

Cesare Vivaldi nel ’92: “[...] in verità il problema di Buscioni è sempre stato<br />

lo stesso, perseguito con molta coerenza e conseguenza anche se riproposto<br />

in termini di volta in volta diversi, ed è grosso modo riassumibile appunto<br />

nei termini ‘alludere’ e ‘adombrare’: era tale quando negli anni Sessanta, con<br />

un occhio svagato alla pop art e un altro più attento alla grande tradizione<br />

rinascimentale, dipingeva camicie, stoffe, bandiere quasi più vere del vero<br />

eppure semplicemente simboliche di un’invisibile umanità, metafore quindi<br />

del reale; è tale oggi allorché dipinge scie rivelatrici<br />

d’angeli caduti, metafore di metafore<br />

dietro le quali si nasconde l’inattingibilità del<br />

reale, vanamente inseguito anche attraverso<br />

la cultura. Vero è che le maschere, le quali in<br />

molte diverse maniere ricoprono un volto invisibile,<br />

proprio con il nasconderlo lo designano;<br />

dal che si arguisce facilmente che il punto<br />

centrale della questione non risiede nel volto,<br />

nella realtà, ma nel come celarlo e insieme<br />

evidenziarne la presenza-assenza”.<br />

Cenni bibliografici<br />

R. Barilli, Presentazione, in Lo spettacolo del<br />

mondo, cat. mostra, Bologna 1967.<br />

Umberto Buscioni 1963-1973, a cura di E.<br />

Crispolti, Firenze 1973.<br />

V. Bramanti, Umberto Buscioni, cat. mostra,<br />

Prato 1985.<br />

C. Vivaldi, R. Barilli, Umberto Buscioni. 1963-<br />

1991. Mistero e rivelazione del quotidiano, Milano<br />

1992.<br />

L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />

R. Barilli, Il giorno e la sera. A rebours vetrate<br />

artistiche di Umberto Buscioni, Prato-Siena 2002.<br />

Umberto Buscioni. Nostre ombre. Dipinti 1990-<br />

2005, a cura di M. Cianchi, Prato-Siena 2006.<br />

M. Calvesi, Umberto Buscioni. Quel che resta è<br />

pittura, cat. mostra, Poggibonsi 2009.<br />

234<br />

235


Umberto Buscioni<br />

Alla finestra, 1967<br />

olio e tecnica mista su carta intelata, cm 66,5 x 48,5; firma e data<br />

in basso a destra, titolo in basso a sinistra<br />

<strong>Un</strong> esempio del primo periodo della versione pop di Buscioni,<br />

rivolta agli oggetti della vita quotidiana italiana: qui una gruccia<br />

alla quale è appesa una cravatta a righe diagonali, dai colori vivi,<br />

che svetta nel vento, contro un cielo di un azzurro chiaro, con<br />

nuvolette bianche. Il tutto, per quanto sospeso in una sorta di<br />

vuoto, è reso secondo una stesura piatta, timbrica, dove domina<br />

il colore.<br />

236<br />

237


Umberto Buscioni<br />

Grandi particolari, 1967<br />

olio su tela, cm 132 x 95; titolo, data, firma sul retro<br />

Ancora un quadro del primo periodo pop. Diviso in due parti<br />

verticalmente, riporta nelle due sezioni particolari diversi, di una<br />

giacca bianca dalla quale fuoriesce una cravatta a righe diagonali<br />

dai colori vivaci. Si intravedono, in una parte, un guanto bianco e<br />

anche una camicia rosa e dei pantaloni. La visione pop si traduce<br />

in simboli (quelli del vestire dell’uomo italiano in estate), che<br />

sembrano anche dosare la forza della luce e del colore.<br />

238<br />

239


Umberto Buscioni<br />

Caduta degli Angeli ribelli, 1988<br />

olio si tela, cm 100 x 70; titolo, data e firma sul retro<br />

<strong>Un</strong> quadro della fine degli anni Ottanta, che evidenzia un<br />

passaggio nel lavoro di Buscioni, che recupera, in certo senso,<br />

la complessità della figura e del volto umano che negli anni<br />

precedenti erano proposti à plat e, nel caso dei particolari (volto,<br />

mani) mai definiti. Qui le figure degli angeli sono viste piuttosto<br />

come puttini avvolti in veli trasparenti, contro i suoi precedenti,<br />

coperti di pesanti drappi baroccheggianti. Questi angeli cadenti,<br />

anch’essi quasi trasparenti, trovano nella loro caduta vorticosa<br />

una loro collocazione nella divisione del quadro nelle due bande<br />

di colore, nelle quali sono rappresentati: un forte rosso cardinale,<br />

nei due che occupano la banda inferiore del quadro, un azzurro<br />

lievemente sordo, quasi petrolio, in quelli della banda superiore,<br />

in mezzo a nubi che accentuano la divisione delle due sezioni<br />

orizzontali. <strong>Un</strong> lavoro interessante che nei due colori trova il suo<br />

significato più profondo.<br />

240<br />

241


Umberto Buscioni<br />

Allegoria della felicità, (particolari), 1994<br />

olio su tela, cm 55,5 x 87; titolo, data e firma sul retro<br />

<strong>Un</strong> quadro recente, giocato su quattro colori: l’azzurro in diverse<br />

sfumature nel fondo, nel volto femminile (una figurazione<br />

tradotta sempre à plat come nelle opere degli anni Sessanta-<br />

Settanta), nell’orologio senza ore nella parte destra del quadro;<br />

il bianco dei segni e di un profilo-rimando, di buscioniana<br />

memoria, a quelle grucce da armadio, senza i colori rutilanti<br />

delle camicie e delle cravatte a righe che ne pendevano negli<br />

anni di adesione dell’artista a una Pop casalinga e privata (ora è<br />

l’orologio che vi sta appeso, forse nel vento della memoria?); una<br />

sorta di ombra di un giallo acceso dietro la testa della donna; un<br />

tocco di violetto sfumato...<br />

Allegoria di quale felicità? Sta forse nella distruzione del tempo<br />

misurabile? Nell’allusione ad un cielo cosparso di nubi chiare e<br />

di un orologio che vi si perde?<br />

O si tratta di un gioco di spaesamento nel titolo?<br />

242<br />

243


Gianni Ruffi<br />

Firenze, 1938; vive a <strong>Pistoia</strong><br />

Tra i protagonisti di una particolare interpretazione della Pop-culture, in termini<br />

europei, anzi specificatamente legata alla vita contadina toscana, che ha<br />

portato avanti col gruppo dal nome di “Scuola di <strong>Pistoia</strong>”. Il gruppo, formato<br />

da Ruffi, Barni e Buscioni, inizialmente includeva anche Natalini che, trasferitosi<br />

a Firenze era tra i fondatori dei gruppi di Architettura radicale Archizoom<br />

e Superstudio). Il gruppo pistoiese riusciva a raggiungere, negli anni<br />

Sessanta-Settanta, un ruolo importante in campo nazionale. Fu un notevole<br />

esempio di apertura culturale che, in questo caso, distinse <strong>Pistoia</strong> anche da<br />

Firenze, in quel momento più legata all’interpretazione della Pop secondo le<br />

linee americane.<br />

Ruffi iniziava realizzando oggetti legati alla “cultura materiale” contadina che,<br />

in chiave con la pratica pop (da Oldenburg all’italiano Pascali) egli ingigantiva,<br />

usando peraltro materiali meno pesanti degli originali (legno, filo di ferro,<br />

plastica) trasformandoli in totem ironici e spesso crudeli (tagliole, cestole,<br />

gabbie, fionde, ma anche onde di mare solidificate, coloratissime, basculanti,<br />

giocattoli giganti – Il mare a dondolo, 1957), praticando una sua caratteristica,<br />

sottile ironia, secondo un suo gioco linguistico (Barilli cita Pascali, ma si può<br />

pensare anche a Manzoni – Cannoni – al felice “strabismo” di Boetti, legato<br />

alla lezione di Duchamp, ad un mondo poetico alla Finlay).<br />

È un’ironia, quella di Ruffi, che sfocia direttamente nel Concettuale e, appunto,<br />

sulla componente linguistica, giocando con gli oggetti e con le parole,<br />

con rebus nei quali gli oggetti si pongono in termini mentali. Pensiamo alle<br />

sue installazioni, spesso con argute varianti che egli approfondisce di volta in<br />

volta: Ri-corda,’76-’86, dove una corda arrotolata, a destra di un “RI” in legno,<br />

completa la parola; La Via Lattea, ’81, che vede migliaia di contenitori di latte<br />

in cartone composti in una lunga, fitta cordata a formare un modulato, lungo<br />

percorso; o ancora Dipanare il mare, ’88-’90, nel quale una parete coperta di<br />

corte, fitte onde piatte di filo di ferro vede a terra, vicino, un grosso gomitolo<br />

di filo di ferro; un esempio, anche, di raffinata, poetica fantasia. Talvolta la<br />

metafora è più diretta, come in Fontana malata, ’84, dallo zampillo formato<br />

da una catena di ganci...<br />

Seguiranno poi le citazioni dei grandi della storia dell’arte “nominati” ognuno<br />

su una porta dal colore allusivo (Bianco Fontana, Giallo Vangogh, Rosso Matisse,<br />

Verde Cesanne (sic), Nero Burri, ’76.<br />

Ma anche la materia delle porte bianche per indicare M. Buonarroti, Canova,<br />

’77. E ancora Dinamite, ’71, di un’ acuta, stridente, amara intensità; La Strada<br />

ferrata, ’92, un gustoso Ready-Ready-Made da Man Ray.<br />

Il lavoro di Ruffi dunque, partito dal cordiale, giocoso Mare a dondolo, che<br />

diverrà Mare a tre canti, ’67; Messaggio, ’67, con sopra una bottiglia verde; per<br />

finire piccolo, monocromo sopra un’alta colonna; continuerà con opere sempre<br />

più incisive e forti. Ricorderò Aquilone, ’88, un povero aquilone pesante,<br />

in ferro (qui il suo gioco si rovescia), costretto a terra, a sognare inutilmente<br />

un cielo irraggiungibile; e infine, omettendo<br />

pezzi intensissimi, La luna nel pozzo che, dal<br />

’99, trova la sua collocazione, nella versione in<br />

ferro, nella piazza Giovanni XXIII a <strong>Pistoia</strong>.<br />

Da ricordare anche l’intervento nel Nuovo<br />

Padiglione di Emodialisi a <strong>Pistoia</strong>, con Lunatica,<br />

2005.<br />

Dicevo che il lavoro di Ruffi si è fatto più incisivo:<br />

la sua fantasia si carica progressivamente<br />

di un duro e pungente sarcasmo nei confronti<br />

di un mondo sempre più incapace di cogliere<br />

il significato profondo, liberatorio, dell’ ironia,<br />

e sempre più chiuso nella propria, ottusa “seriosità”.<br />

Cenni bibliografici<br />

C. Vivaldi, Barni, Buscioni, Ruffi, Collana di<br />

Arte Contemporanea, Roma 1969.<br />

Omaggio a Gianni Ruffi, a cura di V. Bruni, in<br />

Declinare lo sguardo, San Giovanni Valdarno<br />

1989.<br />

R. Barilli, Gianni Ruffi. Le trappole del senso<br />

1965-1990, cat. mostra, Milano 1990.<br />

L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />

Gianni Ruffi, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 2000.<br />

Il Nuovo Padiglione di Emodialisi all’Ospedale di<br />

<strong>Pistoia</strong>, Prato-Siena 2005.<br />

Gianni Ruffi. Metamorfosi dell’oggetto, Bologna<br />

2006.<br />

Arte ambientale. La Fattoria di Celle. Collezione<br />

Gori, Prato-Siena 2009.<br />

L. Pratesi, Gianni Ruffi Per fermare il tempo<br />

2008-2009, <strong>Pistoia</strong> 2009.<br />

244<br />

245


Gianni Ruffi<br />

Chiodi, 1969-1973<br />

tecnica mista su legno, cm 55 x 65 x 6; , firmato sul retro<br />

Bloccati su tavola in ordine sparso come se, gettati liberamente<br />

dall’alto fossero rimasti attaccati in una fissità irregolare perché<br />

nessuno dei chiodi è stato fissato naturalmente, inserendone<br />

la punta nel legno e soprattutto perché i chiodi non sono di<br />

ferro, ma di legno. La base in legno è disegnata a raffigurare un<br />

pavimento presso la parete. È un lavoro leggero, fresco, ironico,<br />

secondo lo stile consueto di Ruffi, tutto mentale, ma allo stesso<br />

tempo anche carico di una fantasia lieve e poetica. La capacità<br />

offensiva, perforante e tagliente dei chiodi è qui annullata nel<br />

loro essere morbidi e non duri come il legno, fissati in posizione<br />

assolutamente inoffensiva e innocua. Va anche ricordato che i<br />

chiodi fanno parte di quel “Pop-ular” operaio e contadino che<br />

Ruffi sceglie per i suoi lavori, che giocano spesso anche sul<br />

rapporto rovesciato di morbido/duro.<br />

246<br />

247


Gianni Ruffi<br />

Giallo, Rosso, Verde, 1968<br />

assemblaggio su legno, quattro tavole legate a libro tra loro<br />

cm 60 x 39 x 7,5 ciascuna (aperto cm 60 x 80); firma sul retro<br />

<strong>Un</strong> bel lavoro impostato sui colori giallo, rosso, verde: ognuno<br />

dei tre colori ricopre il davanti di una tavola, (quello nel quale<br />

si colloca la sagoma di una grande matita dalla punta del colore<br />

della tavola stessa), e il retro della tavola-pagina che le succede,<br />

che reca invece, sulla sua facciata, il secondo colore e la sagoma<br />

di una matita la cui punta è dello stesso colore. E così di seguito.<br />

È un gioco di rimandi, di ingigantimento “pop” di tre matite<br />

di tre colori diversi. Fa parte dei lavori del primo periodo della<br />

interpretazione del Pop-ular quotidiano dell’artista, portata<br />

avanti con una stesura timbrica del colore à plat, già, peraltro,<br />

improntata sulla sua lieve, sottile ironia.<br />

248<br />

249


Gianni Ruffi<br />

Giotto, 1972<br />

vinili su legno, dittico, cm 170 x 190 x 12<br />

Composto da due pannelli della stessa altezza e larghezza,<br />

accostati, che trattano ironicamente di una grande personalità<br />

di artista, Giotto, rifacendosi peraltro allo scritto e alle immagini<br />

che trovavamo, da bambini, nelle scatolina di cartone “Fila”,<br />

che conservava le nostre piccole matite scolastiche e che portava<br />

su una faccia la storia romanzata di “Angelo da Bondone detto<br />

GIOTTO” che, da ragazzino, mentre guardava un gregge,<br />

tracciava su una pietra, inginocchiato a terra, con una matita,<br />

l’immagine di una pecorella, quando fu osservato dal “famoso<br />

pittore Cimabue, che, osservando la perfezione del disegno<br />

intuì in quel fanciullo un artista” e “lo portò seco a Firenze e gli<br />

fu maestro”; con tutta la storia che segue fino alla morte e alla<br />

sepoltura “in Santa Maria del Fiore a Firenze”.<br />

Le due figurette del ragazzo piegato sulla pietra e del “grande”<br />

pittore di cui si indovinano le vesti alla moda si perdono un poco<br />

nella logica cancellazione del tempo.<br />

Con questo lavoro Ruffi contrappone il ricordo infantile<br />

all’ingigantimento delle stesse matite nel suo lavoro precedente,<br />

Giallo, Rosso, Verde del 1968 di carattere “Pop-ular”, a cui viene<br />

in qualche modo confrontato in mostra.<br />

250<br />

251


Gianni Ruffi<br />

Come una rosa, 1984<br />

legno tamburato e dipinto a tempera, cm 336 x 85 x 13<br />

<strong>Un</strong> lavoro che gioca sull’à plat che scardina il concetto di<br />

tridimensionalità e di rotondità del lungo vaso in legno lasciato<br />

grezzo e sulla visione impropria e irregolare della rosa, vista<br />

dall’alto, appunto, a svelare il suo interno. A confermare<br />

l’intenzionalità quasi costante dell’artista, di mettere in crisi,<br />

con un’ironia discreta e un po’ sfottente, tutte le certezze,<br />

anche quelle dell’occhio e delle convenzioni che lo riguardano<br />

(prospettiva, punto di vista, anche quella della finestra<br />

albertiana).<br />

252<br />

253


Adolfo Natalini<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1941; vive a Firenze<br />

Seguiva a Firenze gli studi universitari di architettura “a scuola” come scrive<br />

“da Benevolo, Quaroni, Ricci e Savioli” dove leggeva Architectural Design,<br />

L.C. (Le Corbusier), e dava vita, con altri, alla “Superarchitettura”, da cui nascevano<br />

i gruppi di architettura radicale, Archizoom e Superstudio (di cui Natalini<br />

era il capofila nel ’66, anno dell’alluvione a Firenze). Il tentativo era di<br />

“liberarsi dai residui e dalle infatuazioni architettoniche attraverso massicce<br />

ingestioni di progetti-immagine e di iniziare una demolizione della disciplina<br />

attraverso azioni di guerriglia”.<br />

Nello stesso anno Natalini, a <strong>Pistoia</strong>, diventava membro, con Barni, Buscioni,<br />

Ruffi, della nuova “Scuola di <strong>Pistoia</strong>” che, ai suoi inizi, aveva interpretato<br />

l’ideologia della Pop Art americana (diffusa in Europa dalla Biennale del<br />

1964) non in rapporto alla vita degli abitanti delle grandi città americane, ma a<br />

quella della cultura europea, e italiana, (nel caso di Ruffi a quella “materiale”<br />

contadina). Natalini portava avanti, nella sua pittura, una figurazione più vicina<br />

a quella di Warhol, nei suoi grandi ritratti di<br />

giovani, di nuotatori; una visione volutamente<br />

legata alle grandi immagini pubblicitarie, dai<br />

contorni nettamente disegnati, dai colori piatti<br />

e uniformi, di grande impatto visivo.<br />

Trasferitosi definitivamente a Firenze, Natalini<br />

si dedica totalmente alla professione architettonica,<br />

lavorando in Italia e in tutta Europa.<br />

Cenni bibliografici<br />

Superstudio. Storie con figure 1966-1973, a cura di<br />

A. Natalini, Firenze 1979.<br />

Adolfo Natalini, Architetture raccontate, Milano<br />

1989.<br />

A. Belluzzi, C. Conforti, Architettura Italiana<br />

1944-1994, Bari 1994.<br />

L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />

Adolfo Natalini Architettare, cat. mostra a cura di<br />

V. Fagone, Lucca 2003.<br />

C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

255


Adolfo Natalini<br />

Armstrong a righe rosse e blu, 1964<br />

olio su tela, cm 151 x 151; datato e firmato sul retro<br />

<strong>Un</strong>a bella interpretazione autonoma che si ispira ai grandi<br />

ritratti pop di Warhol, in termini, peraltro, di una più vivace e<br />

“nostrana” trascrizione allusiva e psicologica del personaggio<br />

attraverso non solo la presenza della tromba, ma anche nel vivace<br />

e dinamico riferimento al flusso veloce del suono attraverso<br />

l’onda espressa nelle sue diverse intensità, rappresentate dalle<br />

onde sonore delle righe azzurre e rosse, che scorrono parallele<br />

ma con scarti e variazioni di ampiezza.<br />

256<br />

257


ALLA FINE DEL XX SECOLO<br />

Franco Bovani<br />

Massimo Biagi<br />

Andrea Dami<br />

259


Franco Bovani<br />

<strong>Pistoia</strong> 1949-1988<br />

Compie i suoi studi all’Istituto d’Arte di <strong>Pistoia</strong> e si avvia a esperienze formative<br />

nel campo della ceramica, accostandosi ai temi figurativi propri della<br />

tradizione pistoiese.<br />

Attorno al 1970 si interessa di temi sociali legati alla condizione reietta e alienante<br />

dei malati degli ospedali psichiatrici: visita spesso in questo periodo<br />

la struttura cittadina delle Ville Sbertoli dalla cui suggestione nasce la serie<br />

O[spedale] P[sichiatrico], opere di grandi dimensioni in cui già sperimenta,<br />

seppure in un contesto figurativo ‘allucinato’, gli impasti materici ricchi e<br />

densi che diverranno una caratteristica di preziosità del suo lavoro futuro.<br />

Con questo lavoro si segnala al Premio Nazionale XXV APECO nel 1973 a<br />

Milano.<br />

Presi come punto di riferimento gli esponenti della Scuola Pistoiese Buscioni,<br />

Ruffi e Barni orienta la propria ricerca verso il linguaggio della pop art italiana<br />

e segnatamente pistoiese con uno sguardo anche al new-dada. Alla sua<br />

prima Personale alla Galleria Vannucci (1975) presenta la serie delle Mappe<br />

geografiche, tele e compensati sagomati dedicate a questo tema eseguiti con<br />

una tecnica mista di grande preziosità, spesso usando motti d’ironia per sottolineare<br />

una propria idea, un proprio concetto.<br />

Già nel 1976 si rivolgeva a Milano, alla Galleria Il Naviglio, per un confronto<br />

artistico ed esistenziale nell’intento di uscire dai ristretti confini della provincia<br />

pistoiese: la verifica in corso è sul lavoro che ha come soggetto una serie di<br />

paesaggi ‘incorniciati’ da colonne e lesene in rilievo che già propongono un<br />

riferimento formale alla classicità. Successivamente a questi ‘paesaggi’ affianca<br />

le Invenzioni da Caravaggio in cui re-inventa la tradizione iconografica del<br />

grande pittore secentesco usando, per ambedue i soggetti, il generale titolo di<br />

Traslazione. Intensificati i rapporti con la galleria milanese, allo scorcio degli<br />

anni Ottanta si susseguono esposizioni a Basilea, a Bologna, a Milano, a Sabbioneta.<br />

Nel 1980 a Venezia è presente al Progetto Speciale della Biennale<br />

con Nel tempo col tempo, opera in cui elementi vegetali e reperti archeologici<br />

in gesso aggettano dal fondo; mentre a Milano nello stesso anno tiene una<br />

seconda mostra personale al Naviglio che segna, tuttavia, anche la fine dei<br />

rapporti stabili con la città milanese. Negli anni Ottanta l’interesse per il passato<br />

e la tradizione si palesa in opere della serie delle Sinopie in cui crea stratificazioni<br />

cromatiche con pigmenti naturali e cera. In questi anni lavora anche<br />

su strutture di legno ondulate in cui si dispongono sembianti arcaici oggetto<br />

di una nuova personale al Naviglio a Milano e quindi a Parigi. Sullo scorcio<br />

degli anni Ottanta, negli ambienti dello studio di via Cammelli, si orienta<br />

verso una pura ricerca cromatica con creazioni di grandi fiori i cui particolari<br />

si espandono anche su strutture tridimensionali (Flowers). Nei suoi propositi<br />

c’è nuovamente l’idea di trasferirsi, questa volta a Prato, alla ricerca di nuovi<br />

stimoli creativi, ma la morte, sopraggiunta prematuramente nel novembre<br />

del 1988, lascerà inesauditi i suoi desideri.<br />

“Ecco dunque il suo ‘breviario di immagini!’ E se pensiamo quanto egli tenesse<br />

a manipolare la materia pittorica a ‘intrattenerla’ con raffinate preziosità,<br />

a darle quel senso di recondito, di misteriosa e garbata procedura tra<br />

l’affresco e l’encausto, la tempera su intonaco o su pastiglia di stucco; ora con<br />

la materia a rilievo e le abrasioni del tempo e dell’usura, ora con la levità e<br />

la tenue lucentezza di una superficie passata a<br />

cera, allora possiamo capire appieno tale predilezione<br />

e rendersi conto che il citazionismo<br />

visibile del suo lavoro, il continuo richiamo al<br />

passato, è intimamente connesso alle necessità<br />

stesse del suo linguaggio” (Simoncini 1996)<br />

Cenni bibliografici<br />

Franco Bovani, opere 1971-1988, cat. mostra,<br />

Firenze-Siena 1996<br />

S. Simoncini, Franco Bovani, in Franco Bovani,<br />

opere... cit.<br />

A. Iacuzzi, Cultura artistica dal dopoguerra a<br />

<strong>Pistoia</strong>, in Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, a cura di<br />

C. Sisi, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />

260<br />

261


Franco Bovani<br />

Mappa (Mappa inservibile per camminare), 1975<br />

tecnica mista su carta, cm 100 x 70; titolo, data e firma in basso a<br />

destra<br />

La Mappa che reca in filigrana la grafia dello stesso Bovani con le<br />

parole ‘Mappa inservibile per camminare’ propone un reticolato<br />

geografico tracciato a matita su cui si sovrammette una materia<br />

pittorica gestuale. Bande colorate diverde, rosso, arancio, bianco,<br />

azzurro, celeste e giallo denunciano l’inutilità dello strumento<br />

che diviene pretesto formale per una estrema perizia tecnica<br />

che Simoncini (1996) definisce elaborata con raffinatezza di<br />

linguaggio peculiare e personalissima.<br />

262 263


Massimo Biagi<br />

Marliana, <strong>Pistoia</strong>, 1949; vive a Marliana<br />

Ha compiuto i suoi studi artistici presso l’Istituto d’Arte Petrocchi a <strong>Pistoia</strong> e<br />

all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Si dedicava, inizialmente, alla pittura<br />

e a sperimentazioni grafiche. Infaticabile organizzatore e ricercatore ha pubblicato<br />

manifesti e scritti suoi.<br />

Nel ’78 usciva il suo primo Manifesto sul “graficismo”, che Pierre Restany<br />

pubblicherà su “Natura integrale” e al quale aderivano artisti e letterati italiani<br />

e stranieri, tra i quali Samuel Beckett, Emilio Vedova, Raphael Alberti...<br />

Del 1984 è la sua prima mostra sul Graficismo, presentata da Mario Nigro.<br />

Dall’85 tiene rapporti con alcuni importanti Centri di Documentazione. Alla<br />

Biennale del 1985 presentava il suo Manifesto del Dissenso Totale e i suoi<br />

Art Spaces. <strong>Un</strong> suo grande intervento plastico, il progetto di una grande facciata,<br />

sarà collocato nella zona industriale di Calenzano.<br />

Ha organizzato molte personali e ha partecipato a molte manifestazioni artistiche.<br />

Si è anche dedicato al “libro d’artista”. Del 1990 è il libro a quattro<br />

mani (con Anna Brancolini).<br />

Ha lavorato anche nella ceramica. A questo proposito va ricordato il “Cenacolo”<br />

(25 marzo 2010), la cena di incontro e di discussione che vedeva riunite<br />

presso la galleria Vannucci di <strong>Pistoia</strong>, alcune fra le personalità più note della<br />

cultura della città; incontro per il quale realizzava i piatti e le suppellettili<br />

in ceramica dipinta, oggetti di grande effetto<br />

e di grande gusto decorativo. Famosi anche i<br />

suoi “eccitoplastici” (grandi lavori sagomati in<br />

legno, generalmente monocromi, nei quali il<br />

disegno è come incastonato da un lieve bordo<br />

rialzato), e soprattutto le sue sculture “estroflesse”,<br />

che realizza in legno e lavora asportandone<br />

strati, a ricavare una sorta di bassorilievo,<br />

che tratta a colori vivi, giallo, verde, viola, azzurro<br />

(Bagnanti, Nudonauti...).<br />

Cenni bibliografici<br />

M. Biagi, I manifesti del Graficismo, Firenze<br />

1986.<br />

Dal Graficismo all’Eccitoplastica, cat. mostra a<br />

cura di M. Biagi, Monsummano Terme 1989.<br />

M. Bazzini, Massimo Biagi, <strong>Pistoia</strong> 1997.<br />

Ma. Biagi, Miradario. Pagine Manoscritte, <strong>Pistoia</strong><br />

2005.<br />

Massimo Biagi Miradario. Il segreto dei corpi<br />

sospesi, cat. mostra Galleria Vannucci, <strong>Pistoia</strong><br />

2007.<br />

Immagina. Arte e poesia e made in Italy, cat.<br />

mostra, a cura di S. Simoncini, <strong>Pistoia</strong> 2009.<br />

Massimo Biagi. Terrecotte musicali, <strong>Pistoia</strong> 2009.<br />

265


Massimo Biagi<br />

Grande tondo graficista, 1988<br />

pennarello indelebile su tela, ø cm 159; datato e firmato sul retro<br />

<strong>Un</strong> bell’esempio del lavoro sul Graficismo che Biagi porta<br />

avanti dal ’78, quando presentava il suo primo manifesto sul<br />

Graficismo, appunto, e che Restany pubblicava sulla rivista<br />

“Natura integrale”. I fitti segni paralleli rossi, portati avanti a<br />

formare avvolgimenti, percorsi grafici, si muovono sulla grande<br />

superficie circolare in andamenti quasi vermicolari; in percorsi<br />

dinamici, che si trasformano in una sorta di racconto magico,<br />

espresso in una scrittura dimenticata o inventata per un futuro<br />

ancora inenarrabile.<br />

266 267


Andrea Dami<br />

<strong>Pistoia</strong>, 1946; vive a <strong>Pistoia</strong><br />

Ha studiato a <strong>Pistoia</strong>, presso l’Istituto d’Arte Petrocchi e dal ’66 si dedicava<br />

all’insegnamento di educazione artistica.<br />

Come dichiara nel suo I quattro cantoni (2003), egli si è formato sulla Scuola<br />

Pistoiese, “quella dei Bugiani e Mariotti per il disegno e la pittura, Gordigiani<br />

per la decorazione su materiali diversi come la seta, Vivarelli per la tridimensionalità<br />

della scultura, Bassi per i volumi dell’architettura, mentre Cappellini<br />

era una voce ancora diversa nel mondo dei colori”... E ricorda, inoltre,<br />

Fernando Melani, che “aprì uno spiraglio, apparve una voce nuova”.<br />

Liberatosi dalle prime esperienze affrontava ricerche personali, ricche anche<br />

di un suo ripercorrimento della storia dell’arte, che lo portava verso esperienze<br />

diverse, teatrali, di giornalismo, di video, e ancora di pittura, di scultura, di<br />

architettura, per cui ha usato materiali varii.<br />

La città sonante è un suo grande lavoro “teso” come dichiara “alla ricerca della<br />

speranza”. Lo ha realizzato in varie sezioni lavorando “più che sul perimetro<br />

quadrangolare della città… da un dentro a un fuori… su particolari interni<br />

del tessuto urbano, su un segno”. Pittura, scultura, in un rapporto di “luoghi<br />

simbolici”.<br />

Negli anni Novanta realizzava lo spazio verde attrezzato Il giardino della memoria<br />

a Castelmartini, a memoria della strage del Padule di Fucecchio durante<br />

la seconda guerra mondiale: una grande struttura pittoarchitettonica in ferro<br />

dipinto. Realizza anche una serie di quelle che definisce “materializzazioni”<br />

in ferro. Nascono inoltre le sue “sculture<br />

sonanti”, una delle quali è esposta e suonata<br />

nella Fattoria di Celle nel 1999. Del 2001 è il<br />

suo libro Giardino della memoria. Del 2003 è<br />

la scultura sonante Direzioni che, assieme ad<br />

opere di Jaume Plensa e Armando Marrocco,<br />

crea il “Giardino sonoro” nella Villa di Groppoli<br />

a <strong>Pistoia</strong>.<br />

Cenni bibliografici<br />

A. Brancolini, Dami, Spoerri, Ulivi. Tre artisti<br />

dell’Est America, cat. mostra, Montecatini Alto<br />

1992.<br />

Sculture sonanti. A. Dami, D. Esposito, A.<br />

Marrocco, J. Plensa, cat. mostra, Perugia 1999.<br />

Andrea Dami, Giardino sonoro, <strong>Pistoia</strong> 2005.<br />

Confidenze dell’Arte. Studi d’artista e generazioni<br />

a confronto a <strong>Pistoia</strong>, cat. a cura di A. Agostini,<br />

<strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

269


Andrea Dami<br />

Lontananza dal centro, 2009<br />

ferro dipinto, cm 163 x 90 x 40<br />

Su base cubica in ferro nero lavorato in alcune parti a righe<br />

parallele disposte in diagonale, realizzate col trapano, la sezione<br />

superiore della scultura, di forma semicircolare in ferro dipinto<br />

in arancio è disposta sulla base stessa in equilibrio instabile e<br />

presenta, sulla superficie del suo spessore, una serie di linee<br />

parallele, anche qui tracciate in diagonale e ottenute con l’uso<br />

del trapano. Sul bordo esterno dello spessore, a metà dell’orlo, è<br />

posata una piccola farfalla azzurra che sembra aver la forza, con<br />

la sua leggerezza, di spostare l’equilibrio del semicerchio verso il<br />

basso.<br />

La leggerezza e la sua agile mobilità la vincono sulla pesantezza<br />

della stabilità? Questo sembra essere quanto questo interessante<br />

lavoro, destinato a vivere in mezzo al verde, ci vuol dimostrare.<br />

Di fronte a una natura, quella vegetale, che appare fragile, ma sa<br />

rinascere ogni giorno.<br />

270 271


ALL’ALBA DEL TERZO MILLENNIO<br />

Federico Gori<br />

Zoè Gruni<br />

273


Federico Gori<br />

Prato, 1977; vive a Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />

Non so se quello che esprime, nel suo lavoro, Federico Gori, come scrive nel<br />

suo bel saggio, Fabio Migliorati (2010) possa rappresentare una sua interpretazione<br />

del mondo dichiaratamente panpsichista o animista. È vero che<br />

esiste, in lui, una visione della natura di carattere, anche, fortemente spirituale,<br />

che egli identifica nell’immagine del bosco, come espressione globale di<br />

tutto l’esistente, esempio-sintesi di tutto ciò che è legato alla natura umana,<br />

animale, vegetale, in tutte le sue manifestazioni, ma anche a quella di tutto<br />

l’universo, della terra, del sole, delle stelle…, che si riconosce nel nascere, nel<br />

vivere, nel morire secondo percorsi diversi, tempi diversi, cause e condizioni<br />

diverse.<br />

Ma è vero anche che Gori ha scelto, da sempre, l’immagine del bosco perché<br />

è questo lo strumento, lo specchio nel quale si riflette il suo sentire, il senso<br />

della sua vita stessa; è la sua memoria, l’immagine nella quale egli trasferisce<br />

il significato del suo esser nato, del suo vivere, forse, soprattutto del suo “fare<br />

arte”.<br />

Ci sono dietro i suoi ricordi d’infanzia: ha visto, da sempre, il bosco crescere,<br />

morire, rinascere. Ma, come dice nell’intervista di Luisa Castellini (in “Expoarte”<br />

n. 63, 2010): “… il mio non è un lavoro strettamente legato alla natura.<br />

Dipingo segni che diventano frammenti di alberi e i boschi, da sempre,<br />

ormai, anche se ciclicamente tento di allontanarmi da quelle presenze. Sono<br />

gli alberi e i boschi che mi hanno visto crescere, e che osservo mutare con<br />

il passare delle stagioni, Con la differenza che io invecchierò e morirò mentre<br />

loro continueranno a rimanere in piedi. È questo un pensiero che ritorna<br />

sempre mentre lavoro”.<br />

Forse è anche per questo suo lungo, quasi quotidiano sodalizio col bosco, con<br />

la sua presenza sempre uguale e sempre variata che si manifesta in forma di<br />

un continuo intreccio di “segni”, che è maturata la sua passione per il segno,<br />

che egli usa in forme sempre variate, e che ha permeato la sua vita e la sua<br />

ricerca. C’è in lui, dunque, prima di tutto, la necessità quasi fisiologica di dipingere<br />

“segni”, quelli stessi che ritrova negli alberi e nel bosco.<br />

Iniziava trasferendo le immagini fotografiche del bosco su lastre di plexiglas<br />

trasparente, che disponeva nello spazio della sala che le accoglieva, ricreando<br />

una sorta di nuovo bosco, cui conferiva colori luminosi diversi, combinati alla<br />

sua fitta, “segnica” grafia.<br />

È passato, in seguito, a trasferire con un processo chimico la fotografia su<br />

tavolette di alluminio bianche sulle quali interviene con una sorta di scrittura<br />

complessa, che talvolta forma come una rete che isola i suoi boschi, si inserisce<br />

nel folto intreccio dei rami dei suoi alberi boschivi, in una sorta di simbio-<br />

si tra naturale e artificiale. Assembla poi le tavolette, tutte della stessa misura,<br />

in composizioni-installazioni, secondo una programmazione visiva che crea<br />

percorsi, vuoti di distacco e luoghi di continuità.<br />

Ha chiaramente dichiarato il suo amore per gli artisti dell’Informale segnico<br />

(Twombly, Vedova – ma anche Bacon e Burri e Hopper) e, fra gli antichi,<br />

Bosch, Pontormo, Rublëv, Caravaggio...<br />

Si tratta, grazie al cielo, di un artista a tutto tondo, che sa che cosa significa la<br />

parola “sacrificio” quando ricorda (Apocalisse 2007) i tre mesi “fantastici e terribili”<br />

del lavoro nel Giardino di Spoerri a Seggiano (2003); ed è davvero uno<br />

dei pochi giovani che non tende solo a “emergere” e che, quando gli si chiede<br />

quanto gli interessi che “la gente capisca quello che egli crea” risponde: “In<br />

arte non c’è niente da capire. È una contraddizione.<br />

<strong>Un</strong>’opera può essere accolta, e allora ci si entra dentro, oppure al contrario<br />

si respinge e non la si accetta. Queste sono le<br />

uniche scelte che uno spettatore può avere.<br />

Quel che succede dopo che un artista ritiene<br />

conclusa la sua opera lo deve riguardare poco o<br />

nulla”. C’è solo, per lui, la sua “fede nell’atto<br />

creativo”; è una componente fortemente sentita<br />

che sembra voler coniugare nel suo lavoro,<br />

in un unicum profondo, ordine e disordine,<br />

sim-patia ed empatia.<br />

Cenni bibliografici<br />

Stadtflucht, Federico Gori, Manuela Menici,<br />

Susanne Neuman, Gerardo Paoletti, cat. mostra a<br />

cura di A. Mazzanti, Seggiano, Grosseto 2003.<br />

Confidenze dell’Arte. Studi d’artista e generazioni<br />

a confronto a <strong>Pistoia</strong>, Gerardo Paoletti e Federico<br />

Gori incontrano Cristina Palandri, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

Apocalisse, Federico Gori, Gerardo Paoletti, cat.<br />

mostra, Quarrata 2007.<br />

Eternal Sunshine. Federico Gori, cat. mostra a<br />

cura di F. Migliorati, Pontedera <strong>2010.</strong><br />

274<br />

275


Federico Gori<br />

Eternal Sunshine, 2006-2010<br />

smalto e inchiostro su alluminio, cm 208 x 112,5<br />

venti lastre di alluminio di cm 26 x 37,5 ciascuna<br />

È uno dei lavori che Federico Gori realizza trasferendo, secondo<br />

un percorso compositivo libero, le sue fotografie, con un processo<br />

simile a quello dell’acquaforte, sulle lastre di alluminio bianche,<br />

su cui interviene con un “segno” dinamico, vivo che si insinua<br />

dentro l’immagine dell’albero, del tronco, dei rami, delle foglie,<br />

secondo la sua libera progettazione dell’opera.<br />

La composizione delle tavolette si articola secondo una visione<br />

complessa che segue un preciso processo visivo, che crea<br />

percorsi, scarti, vuoti intenzionali, a formare un lavoro unitario,<br />

stimolante, sensibile, di forte intensità espressiva.<br />

276<br />

277


Zoè Gruni<br />

<strong>Pistoia</strong> 1982; vive a <strong>Pistoia</strong><br />

Ha studiato all’Istituto d’Arte di <strong>Pistoia</strong> e all’Accademia di Belle Arti di Firenze.<br />

Apriva nel 2006 uno spazio di arte contemporanea Studio 8. Appassionata<br />

e profondamente impegnata in un lavoro che coinvolge il corpo, non secondo<br />

le linee della Body Art ma, in certo senso, trasformando il corpo stesso in una<br />

sorta di strumento mobile ma chiaramente dipendente dalla pesante presenza<br />

inglobante di “Kôrperpasstûcke”, come direbbe Franz West, oggetti da<br />

indossare; ma nel suo caso addirittura nei quali occultarsi facendo del suo corpo<br />

“come una sorta di preespressione priva di mediazione linguistica” come<br />

scrive. Si è sentita attratta fin da ragazzina “dalla balla di juta” che “è sempre<br />

un viaggio. Contiene le merci più varie. È toccata da tante mani diverse. Nel<br />

suo girovagare viene caricata e scaricata in porti e stazioni. Al suo arrivo risulta<br />

sporca e maleodorante. Non la lavo. La uso così come mi è arrivata”. La presenza<br />

delle balle di juta dà adito anche a molte performance e installazioni di<br />

Zoè Gruni. Questi panni portano i segni dei lunghi viaggi, hanno tutto il fascino<br />

del vissuto, dei tanti paesi per i quali sono passati. Quanto alla scelta di<br />

un materiale scadente, vile e di scarto come le balle di juta consumate, vien<br />

da pensare al loro uso “diverso” da parte di Magdalena Abakanowicz, che ne<br />

crea pesanti sculture, e prima, su basi ovviamente e assolutamente “altre”,<br />

alle prime, straordinarie opere di Alberto Burri. Zoè Gruni le rielabora, le<br />

trasforma, ne fa complessi copricapo, sculture che essa considera “misure del<br />

corpo, guscio, involucro”, “prolungamenti del corpo nello spazio come ali,<br />

code, edere”. Diventano, appunto, dei copricorpo sontuosi, con riferimenti<br />

quasi antropomorfi, di cui si serve anche nelle sue performance. “Sembra<br />

che gli oggetti attivino la memoria dello spazio e del tempo, territori attraverso<br />

cui il soggetto può espandersi”. E aggiunge: “Sono una donna e come<br />

una balla sono contenitore, e cucio con le mani fino a che mi fanno male”.<br />

E si ricordi il burka che trasforma in balle tante donne. Quello della Gruni<br />

è un lavoro sulla memoria, sull’idea di viaggio, sulla condizione femminile<br />

nel mondo, secondo una dimensione estetica<br />

e concettuale. Svolge anche, sempre usando<br />

queste sue straordinarie sculture, attività teatrale.<br />

Ha realizzato anche oggetti in ceramica<br />

raku e video, come Metacorpo (2009). Quello<br />

di Gruni è indubbiamente un lavoro coniugato<br />

al femminile, espresso con una forza, una<br />

durezza fortemente sofferta che nasconde, al<br />

suo interno, tentazioni di denuncia sociale e di<br />

critica coraggiosa e, a suo modo, rischiosa.<br />

Cenni bibliografici<br />

In visita. Giovani artisti a <strong>Pistoia</strong>, cat. mostra a<br />

cura di S. Lucchesi, <strong>Pistoia</strong> 2004.<br />

Pillole Contemporanee, Studi8 in farmacia,<br />

Agliana, <strong>Pistoia</strong> 2006.<br />

Abitati ambienti, cat. mostra a cura di S.<br />

Lucchesi, Firenze 2007.<br />

E. Pedrini, Zoè Gruni, Metato, Firenze 2008.<br />

A. Granchi, Studenti eccellenti. Zoè Gruni e Andrea<br />

Lunardi, Accademia delle Arti e del Disegno,<br />

Firenze 2008.<br />

Metato / Metacorpo, a cura di A. Alibrandi e E.<br />

Pedrini, Firenze 2009.<br />

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Zoè Gruni<br />

Copricapo I, 2004<br />

sacchi di juta assemblati e cuciti<br />

cm 145 x 40 x 26<br />

Da qualche anno la balla di juta usata rappresenta lo strumento<br />

privilegiato del lavoro di Zoè Gruni, che raccoglie e usa come<br />

l’ha trovata, carica di vita, di memorie di viaggi in paesi lontani,<br />

di cui riporta i segni, l’usura, lo sporco, gli odori del suo carico e<br />

di tutte le mani che l’hanno toccata, dei mari e delle terre che<br />

ha percorso, di tutta la storia di un’umanità operosa che se ne<br />

è servita. Zoè la trasforma in una oggetto sontuoso, un oggetto<br />

da indossare, da presentare durante e per le sue performance e<br />

per le sue apparizioni teatrali. Il sacco si trasforma, assemblato<br />

e cucito, fino a consumare le mani, diventa veste da indossare,<br />

copricapo come questo, che copre tutto il corpo, personaggi<br />

diversi. Senza dimenticare il carico di memoria storico-artistica<br />

che va dai sacchi di Burri alle sculture di Abakanowicz...<br />

Ma, vedendo questi copricapo, non vien da pensare anche ai<br />

burka e alla condizione femminile in tante parti del mondo?<br />

Zoè Gruni, Copricapo I, 2006-2008<br />

stampa Lambda su alluminio, cm 150 x 90<br />

performance che Zoè Gruni ha realizzato indossando, appunto,<br />

lei stessa, il Copricapo I, trasformandolo in un mezzo nuovo e<br />

diverso di espressione.<br />

280<br />

281


UN MAESTRO DI RIFERIMENTO<br />

Giacomo Balla<br />

283


Giacomo Balla<br />

Torino, 1871 – Roma, 1958<br />

Formatosi a Parigi sulla lezione del Postimpressionismo e del Pointillisme trovava<br />

poi, in Italia, nell’espressione pittorica e nei contenuti sociali e simbolici del Divisionismo<br />

(di Pellizza da Volpedo e di Segantini), la condizione più adatta alla sua<br />

sensibilità e alla sua impostazione analitica. È del 1909 la sua Lampada ad arco, che<br />

anticipa anche le sue ricerche sulla scomposizione del colore e della luce. Attraverso<br />

Balla anche Boccioni e Severini si avvicinavano, allora, al Divisionismo. Nel <strong>1910</strong>,<br />

intermediari Boccioni e Severini, conobbe Marinetti e il Futurismo, e firmò il Manifesto<br />

tecnico della pittura. Da allora univa alle sue ricerche precedenti, di carattere<br />

anche tecnico-scientifico sulla scomposizione dello spettro luminoso (nelle quali<br />

faceva riferimento anche alle scoperte di Marey e di Muybridge e alla successiva<br />

applicazione della fotodinamica dei fratelli Bragaglia), quella del dinamismo, basato<br />

sulla rappresentazione analitica e ritmica dello spostamento di un corpo su un piano,<br />

a mezzo della ripetizione delle parti in movimento, poiché i corpi e gli oggetti si<br />

muovono in rapporto allo spazio e alla percezione simultanea. Con la stesura di piani<br />

di colore diverso, sui quali sovrapporre il segno, in una sintesi compositiva, arrivava a<br />

trasformare le immagini in veri “simboli linguistici”. Prescindendo “dall’immagine<br />

visiva” scrive Argan (1970) riusciva a “stabilire un codice di segni significanti velocità,<br />

dinamismo, etc. […] Sono concetti che interessano intensamente la mentalità dell’<br />

uomo moderno: concetti che vogliono essere espressi visivamente perché la percezione<br />

è più rapida della parola, e che non possono essere espressi mediante segni che<br />

implichino riferimenti alla natura, perché debbono esprimere qualcosa di non naturale,<br />

di realizzato mediante congegni meccanici”. I “segni” di Balla (triangoli disposti<br />

a cuneo, spirali, ellissi), suggeriscono l’idea di “velocità” e di progressione ritmica,<br />

sostituendo la ripetizione dell’ immagine (Mano di violinista, 1912; Dinamismo di un<br />

cane a guinzaglio, 1911-1912). Balla tenderà in seguito sempre più all’astrazione, non<br />

con un processo di sinterizzazione, ma attraverso la scansione ritmica del colore, di<br />

forme geometriche svolte per valori timbrici, in rapporto alla vibrazione della luce.<br />

Saranno le sue Compenetrazioni iridescenti, iniziate dal 1912, che verranno a costituire<br />

uno dei primi anelli della catena della “linea analitica” della pittura che passerà<br />

dall’astrattismo geometrico da un lato, dall’ astrazione lirica, dall’altro, derivata, a sua<br />

volta, dal Quadrato bianco su fondo bianco (‘17) di Malevič. E proseguirà nel lavoro<br />

di Albers, di Noland, di Rothko; addirittura nel nero quasi immateriale di Reinhardt;<br />

nella luminosa tessitura di Dorazio e oltre… Con Prampolini Balla firmava, nel<br />

1915, il manifesto Ricostruzione futurista dell’<strong>Un</strong>iverso; pubblicherà quello sul<br />

Vestito antineutrale; lavorerà, nel 1916, nel film Vita futurista e sottoscriverà, con<br />

Marinetti, Carrà, Corra, Settimelli, Ginna, il Manifesto della Cinematografia futurista.<br />

Applicherà alla scenografia i suoi studi sul movimento (in Fuochi d’artificio di<br />

Strawinsky, nei Balletti di Diaghilev, negli oggetti di arredo…).<br />

Giacomo Balla, Ballucecolormare, 1924<br />

olio magro su tela, cm 95,5 x 216<br />

<strong>Un</strong> grande quadro, che non appartiene al periodo futurista<br />

di Balla; periodo il cui riferimento resta nel titolo; il lavoro si<br />

propone come un quadro nel quadro, nel quale l’immagine si<br />

dispone al centro dell’intera superficie monocroma, definito<br />

da una cornice decorativa costituita di righe/nastro regolari,<br />

bianche e verdi, raddoppiate ai lati della composizione centrale,<br />

interrotte a metà dei lati esterni, proseguite lateralmente, in alto,<br />

fino al termine dell’ intera superficie.<br />

Al centro un mare nel quale le piccole onde fitte nel loro<br />

vertiginoso susseguirsi, lievemente rosate e bianche alla base,<br />

salgono assumendo colori diversi, in gradienti luminosi: un lieve<br />

azzurro, ancora un bianco, un rosa che si intensifica<br />

in forme puntate, angolate, che sfumano poi in<br />

un azzurro che si oscura verso l’alto interrotto da<br />

nuove onde violacee in successione orizzontale,<br />

per chiudersi sotto un cielo lieve, rosato, contro il<br />

quale si stagliano piccole vele bianche, triangolari.<br />

È proprio questo passaggio graduale, ritmico, degli<br />

elementi piatti, diversamente colorati, che può<br />

essere avvicinato al trascorrimento dinamico del<br />

colore-luce delle Compenetrazioni iridescenti che<br />

Balla aveva portato avanti circa dal 1913, in forme<br />

rigorosamente astratto-geometriche.<br />

Cenni bibliografici<br />

Nella sterminata bibliografia relativa all’artista ci<br />

limitiamo a proporre solo alcuni testi corredati di<br />

ricchi rimandi bibliografici.<br />

Giacomo Balla, cat. mostra a cura di E.<br />

Crispolti, M. Drudi Gambillo, Torino 1963.<br />

M. Fagiolo dell’Arco, Omaggio a Balla, Roma<br />

1967.<br />

G. C. Argan, L’Arte moderna, Firenze 1970.<br />

G. Lista, Giacomo Balla, Modena 1982.<br />

La donazione Balla, a cura di G. De Feo, F.<br />

Pirani, P. Rosazza, L. Velani, Roma 1988.<br />

M. Fagiolo dell’Arco, Futur-Balla. La vita e le<br />

opere, Milano 1990-1992.<br />

L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />

284<br />

285


286<br />

287


ARTE AMBIENTALE<br />

INSTALLAZIONI SUL TERRITORIO<br />

289


ARTE AMBIENTALE: INSTALLAZIONI SUL TERRITORIO<br />

Lara-Vinca Masini<br />

La Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia, e la Fondazione Cassa di Risparmio,<br />

hanno portato avanti un lavoro importante sul territorio, da <strong>Pistoia</strong> a Quarrata a<br />

Montecatini a Pescia, attente sempre a tutelare e ampliare le condizioni di vita e<br />

soprattutto la situazione culturale della popolazione del territorio accrescendo i<br />

diversi luoghi di opere e di installazioni di arte contemporanea, contribuendo alla<br />

realizzazione di eventi.<br />

A <strong>Pistoia</strong>, ad esempio, è stata promossa la realizzazione del Nuovo Padiglione di<br />

Emodialisi, per il quale, in certo senso, anticipando le nuove norme relative alla<br />

“umanizzazione” delle strutture ospedaliere, sono state progettate opere d’arte<br />

contemporanea realizzate a questo scopo, da artisti italiani e stranieri, tra i più<br />

noti in campo internazionale, allo scopo di rendere più accoglienti i luoghi, facendo<br />

dell’arte lo strumento atto a creare un nuovo tipo di percezione dello spazio<br />

ospedaliero, che solleciti la contemplazione, la meditazione, così da distogliere<br />

l’attenzione del paziente dalla propria condizione di ammalato, per alleggerirne,<br />

per quanto è possibile, lo stress e l’emotività prodotte dal dolore e dalla paura, ad<br />

attenuare, comunque, la violenza del processo. Vi hanno lavorato Robert Morris,<br />

che ha realizzato, all’entrata del giardino The Gate (2005), un arco che si copre di<br />

glicine; ancora nel giardino Cabane de Paix (2005), un lavoro di Dani Karavan (una<br />

sorta di gazebo che si ispira alla natura e al senso di pace accentuato anche dalla<br />

frase augurale di Rita Levi Montalcini, incisa sul profilo del tavolo in marmo),<br />

Gianni Ruffi, con Lunatica (2005), una doppia panchina bianca a forma di mezzaluna,<br />

che spinge al sorriso e all’ironia. Nella sala di attesa, all’entrata del Padiglione,<br />

una splendida, dinamica, fresca parete di Sol Lewitt, che fa pensare al flusso<br />

vitale e continuo del sangue che dà la vita. All’interno, un lungo corridoio che<br />

divide dall’esterno e il cui pavimento è costituito da un bellissimo mosaico bianco<br />

e nero di Claudio Parmiggiani, lascia vedere, attraverso una grande vetrata,<br />

tre lavori di Hidetoshi Nagasawa, due giardini che, secondo il suo fare, riportano<br />

sempre al concetto di natura e una bellissima barca, che parla di luoghi lontani, di<br />

mare, di avventura; infine, nella degenza, alcune opere di Daniel Buren, che portano<br />

il colore e la luce a sollecitare, attraverso la bellezza, coraggio e speranza.<br />

Sempre a <strong>Pistoia</strong>, nella parete di fondo della sala di lettura della nuova Biblioteca<br />

S. Giorgio, un’opera, Die grosse Fracht (Il grande carico) di Anselm Kiefer, uno dei<br />

più grandi artisti del mondo attuale. Tra le poche opere che spingono alla contemplazione,<br />

alla meditazione sulla storia, sulla vita e sulla morte. <strong>Un</strong> grandissimo<br />

apporto culturale in un ambiente creato, appunto, per lo studio e per la cultura.<br />

Ancora a <strong>Pistoia</strong>, sul soffitto di Palazzo de’ Rossi, vecchia sede della Fondazione,<br />

Sol Lewitt ha realizzato un’opera improntata sulla ricerca di uno spazio dinamico<br />

trasformando il soffitto stesso in un felice gioco spaziale, attraverso una rete intricata<br />

di linee colorate secondo i colori primari.<br />

Infine, sempre in città, due interventi in vetro policromo. La conversione di Saulo<br />

di Umberto Buscioni realizzata per monofora absidale della chiesa di S. Paolo<br />

nel 1989-1990 e il ciclo dedicato da Sigfrido Bartolini ai Sacramenti e alle Opere di<br />

Misericordia per la chiesa dell’Immacolata.<br />

A Quarrata la Fondazione ha per gran parte sostenuto la realizzazione di una<br />

serie di mostre in progress nello splendido parco di Villa La Màgia, oggi proprietà<br />

del Comune, mostre curate da Katalin Mollek Burmeister alla fine delle quali<br />

un’opera di ogni artista resta in permanenza nel parco, ad allargare la sua valenza<br />

artistica e il patrimonio locale. Fino ad oggi hanno esposto Fabrizio Corneli, di<br />

cui resta una scritta, Micat in vertice (2006, che evidenzia a mezzo di luce e ombra<br />

un processo di anamorfosi), Anne e Patrik Poirier che hanno lasciato due lavori,<br />

La Fabbrica della Memoria (2006, una sorta di capanna in pietra serena che mostra,<br />

attraverso un’apertura, un tavolo, pure in pietra serena, il cui piano reca incisa,<br />

in colori diversi, una mappa che “stilizza la forma del cervello”). Il loro secondo<br />

lavoro, che resta nel parco, presso la Limonaia di Levante, consiste in due grandi<br />

Bruciaprofumi in cotto, ad istituire un rapporto con la natura esaltandone i profumi.<br />

Hidetoshi Nagasawa lascia nel parco, presso la Tinaia di Levante il Giardino<br />

rovesciato (2008), tema consueto dell’artista, un’opera straordinaria in alberese,<br />

cotto e pigmento, formata da due parti uguali e rovesciate che si intersecano. In<br />

una di esse un piccolo albero di melograno. Di Marco Bagnoli restano Ascolta il<br />

flauto di canna (2006), una canna-fontana rossa, sonorizzata da un gracidio di rane,<br />

collocata nel giardino romantico del parco, in un piccolo specchio d’acqua e una<br />

passerella rossa, la sua Banda rossa, sporgente come un piccolo ponte levatoio dal<br />

bordo del laghetto verso l’isoletta centrale. Di Maurizio Nannucci, all’interno del<br />

cortile della villa, quattro grandi “dichiarazioni” al neon, ispirate all’idea di arte.<br />

Di fronte al Parco della villa è in via di realizzazione un altro straordinario lavoro<br />

di Daniel Buren.<br />

Sempre a Quarrata, nella piazza Agenore Fabbri sorge, decentrata, l’installazione<br />

di un’opera di Vittorio Corsini, Le parole scaldano (1999-2004), una casetta-fontana<br />

in cristallo, un lavoro raffinato, che intende aprirsi al dialogo.<br />

A Montecatini la Fondazione ha sponsorizzato e per gran parte sostenuto la creazione<br />

di due installazioni che sono allo stesso tempo opere pubbliche e produzioni<br />

artistiche: due grandi fontane cinetiche, una di Pol Bury, Duetto d’acqua (2004),<br />

l’altra di Susumu Shingu, Duo acquatico (1988), che arricchiscono e rendono più<br />

stimolante il contesto della città. Questo obiettivo di autentica vitalizzazione e<br />

modernizzazione del territorio è in continua e attenta prosecuzione da parte della<br />

Fondazione stessa. È un programma che assieme ad altri relativi al lavoro e alle<br />

necessità delle popolazioni, la Fondazione porta continuamente avanti.<br />

290<br />

291


CHIESA DELL’IMMACOLATA<br />

PISTOIA<br />

Sigfrido Bartolini<br />

293


Sponsorizzate dalla Fondazione Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia, queste<br />

vetrate, realizzate nel 2005-2006, rappresentano l’ultimo grande lavoro di<br />

Sigfrido Bartolini, al quale egli si dedicava anima e corpo.<br />

Nei suoi appunti egli spiegava il metodo di lavoro seguito per la vetrata Alloggiare<br />

i pellegrini, tra le “Opere di misericordia”: dai bozzetti in scala al loro ingrandimento<br />

a dimensione reale, al lucido trasparente preparato dal primitivo<br />

bozzetto che faceva applicare su una monofora. “Così vedrò” scrive “cosa succede<br />

visto dal basso” (in Quattordici vetrate istoriate per la chiesa dell’Immacolata<br />

di <strong>Pistoia</strong>: sette opere di misericordia, sette sacramenti. Di Sigfrido Bartolini, a cura di<br />

S. Simoncini, con scritti di Franco Cardini, Firenze 2007).<br />

<strong>Un</strong> lavoro scrupoloso, preceduto da attenti studi e ricerche sui simboli cristiani<br />

e sulla “luce visibile”, indagata dai più grandi studiosi antichi della cristianità.<br />

“Scegliendo la vetrata come mezzo di espressione artistica il pittore, disegnatore<br />

e incisore Sigfrido Bartolini ha reso omaggio a un’arte antica significativa,<br />

squisitamente cristiano-occidentale e privilegiando il mondo dei simboli<br />

cristiani” (Franco Cardini, cit.). Sette vetrate sono dedicate ai “Sacramenti”,<br />

sette alle “Opere di Misericordia”.<br />

Aveva studiato le modalità di esecuzione, delle sezioni dei vetri colorati da<br />

usare, le loro congiunzioni col piombo. Sceglierà di combinare le sezioni non<br />

per tasselli di misura casuale, ma tagliati secondo lo svolgimento del suo disegno.<br />

“<strong>Un</strong>a volta tagliati” continua nelle sue note “i pezzi possono esser rifiniti con<br />

il chiaroscuro. Così vengono disegnati i volti, eventuali parole e tracciate piccole<br />

decorazioni. I toni per il chiaroscuro sono due: nero e marrone, il nome<br />

di questi toni scuri è grisaglia, dal francese grisaille [...] Il metodo più comune<br />

per disegnare e chiaroscurare nel vetro consiste nel distendere una passata di<br />

grisaglia e una volta asciutta raschiare per ritrovare la luce secondo il disegno.<br />

Ma si può anche disegnare e chiaroscurare direttamente a pennello”. Arriverà,<br />

per raggiungere gli effetti voluti, ignoti nei tradizionali disegni per vetrate,<br />

a trovare un suo metodo particolare: “tamponando, graffiando liberamente<br />

e ottenendo il volume con poco chiaroscuro”. Aiutandosi, quindi, con la sua<br />

“pratica con la xilografia”.<br />

Così in due anni, assistito continuamente dalla moglie, e con grande dolore<br />

e fatica, Bartolini completerà il suo ultimo, grande lavoro, felice di aver realizzato<br />

“un racconto che sarà letto da un’infinità di persone per chissà quante<br />

volte in anni, in secoli. Quale differenza” scriveva ancora “con un paesaggio,<br />

una natura morta o che altro, visti ma non guardati”.<br />

Sigfrido Bartolini<br />

Il Battesimo, 2005-2006<br />

vetro colorato e dipinto, saldature in piombo, cm 300 x 57<br />

Chiesa dell’Immacolata, <strong>Pistoia</strong><br />

Scrive Franco Cardini (Quattordici vetrate istoriate per la chiesa<br />

dell’Immacolata di <strong>Pistoia</strong>: sette opere di misericordia, sette sacramenti.<br />

Di Sigfrido Bartolini, a cura di S. Simoncini, con scritti di Franco<br />

Cardini, Firenze 2007): “Le vetrate dedicate ai “Sacramenti”<br />

forniscono evidentemente un panorama simbolico ricco, organico<br />

e articolato. Così, ad esempio, in quella dedicata al Battesimo i<br />

sette simboli-chiave si riferiscono allo Spirito Santo (la colomba,<br />

la fiamma), al Cristo (la perla, il pesce), al ministro, all’elemento e<br />

agli effetti del sacramento (la conchiglia per Giovanni che con essa<br />

battezza, l’acqua del Giordano, l’albero come simbolo di eternità<br />

e di eterna giovinezza), ai fedeli battezzati (ancora le colombe,<br />

ancora i pesci, ancora gli alberi)”.<br />

In questa vetrata domina la verticalità: l’albero sulla destra,<br />

simbolo di vita, sorgendo dal fiume Giordano, sopra la campata<br />

inferiore, sale a superare l’inizio della cuspide e allarga i suoi rami,<br />

le cui foglie sembrano confrontare il loro azzurro cupo con quello<br />

più chiaro del cielo. Al centro ella conchiglia la perla sembra<br />

incastonata nella bianca scìa luminosa che porta in alto, sotto la<br />

cuspide, alla colomba e alla fiamma. Nella campata inferiore il<br />

fiume, che ha assunto un colore più cupo e due pesci, simbolo dei<br />

battezzandi (i pisciculi). Sul dietro una luminosa, verde campagna,<br />

una lunga strada bianca che, dalla scogliera del fiume, si perde<br />

verso l’orizzonte. Anche in questa vetrata Bartolini ha conservato la<br />

sintetica durezza del suo segno.<br />

294 295


Sigfrido Bartolini<br />

Estrema unzione, 2005-2006<br />

vetro colorato e dipinto, saldature in piombo, cm 300 x 57<br />

Chiesa dell’Immacolata, <strong>Pistoia</strong><br />

“In ciascuna delle vetrate” scrive ancora Franco Cardini (2007)<br />

“concepite come valve di un polittico gotico, la campata di centro<br />

narra una storia e presenta un protagonista: la cuspide a sesto<br />

acuto, in alto, isola un simbolo appartenente allo statuto storico<br />

e simbolico protagonista della campata centrale e spesso ne<br />

costituisce la prosecuzione verso l’alto; la campata inferiore, meno<br />

ampia, isola e presenta un solo simbolo-chiave”. Questa vetrata<br />

fa parte delle sette dedicate alle Opere di Carità. La parte centrale<br />

rappresenta un interno che si apre a cannocchiale: un soffitto e un<br />

pavimento in mattoni; contro la parete di fondo, sulla quale una<br />

grande croce nera diffonde raggi neri verso una figura femminile,<br />

con gli occhi chiusi, chiaramente in attesa della morte, sdraiata su<br />

un letto sotto una coperta a righe gialle e verdi. In basso, in primo<br />

piano sopra la campata inferiore, due splendidi pavoni azzurri<br />

incrociano le loro grandi code coperte di piume decorate di occhi<br />

gialli e blu e simboleggiano la resurrezione. In alto, nella cuspide,<br />

rami di olivo carichi di frutti, contro il cielo azzurro, parlano di<br />

pace e del balsamo, l’olio che, nella campata inferiore è contenuto<br />

nell’ ampolla di cui si servirà la mano del sacerdote per liberare la<br />

morente dai suoi peccati. È forse, malgrado il tema, la vetrata più<br />

serena e, a mio avviso, più raffinata. Sembra anche prefigurare,<br />

per Bartolini, una propria, serena, conquistata pace finale. Morirà<br />

l’anno successivo.<br />

296 297


CHIESA DI SAN PAOLO<br />

PISTOIA<br />

Umberto Buscioni<br />

299


Umberto Buscioni<br />

La caduta di Saulo, 1989<br />

bozzetto per la vetrata della chiesa di San Paolo a <strong>Pistoia</strong><br />

tecnica mista su carta<br />

Il bozzetto è preparatorio per la bella vetrata, 1989-1991 (La<br />

vetrata absidale della chiesa di San Paolo e progetti per le vetrate del<br />

rosone e delle monofore laterali di Umberto Buscioni (1989-1991),<br />

<strong>Pistoia</strong> 1992). Dalla cuspide trilobata, una delle numerose<br />

realizzate, l’artista porta avanti una delle linee della sua pittura<br />

che parte da suggestioni rinascimentali e barocche (anche di<br />

scuola veneziana) che vede figure, soprattutto di angeli, che<br />

si muovono in uno spazio sospeso, un cielo segnato, qui, da<br />

lievi nubi lattiginose. In questa è la mano del Signore, il cui<br />

volto appare in alto a destra, sotto la cuspide, che scende verso<br />

la figura del santo caduto da cavallo e che piegato a terra, si<br />

copre gli occhi, folgorato dalla apparizione. La raffigurazione è<br />

disposta tutta lungo la parte destra della vetrata, scendendo dalla<br />

cuspide, coperta di nubi colorate, in un dinamico avvolgimento<br />

verso il basso, nei colori caratteristici di Buscioni (rosa chiaro,<br />

rosa violaceo con qualche tocco di verde, beige chiaro), cosicché<br />

la vetrata si anima solo verticalmente da questo lato, lasciando<br />

l’altro quasi completamente libero, in un cielo chiarissimo, fatto<br />

solo di luce. Se non si osservano i particolari si può pensare<br />

che l’immagine rappresenti soltanto una fresca caduta di<br />

fiori raffigurata in un vaso di Tiffany o di Gallé. Di prossima<br />

realizzazione, ancora con il sostegno della Fondazione, quattro<br />

nuove vetrate a completare il ciclo, iniziato nei primi anni<br />

Novanta.<br />

300 301


PALAZZO DE’ ROSSI<br />

PISTOIA<br />

Sol Lewitt<br />

303


Sol Lewitt<br />

Wall drawing # 1121, 2004<br />

“seven bands in seven colors on a ceiling acrilyc paint on white<br />

ceiling”, cm 511 x 278<br />

soffitto di una sala della sede della Fondazione Cassa di<br />

Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia in via De’ Rossi, <strong>Pistoia</strong><br />

Ho davanti la riproduzione di questa opera di Sol Lewitt,<br />

una sua caratteristica operazione sullo spazio, che da piatto<br />

si trasforma in tridimensionale, attraverso la successione, gli<br />

incroci, la sovrammissione delle linee di colore diverso che<br />

percorrono questo soffitto.<br />

Accanto a questa riproduzione ho quella di un piccolo lavoro di<br />

Fernando Melani del ’57. E mi rendo conto di quanto queste<br />

due esperienze si avvicinino, al di là delle dimensioni e dei<br />

tempi in cui sono state realizzate. Che significato può avere una<br />

coincidenza simile, scaturita da esperienze diverse per tempo e<br />

per luogo ?<br />

Da parte di Melani significa, penso, come ho accennato anche<br />

nel suo profilo, che egli, nel suo lavoro di continua, aperta, libera<br />

ricerca, ha anticipato molte esperienze artistiche a lui successive,<br />

dall’Arte Povera al Concettualismo.<br />

Per quanto riguarda Sol Lewitt questo lavoro fa parte della sua<br />

felice, continua analisi dello spazio. Si pensi anche al bel lavoro<br />

di cui si dirà, sulla parete di entrata al Nuovo Padiglione di<br />

Emodialisi a <strong>Pistoia</strong>.<br />

304 305


306 307


NUOVO PADIGLIONE DI EMODIALISI<br />

PISTOIA<br />

Robert Morris<br />

Dani Karavan<br />

Hidetoshi Nagasawa<br />

Gianni Ruffi<br />

Sol Lewitt<br />

Claudio Parmiggiani<br />

Daniel Buren<br />

309


Il Padiglione, realizzato dall’architetto Gianni Vannetti, è nato intenzionalmente<br />

come struttura ospedaliera allo scopo di proporsi come strumento di<br />

‘umanizzazione’ dello spazio, a rendere i tempi di permanenza dei pazienti e<br />

degli operatori più ‘leggeri’ e sopportabili, affidando questo compito, comunque<br />

difficile, all’arte e agli artisti.<br />

Perciò la struttura, posta all’interno di uno spazio a verde, è molto semplice<br />

e aperta, basata su una forma ellittica percorsa a metà da un corridoio che<br />

unisce le sezioni interne, mettendo in rapporto, attraverso lunghe vetrate,<br />

la zona operativa con quella occupata da installazioni artistiche legate alla<br />

natura, che vengono così a far parte della missione quotidiana dell’ospedale<br />

come assidua presenza, a suggerire sensazioni di pace e di speranza nella vita<br />

e nella sua continua forza di rinnovamento.<br />

310 311


Robert Morris<br />

Kansas City, Missouri, USA, 1931; vive a Gardiner, New York<br />

Negli anni Sessanta, dopo il suo trasferimento a New York, elabora una ricerca<br />

di carattere latamente new-dada (fuori comunque dal contesto rappresentato<br />

negli Stati <strong>Un</strong>iti da Rauschenberg e Johns), semmai più vicino ideologicamente<br />

alla posizione in Europa di Klein e Manzoni (Metered Bulb, 1963,<br />

uno strano oggetto da usare, una lampadina elettrica e un contatore funzionanti;<br />

una scatoletta con un magnetofono che riproduceva i suoni legati alla<br />

sua costruzione…) per passare poi – dopo avere studiato storia dell’arte allo<br />

Hunter College ed essersi dedicato al teatro e alla danza di avanguardia – alla<br />

realizzazione di poliedri geometrici semplici, secondo le regole dell’“ABC”<br />

di quella sarà definita Minimal Art. Per Morris, peraltro, si trattava di proporre<br />

oggetti privi di relazioni interne, cioè “ottusi”, “opachi”, non significanti<br />

per se stessi (oggetti che, in realtà, per la loro trasparenza, la loro “bellezza”,<br />

malgrado l’intenzione dell’artista, mettevano comunque in crisi la ipotetica<br />

“durezza e opacità” del Minimalismo). Nel 1966 partecipava alla mostra<br />

“Primaries Structures” al Jewish Museum di New York. Diventerà poi uno<br />

dei più grandi teorici della Conceptual Arte (si vedano i suoi scritti su “Art<br />

Forum”).<br />

Dal ’67 Morris affrontava anche su base teorica il tema dell’“anti form” nei<br />

suoi straordinari lavori in strisce di feltro appesi, ricadenti morbidamente secondo<br />

la forza di gravità. Con questi lavori Morris intende evidenziare il suo<br />

passaggio alle forme di natura a “impronta tecnologica”.<br />

Dalla fine degli anni Settanta le opere di Morris si presentano come grandi<br />

strutture geometrico-architettoniche di fortissimo impatto: si pensi alla sua<br />

prima installazione ambientale in Olanda ad Oostelijk e ai suoi Blind Time<br />

Drawings, al Labirinto a Santomato, disposto in lieve pendio, carico di rimandi<br />

simbolici e mitici alla tradizione architettonica toscana, il marmo a righe bianche<br />

e verdi di Prato, al Battistero di Firenze. Riporto, a questo proposito, le<br />

parole di Robert Hobbs: “… mentre il battistero è una struttura centralizzata<br />

che celebra l’immersione simbolica degli esseri umani in un regno spirituale,<br />

l’opera di Morris comunica un senso di frammentazione e sconvolgimento”,<br />

Arte ambientale: la Collezione Gori nella Fattoria di Celle, Torino 1993. Il lavoro<br />

di Morris prosegue in un continuo, sensibile approfondimento, spesso anche<br />

molto variato e divaricato, dei suoi grandi temi, quasi decantato, in opere<br />

sempre più essenziali. In Italia ha realizzato opere ambientali a <strong>Pistoia</strong>, a Prato<br />

(in Duomo 2001), nel chiostro di San Domenico a Reggio Emilia, 2004.<br />

È del 1994 la sua antologica al Guggenheim Museum di New York, portata<br />

poi al Deichtorhallen di Amburgo e al Centre Pompidou di Parigi.<br />

312<br />

313


Robert Morris<br />

The Gate, 2005<br />

installazione in acciaio corten e glicine, m 5,60 x 8,60<br />

Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />

Il grande arco formato da una serie fili di acciaio corten piegati<br />

ad arco, sul quale si arrampica una pianta di glicine, sembra<br />

rispondere in pieno al concetto di verde come elemento<br />

terapeutico. Si riporta anche, in certo senso, al grande Arco di<br />

Kenzo Tange di Hiroshima, ispirato, oltre che al significato di<br />

attaccamento alla vita, alla aspirazione del mondo alla pace.<br />

Questo di Morris è infatti un cancello aperto dedicato al valore<br />

della vita che non può essere disgiunto da quello della pace.<br />

314 315


Dani Karavan<br />

Tel Aviv, Israele, 1930; vive tra Parigi e Tel Aviv<br />

A Firenze dal 1955 frequenta l’Accademia di Belle Arti dove studia la tecnica<br />

dell’affresco. Nel ’60 collabora, realizzando scenografie, soprattutto con Martha<br />

Graham e con il suo Balletto in Israele e a New York. In Italia lavora al Festival<br />

di Spoleto con Giancarlo Menotti e, a Firenze col Maggio Musicale Fiorentino.<br />

Tornato in Israele ritrova il rapporto con la sua terra; realizza allora uno dei suoi<br />

interventi di grande forza ambientale ed evocativa nel deserto Beer Sheva, il<br />

Monumento del Negev, 1963-’68, in onore della Brigata Palmach che nel 1947 si<br />

oppose all’invasione di Faruk, sobillato dall’Inghilterra, contro gli insediamenti<br />

ebraici e i kibuzim. Il monumento, in cemento, quasi una grande fortificazione<br />

emergente dal deserto, gioca con gli elementi naturali, acqua, luce solare, sabbia,<br />

calore, vapore, vento. “Quest’ultimo, nell’attraversare gli antri dell’opera,<br />

emette sibili paragonabili a urla umane” (G. Gori, Dani Karavan, una vita ‘Site<br />

Specific’, <strong>Pistoia</strong> 2008). Da questo momento Karavan imposterà il suo lavoro secondo<br />

un impegno sociale rivolto al concetto di pace e al riconoscimento dei<br />

diritti umani. Del ’76 è l’Ambiente per la pace presentato alla 38a Biennale di<br />

Venezia, un grande quadrato composto di nove blocchi di cemento quadrati,<br />

ciascuno di cm 180 x 180, separati tra loro da passaggi rettilinei. “Questo padiglione”<br />

vi si leggeva “lo dedico alla pace. Alla pace tra gli israeliani e gli arabi.<br />

Perché regni la pace sulle dune bianche sulle quali siamo cresciuti insieme.<br />

Perché mai più si anneriscano del nostro sangue”. Nel ’78, in una mostra che<br />

coinvolgeva Firenze e Prato, Karavan univa idealmente con raggi laser Forte<br />

Belvedere con la Cupola del Brunelleschi. Del 1980 è il suo progetto a Cergy-<br />

Pontoise presso Parigi (l’Axe Majeur, per cui lavora per oltre venti anni). Il lavoro,<br />

che non può ormai più definirsi archiscultoreo assume valenza urbana, si<br />

estende per oltre tre chilometri, scavalca il fiume Oise creando, nei due punti di<br />

convergenza, una torre belvedere alta trenta metri posta in mezzo a una piazza,<br />

circondata da un edificio semicircolare creato dall’architetto Ricardo Bofill. Questa<br />

torre, pendente verso Parigi, è stata progettata per assumere anche funzioni<br />

astronomiche. Le due grandi costruzioni sono unite da una linea centrale (l’Axe)<br />

che coinvolge frutteti e giardini circostanti. Altre quattro grandi colonne che ne<br />

coprono ciascuna altre due, fanno da quinta a una fontana che emette vapore<br />

creando una viva scenografia. Con questa realizzazione Karavan è riuscito a riqualificare<br />

l’impianto urbanistico della città satellite Cergy-Pontoise, che fino a<br />

quel momento era rimasta priva di spazi aggreganti. Non si può tralasciare La<br />

Via dei diritti umani (1993), realizzata a Norimberga, inserita nel tessuto urbano<br />

della città dalla quale nel 1935, furono emanate le leggi razziali di Hitler a causa<br />

delle quali furono massacrati sei milioni di ebrei (ma che, nel ’45-’46 ospitò anche<br />

i noti processi contro i criminali nazisti), questa grande strada passa accanto<br />

al Germanisches Nationalmuseum e ad altri musei è stata chiusa da Karavan<br />

da due porte monumentali alle due estremità: il passaggio, solo pedonale, è costeggiato<br />

da ventinove colonne alte nove metri, interrotte, in un sol punto, da<br />

un grande cedro del Libano. In ognuna delle colonne, in tutte le lingue è inciso<br />

uno dei trenta articoli emanati il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale<br />

delle Nazioni <strong>Un</strong>ite. Ha partecipato alla Biennale di Venezia (’76) a Documenta<br />

Kassel (’78). È presente nei principali musei in Europa e in Giappone. È, da<br />

sempre, molto legato alla Toscana, dove ha realizzato grandi lavori ambientali a<br />

Santomato, al Parco della Padula (2002) a Carrara; opere temporanee a Firenze<br />

(Piazza Signoria), a Prato (Museo Pecci), a <strong>Pistoia</strong> (Piazza del Duomo).<br />

316<br />

317


Dani Karavan<br />

Cabane de Paix, 2005<br />

struttura in legno, specchio, marmo bianco di Carrara<br />

m 2,90 x 2,90; h m 5,70<br />

Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />

Il lavoro (una struttura a forma di gazebo), si riferisce<br />

spiritualmente e simbolicamente alla chiesa del<br />

Carmine, davanti all’ospedale, ispirandosi, nel grande<br />

puntale dorato della capanna, alla cuspide del campanile.<br />

Immerso nel verde, porta nel suo interno una base<br />

quadrata in marmo bianco che supporta, in posizione<br />

virata di quarantacinque gradi, un gruppo marmoreo<br />

costituito da un tavolo che reca incisa sul bordo la frase<br />

augurale di Rita Levi Montalcini “Speranza, serenità,<br />

coraggio le doti vincenti” e quattro sedie anch’esse in<br />

marmo. Al centro del tavolo un albero. Il tema è quello<br />

dell’incontro e del dialogo, della partecipazione alla<br />

condivisione del dolore in una offerta di amore e di<br />

ascolto, tramite anche la natura.<br />

318 319


Hidetoshi Nagasawa<br />

Manciuria 1940; vive a Milano<br />

Di genitori giapponesi, lasciata la Manciuria occupata dal Giappone, si laurea<br />

in Architettura e Progettazione d’Interni a Tokyo; maestro di Judo (vien da<br />

pensare ad una ricerca improntata allo stesso spiritualismo astratto di Yves<br />

Klein); collabora inizialmente col gruppo di avanguardia Gutay. Nel ‘66 parte<br />

attraversando diciassette paesi per arrivare in Italia nel ’67 (a piedi, in bicicletta,<br />

in canoa); a Milano nel ’68 impostava subito il suo lavoro su un sottile<br />

discrimine in bilico tra la cultura metafisica orientale e la cultura occidentale<br />

della forma: a partire dai suoi interventi minimi sugli oggetti, volti alla dilatazione<br />

e alla concatenazione logica del pensiero, tendeva a cambiare l’aspetto<br />

della materia attraverso un gesto personale.<br />

Del ’71-’72 sono Viaggio (la parola “viaggio” scritta con inchiostro di china<br />

lascia macchie diverse su carte di diverso formato), Isola (la fusione in bronzo<br />

di una vasca in cera calda dalla quale aveva tirato via con la mano quanta più<br />

cera possibile), <strong>Un</strong> Sasso (un sasso in marmo che al suo interno nasconde un<br />

vero sasso della stessa forma). Con Piroga (’73, una piroga trattata col fuoco<br />

secondo un procedimento in uso in oriente da 35.000 anni) aveva inizio il<br />

tema della barca, che tornerà spesso nel suo lavoro. Nella casa della sua infanzia<br />

“c’era sempre una barca appesa al soffitto, pronta in caso di alluvione”<br />

Jole De Sanna, Nagasawa, Milano 1985. Ed ecco Barca del 1981 ottenuta<br />

stringendo tra le dita un pugno di argilla (poi ingrandito nella versione in<br />

marmo) all’interno della quale cresce un piccolo salice piangente; ed ecco<br />

anche la splendida barca in travertino bianco di uno dei tre giardini realizzati<br />

nell’ospedale di <strong>Pistoia</strong>, che vorrei vedere in uno spazio più dilatato che ne<br />

rimandi con più efficacia la grande forza evocativa e la sensibilità che la distinguono.<br />

Da più di dieci anni Nagasawa affronta il tema del giardino zen inteso secondo<br />

il credo orientale come luogo di culto e di meditazione.<br />

Solo in Italia ne ha realizzati diversi (a Tortolì, ’97, a Brisighella, 2000, a Certaldo,<br />

2001, a Villa La Màgia, Quarrata, 2006).<br />

Ha partecipato a varie rassegne internazionali e nazionali (Biennale di Venezia,<br />

’72, ’76, ’82, ’88, ’93, qui con una sala personale; Documenta Kassel ’92).<br />

Nel 1976 è stato tra i fondatori della “Casa degli Artisti” a Milano.<br />

320<br />

321


Hidetoshi Nagasawa<br />

Tre giardini, 2005<br />

muschio, pietra, marmo travertino<br />

uno m 2,30 x 28,30, due m 7,40 x 4,70<br />

Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />

I tre giardini, disposti presso il Padiglione di Emodialisi a<br />

<strong>Pistoia</strong>, a contatto visivo con gli spazi dell’ospedale attraverso<br />

le vetrate dei corridoi di accesso, sembra ne vogliano costituire<br />

il fulcro vitale attraverso la natura come fonte di speranza:<br />

il primo, composto di muschio e sassi, scelti direttamente a<br />

<strong>Pistoia</strong> dall’artista, è racchiuso in una sorta di serra-vetrata; il<br />

secondo, che si estende tra le due parti esterne del corridoio<br />

suggerendo una sorta di fiume (in muschio) sulle cui due sponde<br />

si appoggiano sette piccoli ponti in marmi diversi, si pone come<br />

il fulcro di unione fra i tre giardini; il terzo contiene la barca<br />

in travertino nella quale cresce un albero, simbolo fortemente<br />

emotivo del percorso della vita. È quello che avrebbe forse<br />

bisogno, per essere giustamente goduto, di maggior respiro.<br />

Esprimono tutti un sottile e intenso afflato emotivo e spirituale.<br />

Sono tra i lavori che rispondono maggiormente alle intenzionalità<br />

di coinvolgere i pazienti in una contemplazione quasi mistica<br />

che miri a distrarre la loro attenzione dalla propria condizione<br />

verso sensazioni consolatorie.<br />

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Gianni Ruffi<br />

Lunatica, 2005<br />

cemento bianco, lunghezza m 18<br />

Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />

In mezzo al verde, nella parte esterna del Padiglione, a giardino,<br />

questa leggera, bianca panchina fuori scala per la lunghezza,<br />

formata da due falci di luna sovrapposte e sfalzate a creare una<br />

seduta e un dorsale, mentre rappresenta in pieno l’intenzionalità<br />

consueta dell’artista, sempre impostata su un’ironia garbata,<br />

diretta, quasi giocosa, contribuisce, assieme soprattutto ai lavori<br />

di Sol Lewitt e di Nagasawa, a creare un clima di tranquillità e di<br />

speranza; quello che si richiede a un ospedale, oggi.<br />

324<br />

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Sol Lewitt<br />

Hartford, Connecticut, USA, 1928 – New York, 2007<br />

Sol Lewitt scriveva: “Farò riferimento al genere d’arte in cui sono coinvolto<br />

come arte concettuale. Nell’arte concettuale l’idea o il concetto è l’aspetto<br />

più importante del lavoro. Quando un artista utilizza una forma concettuale di<br />

arte, vuol dire che tutta la programmazione e le decisioni sono stabilite in anticipo<br />

e l’esecuzione è una faccenda meccanica. L’idea diventa una macchina<br />

che crea l’arte” (Paragraphs of Conceptual Art, in “Artforum”, giugno 1967).<br />

In realtà il suo lavoro si è sempre organizzato sul rapporto tra Concettualismo<br />

e Processualità, e si sviluppa cioè tra Concettualismo e Minimalismo. Le sue<br />

opere si sono sempre basate sulla modulazione e sulla progressione di segni<br />

elementari, sul quadrato che, in sviluppi successivi, si trasforma in struttura<br />

aperta o chiusa, secondo possibilità combinatorie basate, come scrive Germano<br />

Celant sulla relazione tra “logica concettuale e logica spaziale” (Inespressionismo.<br />

L’arte oltre il contemporaneo, Genova 1988). Ha realizzato lavori<br />

a parete, nei quali la parete diventa supporto della strutturazione logica dei<br />

segni.<br />

Dal ’75, oltre a linee spezzate o diagonali, usa nel suo lavoro, in nero o a colori,<br />

figure geometriche come il cerchio, il triangolo, il trapezio, che provocano,<br />

pur nel rigore dell’esecuzione dell’opera, una gamma infinita di variazioni dinamiche.<br />

Oppure i suoi segni si organizzano in combinazioni angolari e radiali<br />

secondo rapporti di colore di una purezza quasi metafisica.<br />

Anche il lavoro che ha realizzato sulla parete di entrata del Padiglione di<br />

Emodialisi di <strong>Pistoia</strong> si organizza, nella tessitura dei colori, secondo una dinamica<br />

straordinariamente felice, trasformandosi in una sorta di attrazione<br />

magica che incanta e che sollecita animazione e vitalità ma che sembra anche<br />

volersi riferire al flusso continuo del sangue che rappresenta la vita.<br />

Sol Lewitt è sempre stato legato all’Italia dove ha avuto, a Spoleto, la sua<br />

residenza italiana.<br />

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Sol Lewitt<br />

Wall Drawing # 1155 – Whirls and twirls, 2002-2005<br />

colore acrilico su intonaco, m 3,50 x 3,89<br />

Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />

<strong>Un</strong>o stupendo murale sulla parete di ingresso del Padiglione,<br />

svolto secondo una dinamica circolare e ciclica successione di<br />

linee curve che salgono e scendono in continuazione, composte<br />

di tasselli di colori che si alternano (rosso, verde, blu, viola),<br />

che sembra alludere al flusso continuo del sangue, regolato dal<br />

battito del cuore, a sollecitare speranza in una continua rinascita.<br />

Forse questo lavoro, con quelli di Nagasawa e di Ruffi, è uno di<br />

quelli che, al di là del significato artistico, risponde in maniera<br />

più diretta alle intenzioni di sollecitare e sollevare lo spirito dei<br />

pazienti.<br />

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Claudio Parmiggiani<br />

Luzzara, Reggio Emilia, 1943; vive a Bologna<br />

Maurizio Calvesi ha definito il lavoro di Parmiggiani “di segno alchemico”<br />

(Parmiggiani e la Post-avanguardia). Ha lavorato a lungo, infatti, attorno alla<br />

storia della pittura, percorsa dall’“oro filosofale” che è, in certo senso, la sua<br />

“materia prima”. Ha spesso lavorato su opere antiche, scomponendole, studiandole<br />

secondo sottili riflessioni filosofiche, concettuali, poetiche. Si pensi<br />

a La visione di Santa Godula di un maestro fiammingo, sulla quale, nel ’78, ha<br />

introdotto l’elemento tempo, facendo muovere, fotograficamente, una piccola<br />

nave, spostandola nel tempo del suo viaggio; su una tela di Mondrian<br />

ha sovrapposto una pianta de L’Aja, sulla quale segnava, con un quadratino<br />

azzurro, la pianta del museo nel quale si conserva l’opera di Mondrian.<br />

Tra i suoi lavori il Theatrum Orbis, dall’Ars Memoriae di Robert Fludd (1612),<br />

dove trasforma il teatro elisabettiano di Shakespeare (the Globe) in Teatro<br />

della pittura, in un continuo rimando ermetico, alchemico, ricco di enigmi.<br />

Nel ’70 nascono le Delocazioni. nelle quali evidenzia, servendosi anche di<br />

fuliggine, il segno lasciato sulla parete da quadri e oggetti come fossero tolti<br />

dopo una lunga dimora “in loco” – “riflessioni hegeliane e neoplatoniche” a<br />

simboleggiare il concetto delle “idee come ombra delle cose”, secondo Peter<br />

Weiermair e, allo stesso tempo giocando sul tema dell’assenza – Claudio<br />

Parmiggiani, cat. mostra, Bologna 2003. Nel ’77 riuniva in un prezioso libretto<br />

Tavole Teatri Riti molti suoi progetti, dal ’65 al ’77. Seguono Giordano Bruno<br />

(’77, un quadro bianco alla parete, alla sua base un blocco di marmo nero),<br />

Proiezione (’78, un quadro dorato davanti al quale pende l’uovo di Piero: a<br />

terra un blocco di marmo blu). Del ’76 è Annunciazione, un’opera di grande<br />

suggestione emotiva e poetica (due lastre in rame, una delle quali a specchio,<br />

l’una di fronte all’altra; sul retro una grande vetrata spartita in quadrati).<br />

Del ’75 è <strong>Un</strong>a scultura, un’opera in quattro parti, disposte secondo ipotetici<br />

punti cardinali (in Italia, in Egitto, in Francia, in Cecoslovacchia), quindi impossibile<br />

da vedersi nella sua totalità.<br />

Tra i suoi lavori permanenti nel paesaggio Il bosco guarda e ascolta nel parco<br />

di Pourtalés a Strasburgo (1990), Il Faro d’Islanda (una luce permanente in<br />

un luogo desertico in Islanda), Melancolia II, realizzato con Robert Morris nel<br />

parco di Santomato (2002).<br />

Tra i suoi scritti anche Sangue, Stelle, Spirito (2000).<br />

Presente con una personale alla Biennale di Venezia (’92), nel Musée d’Art<br />

Moderne et Contemporain a Ginevra (’95), alla Promotrice di Belle Arti di<br />

Torino (’99) e la grande antologica a Palazzo Fabroni a <strong>Pistoia</strong> nel 2008.<br />

330 331


Claudio Parmiggiani<br />

<strong>Un</strong> mosaico per un ospedale, 2005<br />

pavimento, area mq 96<br />

Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />

<strong>Un</strong>o splendido mosaico a costituire il pavimento che,<br />

dall’ingresso del Padiglione, ne percorre tutto il corridoio<br />

centrale, nel quale l’artista ha riprodotto, sempre secondo il suo<br />

“segno alchemico” ed ermetico, le tredici tavole di un antico<br />

atlante tedesco. Vi è rappresentato il cielo notturno coi suoi segni<br />

zodiacali, coi suoi misteri, le sue figure mitologiche astrali il cui<br />

profilo è delineato da un segno bianco, costituito dal susseguirsi<br />

di singole tessere bianche sul fondo nero, a creare un fitto e<br />

avvolgente intreccio di immagini di dei e di animali magici, in<br />

una fitta rete, che rende il pavimento, mentre viene percorso, un<br />

continuo stimolo di sensazioni emotive complesse.<br />

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Daniel Buren<br />

Boulogne-Billancourt, Parigi, 1938; vive a Parigi<br />

Ha studiato a Parigi. Lavora sempre, come dice, “in situ”, cioè secondo situazioni<br />

e luoghi diversi, in rapporto alla sua intenzionalità rivolta all’analisi critica delle<br />

strutture della società (quelle soprattutto coinvolte nel sistema borghese dell’arte,<br />

secondo il suo intento di carattere socio-politico). Ha ridotto la sua tecnica<br />

artistica a un minimalismo assoluto, tendendo ad interventi “anonimi” (e comunque<br />

riconoscibilissimi, righe verticali parallele, in bianco e un colore su stoffa da<br />

tende, tecnica che ha esteso anche ai suoi lavori a parete, interni ed esterni, come<br />

nella Biennale del 1986). Dal 1980 lavora realizzando installazioni architettoniche<br />

permanenti in spazi pubblici perché per lui l’architettura vuol dire “contesto<br />

sociale, politico, economico” ed è supporto di qualsiasi opera, che ne qualifica o<br />

ne accentua le qualità (<strong>Un</strong>a ragnatela, Samanedizioni, Genova 1975). Per citarne<br />

qualcuna, ad esempio, in una piazza di Lione, appesantita da una grande fontana<br />

di carattere tardo-barocco, ha creato un ambiente vitale e attuale, spartendo in<br />

quadrati la piazza, facendo uscire dal centro di ogni quadrato uno zampillo che di<br />

notte si illumina e si colora, disponendo le sue “righe” lungo le pareti degli edifici,<br />

modificando la qualità architettonica del luogo, trasformandolo in una zona di<br />

sosta, di gioco per bambini e animali, percorso, comunque, come luogo pubblico.<br />

Ha anche realizzato l’installazione Les deux plateaux presso il Palais Royal a Parigi.<br />

Ha sempre cercato di rivelare i rapporti tra l’opera d’arte e l’ambiente, dal museo,<br />

alla galleria, alla città. “L’opera, l’oggetto artistico” ha scritto “non esiste e non<br />

può esser vista in funzione del Museo/Galleria che la contiene, Museo/Galleria<br />

in vista dei quali è stata fatta e alla quale tuttavia non si presta nessuna attenzione<br />

particolare […] Fuori di questo contesto, preteso neutro perché non ci si pensa,<br />

(contesto) fuori tempo, fuori limiti, sia pure considerato puro e neutro (l’oggetto<br />

d’arte) si affossa” (Limites critiques, Parigi 1970). Nel ’71 realizzava perciò una delle<br />

sue più straordinarie installazioni nel Museo Guggenhein, a New York, spaccandone<br />

praticamente lo spazio architettonico, tagliandolo, verticalmente, con<br />

una sua enorme tela a righe verticali, una sorta di grande vessillo inteso a gridare<br />

la sua idea di libertà. “Solo la conoscenza di questi quadri/limiti successivi e la<br />

loro importanza può permettere all’opera/prodotto, così come noi la conosciamo,<br />

di porsi in rapporto con questi limiti, e di seguito, svelarli”. “L’arte” aggiungeva<br />

“qualunque cosa sia, è esclusivamente politica, Si impone dunque l’ analisi dei<br />

diritti formali e culturali (e non l’ uno o l’ altro) all’interno dei quali l’arte esiste e<br />

si agita. Questi limiti sono molteplici e di intensità diverse. Benché l’ideologia sia<br />

dominante e gli artisti uniti insieme tentino in ogni modo di camuffarli, e benché<br />

sia troppo presto per farli saltare – non concordando le condizioni, è giunto il<br />

momento di svelarli... <strong>Un</strong>a galleria non è solo sala espositiva, ma luogo di contrattazione<br />

economica” (<strong>Un</strong>a ragnatela, cit).<br />

334 335


Daniel Buren<br />

4 porte in vetro 6 divisori della sala dialisi, 2005<br />

acciaio e vetro, applicazioni di vinile<br />

ciascuno dei sei elementi m 2 x 2,50 x 26<br />

Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />

I sei divisori, di colore diverso, tra le due pareti vetrate dei quali si<br />

inserisce la luce, sono spartiti, come tutti i lavori di Buren, da linee<br />

verticali monocolore. Peraltro, tra le righe, si inserisce, decentrato,<br />

un cerchio del colore delle righe stesse. Le quattro porte sono<br />

invece monocrome. Ne emana una percezione di colore-luce che<br />

rende l’ambiente gradevole, a trasmettere un senso di vita e di<br />

speranza, teso soprattutto a distrarre il malato dal pensiero fisso<br />

del suo male. Scrive Buren in proposito: “Accettare di fare un<br />

lavoro d’arte visiva per un ospedale è – fatto rarissimo per quel<br />

che mi riguarda – accettare che l’opera prodotta possa rispondere<br />

a priori a una funzione. Ha poi l’ammissione che questa funzione<br />

ha lo scopo di portare una certa serenità a chi vedrà le opere<br />

durante il trattamento di dialisi. È quindi la pretesa che l’arte<br />

possa possedere questa qualità! È sperare che questa condizione<br />

esiste, che qualcuno attingendo alle opere durante le ore in<br />

cui è dializzato possa ricavarne un certo conforto. È soprattutto<br />

sperare che l’opera non porterà ulteriore disagio in questo luogo.<br />

È sperare che senza distrarre, l’arte possa apportare quiete. È<br />

sperare che l’arte possa tentare di togliere un po’ di sofferenza<br />

dalla sofferenza”. Questo pensiero di Buren sembra esprimere<br />

l’essenza di tutti i problemi che sorgono di fronte al proposito di<br />

“umanizzare”, come ora si dice, gli ospedali...<br />

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BIBLIOTECA SAN GIORGIO<br />

PISTOIA<br />

Anselm Kiefer<br />

339


Anselm Kiefer<br />

Donaneschingen, Germania, 1945; vive a Carjac, Francia<br />

Agli inizi degli anni Sessanta, nella Germania Occidentale (Berlino, Düsseldorf),<br />

si formava una nuova generazione di artisti intesi a costruirsi una<br />

nuova identità. A Düsseldorf Joseph Beuys, col suo insegnamento all’Accademia<br />

di Belle Arti, con la sua dura, prepotente eppure umanissima forza<br />

provocatoria, col suo rapportarsi all’uso straniante di materiali inconsueti,<br />

ai quali egli attribuiva qualità che lo interessavano personalmente (feltro,<br />

cera, grasso…), con la sua interiorità senza riferimenti ed effetti mediatici,<br />

contribuiva alla formazione di una nuova corrente artistica. Seguivano le<br />

sue lezioni Gerhard Richter, Sigmar Polke, Per Kirkeby e anche, dal ’70,<br />

per un certo periodo, Anselm Kiefer.<br />

Da giurisprudenza Kiefer era passato, infatti, dal ’66, allo studio della pittura.<br />

Iniziava allora una sua particolare, profonda analisi della storia della<br />

Germania, storia di cui si è sempre sentito, in certo modo, erede e vittima,<br />

come quando, tra i suoi straordinari “libri d’artista” – per i quali ha usato i<br />

materiali più diversi, fotografia, elementi vegetali, acquerello, capelli umani<br />

– realizzava Für Genet (1969) usando, con lucida e critica provocazione,<br />

la sua fotografia col braccio teso nel saluto romano-hitleriano, a evocare catarticamente,<br />

il momento più tragico della storia contemporanea tedesca.<br />

Cosa che, per molto tempo, sollecitava intorno a lui un ottuso sospetto di<br />

nostalgico nazionalismo.<br />

Dopo il ’91, quando le due Germanie si sono riunite, Kiefer ha lasciato la<br />

Germania. Stabilitosi in Francia ha iniziato una nuova fase del suo lavoro,<br />

più aperta e meno conflittuale, di straordinario respiro.<br />

Egli è riuscito, con la sua carica di creatività, la sua profondità culturale, la<br />

sua forza espressiva, a riportare in pittura il romanticismo letterario di Novalis,<br />

tendendo a evidenziare le forze naturali che si compongono nella tensione<br />

che la sua pittura mette a nudo per mezzo di una materia densa, ricca<br />

di variazioni infinite di segni, nella ricchezza e diversità dei materiali.<br />

I suoi grandi lavori, carichi di complessità, producono nell’osservatore una<br />

sorta di fascinazione quasi ipnotizzante, quella che poche opere contemporanee<br />

esercitano, convergendolo in una complessità di sensi quasi magica.<br />

Il divario tra i temi trattati e i colori usati sembra voler simboleggiare la<br />

problematica della storia tedesca.<br />

“Kiefer” scriveva Sigfried Gohr (“Flash Art” n. 107, marzo 1982) “rende<br />

giustizia al colore nella sua materialità; la distanza che lo separa dal contenuto<br />

accusa il suo impatto sensibile. Riporta la pittura a se stessa, come<br />

Baselitz ha fatto nella sua opera così strettamente intesa, ma preserva la<br />

portata simbolica immediata delle cose, una dimensione di cui Beuys ha<br />

spesso esplorato la magia”. Kiefer è un artista contemporaneo ma, a mio<br />

avviso, proprio perché è così intensamente dentro i temi della contemporaneità,<br />

la supera per porsi, veramente tra i pochi, fuori dal tempo, annullandone<br />

le distanze e le diversità.<br />

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Anselm Kiefer<br />

Die grosse Fracht, 2006-2007<br />

colore acrilico, emulsione, ruggine, argilla, piombo fuso su tela, nave e libri in<br />

piombo, cm 460 x 690<br />

Biblioteca Centrale San Giorgio, <strong>Pistoia</strong><br />

Il fascino che questo grande quadro esercita su chi gli sta davanti è la sua prima,<br />

grande qualità. E questo è dovuto, oltre che alla sua immediata capacità di<br />

coinvolgimento, alla sua innegabile profondità di evocazione: non si può non cogliere<br />

quanto riesca a farci immediatamente sentire il peso della memoria storica, politica,<br />

umana, non visibile ma chiaramente, ripeto, evocata, e non solo della Germania,<br />

di cui sembra voler risalire alle origini, dai Nibelunghi, ai cavalieri teutonici di<br />

Ejzenstejn nell’Aleksandr Nevskij, alla tragedia hitleriana, di cui Kiefer si sente erede<br />

e allo stesso tempo giudice implacabile.<br />

È troppo facile e semplice riferirsi al fatto che il tema del quadro, nel quale una<br />

nave trasporta, chissà dove, in salvo o alla distruzione totale, un “carico” di libri,<br />

sia collocata sulla parete di una biblioteca, come simbolo astratto di cultura.<br />

L’opera è molto di più: è circa dal ’79, infatti, che il tema del libro è presente quasi<br />

costantemente nel lavoro di Kiefer. È il tema del rapporto tra scrittura e immagine,<br />

che sembra rappresentare, nella nostra società, non a caso definita “dell’immagine”,<br />

una continua antitesi, che invece l’opera di Kiefer sembra ricomporre in un’unica<br />

realtà indissolubile, come osserva anche Omar Calabrese (Alcune osservazioni su Die<br />

grosse Fracht di Anselm Kiefer, in Anselm Kiefer, Die grosse Fracht, <strong>Pistoia</strong> 2007): il libro,<br />

come memoria della storia dell’uomo, dei suoi errori, delle sue conquiste, delle<br />

infinite calamità e delle terribili tragedie del mondo; con tutto il suo peso, ma anche<br />

col portato di tutto l’amore che colora la terra, si fa qui anche immagine: il libro, un<br />

carico terribile e meraviglioso, da conservare e salvare; un carico tremendo (il peso<br />

del piombo), ma anche espressione di una straordinaria morbidezza e flessibilità<br />

(ancora il piombo, dal colore cupo ma con un lucore segreto, morbido, prezioso)<br />

e, dopo tutte le sue apparizioni: ora in pile cosparso di rami di roso, di papaveri e<br />

girasoli secchi, ora allineato in scaffalature gigantesche o sulle ali di aerei da guerra<br />

atterrati, trova asilo su una nave (di piombo), sospesa a due sottili fili uniti al centro,<br />

in alto, a creare un triangolo a forma di vela, un filo appena visibile nel magma denso<br />

e prezioso di un mare/cielo che si tinge di bagliori rosati all’alba, dorati o argentati<br />

nel sole del mezzogiorno… Per arrivare dove? Verso un futuro di vita e di pensiero o<br />

verso un destino di morte, secondo i versi della poesia Die grosse Fracht di Ingeborg<br />

Bachmann, cui è dedicata l’opera?<br />

Il lavoro di Kiefer, dopo il ’91, dalla riunione delle due Germanie,<br />

e dopo il suo trasferimento nel sud della Francia e quasi<br />

tre anni di silenzio, si è come dilatato: i suoi rapporti con la<br />

filosofia, la storia, la letteratura, con l’arte stessa, hanno assunto<br />

una dimensione diversa, di ripensamento, di accettazione, di<br />

sintesi tra la memoria storica e un senso di liberazione. Il cielo,<br />

nei suoi quadri, occupa uno spazio maggiore o, come qui, si<br />

assimila completamente al mare; dove, nella densità cupa della<br />

materia si aprono improvvise schiarite, che qua e là squarciano e<br />

alleggeriscono la densità della materia stessa.<br />

Alla base della nave un craquelé quasi aranciato sembra alludere a<br />

un terreno bruciato.<br />

<strong>Un</strong>’opera da contemplare, o per meglio dire, da ascoltare per un<br />

tempo che sembra non possa aver mai fine. <strong>Un</strong>’opera alla quale,<br />

(come alla campana di Hemingway, cui non importa chiedere<br />

per chi suona) non devi chiedere a chi parla: essa parla a te. Non<br />

importa chiederle che cosa significa.<br />

Potresti rimanerle davanti per ore e ore: continuerà a parlarti<br />

facendo di te, sempre, l’‘eletto’.<br />

“Quando il gabbiano dietro a te stride e cade,<br />

l’ordine giunge da occidente di affondare:<br />

ma nella luce ad occhi aperti annegherai<br />

quando il gabbiano dietro di te stride e cade.”<br />

E non è questo che, da che mondo è mondo, i grandi poeti e i grandi artisti ci fanno<br />

intravedere?<br />

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MUSEO MARINO MARINI<br />

PISTOIA<br />

Marino Marini<br />

347


Il Museo Marino Marini ha sede, oltre che nelle antiche sale del convento del<br />

Tau, nella chiesa ad esso adiacente, edificata nella prima metà del 1300 da Fra’<br />

Giovanni Guidotti che la donò ai Canonici Regolari di Sant’Antonio Abate e<br />

del Tau. Sconsacrata nel 1787, passò in proprietà privata e, solo recentemente,<br />

è stata destinata a ospitare alcune opere monumentali di Marini. Presso il<br />

Museo hanno sede anche la Fondazione e il Centro di Documentazione,<br />

inaugurato il 23 giugno 1979 nel Palazzo Comunale di <strong>Pistoia</strong> e qui trasferito<br />

nel 1990. Il Centro conserva, oltre alle opere del celebre artista, un nucleo<br />

bibliografico specializzato.<br />

Alla collocazione dell’opera Cavallo e cavaliere di Marino Marini sulla terrazza<br />

d’angolo all’esterno del Museo, ha contribuito la Fondazione della Cassa di<br />

Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia.<br />

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Marino Marini, Cavallo e cavaliere, 1956-1957<br />

fusione realizzata e collocata nel 2001<br />

bronzo, cm 246 x 170,6 x 127<br />

Palazzo del Tau, Fondazione e Museo Marino Marini, <strong>Pistoia</strong><br />

<strong>Un</strong>o dei temi consueti di Marino Marini, portati successivamente<br />

a una sempre più tesa trasfigurazione, fino a giungere, talvolta,<br />

a quello che appare come un rifiuto reciproco tra cavallo e<br />

cavaliere: il cavallo che disarciona il cavaliere che, anche<br />

se scagliato all’indietro (come in questo caso), gli rimane,<br />

comunque, attaccato; oppure, come scriveva Giovanni<br />

Carandente (Marino Marini. Catalogo ragionato della scultura,<br />

Milano 1998) arrivando alla “loro repentina folgorazione nel<br />

Miracolo”, cioè alla fusione totale tra le due nature, umana e<br />

animale, in un unico, straordinario, gestuale slancio vitale. In<br />

quest’opera il cavallo sembra aver vinto il cavaliere, ridotto ad<br />

una sorta di tronco senza forma, riverso sul dorso scheletrito<br />

dell’animale, come in una reciproca, inesorabile congiunzione.<br />

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PIAZZA AGENORE FABBRI<br />

QUARRATA<br />

Vittorio Corsini<br />

353


Vittorio Corsini<br />

Cecina, Livorno 1956; vive a Firenze<br />

Laureato in Storia dell’Arte all’<strong>Un</strong>iversità di Pisa, ha iniziato, alla metà degli<br />

anni Ottanta, dal Concettuale; non tanto secondo il concetto di “Arte come<br />

riflessione dell’idea di arte”, non sulla linea aniconica, ma su quella oggettuale,<br />

tendendo a “stabilire un ponte ideale tra l’arte e il perché fare arte” (Luigi<br />

Di Corato in Vittorio Corsini, Corpo fragile, cat. mostra, Siena 1998).<br />

Iniziava cancellando l’immagine sulla pellicola fotografica con graffi prima<br />

della stampa, con monocromi sulla tela illuminata, passando poi a lavori tridimensionali<br />

con oggetti in equilibrio instabile, con grandi disegni a grafite<br />

su intonaco contornati da chiodi in legno a creare crepe sulla parete (in certo<br />

senso togliendo al disegno la sua bidimensionalità), passando poi all’uso del<br />

vetro con il quale realizzava oggetti “inusabili” (letti, gabbie su cui ammassava<br />

grandi ampolle di vetro blu). Combinava vetro, ferro, smalto, garza (Cuore<br />

Malato, ’88), quando iniziava ad indagare sulla rappresentazione del corpo,<br />

tema della intensa e raffinatissima mostra all’ex Ospedale Psichiatrico di Siena,<br />

’88, dove inseriva antichi strumenti medici in vetro, coronando la mostra<br />

stessa con un tappeto di fiori in vetro blu). Il tema della casa diverrà in seguito<br />

una costante del suo lavoro.<br />

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Vittorio Corsini, Le parole scaldano, 1999-2004<br />

acciaio, vetro, vetrofanie, acqua, m 3,40 x 6 x 5<br />

Piazza Agenore Fabbri, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />

Questo prezioso lavoro di Corsini risponde in pieno alla<br />

consueta, raffinata discrezione che lo distingue. Le sue opere<br />

non sono mai invadenti; sembrano cercare sempre di “ascoltare”<br />

e di “rispondere” mettendosi alla pari con chi interloquisce; non<br />

importa se in silenzio; basta che in qualche modo il dialogo ci sia.<br />

Già l’opera si connota nella scelta, consueta per lui,<br />

dell’immagine, la più semplice e diretta, della casa, quella col<br />

tetto spiovente che ancora i bambini disegnano, con le quattro<br />

pareti, con un’apertura rettangolare da cui vi si accede e dalla<br />

cui sommità scende una sottilissima tenda-cascata fatta di fili<br />

continui di gocce.<br />

La scelta dell’immagine della casa risale alla fine degli anni<br />

Ottanta. Si pensi a Respiro Domestico (1989); Paese (1990), in<br />

sottili fili di acciaio, le assonometrie disegnate sul pavimento<br />

coperto di segatura che i passi dei visitatori durante la mostra<br />

cancellavano; Meno 270, (2002); Interno (1991), un interno in<br />

stoffa e acciaio; Luce gialla, (1997), una casina rovesciata appesa<br />

al soffitto, dalla finestra illuminata; Casa di cura (1998) in vetro e<br />

legno; al bellissimo e intenso I have a head, del 2004, una casetta<br />

che riporta per traforo il famoso toccante discorso di Martin<br />

Luther King “I have a dream” (le parole riflesse sulle pareti, sul<br />

soffitto e sul pavimento dalla luce interna alla casa).<br />

In realtà la casina di Quarrata è una fontana disposta su una vasca<br />

pentagonale irregolare dai bordi rialzati dal piano di calpestio.<br />

Non si tratta ovviamente di un monumento per una piazza<br />

che pur essendo il perno vitale di Quarrata non è una piazza<br />

consueta, ma uno spazio moderno, rettangolare di cui la casina di<br />

Corsini occupa una zona quasi appartata. Vi sorgono il Comune,<br />

la Biblioteca Comunale, il Polo Tecnologico (l’Ufficio Progetti)<br />

ricavato nei capannoni dell’ex fabbrica di mobili Lenzi. Quella<br />

di Corsini è una casa che parla; che riporta in vetrofania, su tutti i<br />

lati e sul tetto, le frasi, i pensieri e le dichiarazioni che gli abitanti<br />

hanno depositato nelle molte cassettine disposte allo scopo in<br />

tutta la città. Sono state trascritte in bianco, fedeli anche nelle<br />

diverse espressioni calligrafiche; e sono veramente “parole che<br />

scaldano” perché rappresentano la partecipazione, la reazione, la<br />

testimonianza della gente.<br />

È un lavoro questo che, come scrive in catalogo Lorenzo Fusi,<br />

non chiede “di essere guardat(o) o ammirat(o), ma di essere<br />

vissut(o). È permeabil(e) e assorbent(e), nel senso che reagisc(e)<br />

in maniera metabolica allo scorrere del tempo e al (suo) utilizzo.<br />

Si arricchisc(e) perfino quando si tenta di profanarl(o)”.<br />

In realtà prima che vi fosse installata vicina una telecamera, uno<br />

dei vetri (infrangibile) è stato scheggiato, facendolo risplendere<br />

con mille raggi. Perciò Corsini lo ha voluto lasciare così.<br />

È una testimonianza del suo ‘vissuto’ insieme a quello della<br />

gente del luogo.<br />

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VILLA LA MAGIA<br />

QUARRATA<br />

Fabrizio Corneli<br />

Anne e Patrick Poirier<br />

Marco Bagnoli<br />

Hidetoshi Nagasawa<br />

Maurizio Nannucci<br />

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Villa La Màgia, la cui costruzione iniziale, ad opera della famiglia Panciatichi,<br />

risale al tardo Medio Evo, ampliata e trasformata nel Quattrocento in una<br />

grande e lussuosa residenza di campagna signorile, fu acquistata dal Granduca<br />

Francesco de’ Medici verso la fine del ‘500, ancora ristrutturata e ampliata<br />

nella forma esterna attuale da Bernardo Buontalenti che realizzò anche, nel<br />

suo splendido parco, un lago, di cui la sola testimonianza rimane nella lunetta<br />

di Giusto Utens, dedicata alla villa, nei primi del Seicento (Museo di Firenze<br />

com’era). Ai Medici seguirono, nella proprietà, gli Attamanti (1645). La villa<br />

fu, allora, nuovamente trasformata internamente e arricchita di opere d’arte.<br />

La sistemazione del parco si deve a Giuseppe Amati che la acquistò nel 1766;<br />

sorse allora la Limonaia di Levante. Successero poi i Cellesi (1863). Gli ultimi<br />

signori della villa sono stati i conti Amati Cellesi. La contessa Marcella,<br />

ultima della famiglia, arricchì il parco di alcune centinaia di varietà di rose,<br />

che ora circondano quasi tutte le sezioni a prato. Dal 2000 la villa è divenuta<br />

proprietà dell’Amministrazione Comunale di Quarrata che, con grande intuizione<br />

e forza culturale, ha destinato il parco a sede di mostre e installazioni di<br />

artisti contemporanei, ognuno dei quali lascia stabilmente un suo lavoro nella<br />

zona del parco che si è scelta. La cura delle mostre è stata affidata a Katalin<br />

Mollek Burmeister. Questa attività è in gran parte finanziata dalla Fondazione<br />

Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia.<br />

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Fabrizio Corneli<br />

Firenze 1958; vive a Firenze e in Umbria<br />

Formatosi su studi matematici e teorici iniziava realizzando sculture basate,<br />

pur nella loro diversità, sulla formatività geometrica (Trifidi, ’81-’82; Melenas,<br />

’82; Nautilus, ’83; Mazzocchio, ’88) i cui riferimenti si riportano a Calder, Tinguély,<br />

Melotti. Passava poi a lavori basati sulla leggerezza (Separazione di gocce;<br />

Erasmo; Calvino; Regina, ’83-’84) passando poi a Alambicchi, Testa, Martiri ’85,<br />

arrivando a Grande Estruso, lavoro ottenuto per estrazioni successive di grandi<br />

lastre di ferro, quasi a evocare la crescita concentrica del tronco degli alberi<br />

che disponeva sul terreno a scalare, a telescopio creando immagini zoomorfiche.<br />

Interessato da sempre alla percezione ottica e alle sue infinite variazioni<br />

e possibilità, secondo peraltro, una linea legata al concettualismo, raggiungeva,<br />

prima evidenziando il rapporto luce-ombra a mezzo della fotografia, poi<br />

con l’uso dell’anamorfosi, una sorta di metafisica dell’immagine scelta dalla<br />

tradizione popolare, dal mito, dall’astrologia, dall’ermetismo.<br />

Continua a ripercorrere i suoi temi usando cristallo, acqua, più recentemente<br />

lamelle metalliche applicate a parete, su inclinazioni diverse dalle quali ottiene,<br />

attraverso la luce del sole o la luce artificiale, ombre luminose in forma<br />

di immagini, basate su memorie di antichi rituali e strumenti alchemici, riuscendo<br />

a creare un clima di mistero e di raffinato afflato poetico.<br />

Si possono evocare le ombre della caverna di Platone. O dobbiamo ricordare<br />

le molte allusioni shakespeariane sulla immaterialità (irrealtà) della vita<br />

umana? Oppure, come fa Paolo Cesarini nel suo intervento sul catalogo della<br />

mostra di Corneli a Villa La Màgia, occorrerà ricordare l’“ultimo grande<br />

astronomo dell’epoca pretelescopica”, Tycho Brahe che, quando si allontana<br />

dall’Insula Venusia che Federico II gli aveva donato per studiare sul più<br />

grande telescopio dell’epoca, “l’orologeria che fa muovere gli astri e le cose<br />

della vita”, esclama: “Sono felice per il tempo che ho passato su questa isola<br />

e sono felice per tutti gli anni che ho passato a progettare e realizzare ogni<br />

singola parte di questi strumenti. Ti mostrerò stanotte le figure che pazientemente,<br />

anno dopo anno, ho disegnato sul Grande Globo Oricalchico. Più di<br />

mille stelle e decine di costellazioni che aiuteranno naviganti e scopritori di<br />

nuove terre a comunicare fra loro, a non smarrire la rotta […] Ma non sta qui<br />

l’essenziale, l’immagine reale del mondo non si può disegnare, ha la sostanza<br />

di cui son fatti i sogni. I miei strumenti aiutano a sognarla”, Fabrizio Corneli.<br />

Micat in vertice, Quarrata 2005.<br />

Preferisco citare la fredda dichiarazione di Céline (Viaggio al termine della notte):<br />

“Tutto quel che è interessante avviene nell’ombra, davvero. Non si sa<br />

nulla della vera storia dell’uomo”.<br />

Forse è meglio citare quanto scrive Lea Vergine nel catalogo della mostra<br />

D’Ombra (Siena, Nuoro, 2006-2007), con accenti più legati al nostro tempo:<br />

“Nelle ombre, che hanno a che fare con la magia, si possono proiettare i miraggi,<br />

le paure, i desideri, il non detto, persone che non abbiamo mai incontrato,<br />

luoghi dove non siamo mai stati, riverberi di situazioni, di accadimenti<br />

magari mai vissuti. In breve, sogni. E un sogno è un sogno, non è un’illusione”.<br />

Corneli non è stato invece invitato alla mostra Inganni ad Arte, tenutasi<br />

a Firenze nell’ottobre del 2009, dove il solo artista contemporaneo presente<br />

è Pistoletto, se si escludono gli pseudocontemporanei che rifanno, pari, pari,<br />

i quadri del Seicento...<br />

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Fabrizio Corneli<br />

Micat in vertice, 2005<br />

lunghezza totale m 41,50, ogni lettera h cm 160<br />

lamine metalliche applicate alla parete che, con le ombre<br />

provocate dal sole o da una luce artificiale, formano una grande<br />

scritta in lettere lapidarie<br />

Villa La Màgia, Limonaia di Levante, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />

Corneli ha riportato sulla parete della Limonaia di Ponente di<br />

Villa La Màgia la scritta che sta nello stemma della famiglia<br />

senese Chigi Saracini; scritta che è stata accolta dal Comune<br />

di Quarrata, ora proprietario della villa che ha destinato a<br />

esposizioni e ad istallazioni permanenti di arte contemporanea,<br />

come un augurio di felice successo per la destinazione scelta per<br />

la villa stessa. La mostra che Corneli ha realizzato all’interno<br />

della Limonaia di Levante ne ha inaugurato l’attività. Nella<br />

mostra l’artista ha disposto lungo la parete interna della<br />

Limonaia una sorta di catalogazione del suo lavoro con la luce<br />

e le ombre dal 1993 al 2006; tutte le sue figurazioni mitiche,<br />

ermetiche e immaginifiche sono tratte da un patrimonio<br />

culturale divenuto parte della sua ricerca sia teorica che poetica.<br />

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Anne e Patrick Poirier<br />

Anne, Marsiglia 1942, Patrick, Nantes, 1942; vivono a Parigi e a Roma<br />

Diplomati presso l’Ecole Nationale des Arts Décoratifs a Parigi, Anne in architettura,<br />

Patrick in archeologia, vincevano, nel ’67, il Grand Prix de Rome in<br />

pittura e scultura. Da allora inizia il loro rapporto con l’Italia. Appassionati, da<br />

sempre, di archeologia, attenti e consapevoli, fin da allora, della fragilità della<br />

vita, iniziavano il loro lavoro su questo tema, scrivendo su petali di rosa, raccogliendo<br />

memorie, diari archeologici, parlando dell’effimero, come nella loro<br />

prima catalogazione di erbari, realizzando calchi immaginari di città distrutte,<br />

stilando diari di viaggio poetici e immaginifici, viaggiando continuamente in<br />

cerca di memorie di culture lontane, realizzando paesaggi di rovine, come<br />

frammenti e documenti della fragilità del vivere, usando l’architettura come<br />

metafora della vita, della psiche e della memoria (Domus aurea, ’76; Mundo<br />

perdido, ’82; Scogliere di marmo, ’81; Mnemosyne 1 e 2, ’90, ’93…<br />

I loro riferimenti artistici e letterari sono De Chirico, Borges, la Yourcenar de<br />

Le memorie di Adriano, il Manierismo, dove la natura tende a farsi arte e l’arte<br />

annulla la natura.<br />

Le loro città ideali sono popolate da dei, da giganti, da eroi. Di qui nascono<br />

le loro installazioni in parchi e in giardini storici, in piccoli laghi (a Boboli, a<br />

Pratolino, a Santomato) dove inscenano lotte tra dei e giganti, simboleggiati<br />

questi da grandi occhi in marmo spaccati da frecce zigzagate in bronzo lucido,<br />

scagliate forse dall’Olimpo, da Giove. Nel giardino del Museo Pecci di Prato<br />

hanno installato (1988), Exegi monumentum aere perennius, una grande colonna<br />

crollata in pezzi in acciaio lucido, come ad unire il presente al passato.<br />

I loro più recenti lavori, ispirati anche a studi sulla memoria e alle loro passioni<br />

(Giordano Bruno, Robert Fludd…) sono ancora rivolti a realizzare ricostruzioni<br />

di rovine, collegate al senso di fragilità dell’uomo e delle varie<br />

civiltà, agli innumerevoli drammi che si provocano, alle tragedie delle guerre<br />

contemporanee e alle condizioni dei popoli del terzo mondo.<br />

Nella mostra nel parco della Màgia, dove sono rimaste le loro installazioni<br />

permanenti, hanno espresso, con grande forza psichica e poetica, questo senso<br />

di perdita, che questa volta li ha anche direttamente e inesorabilmente<br />

colpiti, con la perdita del loro unico figlio, tragedia che peraltro sono riusciti,<br />

con la forza del loro amore, a trasformare in arte e, appunto, in poesia.<br />

Anne e Patrick Poirier<br />

Bruciaprofumi, 1997/2006<br />

cotto dell’Impruneta, ciascun elemento h m 3<br />

Villa La Màgia, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />

Disposti nel parco nel 2006, presso la fontana, davanti alla<br />

Limonaia di Ponente, levano nel verde la loro forma raffinata<br />

e “nuova”, anche se si ispirano ai vasi da giardino della zona,<br />

creando una elegante presenza, ma intendono anche dimostrare<br />

l’intenzione di istituire un nuovo rapporto con la natura di cui<br />

alcuni elementi che bruciano al loro interno effondono i profumi.<br />

366<br />

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Anne e Patrick Poirier<br />

La Fabbrica della Memoria, 2006<br />

pietra serena, m 4 x 3 x 2<br />

Villa La Màgia, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />

Si tratta di una sorta di capanna cilindrica di pietra serena nella<br />

quale si apre un varco triangolare, creato “a taglio vivo” sulla<br />

morbida, liscia, bellissima materia, attraverso il quale è visibile<br />

un tavolo rotondo il cui piano si presenta come una calotta di<br />

sfera, pure in pietra serena; sul piano la zona centrale reca incisa<br />

in colori diversi una sorta di mappa che “stilizza la forma del<br />

cervello […] alla lettura delle parole segnate sulle pareti della<br />

stanza” (K. Mollek Burmaister, in Anne + Patrick Poirier, <strong>Pistoia</strong><br />

2006): la mappa è suddivisa in sezioni indicanti le relazioni<br />

intellettive e mentali che sollecitano la memoria, trasformando le<br />

relazioni stesse in rimandi poetici.<br />

370 371


Marco Bagnoli<br />

Empoli, Firenze, 1949; vive a Firenze<br />

Ha sempre lavorato sulle categorie di “Spazio e Tempo”, partendo dal titolo<br />

“(Spaz)io e Te(mpo)”, sempre sul dualismo, su concetti diversi: l’<strong>Un</strong>o e il suo<br />

Doppio, le coordinate legate alla razionalità e alla geometria, su cui interviene<br />

con continue divaricazioni, con scarti, trasgressioni, secondo un ermetismo<br />

che si carica di temi di filosofie orientali ma anche di un concettualismo<br />

astratto, trasformando, spesso, situazioni ordinarie, arcaiche, lingue morte, in<br />

elementi di rimando mentale, in esperienze formali. I suoi interventi sono<br />

spesso complessi, si caricano di riferimenti ermetici e rituali provocando atmosfere<br />

magiche, rapporti di tensione che egli rende attivi attraverso segni e<br />

colori, raggiungendo spesso una sottile, sottesa, carica poetica. Alla Galleria<br />

Persano di Torino disponeva nel 1990 una “banda rossa” su fondo bianco,<br />

attraversata da una linea nera che univa la frase “Io X Te”, dall’esterno all’interno<br />

della galleria, disponendosi poi su una grande tela bianca preparata a<br />

intonaco. Sulla tela riusciva a creare un effetto di anamorfosi con un disegno<br />

blu a spirale oltre la quale si proiettavano i profili di un corpo femminile, di<br />

uno maschile e di un robot, sotto la luce di una lampada a mercurio che faceva<br />

virare il rosso della banda in mattone, mentre da un foro si proiettava un disco<br />

di luce bianca. Sul tavolo una pila del giornale dal titolo “(Spaz)io e Te(mpo)”,<br />

si trasformava, a mezzo di una colata di solfato, in una scultura azzurra. Tutte<br />

le mostre di Bagnoli, le sue installazioni si arricchiscono di elementi simbolici<br />

e misteriosi. Della mostra tenuta a villa La Màgia sono rimaste permanenti<br />

le opere Ascolta il flauto di canna e una passerella rossa, la sua Banda rossa,<br />

sospesa nel parco all’inglese verso una piccola isola nel laghetto.<br />

372 373


Marco Bagnoli<br />

Ascolta il flauto di canna, 2007<br />

canna-fontana in metallo verniciato di rosso, acqua,<br />

sonorizzazione: gracidio continuo di rane<br />

Banda rossa, 2007<br />

Villa La Màgia, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />

Il lavoro è collocato in una zona quasi segreta del giardino<br />

romantico, nel parco, nel piccolo specchio d’acqua al centro del<br />

quale era stata collocata una statua di Venere, presso la quale,<br />

in seguito, crebbe un leccio. Il flauto, la lunga canna rossa, si<br />

propone come elemento allusivo alla ‘banda rossa’, cui Bagnoli<br />

si è spesso riferito. L’acqua sale lungo la parete interna della<br />

canna fino alla sua bocca, da cui fuoriesce scendendo lungo la<br />

superficie esterna della canna stessa, in un movimento ciclico,<br />

simbolo della rinascita incessante della natura. Dall’incavo del<br />

flauto risuona un continuo, morbido, gracidio di rane, che allude<br />

alla fertilità. Il tema del flauto torna spesso nei lavori di Bagnoli.<br />

La Banda rossa, una passerella sporgente dal bordo del parco<br />

presso il laghetto, come un ponte levatoio verso l’isoletta<br />

centrale, suggerisce una condizione di trascendenza e di<br />

superamento del reale attraverso la mente e la scienza. Di notte,<br />

illuminata, ricrea, ancora, la forza simbolica della sua “banda<br />

rossa”, Marco Bagnoli, Io X Te, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />

374 375


Hidetoshi Nagasawa<br />

Giardino rovesciato, 2008<br />

alberese, cotto, pigmento, pianta di melograno<br />

m 1,60 x 0,60 x 6,50<br />

Parco di Villa La Màgia, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />

Il Giardino rovesciato è l’opera permanente che Nagasawa ha<br />

realizzato, in occasione della sua mostra, nel parco della villa,<br />

presso la Tinaia di Levante.<br />

Con questo lavoro l’artista porta avanti il suo tema da anni<br />

consueto, quello del giardino, al quale sembra volere, in certo<br />

senso, unire anche l’altro suo tema, altrettanto costante, della<br />

barca. La forma della barca sembra quasi si venga a costituire<br />

all’interno dell’incrocio tra le due sezioni aperte, uguali e<br />

intersecate, del muro formato da pietre connesse “a secco” e<br />

lasciate “a vista” all’esterno dei due cerchi aperti, all’interno<br />

levigati e verniciati di un rosso acceso. La sommità delle due<br />

sezioni è come coronata di coppi rovesciati, un omaggio ad una<br />

delle attività caratteristiche della zona. All’interno dei due anelli<br />

percorribili che circondano la sezione incrociata e più segreta,<br />

che, appunto, ha la forma oblunga di una barca, è stato piantato<br />

un piccolo alberello di melograno che Nagasawa ha scelto anche<br />

perché ha la sua stessa età; una sorta, quindi, di fratello naturale,<br />

a portare avanti il rapporto diretto dell’uomo – di affinità e quasi<br />

di simbiosi, secondo la filosofia orientale – con gli elementi della<br />

natura. Il piccolo albero, cioè, non è qui collocato nello spazio<br />

interno, ovoidale, ma lungo uno dei due percorsi che portano<br />

fuori dal giardino, ad evocare l’idea del cammino, del viaggio e,<br />

allo stesso tempo, di radicamento alla terra.<br />

Anche questo lavoro corrisponde all’intenzionalità consueta di<br />

Nagasawa, di collocare i suoi giardini in spazi diversi, ciascuno<br />

con la propria individualità e con le proprie connotazioni, cui<br />

egli si riferisce, come dice “in sintonia”. “Voglio restare legato<br />

allo spazio in cui l’opera si manifesta; questa relazione tra opera<br />

e luogo per me funziona ancora”, H. Nagasawa, in Il Giardino<br />

rovesciato, <strong>Pistoia</strong> 2008. È come se, all’interno del grande<br />

giardino, il parco della Màgia, un altro piccolo giardino segreto<br />

e ‘rovesciato’, si sia inserito come un cuore pulsante, autonomo,<br />

che non cerca di essere curato, seguito, ma si adagia nella<br />

spontaneità del suo vivere e del suo vegetare.<br />

376 377


Maurizio Nannucci<br />

Firenze, 1939; vive a Firenze<br />

Iniziava, verso la fine degli anni Cinquanta, secondo una linea di ricerca concreta,<br />

basata su una progettualità di carattere razionale, anche se con continue<br />

digressioni, attento e curioso, come è sempre stato, al tema della comunicazione<br />

e al comportamento dei media.<br />

La ricerca verbale attraversa e domina, in modo quasi assoluto, tutto il suo<br />

percorso, dall’esperienza di poesia concreta (i “dattilogrammi”), fino all’attuale,<br />

totalizzante uso verbale, a mezzo della luce (neon) e del colore, nei<br />

suoi interventi spettacolari, pressoché in tutta Europa, nel territorio e nell’architettura.<br />

Dalla sua partecipazione alle ricerche di Pietro Grossi nell’ambito della fonologia<br />

musicale al Conservatorio Cherubini a Firenze nascevano le sue “programmazioni<br />

vocali”, i suoi “audioworks”.<br />

Usciva, peraltro, spesso, dallo specifico, nella sua ricerca di mezzi agevoli,<br />

come dichiarava, alla diffusione “delle idee”, coi suoi “libri d’artista”, i suoi<br />

dischi, i multipli, le cartoline degli artisti, nelle edizioni Exempla. Ha aperto<br />

anche, con altri artisti, centri di sperimentazione e di presentazione di lavori<br />

e ricerche artistiche, come ad esempio lo spazio Zona a Firenze.<br />

Il suo interesse, orientato sempre sul “visuale”, sul linguaggio tecnologico,<br />

si allargava al suono, anche questo filtrato attraverso la tecnica. Questi temi<br />

si sono ormai riuniti nella sua attività attuale, nelle sue installazioni urbane e<br />

territoriali (“lo scrivere col neon è per me, prima di tutto, la possibilità di dar<br />

luce ai pensieri, alle parole, di dar loro i colori che predispongono all’ immaginazione”,<br />

ha dichiarato).<br />

Le sue grandi scritte, studiate e organizzate in stretto rapporto e con preciso<br />

riferimento al luogo nel quale si collocano, tutte rigorosamente in inglese,<br />

tranne che in poche eccezioni, costituiscono, a questo punto, la trama del<br />

suo lavoro “in progress”, che fa parte della sua “Anthology” (sezioni della<br />

quale ha presentato nella sua mostra a La Màgia), che costituisce anche il suo<br />

straordinario “archivio”, un’ altra delle sue grandi passioni, cui ha dedicato<br />

e dedica gran parte della sua coerente e perseverante attenzione, Maurizio<br />

Nannucci. Something happened, <strong>Pistoia</strong> 2009.<br />

378 379


Maurizio Nannucci<br />

Anthology Two, 2009<br />

installazione ambientale; scritta in neon blu<br />

m 0,30 x 10,50<br />

Cortile di Villa La Màgia, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />

È l’installazione luminosa che Maurizio Nannucci ha lasciato<br />

per la collezione “in progress” di Villa La Màgia dopo la mostra<br />

che ha tenuto all’ interno del cortile, nel parco della villa e<br />

che si è distinta per l’ installazione monumentale della grande<br />

scritta sonora in neon di un rosso intenso, SOMETHING<br />

HAPPENED, posta come un monito costante sulla collina<br />

prospiciente il parco, che continua anche in questo lavoro,<br />

rivolto al concetto di universalità della forza espressa, comunque,<br />

dovunque, in ogni tempo e in ogni condizione dall’arte. In<br />

questo senso, questo monito sembra anche voler sollecitare la<br />

necessità di mantenere intatto, quanto più a lungo possibile, un<br />

patrimonio straordinario costituito da un luogo privilegiato per<br />

ricchezza naturale, estetica, culturale come Villa La Màgia, il suo<br />

parco, il suo territorio, specialmente in un periodo come quello<br />

che viviamo, quando sembra che niente abbia più valore, né la<br />

memoria storica, né la sua testimonianza ancora visibile, né la<br />

sua forza evocativa, se non come strumento di profitto tangibile<br />

e immediato. Questi interventi di Maurizio Nannucci, altamente<br />

tecnologici, dimostrano il fascino che suscita la capacità dell’ arte<br />

di trasformare in una sorta di mistero anche un mezzo altrimenti<br />

assai diversamente usato, che riesce ad unire, in un prezioso<br />

unicum il presente col passato, senza limiti di tempo e senza<br />

interruzione.<br />

380 381


MONTECATINI TERME<br />

Susumu Shingu<br />

Pol Bury<br />

383


Susumu Shingu<br />

Osaka, Giappone 1937; vive a Osaka<br />

Ha studiato all’Accademia d’Arte di Tokyo, frequentando poi, con una borsa<br />

di studio, l’Accademia di Belle Arti a Roma, dove rimase per sei anni. <strong>Un</strong>a<br />

visita a Roma del Presidente dei Cantieri navali di Osaka mentre Shingu<br />

lavorava come guida turistica fu la sua occasione. Il Presidente lo richiamò<br />

a Osaka dove gli assicurò uno studio presso i suoi cantieri e la competenza<br />

tecnica di ingegneri qualificati.<br />

È come se, nel suo lavoro “high tech”, Shingu sia riuscito a trasferire, ingigantiti<br />

e moltiplicati, gli elementi che nell’arte e nella tradizione religiosa<br />

shinto e buddista esprimono la venerazione giapponese per la natura nelle<br />

sue più dirette manifestazioni, quelle soprattutto che sfuggono allo sguardo:<br />

il movimento del vento, quello dell’acqua, espressi, come scrive Peter Buchanan<br />

(in Shingu, Parigi 2005) nei carillon eolici, nei cervi e nei pesci volanti<br />

che ondeggiano nel vento durante i festivals; nello shishi-odoshi in bambù<br />

che alternativamente si riempie d’acqua e si svuota, creando un suono intermittente,<br />

ma regolare, di percussioni, nei giardini giapponesi.<br />

Nei suoi grandi lavori cinetici, spesso quasi pale eoliche disposte a “visualizzare<br />

il vento” in sequenze identiche, variate nel loro rapporto con le forze<br />

della natura Shingu coinvolge, ovviamente, nella loro realizzazione, collaboratori<br />

e tecnici altamente specializzati, e si comporta, osserva Buchanan,<br />

quasi come un direttore d’orchestra, lavorando alla frontiera, da un lato, tra<br />

l’arte, la scienza, l’ingegneria; dall’altro tra le forze della natura e quelle del<br />

paesaggio. Ha lavorato e lavora con Renzo Piano, per il quale ha realizzato, tra<br />

le altre opere, Il vento di Colombo, nel porto di Genova nel 1992, con una lunga<br />

serie di vele bianche che evidenziano e visualizzano, ciascuna secondo un<br />

programma diverso, la forza continua del vento, animando la costa di un vivo,<br />

continuo movimento; Cielo senza limiti, ’94, all’Aeroporto Kansay International<br />

di Osaka. Tra i suoi lavori dedicati al vento Il dono del vento, 1985, Porter<br />

Square, MBTA Station; Pascolo di nubi, 1990; Giardino di Sculture, Sapporo,<br />

Giappone; Caleidoscopio a vento, 1992, Brain Center Inc., Osaka, Giappone;<br />

Dialogo con le nubi, 1998, Centro Meridiana, Lecco, Italia; Ali Cosmiche, 1999,<br />

Avenue des Champs Elysées, Parigi; Piccolo teatro di luce, 2001, Fattoria Eolia<br />

di Taikoyama, Tokyo, Giappone; Nube di luce, 2001, Il Sole 24 Ore, Milano,<br />

Italia; Carovana del vento, 2000, forse il suo lavoro più conosciuto che ha girato<br />

il mondo (Inau, Finlandia, Endor Dov, Mongolia, Sambuco, Cearà, Brasile),<br />

coinvolgendo gli abitanti delle diverse sedi, soprattutto i bambini, in ognuno<br />

dei luoghi, dipingendo e colorando le tante vele del lavoro, variandone le<br />

caratteristiche visive secondo la loro creatività, hanno come legato tra loro le<br />

diverse tradizioni: un lavoro che è riuscito a dialogare con tutti.<br />

Tra le moltissime opere di Shingu che, invece, coinvolgono l’acqua, alle quali<br />

appartiene anche Duetto d’acqua, la fontana realizzata a Montecatini e sponsorizzato<br />

dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia, mi<br />

limito a citare Il soffio delle ali, 1988; Parco Olimpico, Seoul, Corea del Sud:<br />

una grande quantità di lucidi fusi galleggianti sormontati da piccole ali; Le ali<br />

delle onde, 1991, Hiroshima, Giappone; A remi attraverso la Via Lattea, 1992,<br />

Riviera Morasaki, Kitakyushu, Giappone; il leggero e festoso Albero d’acqua,<br />

1992, Aono Bam Park, Sanda, Hyogo, Giappone; Risonanza di vita, 1999, Museo<br />

all’Aperto di Hakone, Kanagawa, Giappone; Fiore d’Acqua, 1999, Banca<br />

Popolare Italiana, Lodi, Italia; Navigatore del vento, 2005, Happy Village, Marina<br />

di Camerota, Italia.<br />

Ha lavorato anche con il coreografo Jiri Kyliàn per il balletto <strong>Un</strong> Coup de dés<br />

col Nederlands Dans Théater per il Lucent Dans Theater a L’Aja, Olanda,<br />

2005, dove il movimento della sua lucente, ‘pericolosa’ scultura di mobili<br />

punte acuminate giocava, appunto pericolosamente, con il movimento dei<br />

danzatori.<br />

Shingu ha dichiarato spesso: “I miei lavori sono strumenti per tradurre i messaggi<br />

della natura in movimenti non percepibili dallo sguardo” (intervista in<br />

P. Buchanan, in Shingu, Parigi 2005).<br />

384<br />

385


Susumu Shingu<br />

Duo acquatico, 1998<br />

acciaio inossidabile, h m 3,25<br />

Montecatini Terme, <strong>Pistoia</strong><br />

La scultura, posta all’interno di uno spazio quadrangolare che<br />

contiene l’acqua, nel verde, si compone di un lungo cilindro<br />

centrale che porta in alto l’acqua, verso un intreccio mobile di<br />

una serie di elementi tubolari che, attraverso il movimento di<br />

sottili tiranti, ricevono acqua e la rimandano in un movimento<br />

continuo, alternato, regolato da un basculante bilanciamento di<br />

pesi. L’acqua crea così un continuo gioco di ritmi e di trasparenze<br />

luminose.<br />

386 387


Pol Bury<br />

Haine Saint-Pierre, Belgio, 1922 – Parigi, 2005<br />

Pittore, scultore, creatore di gioielli, ma anche scrittore, poeta, critico d’arte,<br />

editore. Incontrava, giovanissimo, Achille Chauvé, studioso del Surrealismo,<br />

Aderì, allora, al gruppo surrealista Rupture, fondato da Chauvé nel ’34. Inizialmente<br />

influenzato da Tanguy, aderiva all’ideologia comunista e dipingeva<br />

alcuni quadri ispirati al Surrealismo. Nel ’45, conosciuto Magritte, partecipava<br />

all’Exposition Internationale du Surrealisme a Bruxelles.<br />

Dal ’42 al ’51 seguiva le linee dell’Astrattismo. Frattanto incontrava Christian<br />

Dotremont e Pierre Alechinsky, del gruppo Cobra, al quale aderiva per<br />

qualche tempo contribuendo alla redazione e realizzando illustrazioni per la<br />

rivista del gruppo e partecipando anche ad una mostra con i Cobra. Nel ’52<br />

è tra i fondatori del gruppo belga Art Abstract. Studiava, allora, i lavori di<br />

Mondrian e di Miró.<br />

Troverà infine la sua vera strada quando nel 1953, vedrà le opere di Calder e<br />

scoprirà la sua vera inclinazione. Inizia allora la sua creazione di Mobiles planes<br />

(piani bilanciati su assi mobili).<br />

Esponeva, nel ’55, con Adam, Calder, Duchamp, Jacobsen, Soto, Vasarely alla<br />

galleria parigina Denise Renée.<br />

Le sue prime opere si compongono di un supporto nero o dai colori vivi, dal<br />

quale fuoriescono filamenti di nylon, leggerissimi, delicati come antenne di<br />

insetti, di grande freschezza poetica.<br />

Ha usato in seguito anche piccole sfere in movimento su elementi piramidali,<br />

cubici, parallelepipedi, in un gioco continuo, ma sempre lentissimo, di apparizione<br />

e sparizione.<br />

Ha usato il motore elettrico dal ’57, realizzando lavori che sviluppano un movimento<br />

appena percettibile. Infatti per lui il movimento è un “simbolo di<br />

precisione e di calma, di una meditazione in atto”.<br />

Ha raggiunto, comunque, col suo lavoro, risultati di grande, ma anche delicatissima<br />

poesia, che hanno fatto di lui uno tra gli esponenti più importanti<br />

dell’ arte cinetica.<br />

Del ’76 è la sua prima Fontana idraulica, nella quale, al movimento, aggiungeva<br />

il rumore dell’acqua. Da allora ha realizzato molte fontane, utilizzando<br />

cilindri, sfere, coppelle, in acciaio inossidabile. Vi ha unito l’acqua come strumento<br />

disequilibrante dell’equilibrio instabile dei suoi elementi in acciaio.<br />

Anche Duetto d’acqua, la fontana realizzata a Montecatini, sponsorizzata dalla<br />

Fondazione Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia nel 2004, fra i suoi ultimi<br />

lavori, fa parte di questa sua attività.<br />

“Quando una fontana è nella natura” ha scritto “raggiunge il suo punto massimo,<br />

il suo apogeo. Respira e si ossigena”.<br />

Pol Bury<br />

Duetto d’acqua, 2004<br />

fontana idraulica a elementi mobili in acciaio inossidabile<br />

Montecatini Terme, <strong>Pistoia</strong><br />

L’opera si forma secondo una disposizione radiale di elementi<br />

tubolari che partono dal centro, formato pure di elementi<br />

tubolari immersi nell’acqua, acquistando una forma che<br />

sembra mimare un fiore i cui tanti petali, mossi elettricamente,<br />

raccolgono acqua dal basso e la rimandano, con movimenti<br />

alternati, creando una mobile e iridescente corona di acqua.<br />

Il movimento, lento e continuo, trasforma continuamente sia la<br />

forma e la dimensione della stessa scultura-fontana che quella<br />

della corona d’acqua in continuo movimento. È un notevole<br />

esempio di arte cinetica applicata.<br />

388 389


390 391


393<br />

APPARATI


Le opere in mostra appartengono alla<br />

collezione della Fondazione Cassa<br />

di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia fatta<br />

eccezione per<br />

Collezione Biblioteca Forteguerriana,<br />

<strong>Pistoia</strong> pp. 26-29, 58-59<br />

Collezione Istituto d’Arte “Policarpo<br />

Petrocchi”, <strong>Pistoia</strong> pp. 30-31<br />

Collezione Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e<br />

Pescia S.p.A. pp. 34-39, 48-51, 54-55, 64-65,<br />

68-71, 76-77, 86-91, 96-97, 112-113, 116-<br />

117, 124-127, 174-185, 196-197, 208-209,<br />

218-219, 252-253.<br />

Collezione Palazzo Fabroni, <strong>Pistoia</strong> pp. 152-<br />

153<br />

Famiglia Gordigiani pp. 220-221<br />

Roberto Barni pp. 230-231<br />

Umberto Buscioni pp. 240-243<br />

Gianni Ruffi pp. 250-251<br />

BIBLIOGRAFIA GENERALE<br />

La Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> nel suo<br />

primo centenario, <strong>Pistoia</strong> 1931<br />

A. Parrochi, Artisti toscani del primo<br />

Novecento, Firenze 1958<br />

M. Tuci, Dieci artisti pistoiesi della<br />

generazione di mezzo, in “La Nazione”,<br />

gennaio 1965<br />

C. Vivaldi, La scuola di <strong>Pistoia</strong>, in<br />

“Collage”, 6 settembre 1966, pp. 73-75.<br />

A. Ciattini, La vocazione di <strong>Pistoia</strong>. Artisti<br />

pistoiesi contemporanei, Firenze 1970<br />

Scultura toscana del Novecento, Firenze 1980<br />

La città e gli artisti. <strong>Pistoia</strong> tra avanguardia e<br />

Novecento, cat. mostra a cura di M. C. Mazzi<br />

e C. Sisi, Firenze 1980<br />

Artisti e cultura visiva del Novecento, <strong>Pistoia</strong><br />

1981<br />

L.-V. Masini, Arte contemporanea. La<br />

linea dell’unicità. Arte come volontà e non<br />

rappresentazione, voll. 1-2, Firenze 1989<br />

Raccolta autori pistoiesi del Novecento, cat.<br />

mostra, <strong>Pistoia</strong> 1989<br />

M. Pratesi, G. Uzzani, L’Arte italiana del<br />

Novecento. La Toscana, Venezia 1991<br />

L.-V. Masini, Arte contemporanea. La linea<br />

del modello. Arte come progetto del mondo,<br />

voll. 3-4, Firenze 1996<br />

Cultura figurativa fra le due guerre. <strong>Pistoia</strong><br />

e la situazione italiana, atti del corso di<br />

aggiornamento a cura di C. Sisi, Scuola<br />

IRRSAE Toscana, <strong>Pistoia</strong> 1997<br />

E. Bardazzi, La Mostra del bianco e nero a<br />

<strong>Pistoia</strong> del 1913 e la rinascita dell’incisione<br />

in Italia del primo Novecento, in Cultura<br />

figurativa fra le due guerre, cit.<br />

Sol Lewitt in Italia, a cura di B. Corà, Siena-<br />

Prato 1998<br />

G. Damiani, La Scuola pistoiese tra le due<br />

guerre, <strong>Un</strong> episodio del Novecento italiano,<br />

Firenze 2000<br />

Motivi e figure nell’arte toscana del XX <strong>secolo</strong>,<br />

a cura di C. Sisi, Pisa 2000<br />

Continuità. Arte in Toscana, cat. mostra a<br />

cura di A. Boatto, Prato-Siena 2002<br />

Percorsi della contemporaneità. Arti visive in<br />

Toscana 1945/2000, a cura di M. G. Messina<br />

e G. Uzzani, Tra Art Strumenti, CD Firenze<br />

2002<br />

Magnete. Presenze artistiche straniere in<br />

Toscana nella seconda metà del XX <strong>secolo</strong>,<br />

cat. mostra a cura di Angea Vattese,<br />

Fattoria di Celle, Santomato, <strong>Pistoia</strong>, 2002,<br />

Maschietto&Musolino, Siena.<br />

Renzo Agostini. Il “Cenacolo” pistoiese di<br />

Giovanni Costetti e l’alternativa del colore,<br />

cat. mostra a cura di R. Campagna, <strong>Pistoia</strong><br />

2003<br />

I Musei di <strong>Pistoia</strong>. Vademecum, <strong>Pistoia</strong> 2004,<br />

S. Lucchesi, In visita. Giovani artisti a<br />

<strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2004<br />

Sol LeWitt. Wall Drawing # 1126 Whirls and<br />

Twirls 1 Reggio Emilia, <strong>Pistoia</strong> 2004<br />

La Scuola di <strong>Pistoia</strong>. Natura e oggetto, cat.<br />

394 395


mostra a cura di L. Saccà, Monsummano<br />

Terme 2004<br />

Sonde. <strong>Pistoia</strong>. Dieci anni con gli artisti a<br />

Palazzo Fabroni, giornale della mostra a<br />

cura di B. Corà e M. Panzera, <strong>Pistoia</strong> 2004<br />

Il nuovo padiglione di emodialisi all’Ospedale<br />

di <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2005<br />

Robert Morris. Less than (Reggio Emilia),<br />

<strong>Pistoia</strong> 2005<br />

Claudio Parmiggiani, Pinxit et celavit, <strong>Pistoia</strong><br />

2005<br />

Daniel Buren. Cabane eclatée aux 4 salles,<br />

<strong>Pistoia</strong> 2005<br />

Arte in Maremma nella prima metà del<br />

Novecento, cat. mostra a cura di E. Crispolti,<br />

A. Mazzanti, L. Quattrocchi, Cinisello<br />

Balsamo 2005-2006<br />

<strong>Un</strong> palazzo nuovo di stile vecchio. La sede<br />

della Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong>, a cura di<br />

G. Chelucci, <strong>Pistoia</strong> 2005-2006<br />

Anne + Patrick Poirier, La Magia, <strong>Pistoia</strong><br />

2006<br />

N. Miceli, S. Simoncini, Percorsi della<br />

Figurazione a <strong>Pistoia</strong>, Dalle antologie della<br />

Circoscrizione 2 alle opere recenti, <strong>Pistoia</strong><br />

2006<br />

Marco Bagnoli, La Magia, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />

Fattoria di Celle Collezione Gori. <strong>Un</strong> percorso<br />

nell’arte ambientale, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />

Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, a cura di C. Sisi,<br />

Cinisello Balsamo 2007<br />

Fattoria di Celle, Collezione Gori, <strong>Un</strong> percorso<br />

nell’Arte Ambientale, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />

Anselm Kiefer. Die Grosse Fracht, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />

Hidetoshi Nagasawa. Il giardino rovesciato,<br />

La Magia, <strong>Pistoia</strong> 2008<br />

Arte ambientale. La Fattoria di Celle.<br />

Collezione Gori, <strong>Pistoia</strong> 2008-2009<br />

Anselm Kiefer. Cette obscure clarté qui tombe<br />

des étoiles, <strong>Pistoia</strong> 2009<br />

Maurizio Nannucci Something happened, La<br />

Magia, <strong>Pistoia</strong> 2009<br />

INDICE DEI NOMI<br />

A<br />

Abakanowicz, Magdalena 279<br />

Adam, Henri-Georges 388<br />

Agostini, Renzo 6, 14, 44, 45, 61, 66, 84, 85,<br />

86, 88, 90, 92, 110, 190, 269, 394, 396<br />

Albers, Josef 21, 284<br />

Alberti, Raphael 265<br />

Alechinsky, Pierre 388<br />

Alighieri, Dante 13, 14, 24, 25, 93<br />

Amati Cellesi, famiglia 360<br />

Amati Cellesi, Marcella 360<br />

Amati, Giuseppe 360<br />

Andreotti, Libero 66<br />

Appel, Karel 16, 143<br />

Argan, Giulio Carlo 144, 284<br />

Attamanti, famiglia 360<br />

B<br />

Bachmann, Ingeborg 344<br />

Bacon, Francis 275<br />

Bagnoli, Marco 7, 291, 359, 372, 374<br />

Baj, Enrico 16, 143<br />

Balla, Giacomo 8, 12, 21, 32, 283, 284, 285<br />

Barilli, Renato 45, 234, 235, 244, 245<br />

Barni, Roberto 6, 19, 223, 224, 225, 226, 228,<br />

230, 232, 234, 244, 245, 255, 260<br />

Baroni, Nello 57<br />

Barovier, Angelo 8<br />

Bartolini, Luigi Bruno 17<br />

Bartolini, Sigfrido 4, 6, 7, 9, 14, 17, 33, 74, 75,<br />

84, 85, 167, 169, 170, 190, 291, 293,<br />

294, 296, 396<br />

Baudelaire, Charles 13, 14, 24<br />

Beato Angelico 92<br />

Beatrice di Pian degli Ontani 169<br />

Beckett, Samuel 265<br />

Bellasi, Pietro 93<br />

Berardi, Pier Niccolò 57<br />

Bernard, Emile 85<br />

Berti, Vinicio 17, 160<br />

Beuys, Joseph 19, 198, 340<br />

Biagi, Massimo 259, 265, 266<br />

Bistolfi, Leonardo 24, 30<br />

Boccioni, Umberto 12, 32, 284<br />

Boetti, Alighiero 20, 244<br />

Boldini, Giovanni 169<br />

Borges, Jorge Luis 366<br />

Bosch, Hieronymus 275<br />

Bovani, Franco 7, 259, 260, 261, 262<br />

Bragaglia, fratelli 284<br />

Brahe, Tycho 362<br />

Branca, Mirella 53, 224<br />

Brancusi, Costantin 190<br />

Braque, Georges 32, 130<br />

Brunelleschi, Gino 44<br />

Brunetti, Bruno 17, 160<br />

Bruno, Giordano 330, 366<br />

Buchanan, Peter 384<br />

Bugiani, Pietro 4, 6, 15, 44, 56, 61, 66, 84, 92,<br />

93, 94, 96, 98, 100, 102, 104, 105, 110,<br />

111, 173, 182, 190, 195, 269, 396<br />

Buonarroti, Michelangelo 25, 30, 67<br />

Buontalenti, Bernardo 360<br />

Buren, Daniel 17, 290, 291, 309, 334, 336<br />

Burri, Alberto 244, 275, 279, 280<br />

Bury, Pol 291, 383, 388, 389<br />

Buscioni, Umberto 6, 9, 19, 20, 57, 223, 224,<br />

234, 235, 236, 238, 240, 242, 244, 245,<br />

255, 260, 299, 300<br />

Butler, Reg 143, 144<br />

C<br />

Calabrese, Omar 344<br />

Calandra, Davide 24, 25<br />

Calder, Alexander 362, 388<br />

Caligiani, Alberto 6, 14, 21, 32, 44, 56, 61, 66,<br />

67, 68, 70, 72, 74, 82, 110, 195<br />

Calvesi, Maurizio 330<br />

Campana, Dino 12, 14, 24, 45, 48<br />

Campana, Rossella 44<br />

Cantagalli, Ulisse e Romeo 53<br />

Cappellini, Alfiero 6, 15, 44, 56, 61, 66, 84,<br />

92, 104, 105, 106, 108, 110, 111, 112,<br />

143, 182, 186, 188, 195, 269, 396<br />

Cappugi, Luana 114<br />

Carandente, Giovanni 350<br />

Caravaggio, Michelangelo Merisi 275<br />

Cardini, Franco 294, 296<br />

Carena, Felice 15, 110<br />

Carlesi, Dino 187<br />

Carrà, Carlo 104, 169, 284<br />

Casanova, Fabio 14, 15, 53, 84, 92, 110, 195<br />

Casorati, Felice 15, 66, 92, 93, 110, 396<br />

Castellini, Luisa 274<br />

Cattabianchi, Lino 169<br />

Cecchi, Emilio 48<br />

Celant, Germano 17, 151, 326<br />

Celestini, Celestino 14, 63<br />

396 397


Céline, Louis-Ferdinand 362<br />

Cellesi, famiglia 360<br />

Cesarini, Paolo 362<br />

Cézanne, Paul 11, 12, 15, 44, 63, 85, 92, 94,<br />

102, 110, 397<br />

Chadwick, Lynn 143, 144<br />

Chagall, Marc 85<br />

Chauvé, Achille 388<br />

Chiappelli, Francesco 6, 53, 61, 63, 64<br />

Chigi Saracini, famiglia 364<br />

Chini, Galileo 8, 12, 13, 16, 43, 52, 53, 54, 56,<br />

92, 130<br />

Ciattini, Mario 15, 104<br />

Cimabue 250<br />

Clairvaux, Bernardo di 169<br />

Conti, Primo 12, 32, 33, 34, 105, 173, 190<br />

Coppedè, Gino 14, 24<br />

Corneille, Guillaume 16, 143<br />

Corneli, Fabrizio 7, 291, 359, 362, 363, 364<br />

Corra, Bruno 284<br />

Corsini, Vittorio 291, 353, 354, 356<br />

Costetti, Giovanni 14, 24, 43, 44, 45, 46, 48,<br />

49, 50, 56, 63, 64, 66, 84, 85, 86, 92,<br />

93, 100, 102, 104, 130, 160, 394<br />

Cremona, Tranquillo 169<br />

D<br />

d’Afflitto, Chiara 92<br />

Dami, Andrea 20, 259, 269, 270<br />

Dangelo, Sergio 143<br />

D’Annunzio, Gabriele 13, 44<br />

Daumier, Honoré 63<br />

De Carolis, Adolfo 13, 14, 24<br />

De Chirico, Giorgio 19, 130, 173, 224, 366<br />

della Robbia, Luca 53<br />

Del Serra, Alfio 190<br />

Depero, Fortunato 14<br />

De Pisis, Filippo 130, 173<br />

de’ Ricci, Giulio 53<br />

De Robertis, Giuseppe 48<br />

de Silva, Vieira 169<br />

De Stael, Anne-Louise Germaine Necke 186<br />

De Witt, Anthony 66<br />

Diaghilev, Sergej 284<br />

Di Corato, Luigi 354<br />

Dorazio, Piero 21, 284<br />

Dorfles, Gillo 151<br />

Dotremont, Christian 388<br />

Dubuffet, Jean 114<br />

Duchamp, Marcel 20, 244, 388<br />

Dufy, Raoul 186<br />

E<br />

Eccher, Danilo 130<br />

Ejzenstejn, Sergej Michajlovič 344<br />

El Greco, Dominikos Theotokopoulos 45<br />

Ensor, James 18, 182<br />

Ernst, Max 18<br />

Exter, Alexandra 33, 34<br />

F<br />

Fabbri, Agenore 16, 129, 143, 144, 146, 148,<br />

291, 356<br />

Fabbri, Alfredo 17<br />

Fabro, Luciano 198<br />

Faggi, Alfeo 24<br />

Farulli, Fernando 173<br />

Fattori, Giovanni 56, 92, 114<br />

Federico II di Danimarca 362<br />

Finlay, Ian Hamilton 20, 244<br />

Fiumi, Cesare 173<br />

Fludd, Robert 330, 366<br />

Fondi, Renato 12, 13, 24, 44, 56, 64<br />

Fontana, Lucio 143<br />

Francesco de’ Medici 360<br />

Franchi, Raffaello 169<br />

Francolini Giachi, Anna 265<br />

Frosini, Aldo 6, 17, 18, 167, 173, 186, 188,<br />

190, 195, 196<br />

Fusi, Lorenzo 356<br />

G<br />

Gallizio, “Pinot” Giuseppe 16, 143<br />

Gallo, Oscar 190<br />

Gamberini, Italo 57<br />

Gauguin, Paul 85<br />

Gelli, Valerio 6, 17, 18, 167, 190, 191, 192<br />

Giacometti, Alberto 130<br />

Ginna, Arnaldo 284<br />

Giotto 15, 92, 93, 102, 173, 195, 250<br />

Giuntoli, Donatella 187<br />

Gohr, Sigfried 340<br />

Gordigiani, Remo 6, 17, 19, 167, 173, 182,<br />

190, 214, 215, 216, 218, 220, 269, 397<br />

Gori, Federico 2, 20, 273, 274, 275, 276<br />

Gori, Giuliano 3, 17<br />

Goya, Francisco José de Goya y Lucientes<br />

63<br />

Grossi, Pietro 378<br />

Grosz, George 182<br />

Gruni, Zoè 20, 273, 279, 280<br />

Guarnieri, Sarre 57<br />

Guasti, Marcello 173<br />

Guazzino, Lorenzo 53<br />

Guerrini, Carlo 195<br />

Guggenheim, Peggy 151<br />

Guttuso, Renato 186<br />

H<br />

Hemingway, Ernest 345<br />

Hobbs, Robert 312<br />

Hopper, Edward 275<br />

I<br />

Iacomelli, Mirando 6, 17, 18, 167, 182, 183,<br />

184, 190, 195<br />

Iacuzzi, Annamaria 3, 16, 67, 68, 72, 105, 111,<br />

121, 124, 173, 174, 182, 198, 215<br />

Iacuzzi, Paolo Fabrizio 16, 110, 121, 124,<br />

182, 191<br />

Innocenti, Giulio 6, 14, 19, 32, 33, 56, 61, 66,<br />

74, 75, 76, 78, 80, 82, 169, 224<br />

J<br />

Jacobsen, Robert 388<br />

Johns, Jasper 312<br />

Jorn, Asger 16, 143<br />

K<br />

Kandinskij, Vassilij 44, 85, 130, 173<br />

Karavan, Dani 17, 290, 309, 316, 318<br />

Kenzo Tange 314<br />

Kiefer, Anselm 17, 290, 339, 340, 341, 344,<br />

345<br />

King, Martin Luther 356<br />

Kirkeby, Per 340<br />

Klein, Yves 320<br />

Klimt, Gustav 52<br />

Koenig, Théodor 143<br />

L<br />

La Murrina, vetreria 8<br />

Landini, Lando 6, 17, 18, 167, 186, 187, 188<br />

Lanza del Vasto, Giuseppe 12, 13, 44, 56, 84,<br />

86, 90, 92<br />

Lapi, Cleto 182<br />

Lega, Silvestro 24, 32, 33, 44, 66, 169<br />

Levasti, Arrigo 32<br />

Levi Montalcini, Rita 318<br />

Lewitt, Sol 17, 290, 303, 304, 309, 324, 326,<br />

328<br />

Lippi, Andrea 11, 24, 25, 26, 28, 30, 33, 56,<br />

66<br />

Longhi, Roberto 186<br />

Lonzi, Carla 199<br />

Lucarelli, Marcello 6, 17, 18, 167, 173, 174,<br />

195<br />

Lunari, Giuseppe 195<br />

Luparini, Luigi 24<br />

Lusanna, Leonardo 57<br />

M<br />

Magnelli, Alberto 130, 161<br />

Magni, Riccardo 110<br />

Magritte, René 388<br />

Malevič, Kazimir Severinovič 21, 151, 284<br />

Manzini, Gianna 74<br />

Manzoni, Piero 244, 312<br />

Maraini, Fosco 25<br />

Marey, Etienne Jules 21, 284<br />

Margheri, Rodolfo 190<br />

Marinetti, Filippo Tommaso 13, 284<br />

Marini, Egle 6, 15, 61, 110, 114, 115, 116,<br />

118, 130, 173, 190, 195<br />

Marini, Marino 3, 4, 6, 7, 12, 15, 16, 45, 50,<br />

66, 114, 115, 116, 118, 129, 130, 131,<br />

132, 134, 136, 138, 140, 190, 191, 347,<br />

350<br />

Mariotti, Umberto 6, 15, 44, 56, 61, 66, 84,<br />

92, 110, 111, 112, 182, 186, 190, 192,<br />

195, 269, 398<br />

Marrocco, Armando 269<br />

Martini, Arturo 130<br />

Martini, Quinto 190<br />

Masaccio 92, 93, 116<br />

Matisse, Henri 14, 15, 75, 93, 100, 182, 186,<br />

190, 195, 244<br />

Matta, Roberto Sebastian 16, 143<br />

Mazzoni, Angiolo 14<br />

Mc Luhan, Marshall 9<br />

Melani, Fernando 6, 9, 14, 18, 74, 75, 80,<br />

167, 182, 198, 199, 200, 202, 204, 206,<br />

208, 210, 212, 269, 304<br />

Melani, Francesco 17, 188<br />

Melani, Vasco 111<br />

Melis, Gino 44<br />

Michelazzi, Giovanni 52<br />

Michelucci, Giovanni 6, 8, 12, 13, 14, 15, 18,<br />

24, 32, 43, 44, 56, 57, 58, 64, 66, 84,<br />

92, 110, 124, 177, 190, 191, 398<br />

Migliorati, Fabio 274<br />

Migliorini, Ermanno 160<br />

398 399


Miró, Joan 84, 388<br />

Mollek Burmeisterm, Katalin 291, 370<br />

Mondrian, Piet 151, 330, 388<br />

Monet, Claude 114, 186, 398<br />

Monnini, Alvaro 17, 160<br />

Moore, Henry 190<br />

Morandi, Giorgio 173<br />

Morlotti, Ennio 143, 218<br />

Morozzi, Rosanna 24, 25, 32, 33, 34<br />

Morris, Robert 17, 290, 309, 312, 314, 330<br />

Moser, Kolo 53<br />

Munari, Bruno 151<br />

Muybridge, Eadweard 21, 284<br />

N<br />

Nagasawa, Hidetoshi 7, 17, 291, 309, 320,<br />

322, 324, 328, 359, 376<br />

Nannini, Mario 11, 25, 32, 33, 34, 36, 38, 40,<br />

56, 66<br />

Nannucci, Maurizio 7, 291, 359, 378, 380<br />

Narni 169<br />

Natalini, Adolfo 6, 19, 20, 223, 224, 234, 244,<br />

255, 256<br />

Nativi, Giuseppe 160<br />

Nativi, Gualtiero 16, 17, 129, 160, 161, 162,<br />

164<br />

Nigro, Mario 16, 129, 151, 152, 154, 156, 158,<br />

265<br />

Noland, Kenneth 21, 284<br />

Notte, Emilio 14<br />

Nuti, Mario 17, 160<br />

O<br />

Occhini, Barna 169<br />

Oldenburg, Claes 244<br />

P<br />

Pacini Michelucci, Eloisa 110<br />

Pacini, Piero 12<br />

Papini, Giovanni 44, 48, 56<br />

Parmiggiani, Claudio 17, 290, 309, 330, 332<br />

Parronchi, Alessandro 14, 21, 25, 121<br />

Pascali, Pino 244<br />

Pascoli, Giovanni 14, 24, 74, 84<br />

Pasolini, Pier Paolo 10<br />

Pellizza da Volpedo, Giuseppe 284<br />

Pericoli, Angela 160<br />

Petrarca, Francesco 14<br />

Petrocchi, Policarpo 169, 265, 269<br />

Piano, Renzo 384<br />

Picasso, Pablo 114, 130, 186, 399<br />

Piero della Francesca 15, 93, 100, 160, 162,<br />

186, 224, 330, 399<br />

Pistoletto, Michelangelo 363<br />

Pizzorusso, Claudio 53<br />

Plensa, Jaume 269<br />

Poe, Edgard Allan 13, 24, 25<br />

Poirier, Anne e Patrick 7, 291, 359, 366, 367,<br />

370<br />

Polke, Sigmar 340<br />

Pollock, Jackson 186<br />

Pontormo, Jacopo Carucci 25, 275<br />

Prampolini, Enrico 66, 284<br />

Prezzolini, Giuseppe 24<br />

R<br />

Ranaldi, Renato 198<br />

Rauschenberg, Robert 187, 312<br />

Recchi, Mario 66<br />

Reinhardt, Ad 21, 284<br />

Renée, Denise 388<br />

Restany, Paul 265, 266<br />

Richter, Gerhard 340<br />

Rigotti, Annibale 52<br />

Rivalta, Augusto 24<br />

Rodin, Odile 130<br />

Romanelli, Carlo 24<br />

Ronte, Dieter 143<br />

Rosai, Ottone 14, 15, 44, 56, 63, 66, 82, 93,<br />

104, 169, 190, 399<br />

Rosatelli, Renato 110<br />

Rosso, Medardo 130<br />

Roter, Dieter 16<br />

Rothko, Marc 21, 186, 284, 399<br />

Rothko, Mark 21<br />

Rubino, Edoardo 24<br />

Rublëv, Andrej 275<br />

Ruffi, Gianni 4, 5, 6, 7, 9, 19, 20, 223, 224,<br />

225, 234, 244, 245, 246, 248, 250, 252,<br />

255, 260, 290, 309, 324, 328, 399<br />

S<br />

Salviati, vetreria 8<br />

Santi, Piero 93<br />

Sarfatti, Margherita 11, 84, 104, 130<br />

Savinio, Alberto 19, 169, 224<br />

Savino, Giancarlo 104<br />

Scanavino, Emilio 16, 143<br />

Scarpa, Carlo 8<br />

Segantini, Segantini 284<br />

Seguso, vetreria 8<br />

Sensani, Gian Carlo 66<br />

Serpieri, Arrigo 169<br />

Settimelli, Emilio 284<br />

Severini, Gino 161, 284<br />

Sewell Costetti, Mai 46<br />

Simoncini, Siliano 169, 173, 195, 199, 261,<br />

262, 265, 294, 395<br />

Sironi, Mario 169<br />

Sisi, Carlo 8, 45, 394<br />

Soffici, Ardengo 12, 15, 32, 33, 34, 44, 48, 92,<br />

93, 104, 169<br />

Soldati, Atanasio 151<br />

Solinas, Stelio 169<br />

Soto, Jesús Rafael 388<br />

Spadini, Armando 110<br />

Stanghellini, Arturo 25, 74<br />

Steingräber, Erich 131<br />

Stonorov, Oskar Gregory 18, 177<br />

Strawinsky, Igor 284<br />

Susumu Shingu 291, 383, 384<br />

T<br />

Thun, Matteo 8<br />

Tommasi 63<br />

Toso, vetreria 8<br />

Toti, Chiara 76, 105<br />

Treves editori, fratelli 13<br />

Trombadori, Francesco 186<br />

Tuci, Cristina 19<br />

Twombly, Cy 275<br />

U<br />

<strong>Un</strong>garetti, Giuseppe 48<br />

Utens, Giusto 360<br />

V<br />

Valiani, Arrigo 111<br />

van Doesburg, Theo 151<br />

van Eych, Jan 93<br />

Van Gogh, Vincent 182<br />

Vannetti, Gianni 310<br />

Vasarely, Victor 388<br />

Vedova, Emilio 265, 275<br />

Venini, vetreria 8<br />

Vergine, Lea 362<br />

Viani, Alberto 14<br />

Viani, Lorenzo 14, 25, 44, 66, 74, 182<br />

Villon, François 186<br />

Vittorini, Elio 14, 67, 68, 72<br />

Vivaldi, Cesare 19, 224, 235, 394<br />

Vivarelli, Jorio 4, 6, 17, 18, 167, 173, 177, 178,<br />

180, 190, 195, 269<br />

Volpi, Marisa 151, 156<br />

W<br />

Warhol, Andy 255, 256<br />

Weiermair, Peter 330<br />

West, Franz 279<br />

Wirkkala, Tapio 8<br />

Y<br />

Yourcenar, Marguerite 366<br />

Z<br />

Zanini, Gigiotti 14<br />

Zanzotto, Corrado 6, 15, 16, 21, 44, 56, 61,<br />

84, 92, 110, 111, 121, 122, 124, 126,<br />

182, 190, 191, 400<br />

Zecchin, Vittorio 8<br />

Zeti, Giuliano 173<br />

Zurbaran, Francisco de 114<br />

400<br />

401


Finito di stampare nel mese di maggio 2010 da Grafica Lito, Calenzano, per conto de Gli Ori, <strong>Pistoia</strong><br />

403

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