1910-2010. Un secolo d'arte a Pistoia
Opere dalla collezione della fondazione della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia
Opere dalla collezione della fondazione della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia
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<strong>1910</strong>-<strong>2010.</strong> UN SECOLO D'ARTE A PISTOIA<br />
OPERE DALLA COLLEZIONE DELLA FONDAZIONE DELLA CASSA DI RISPARMIO DI PISTOIA E PESCIA<br />
3
<strong>1910</strong>-<strong>2010.</strong> UN SECOLO D'ARTE A PISTOIA<br />
OPERE DALLA COLLEZIONE DELLA FONDAZIONE DELLA CASSA DI RISPARMIO DI PISTOIA E PESCIA<br />
a cura di<br />
Lara-Vinca Masini<br />
1
Volume realizzato in occasione della mostra<br />
<strong>1910</strong>-<strong>2010.</strong> <strong>Un</strong> <strong>secolo</strong> d’arte a <strong>Pistoia</strong><br />
Opere dalla collezione della Fondazione<br />
Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia<br />
nell’ambito del progetto<br />
L’arte del XX <strong>secolo</strong> nelle collezioni<br />
delle fondazioni bancarie di Venezia e <strong>Pistoia</strong><br />
<strong>Pistoia</strong>, Palazzo Fabroni<br />
23 maggio – 25 luglio 2010<br />
Mostra promossa da<br />
In collaborazione con<br />
COMUNE DI PISTOIA<br />
Organizzata da<br />
<strong>Pistoia</strong> Eventi Culturali s.c.r.l.<br />
Sponsor tecnico<br />
Edilasfalti, <strong>Pistoia</strong><br />
Fondazione Cassa di Risparmio<br />
di <strong>Pistoia</strong> e Pescia<br />
Presidente<br />
Ivano Paci<br />
Vice Presidente<br />
Giuliano Gori<br />
Consiglio di Amministrazione<br />
Giuseppe Alibrandi<br />
Roberto Cadonici<br />
Luca Iozzelli<br />
Giulio Masotti<br />
Cristina Pantera<br />
Collegio dei Revisori<br />
Alessandro Michelotti Presidente<br />
Alessandro Pratesi<br />
Gino Spagnesi<br />
Consiglio Generale<br />
Roberto Baroncelli<br />
Roberto Barontini<br />
Sauro Becattini<br />
Simonetta Bellucci<br />
Adamo Bugelli<br />
Ermanno Bujani<br />
Vito Cappellini<br />
Marco Carrara<br />
Mario De Pasquale<br />
Romano Del Nord<br />
Silvio Doretti<br />
Eugenio Fagnoni<br />
Roberto Fambrini<br />
Maurizio Gori<br />
Marzio Magnani<br />
Alfredo Mati<br />
Giorgio Petracchi<br />
Giovanni Pieraccioli<br />
Riccardo Rastelli<br />
Claudio Rosati<br />
Marcello Suppressa<br />
Giovanni Tarli Barbieri<br />
Cecilia Turco<br />
Direttore<br />
Umberto Guiducci<br />
Coordinamento generale della mostra<br />
Giuliano Gori<br />
Umberto Guiducci<br />
Elena Testaferrata<br />
Segreteria organizzativa<br />
Elena Ciompi<br />
Annamaria Iacuzzi<br />
in collaborazione con<br />
Elisabetta Bucciantini<br />
Ufficio Stampa<br />
Ambra Nepi Comunicazione<br />
Progetto di allestimento<br />
Marco Bernardi<br />
Realizzazione allestimento<br />
Edilasfalti srl<br />
in collaborazione con<br />
Cino Gori snc, Dolfi & Lepori<br />
Galleria d’arte Vannucci<br />
Falegnameria Salvadori, Vetreria Soldi<br />
Cartellonistica e segnaletica<br />
Multideco, <strong>Pistoia</strong><br />
Trasporti e logistica<br />
Arteria srl, Scandicci Firenze<br />
Tosi Valerio Trasporti, <strong>Pistoia</strong><br />
Assicurazione<br />
Lloyd’s Fine Arts<br />
Servizio di biglietteria e sorveglianza<br />
Coop. Le Macchine Celibi, Bologna<br />
Si ringrazia per la disponibilità accordata<br />
Comune di Quarrata; Cassa di Risparmio<br />
di <strong>Pistoia</strong> e Pescia S.p.A.; Usl 3 di <strong>Pistoia</strong>;<br />
Biblioteca Forteguerriana; Comune di <strong>Pistoia</strong>;<br />
Chiesa dell’Immacolata di <strong>Pistoia</strong>; Chiesa<br />
di San Paolo di <strong>Pistoia</strong>; Museo Marino<br />
Marini di <strong>Pistoia</strong>; Azienda delle Terme di<br />
Montecatini Terme; Comune di Montecatini<br />
Terme; Galleria Il Ponte di Firenze; Istituto<br />
Statale d’Arte “P. Petrocchi”; Soprintendenza<br />
BAPSAE di Firenze, Prato, <strong>Pistoia</strong><br />
Realizzazione del volume<br />
Gli Ori, <strong>Pistoia</strong><br />
Cura scientifica della mostra e del volume<br />
Lara-Vinca Masini<br />
Profili e schede delle opere<br />
Lara-Vinca Masini<br />
Annamaria Iacuzzi, pp. 110-113, 186-193<br />
Ricerche bibliografiche<br />
Cecilia Barbieri<br />
Editing redazione e impaginazione<br />
Gli Ori Redazione<br />
Annamaria Iacuzzi<br />
Prestampa<br />
CTP, Firenze<br />
Stampa<br />
Grafica Lito, Calenzano<br />
Campagna fotografica<br />
Lorenzo D’Angiolo<br />
Keeho Casati (installazioni<br />
di arte ambientale)<br />
Referenze fotografiche<br />
Aurelio Amendola<br />
Carlo Chiavacci<br />
Federico Gori<br />
Giuseppe Marraccini<br />
Courtesy Galleria Il Ponte<br />
Courtesy Polistampa<br />
Il volume è accompagnato da un DVD<br />
Immagini Movimento Suono Parole:<br />
Arte nel territorio di Tayu Vlietstra<br />
Musiche composte ed eseguite da<br />
Roberto Fabbriciani<br />
© Copyright 2010<br />
Fondazione Cassa di Risparmio<br />
di <strong>Pistoia</strong> e Pescia<br />
per l’edizione, Gli Ori, <strong>Pistoia</strong><br />
ISBN 978-88-7336-411-5<br />
Tutti i diritti riservati<br />
www.gliori.it<br />
info@gliori.it<br />
www.fondazionecrpt.it<br />
3
Abbiamo più volte reso noto, in occasioni pubbliche, che la Fondazione Cassa<br />
di Risparmio, intendeva come un servizio di grande rilievo culturale alla città<br />
e al territorio, quello di raccogliere opere di artisti pistoiesi che nel corso dei<br />
secoli, ma soprattutto nel corso del Novecento, hanno rappresentato una presenza<br />
di non secondario rilievo nel panorama artistico italiano, e non solo.<br />
Soprattutto per gli artisti pistoiesi del <strong>secolo</strong> scorso volevamo evitare che le<br />
loro opere fossero presenti solo in collezioni private, o visibili solo in sporadiche<br />
occasioni o in raccolte di altre città.<br />
Nel tempo, senza fretta, la nostra Fondazione ha acquistato o direttamente<br />
dalle famiglie o in aste o a trattativa privata, opere ritenute idonee a testimoniare<br />
in modo significativo l’attività di un determinato autore nato o cresciuto<br />
o formatosi nel nostro territorio anche se, crescendo in notorietà e importanza<br />
talora se ne è allontanato, peraltro senza mai recidere del tutto i legami con la<br />
terra di origine.<br />
Basta citare i nomi di Marino Marini, Agenore Fabbri, Jorio Vivarelli, Pietro<br />
Bugiani, Sigfrido Bartolini, Fernando Melani, Mario Nigro, Gualtiero Nativi,<br />
Gianni Ruffi, Roberto Barni, Umberto Buscioni e tanti altri per rendersi<br />
conto della ricchezza del panorama che abbiamo davanti. Questa attività di<br />
raccolta sta ovviamente proseguendo, seppure in modo più attenuato rispetto<br />
al passato.<br />
Manca, alla nostra collezione, una sede espositiva permanente che possa accogliere<br />
anche opere possedute da altri enti; ma è un obbiettivo al quale pensiamo<br />
da tempo e che cercheremo di realizzare.<br />
Intanto nelle accoglienti sale del Palazzo Fabroni, sono finalmente visibili<br />
ai pistoiesi, ed a tutti i visitatori, un’ampia rassegna di dipinti, facente parte<br />
della raccolta di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio, rappresentativi<br />
della straordinaria fioritura artistica nel campo delle arti visive che, come<br />
dicevo, ha caratterizzato il Novecento pistoiese.<br />
Il catalogo, accuratamente predisposto dalla dottoressa Lara-Vinca Masini,<br />
che ha anche curato la selezione delle opere da esporre e le schede illustrative<br />
riguardanti gli autori, è già di per sé assai significativo, realizzato con la consueta<br />
cura della casa editrice Gli Ori.<br />
Ma la mostra non si limita ad esporre una parte dalle opere di proprietà della<br />
Fondazione.<br />
Abbiamo colto questa occasione anche per offrire un panorama visivo delle<br />
opere di artisti contemporanei, stranieri ed italiani, disseminate ormai sull’intero<br />
territorio provinciale, cha la Fondazione ha appositamente commissionato<br />
e poi donato per arricchire ambienti esterni e interni particolarmente significativi;<br />
basta ricordare i nomi di Susumu Shingu, Pol Bury, Robert Morris,<br />
Dani Karavan, Daniel Buren, Gianni Ruffi, Anne e Patrick Poirier, Roberto<br />
Barni, Anselm Kiefer, Claudio Parmiggiani per tacere di altri per comprendere<br />
il progressivo arricchimento, sul nostro territorio, di presenze che rappresentano<br />
già le tappe ideali di un percorso di grande interesse culturale e di<br />
non secondario richiamo turistico.<br />
Ringrazio per la collaborazione l’Amministrazione Comunale di <strong>Pistoia</strong>, che<br />
ha gentilmente concesso il primo piano del Palazzo Fabroni; il nostro Vice<br />
presidente Giuliano Gori, che ha seguito con competenza e passione tutto il<br />
lavoro preparatorio, la dottoressa Lara-Vinca Masini, l’architetto Marco Bernardi<br />
che ha curato l’allestimento, il personale della Fondazione che più direttamente<br />
ha collaborato per la buona riuscita dell’iniziativa.<br />
Ora essa è affidata ai nostri concittadini ed a tutti i visitatori; il loro interesse<br />
ed il loro gradimento sarà la riprova che non abbiamo lavorato invano.<br />
Ivano Paci<br />
Presidente della Fondazione<br />
Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia<br />
5
SOMMARIO<br />
INTRODUZIONE 8<br />
LE PRIME AVANGUARDIE 23<br />
Andrea Lippi 24<br />
Mario Nannini 32<br />
CONTRIBUTI CULTURALI ALLO SVOLGIMENTO DELL’ARTE A PISTOIA 43<br />
Giovanni Costetti 44<br />
Galileo Chini 52<br />
Giovanni Michelucci 56<br />
IL PRIMO NOVECENTO NELL’ARTE A PISTOIA 61<br />
Francesco Chiappelli 63<br />
Alberto Caligiani 66<br />
Giulio Innocenti 74<br />
Renzo Agostini 84<br />
Pietro Bugiani 92<br />
Alfiero Cappellini 104<br />
Umberto Mariotti 110<br />
Egle Marini 114<br />
Corrado Zanzotto 121<br />
ARTISTI PISTOIESI VISSUTI FUORI DALLA CITTÀ 129<br />
Marino Marini 130<br />
Agenore Fabbri 143<br />
Mario Nigro 151<br />
Gualtiero Nativi 160<br />
LA GENERAZIONE DI MEZZO:<br />
CONTRASTO TRA FIGURAZIONE E ASTRAZIONE 167<br />
Sigfrido Bartolini 169<br />
Marcello Lucarelli 173<br />
Jorio Vivarelli 177<br />
Mirando Iacomelli 182<br />
Lando Landini 186<br />
Valerio Gelli 191<br />
Aldo Frosini 195<br />
Fernando Melani 198<br />
Remo Gordigiani 214<br />
LA SCUOLA DI PISTOIA 223<br />
Roberto Barni 224<br />
Umberto Buscioni 234<br />
Gianni Ruffi 244<br />
Adolfo Natalini 255<br />
ALLA FINE DEL XX SECOLO 259<br />
Franco Bovani 260<br />
Massimo Biagi 265<br />
Andrea Dami 269<br />
ALL’ALBA DEL TERZO MILLENNIO 273<br />
Federico Gori 274<br />
Zoè Gruni 279<br />
UN MAESTRO DI RIFERIMENTO 283<br />
Giacomo Balla 284<br />
ARTE AMBIENTALE: INSTALLAZIONI SUL TERRITORIO 290<br />
CHIESA DELL’IMMACOLATA, PISTOIA 293<br />
Sigfrido Bartolini 294<br />
CHIESA DI SAN PAOLO, PISTOIA 299<br />
Umberto Buscioni 300<br />
PALAZZO DE’ ROSSI, PISTOIA 303<br />
Sol Lewitt 304<br />
NUOVO PADIGLIONE DI EMODIALISI, PISTOIA 309<br />
Robert Morris 312<br />
Dani Karavan 316<br />
Hidetoshi Nagasawa 320<br />
Gianni Ruffi 324<br />
Sol Lewitt 326<br />
Claudio Parmiggiani 330<br />
Daniel Buren 334<br />
BIBLIOTECA SAN GIORGIO, PISTOIA 339<br />
Anselm Kiefer 340<br />
FONDAZIONE MARINO MARINI, PISTOIA 347<br />
Marino Marini 348<br />
PIAZZA AGENORE FABBRI, QUARRATA 351<br />
Vittorio Corsini 355<br />
VILLA LA MAGIA, QUARRATA 359<br />
Fabrizio Corneli 363<br />
Anne e Patrick Poirier 366<br />
Marco Bagnoli 372<br />
Hidetoshi Nagasawa 376<br />
Maurizio Nannucci 378<br />
MONTECATINI 383<br />
Susumu Shingu 384<br />
Pol Bury 388<br />
APPARATI 393<br />
7
INTRODUZIONE<br />
Lara Vinca-Masini<br />
Sono veramente grata alla Fondazione della Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e<br />
Pescia per avermi affidato l’incarico di curare la mostra della sezione della loro<br />
collezione relativa al XX <strong>secolo</strong> perché mi ha offerto l’occasione di scoprire e<br />
di studiare un periodo e una parte della cultura artistica del Novecento toscano,<br />
quella relativa a <strong>Pistoia</strong>, che conoscevo poco e che mi hanno assolutamente<br />
entusiasmato e conquistato. L’occasione di questa mostra è la presentazione,<br />
a <strong>Pistoia</strong>, della collezione del Novecento della Fondazione Venezia della<br />
Cassa di Risparmio che, come è logico per un Ente finanziario di una città<br />
che ospita la Biennale d’Arte, raccoglie opere di artisti italiani che, dalla sua<br />
fondazione (1895), hanno partecipato alla Biennale, e alcuni bellissimi pezzi,<br />
anche questi presenti nel Padiglione Venezia, dal ’32 al ’72 in Biennale, delle<br />
grandi vetrerie veneziane, da Venini a Seguso, Salviati, La Murrina, Toso, per<br />
le quali hanno lavorato e lavorano grandi artisti, designers, architetti italiani e<br />
stranieri, da Zecchin a Scarpa, Wirkkala, Barovier, Thun...<br />
La nostra scelta tra le opere del Novecento presenti nella collezione pistoiese<br />
è vòlta piuttosto a dimostrare come la Fondazione e la Cassa di Risparmio di<br />
<strong>Pistoia</strong> e Pescia, siano riuscite a raccogliere, in questo settore, sia pure per<br />
sintesi (e ovviamente con qualche inevitabile lacuna) un corpus di opere che<br />
rappresentano in modo efficace la storia della cultura artistica del Novecento a<br />
<strong>Pistoia</strong>. E aggiungo: una storia che non ha nulla da invidiare a quella di Firenze.<br />
Vi abbiamo inserito alcune presenze (Costetti, Chini, Michelucci, peraltro<br />
pistoiese, ma che ha poi in seguito la sua professione di architetto a Roma e<br />
a Firenze) che alla vitalità di questa storia hanno dato più che un contributo,<br />
riuscendo a farne emergere il significato più profondo.<br />
Abbiamo inoltre inserito nella mostra (con una sua collocazione separata), un<br />
bel lavoro di Giacomo Balla, troppo importante per essere escluso e, in ogni<br />
caso, un grande maestro di riferimento.<br />
È vero che negli ultimi anni Carlo Sisi, per lungo periodo alla guida della Galleria<br />
d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, ha condotto una campagna di raccolta<br />
di opere del Novecento di tutta la Toscana, allo scopo di “fornire” scrive Sisi<br />
“testi di riferimento per consolidare il concetto della continuità della storia e<br />
quindi, se così si può dire, della legittimità dell’arte contemporanea spesso<br />
intesa oggi, paradossalmente, solo come un ‘genere’ dell’arte”. Carlo Sisi è anche<br />
direttore del Centro di Documentazione sull’Arte moderna e contemporanea<br />
a <strong>Pistoia</strong>, aperto nel 2002, che persegue, praticamente, lo stesso scopo.<br />
Io mi sono sempre occupata di arte, architettura, design, arti applicate moderne<br />
e contemporanee, a partire dall’Art Nouveau, seguendone il corso a livello<br />
nazionale e internazionale e, certo per una mia lacuna, non ho mai approfondito<br />
molto la mia ricerca localmente e regionalmente se non in alcune situazioni<br />
particolari emerse a livello nazionale (a <strong>Pistoia</strong>, ovviamente, nel caso di<br />
Fernando Melani e del gruppo Barni, Buscioni, Ruffi...).<br />
Questo perché sono convinta che, pur essendo l’arte sempre la stessa, in qualunque<br />
luogo e in qualsiasi tempo si sia manifestata e si manifesti, l’arte contemporanea<br />
dalle avanguardie, nelle sue manifestazioni autentiche, non è certamente<br />
da considerarsi (ha perfettamente ragione Sisi), un ‘genere’ dell’arte,<br />
avendo anzi dilatato il suo campo, particolarmente negli ultimi anni, ad altre<br />
discipline (filosofia, scienza, poesia, teatro, musica...) senza peraltro rinunciare<br />
alla sua specificità, ma è il risultato logico degli esiti della civiltà occidentale<br />
quando si è trovata a confrontarsi con le altre civiltà.<br />
È il contesto nel quale si è verificato lo scatto compiuto dall’arte contemporanea<br />
che è completamente cambiato; sono le condizioni sociali, politiche,<br />
culturali, economiche che si sono trasformate radicalmente; sono le guerre, le<br />
catastrofi planetarie; è il pensiero che ha acquisito spazi di indagine nuovi e<br />
diversi; sono le nuove scoperte scientifiche che hanno cambiato i comportamenti<br />
e accelerato certi raggiungimenti, spesso imprevedibili e talvolta catastrofici;<br />
sono, ripeto, i rapporti tra le diverse culture che hanno aperto nuovi<br />
confini. Insomma, vogliamo o no crederci, è il mondo che è cambiato. E gli<br />
artisti, come sempre, con “la loro consapevolezza infinita” (Mc Luhan 1967)<br />
se ne sono accorti per primi.<br />
Certamente le situazioni particolari, locali, regionali, hanno contribuito al<br />
cambiamento, avendone peraltro acquisito la consapevolezza da quelle nazionali<br />
e internazionali. Gli artisti pistoiesi che sto studiando hanno fatto quasi<br />
tutti il loro viaggio a Parigi e oltre, hanno seguito i movimenti internazionali,<br />
apportandovi “del loro”, naturalmente, e anche, spesso, rifiutandoli (pensiamo<br />
a Sigfrido Bartolini...).<br />
Perciò ho sempre ripetuto che occorre porsi dinanzi al contemporaneo con<br />
una disponibilità diversa, senza pregiudizi, neppure culturali, e con un’attenzione<br />
nuova, senza voler pretendere di avere sempre in mano la chiave della<br />
comprensione.<br />
Certo, il sistema dell’arte è sempre più oppressivo. E non è certo da oggi: si è<br />
visto come, anche nel “paese delle meraviglie” che <strong>Pistoia</strong> ha rappresentato<br />
quasi fino alla seconda guerra mondiale, dove gli artisti lavoravano insieme, si<br />
ritraevano reciprocamente nei loro lavori, discutevano e anche litigavano tra<br />
loro, ma solo nelle discussioni sull’arte, scrivevano testi di presentazione gli<br />
8<br />
9
uni per gli altri... <strong>Un</strong>a condizione che sembrava impossibile in una Toscana da<br />
sempre divisa tra guelfi e ghibellini. Mi sono molto meravigliata per questo,<br />
abituata come sono alla situazione fiorentina. E mi sono entusiasmata.<br />
Ma, andando avanti, ho visto che anche a <strong>Pistoia</strong>, quando gli artisti si sono<br />
trovati nel giro delle mostre nazionali e internazionali, quando, cioè, sono entrati<br />
nel “sistema dell’arte” (grandi mercanti, galleristi sempre più potenti...),<br />
l’idillio è praticamente finito, o almeno, malgrado qualche tentativo di ricostituirlo,<br />
si è un po’ ridimensionato.<br />
Ma gli artisti più avvertiti cercano sempre, anche oggi, di mettere a nudo, di<br />
destabilizzare il sistema, decisi a difendere la propria autonomia, cercano di<br />
decostruire i meccanismi del nostro tempo, di denunciare, spiazzare, destabilizzare<br />
il sistema con trasgressioni e provocazioni... Certo, non sempre ci<br />
riescono, perché il sistema sa quasi sempre trasformare in controllo quella<br />
pseudolibertà che concede. Anche se qualche volta succede che oggi il “sistema”<br />
parli anche per bocca di qualche giovane “curator” che spinge gli artisti<br />
non a cercare, col proprio lavoro, di approfondire la ricerca, di sforzarsi di dare<br />
il meglio di sé per chiarire, anche a se stessi, il significato della propria idea di<br />
arte con un continuo travaglio, bensì di essere astuti, di cercare ad ogni costo<br />
il consenso e quindi il successo...<br />
Sono comunque convinta che gli artisti davvero impegnati, anche quando non<br />
disdegnano, ovviamente, il successo (e il tramite del mercato) hanno ancora<br />
la forza di restare fedeli al fine ultimo dell’arte, quello di rappresentare lo<br />
“specchio nero” della società nella quale vivono, di cui svelano, spesso anche<br />
ironicamente, la cieca aberrazione.<br />
Ma è vero o no che questo avviene, e non da oggi, per gran parte di tutti gli<br />
aspetti della vita della nostra società? Pasolini lo aveva capito da tempo...<br />
Solo all’arte, però, è concesso di ribaltare le cose, di proporre anche degli sbagli,<br />
per capire meglio come “le cose” funzionano. E non sempre sappiamo<br />
come ne usciremo. Occorrerà certo risalire anche al passato per capire perché<br />
il modo di agire degli artisti contemporanei è un po’ diverso, almeno apparentemente,<br />
e solo talvolta, nei diversi paesi, ma consapevoli che non è la nicchia,<br />
anche preziosa, che può fornirci le risposte. Ma certo può regalarci qualche<br />
strumento per ulteriori approfondimenti e per “consolidare il concetto della<br />
continuità della storia”.<br />
Credo che questa mostra possa presentare, come ho già detto, un panorama<br />
ridotto, ma tale da dare un’idea abbastanza precisa della condizione dell’ arte<br />
a <strong>Pistoia</strong> di quasi tutto il <strong>secolo</strong> scorso. Purtroppo resta fuori l’architettura che<br />
ha visto, a <strong>Pistoia</strong>, oltre, ohimè, a qualche recente, grave abuso (es. Breda),<br />
situazioni notevoli dai primi del Novecento fino ad alcune esperienze recentissime<br />
di giovani e giovanissimi architetti, che Firenze, purtroppo, da vari<br />
anni non si sogna nemmeno di poter vedere, perché vi lavorano solo i soliti<br />
“prediletti” delle Istituzioni. Ho avuto modo, comunque, di cogliere l’attenzione<br />
e l’acutezza che la Cassa di Risparmio e la Fondazione hanno usato nel<br />
mettere insieme questa collezione, che non dovrebbe restare chiusa in un caveau,<br />
ma costituire un piccolo museo, invidiabile per una città che ha saputo<br />
portare avanti un suo percorso particolare, anche abbastanza diverso da quello<br />
svoltosi nello stesso tempo a Firenze, città dominante, ovviamente per l’importanza<br />
nazionale e internazionale della sua storia artistica, troppo spesso,<br />
peraltro, e non solo nel Novecento, usata come alibi per una lunga, pericolosa<br />
stasi, soprattutto di idee e di progetti. E oggi per una cosiddetta apertura verso<br />
il contemporaneo, la situazione è ancor più pericolosa perché investe soprattutto<br />
l’immagine globale della città nella sua veste architettonica e urbanistica,<br />
mostrandosi per quello che è, un abuso incauto e arrogante, soprattutto<br />
ignorante e indifferente verso i valori del passato, che sta rovinando anche il<br />
centro storico, che meriterebbe una ben diversa apertura, con interventi che si<br />
dimostrassero degni di quelli del passato, addirittura in grado di mettervisi in<br />
gara. <strong>Un</strong>a sfida che potrebbe coinvolgere a Firenze i nomi più prestigiosi del<br />
panorama architettonico internazionale, e soprattutto molti giovani di qualità,<br />
che ci sono... Ma sto uscendo dal tema...<br />
Nello studio del Novecento a <strong>Pistoia</strong> ho preso avvio da due personaggi, Andrea<br />
Lippi e Mario Nannini, che hanno operato, il primo tra il 1913 e il ’15, il secondo<br />
tra il 1913 e il 1918 (il ’15 e il ’18, gli anni della loro morte).<br />
Essi hanno rappresentato, a <strong>Pistoia</strong>, un momento di uscita dalle regole di una<br />
città che, pur essendo al corrente di quanto avveniva in Italia e fuori, restava<br />
abbastanza chiusa nel suo mondo appartato, legato alla natura, sulla linea di<br />
una figurazione cólta, nutrita di un attento studio del Tre- e Quattrocento toscani,<br />
arricchita dalla conoscenza del Postimpressionismo, di Cézanne..., però<br />
poco incline ad affrontare rivoluzioni innovative scaturite in Italia o all’estero,<br />
malviste dal Sindacato Fascista delle Arti (specialmente da quando l’occupazione<br />
fascista, interprete Margherita Sarfatti) che aveva tutto da guadagnare favorendo<br />
quella predisposizione del “carattere malinconico, ma forte, della terra<br />
pistoiese”. E non era questo già un primo tentativo di creare un quasi invisibile<br />
“sistema dell’arte” controllato (dalla politica, se non dal mercato)?<br />
Lippi e Nannini non sono passati da questo giogo.<br />
Andrea Lippi ha portato avanti nei suoi pochi anni di vita un lavoro forte, convulso,<br />
con la sua scultura visionaria, che portava all’estremo lo spirito di un Liberty<br />
italiano ormai decadente e un po’ funereo, combinandolo con una estroversa<br />
tensione espressionista di carattere nordico. Mario Nannini, dopo un<br />
10 11
primo, breve periodo ‘in chiave’ con la linea dolce, nostalgica, malinconica di<br />
tanta pittura pistoiese, ha scelto di misurarsi con le avanguardie, con l’esperienza<br />
futurista, seguita, a Firenze, soprattutto da Conti e Soffici. E nei pochi anni<br />
in cui ha lavorato ha portato il suo lavoro fino ad una maturità straordinaria, che<br />
ha pochi confronti in Toscana e può misurarsi con onore coi modelli nazionali<br />
(Balla, Boccioni, ma anche con un certo cubofuturismo internazionale...).<br />
Anche a <strong>Pistoia</strong>, come a Firenze, era il momento delle riviste impegnate culturalmente<br />
e ideologicamente. Dal primo decennio del ‘900 esprimevano le diverse posizioni<br />
ideologiche, estetiche, politiche. <strong>Un</strong>a delle prime polemiche che le riviste trattarono fu<br />
proprio quella relativa al nuovo palazzo della Cassa di Risparmio (1897-1931).<br />
Da “L’Avvenire” a “La Voce democratica”, a “Il popolo pistoiese”, a “La Difesa”<br />
(“religiosa e sociale” il sottotitolo)… Dopo la prima guerra mondiale nascevano “Il<br />
Ricciardetto”, “Athena”, “La Tempra”, “Il Marchese”, di intenti culturali, cui seguivano<br />
alcuni giornali umoristici, come “Il Marchesino”, “L’Assillo”; dal ’19 “Il<br />
Giornalissimo” e le riviste del regime “L’Azione fascista” (’22-’29), “Il Littorio”<br />
(’30-’32), “Il Ferruccio” (fino al ’32).<br />
Il fervore della vita culturale, incentivata, appunto, dalla vitalità delle riviste contribuiva<br />
ad accrescere l’interesse verso la città di alcuni personaggi, non pistoiesi,<br />
che hanno cementato l’unione degli artisti tra loro in nome di programmi e ideologie<br />
che soprattutto Giovanni Costetti, dalle pagine de “La Tempra”, alla quale<br />
fu invitato a collaborare da Renato Fondi e che, dopo qualche tempo,coinvolse<br />
anche il giovane poeta Giuseppe Lanza del Vasto; e anche Galileo Chini, arrivato<br />
a <strong>Pistoia</strong> per lavorare al palazzo della Cassa di risparmio, hanno portato avanti<br />
nella città, contribuendo al consolidarsi di una cultura artistica di alto rilievo. E<br />
non va dimenticato l’apporto culturale del giovane Giovanni Michelucci, finché<br />
rimase a <strong>Pistoia</strong>, amico e compagno di lavoro degli artisti.<br />
Giovanni Costetti si avvicinava a <strong>Pistoia</strong> dal 1914. Attraverso i suoi interventi<br />
sulla rivista egli iniziava il suo proselitismo trasmettendo agli artisti pistoiesi<br />
la sua concezione di “arte pura”, libera da riferimenti letterari, nutrita dalla<br />
conoscenza del Postimpressionismo e di Cézanne, un’arte che prende la sua<br />
linfa soprattutto dal colore, che assume per lui valore essenziale nella pittura.<br />
Lo vediamo nei due straordinari Ritratti, in mostra, del giovane Marino Marini,<br />
dove l’azzurro è la nota dominante ed esaltante di tutto il lavoro, in contrasto col<br />
morbido impasto rosato del volto; e quello, altrettanto superbo, che non esito a<br />
credere di Dino Campana giovane, tutto giocato sul rapporto del biondo dorato<br />
degli occhi, dei capelli, della barba, e il verde dell’abito. Dal colore, secondo Costetti,<br />
nascono la forma e, col sentimento, la composizione. È questo che assume<br />
un senso misterioso, simbolico, magico, di carattere spiritualistico. Queste idee,<br />
diffuse tra gli artisti, dai testi e dalle parole, venivano ampliate anche da Lanza<br />
del Vasto, che arrivava per studiare filosofia a Pisa ed era spesso con Costetti a<br />
<strong>Pistoia</strong>, dove conosceva i pittori pistoiesi, che ammirava e, che cercherà di far<br />
conoscere all’ estero, organizzando loro mostre e incontri.<br />
Anche Galileo Chini, noto per i suoi tanti lavori di decorazione parietale, in<br />
Italia e all’estero, ispirati a moduli quattro- e cinquecenteschi, rivisti in termini<br />
di simbolismo, tra liberty e art nouveau (basti pensare alla Sala principale della<br />
Biennale di Venezia, 1909, al Palazzo dello Scià di Persia, 1911-1913, ai suoi<br />
molti interventi appunto, nel nuovo palazzo della Cassa di Risparmio a <strong>Pistoia</strong>,<br />
1904-1905). Questo notevolissimo e lungo lavoro lo porterà a <strong>Pistoia</strong>, insegnante<br />
alla Scuola d’Arte e, a Firenze, all’Accademia. Ma Chini era già noto anche per<br />
le sue splendide ceramiche orientalizzanti e per la sua ariosa pittura, ispirata a<br />
moduli postimpressionisti, qui evidenti nel suo Autoritratto.<br />
Giovanni Michelucci, pistoiese, ha avuto un ruolo determinante per i giovani<br />
artisti suoi coetanei, quando lavorava con loro alle sue incisioni, e, accompagnandoli<br />
nelle loro gite di lavoro in campagna, li coinvolgeva nella sua formazione<br />
di carattere spiritualistico, leggendo loro Dante, I Fioretti, Baudelaire, Poe...<br />
Questo finché rimase a <strong>Pistoia</strong>, prima di partire per Roma, e poi per Firenze, per<br />
seguire la sua professione di architetto.<br />
Tra gli artisti nati verso la fine dell’Ottocento, ci sono coloro che hanno lavorato<br />
soprattutto nel periodo tra le due guerre; e a loro si uniranno, sulla stessa loro<br />
strada, alcuni artisti più giovani che creeranno il nucleo effettivo del panorama<br />
artistico del periodo. Si tratta di Francesco Chiappelli, che si caratterizza, forse<br />
più che per la pittura, per la sua grande maestria nell’acquaforte, che egli contribuisce<br />
a diffondere e che si riconosce per la sensibilità, per il segno netto e<br />
preciso, per la luminosità dei suoi lavori, per il rapporto vivo di luce-ombra che<br />
domina le sue incisioni, sue caratteristiche peculiari.<br />
Dal suo lavoro nasce, o si rafforza a <strong>Pistoia</strong> e in Toscana, il grande interesse per la<br />
grafica, già molto seguita in Europa; in Italia divulgata soprattutto dai “paleotipi” di<br />
D’Annunzio (La Francesca da Rimini, La figlia di Jorio con le xilografie di De Carolis,<br />
pubblicati da Treves). Questo interesse porterà, nel 1913, a uno degli avvenimenti<br />
più importanti del periodo, la Mostra del Bianco e Nero a <strong>Pistoia</strong>, organizzata dalla<br />
Famiglia Artistica, un ente privato di amatori d’arte che aveva tra i membri Renato<br />
Fondi e Giovanni Michelucci e che, nel ’12, per mostrare il suo interesse al rinnovamento,<br />
aveva invitato a <strong>Pistoia</strong> Marinetti, che peraltro arriverà più tardi. L’iniziativa<br />
della mostra veniva anche appoggiata, per la prima volta, anche dalle Istituzioni, fin<br />
qui indifferenti nei confronti della vita artistica della città. La mostra, aperta con un<br />
discorso inaugurale di Costetti, che ribadiva, comunque, il concetto di opera unica, non<br />
12 13
eplicabile, cioè il disegno, raccolse artisti da tutta Italia: anche De Carolis vi espose<br />
alcune sue opere; lo stesso Costetti vi presentava delle acqueforti. Vi comparivano opere<br />
futuriste (Depero...). E ancora Mazzoni, Zanini, Rosai, con lavori di tema architettonico<br />
che Parronchi associa ad alcune poesie di Campana (Le case civette; La cattedrale;<br />
Notturno; “I cubi degli alti palazzi torreggiano / Minacciando enormi sull’erta ripida<br />
/ Nell’ardore catastrofico…”), e Alberto Viani, Emilio Notte. Tra i pistoiesi, oltre a<br />
Chiappelli, Caligiani, Celestini, Innocenti...<br />
Ancora in mostra Alberto Caligiani, grossetano ma a <strong>Pistoia</strong> fin dalla prima<br />
infanzia, fu amico di tutti gli artisti pistoiesi, anche dei più giovani, ma mantenne<br />
sempre vivo il rapporto con la vita artistica nazionale. Il suo lavoro sfocerà<br />
nel Novecento italiano. Vittorini parla del suo “realismo inconfondibile e senza<br />
affanno”. E ancora, tra gli artisti in mostra, Giulio Innocenti, strano, eclettico<br />
personaggio, che da “ipnotizzatore e mago”, ad artista versatile, che aveva imparato<br />
la tecnica della litografia da Caligiani; pittore della vita quotidiana, amico<br />
per la vita di Fernando Melani, che lo giudicava un naïf, ma gli riconosceva “una<br />
costante sola... la luce” e che, avvicinandosi all’arte francese, ai Nabis, a Matisse,<br />
arriverà ad una pittura di carattere timbrico, chiaro e trasparente.<br />
Venendo al gruppo di artisti nati nel Novecento, Renzo Agostini è forse il più<br />
ingenuo, il più fresco degli artisti pistoiesi; Sigfrido Bartolini, artista ma anche<br />
eccellente e severissimo critico, lo definisce “una forte offerta a chi ha sete di<br />
poesia”. Costetti lo predilige per la sua “schiettezza” e per “lo slancio romantico”<br />
che “in lui si è sposato al ‘fanciullino’ di Pascoli”. Autodidatta, fedele ad<br />
un suo mondo di ingenuità e di candore, accoglieva nella fattoria del padre i<br />
membri del “Cenacolo”, che faceva capo a Giovanni Michelucci, che tanta della<br />
sua generosità spendeva nelle sue lezioni alla Scuola d’Arte aperta da Fabio Casanova<br />
nel 1920 e che, quando li accompagnava nelle loro incursioni collettive di<br />
lavoro nella campagna, li intratteneva leggendo loro Dante, Petrarca, Baudelaire...<br />
e, nelle pagine de “Il popolo pistoiese” diffondeva i suoi concetti relativi ad<br />
un’arte sana, spirituale, “francescana”, come scriveva nel “Popolo pistoiese”.<br />
<strong>Pistoia</strong> era una città legata ad una operatività molto variata che era passata, all’inizio<br />
del Novecento, da un’economia agricola chiusa e paesana, ad un processo di industrializzazione<br />
e di urbanizzazione abbastanza veloci. L’attività, che aveva fin qui<br />
mantenuto una struttura artigianale era cambiata. Con la nascita delle officine San<br />
Giorgio (poi Breda), il cui stabilimento fu progettato da Gino Coppedè (1911), le<br />
attività produttive e commerciali nella città ne trasformarono la vita. Con la forte presenza<br />
di manodopera femminile e minorile (si pensi alla diffusione della lavorazione<br />
della paglia) e col fiorire del vivaismo che fin dall’inizio si diffuse nell’area urbana,<br />
con la crescita architettonica ed edilizia anche gli artisti si specializzavano in attività<br />
diverse (decorazione parietale, in chiave con lo stile dell’epoca legato al Simbolismo e<br />
al Liberty, arredo urbano, favorito dall’esistenza di varie officine artistiche – (cancelli,<br />
fanali, e anche monumenti...). Con la sua Scuola d’Arte Fabio Casanova cercò di venire<br />
incontro a queste esigenze: Quasi tutti gli artisti pistoiesi non sono quasi mai solo<br />
pittori o scultori, o grafici.., ma si esprimono in vari settori dell’arte: per non contare<br />
la loro preparazione letteraria e culturale che gli insegnanti cercavano di coltivare.<br />
Pietro Bugiani è forse l’artista che più incarna il carattere della pittura pistoiese<br />
tra la metà degli anni Venti e gli anni Quaranta. Ma ne porta la capacità<br />
al suo massimo grado. Da un naturalismo postmacchiaiolo passava, attraverso<br />
uno studio profondo del Tre- e Quattrocento fiorentino (e della letteratura del<br />
periodo, cui era stato incoraggiato anche da Giovanni Michelucci, rivolto ad<br />
un rinnovamento che da Soffici , Rosai, portava a Cézanne), acquisiva un linguaggio<br />
di grande e cólta maturità espressiva che, nelle due visioni campestri<br />
(La casa rosa, 1929) attinge ad una sorta di “realismo magico”. E, in opere successive,<br />
soprattutto nella straordinaria Madonna col manto rosso 1931 ca, ad una<br />
sintesi spontanea, quasi incredibile, che unisce la lezione di Giotto, di Piero<br />
della Francesca, di Matisse, in un lavoro che, a mio avviso, segna un’epoca.<br />
Alfiero Cappellini passa da un’adesione consapevole alla linea della contemporanea<br />
pittura pistoiese per accostarsi, prima al Ritorno all’ordine e al<br />
Novecento italiano di marca sarfattiana. Ma, derubato dai nazisti, durante la<br />
seconda guerra mondiale, di quasi tutto il suo lavoro e della sua documentazione,<br />
spinto, oltre che dal suo forte impegno politico-sociale, anche dal suo<br />
carattere chiuso, ombroso, volgeva verso un linguaggio pittorico fortemente<br />
caratterizzato, duro, aggressivo, di una gestualità quasi espressionista. “La sua<br />
pittura” ha scritto Ciattini “non è mai un fenomeno di gusto, ma semmai una<br />
reazione”.<br />
Umberto Mariotti fu sensibile interprete di nature morte e ritratti di lucida<br />
sintesi formale alla quale giungeva attraverso gli stimoli culturali di Casorati e<br />
Carena, rileggendo gli antichi secondo la lezione di Cézanne.<br />
Egle Marini, gemella di Marino Marini, con cui condivideva il periodo di apprendimento,<br />
è una figura un po’ a parte rispetto agli artisti pistoiesi. Esprime<br />
la sua sensibilità per la vita quotidiana e per gli oggetti che la esprimono, sia<br />
nei suoi ritratti femminili, talvolta di una sontuosità quasi settecentesca, ma, in<br />
particolare i più tardi, superbi e sapienti (Autoritratto con la casacca blu) e nelle<br />
sue nature morte, ricche di echi culturali, ma risolti in termini personali, che<br />
parlano di un carattere forte, schivo, autonomo.<br />
Corrado Zanzotto, soprattutto scultore di grande vigore e sensibilità, provato<br />
dalla vita e dalla sorte, allontanato da <strong>Pistoia</strong> durante la seconda guerra mon-<br />
14 15
diale, perdeva metà della sua famiglia e tutta la sua produzione. In gravissime<br />
condizioni economiche veniva accolto, al suo ritorno, al Villone Puccini, una<br />
Casa di riposo per anziani dove si dedicava a ritrarre, nei suoi disegni, i volti<br />
scavati e tristi degli ospiti, povera gente abbandonata, usando, come scrivono<br />
Paolo Fabrizio e Annamaria Iacuzzi “il lapis come fosse un aratro, come il contadino<br />
ara il campo, lui ara quei volti”. La stessa forza di indagine psicologica e<br />
la stessa forza espressiva Zanzotto applica alla sua pittura e alla scultura.<br />
Di seguito sono presenti in mostra opere di artisti (Marino Marini, Agenore<br />
Fabbri, Mario Nigro, Gualtiero Nativi) che, nati a <strong>Pistoia</strong> hanno svolto la<br />
maggior parte della loro vita artistica fuori dalla città cui, peraltro, rimanevano<br />
fortemente legati.<br />
Marino Marini, dopo il periodo della sua formazione a <strong>Pistoia</strong> e a Firenze,<br />
allievo di Trentacoste e di Galileo Chini, dopo il tradizionale viaggio a Parigi,<br />
insegnante presso la Scuola d’Arte di Monza dal ’29 al ’40; nel Canton Ticino<br />
durante la seconda guerra mondiale, a Milano definitivamente dopo la guerra,<br />
non ha mai seguito, nella scultura, nella pittura e nella grafica, le linee del<br />
Novecento italiano, volgendo invece, per la scultura, verso una ricerca sull’arte<br />
egizia e sull’arte romana, in termini di una formatività di carattere internazionale.<br />
Si pensi alle sue esuberanti Pomone, ai suoi ritratti, ispirati, pur in<br />
termini di assoluta autonomia, al Rinascimento italiano. E, con la lunga, straordinaria<br />
serie di cavaliere e cavallo, spesso uniti in una sola, drammatica, dinamica<br />
creatura (Miracolo, 1943) come schiacciati dalla catastrofe della guerra,<br />
ma scattanti in una ribellione drammatica. Anche la sua pittura e la sua grafica<br />
raggiungevano una tale forza da rendere il suo nome noto in tutto il mondo.<br />
Anche Agenore Fabbri, che iniziava la sua fatica di scultore a <strong>Pistoia</strong>, usando<br />
il mezzo ceramico, passava, nel ’32, ad Albisola, sede privilegiata per la<br />
ceramica dove gli artisti, tra i più conosciuti, si incontravano, da Jorn, Appel,<br />
Corneille (del gruppo Cobra), a Baj, Scanavino, Matta, Pinot Gallizio... per<br />
passare, dal ’45, a Milano. Da un naturalismo legato al Novecento italiano,<br />
passava alla realizzazione di una scultura definita da Dieter Roter (1997), di<br />
una “tragicità allucinata”, trasmettendo anche nella pittura, che iniziava nel<br />
1982, una accesa, forte espressività, con una gestualità quasi convulsa, in chiave<br />
con l’arte europea del momento.<br />
Mario Nigro si trasferiva, da <strong>Pistoia</strong>, prima a Livorno e, dal ’57, a Milano<br />
dove aderiva al MAC (Movimento Arte Concreta) e organizzava il suo lavoro<br />
su un “colore-segno” che svolgeva secondo una strutturazione ritmica e dinamica,<br />
attraverso incastri di elementi geometrici, svolti secondo variazioni e<br />
imbrigliamenti di direzione, provocanti sensazioni di ansia, di angoscia, con<br />
aperture verso una possibile speranza. Esponeva nel ’68 alla Biennale le Stagioni,<br />
composto di quattro elementi componibili per 12 metri lineari; è del ’72<br />
Lettere di un nuovo amore, a quella del ’73 Sogno di un vero amore, un lavoro di<br />
grande intensità e di forte energia dinamica, per arrivare ad un linguaggio più<br />
lirico, più disteso, verso una sua interpretazione di “spazio totale” che “visualizza”<br />
scriveva Germano Celant “il compenetrarsi di diversi gradi di realtà e<br />
di dimensioni, riferendosi di contempo alla scienza relativistica e alla tragicità<br />
del divenire...”.<br />
Gualtiero Nativi, a Firenze col gruppo di Arte d’oggi (con Berti, Brunetti,<br />
Monnini, Nuti), coi quali firmava il Manifesto dell’Astrattismo classico. Il suo<br />
lavoro, impostato sul razionalismo, ritrova, attraverso la dinamica espressiva<br />
della forma, in scansioni cristalline, espresse con colori chiari, luminosi, il significato<br />
di una forte cultura umanistica.<br />
Seguono esempi di quella che è stata definita “la generazione di mezzo” degli<br />
artisti pistoiesi, quelli nati dopo la prima guerra mondiale, e che hanno<br />
iniziato il loro lavoro dopo la seconda (Sigfrido Bartolini, M. Lucarelli, M. Iacomelli,<br />
A. Frosini, V. Gelli, R. Gordigiani, L. Landini, Luigi Bruno Bartolini,<br />
Francesco Melani, J. Vivarelli, Alfredo Fabbri).<br />
Nasceva intanto a <strong>Pistoia</strong> e a Prato un collezionismo nuovo, aperto, illuminato, rivolto<br />
anche al contemporaneo. Basterà citare, come esempio trainante, il lavoro e l’apporto<br />
culturale portato avanti, prima a Prato, poi a Celle, da Giuliano Gori che vi invitava<br />
a realizzare molte importanti opere ambientali, i più grandi artisti internazionali, da<br />
Morris a Lewitt, a Parmiggiani, Buren, Nagasawa, Karavan fino a Kiefer...<br />
Il clima artistico della città è fortemente cambiato. <strong>Pistoia</strong> non rappresenta più<br />
una nicchia preziosa, chiusa in un suo mondo privato, seppur consapevole e<br />
permeabile nei confronti della situazione internazionale. Ora le contraddizioni<br />
si fanno evidenti, suscitano impennate e prese di posizione diverse; soprattutto<br />
nascono forti contrasti tra chi resta fedele al figurativo e chi si apre, progressivamente,<br />
verso le nuove avanguardie. Da un lato, dunque, tra gli artisti presenti<br />
in questa collezione, Sigfrido Bartolini, cólto e agguerrito critico e polemista,<br />
oltre che pittore e incisore, che resta una figura di grande peso nel panorama<br />
pistoiese per la sua pittura incisiva, che non indugia su nessuna debolezza e su<br />
nessun senso di ‘nostalgia’, ma punta su una visione chiara, intensa, del reale<br />
(si veda, ad esempio, Casa ruinata, 1975 in Collezione Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong><br />
e Pescia, o Rudere, 1984, esposto in questa occasione), che ha continuato il<br />
suo lavoro fino agli anni ’80, aprendo la strada ad un linguaggio rigorosamente e<br />
duramente realista. Notissime le sue 309 xilografie delle Avventure di Pinocchio<br />
e le sue 14 vetrate della chiesa dell’Immacolata a <strong>Pistoia</strong>. E forse è anche più<br />
16 17
noto per le sue polemiche su giornali e riviste, da “Totalità” a “La Voce”, “Lacerba”,<br />
“Il Borghese”, fino a “Il Giornale” e “Libero”. E inoltre per le monografie<br />
di molti artisti, per i disegni e le xilografie con cui illustrava libri d’arte<br />
italiani e stranieri. E infine per un suo libro, La grande impostura, che raccoglie<br />
le sue accese critiche contro molti artisti del XX <strong>secolo</strong>, che, troppo cólto per<br />
non capirne il peso culturale e artistico, legge però, soprattutto, come schiavi<br />
del mercato. Irriducibilmente legato alla figurazione Marcello Lucarelli,<br />
teso a coniugare l’amore per la sua terra e per il morbido paesaggio pistoiese<br />
con la passione per il paesaggio affocato, riarso, duro della Sardegna, dove<br />
insegnava dal ’50 al ’60. Testardo e irriducibile ad una nuova interpretazione<br />
Mirando Iacacomelli, ironico e pungente, che si riporta all’ espressionismo<br />
di Ernst, Ensor, e rifiuta ostinatamente ogni riferimento a nuove linee di ricerca,<br />
che del resto nella sua pittura si presenta, in certo modo, anche contro<br />
la sua volontà.<br />
Figura importante nel panorama pistoiese di questo periodo, Jorio Vivarelli,<br />
scultore, che nel suo lungo percorso, ha portato il nome della sua città oltre Oceano,<br />
realizzando grandi opere, oltre che in Italia, soprattutto negli Stati <strong>Un</strong>iti,<br />
dove, introdotto dall’architetto americano Stonorov, eseguiva, tra l’altro, la nota<br />
fontana Ragazza toscane, realizzata per l’Hotel Plaza a Philadelphia nel 1966.<br />
Dall’altra parte è interessante anche il processo operativo di Aldo Frosini, che,<br />
attraverso una progressiva semplificazione, coniuga, per così dire, il figurativo<br />
all’astratto a mezzo del colore e della geometria fino ad arrivare a un cólto e<br />
raffinato monocromo.<br />
In Lando Landini, che si muove da un’iniziale adesione al realismo sociale,<br />
si avverte la necessità intellettuale di un percorso di alternanza tra figurazione<br />
e non figurazione che, lontana dalla lusinga della moda, rivela un’esigenza di<br />
trasfigurazione lirica della realtà fino a giungere a visioni di “pura luce”.<br />
Di Valerio Gelli così parla l’amico Giovanni Michelucci in una lettera del 1988:<br />
“[...] alcune tue sculture, generalmente di piccola dimensione (anche questo è<br />
significativo) nelle quali ho scorto una penetrazione sottile, paziente, commossa<br />
del soggetto rappresentato. La tua “Erminia” ad esempio, è il risultato di un<br />
colloquio che non ha confini per penetrare negli spazi profondi della natura.”<br />
Fernando Melani è il primo artista che, a partire dagli anni Cinquanta, ha<br />
spostato il rapporto arte-città, portando direttamente l’apertura del suo lavoro<br />
ad un livello di dilatazione internazionale, facendolo scattare immediatamente<br />
oltre la storia, anche oltre la storia dell’arte del suo momento con una sorta<br />
di felice preveggenza di temi, comportamenti, linee e movimenti “a-venire”<br />
nell’arte: a partire dal fatto che i suoi referenti sono stati la scienza e la filosofia<br />
contemporanee, argomento col quale gli artisti, in generale, hanno iniziato a<br />
confrontarsi, assieme ad altre discipline, dagli anni Settanta, quando si è verificata<br />
quella necessità dell’arte di misurarsi, attraverso slittamenti e trasgressioni,<br />
con le diverse componenti della cultura attuale. Di seguito, nel suo continuo<br />
riferimento alla forza, all’energia insita nella materia, ha preannunciato uno dei<br />
più forti contenuti dell’Arte Povera italiana e, per certi aspetti, il “progetto” di<br />
Beuys. Infine ha anche presentito, a suo modo, l’insorgere del Concettualismo.<br />
Perché i suoi lavori, oggettuali e pittorici, che spesso si danno non tanto come<br />
“opere d’arte”, anche se raggiungono, talora, una raffinatezza, una essenzialità<br />
e una poesia sottile e straordinaria (basterebbe pensare alla cartella Arcobaleno,<br />
una raccolta di piccoli e piccolissimi lavori dell’artista – in collezione della Cassa<br />
di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia – che Cristina Tuci mi ha mostrato durante la<br />
giornata che ho passato a “toccare” con cura e trepidazione le opere da presentare<br />
in mostra), si danno, ripeto, non tanto come “opere d’arte”, ma come<br />
espressione di idee, come le “proposizioni”nell’arte concettuale, ma si concedono<br />
anche grande fantasia e poesia.<br />
Con Remo Gordigiani, che ha saputo assimilare tutto il portato di una ricca storia<br />
artistica, che ha corredato rapportandosi alle vicende artistiche contemporanee<br />
internazionali e che, per una disgraziata infezione da pigmenti alla pelle,<br />
ha dovuto rinunciare, dalla metà degli anni ’60, alla pittura, è pur riuscito, dopo<br />
notevoli esperienze con l’acquerello e col disegno, a ritrovare un “suo” particolarissimo<br />
modo di continuare a “fare pittura”, una passione che non l’ha mai abbandonato,<br />
e che, infine, è anche riuscita, malgrado la difficile condizione fisica,<br />
a non farlo mai cadere in depressione. È stato l’uso del collage (un uso del tutto<br />
personale), che ha portato avanti per tutta la vita, lasciando un corpus di opere<br />
(161) di una straordinaria energia e di una felicità di colore e di espressività che<br />
non ha molte possibilità di confronti. Col gruppo Barni, Buscioni, Ruffi – inizialmente<br />
comprendente anche Natalini – che, pur portando avanti ciascuno un<br />
lavoro completamente autonomo, sembra aver riproposto quel carattere amichevole<br />
e collaborativo degli artisti pistoiesi operanti tra le due guerre (anche se il<br />
nome attribuito al gruppo Scuola di <strong>Pistoia</strong> si deve a Cesare Vivaldi), siamo in<br />
pieno rapporto con la cultura internazionale contemporanea, dalla metà degli<br />
anni Cinquanta incentrata sulla Pop Art americana che essi sono riusciti a coniugare<br />
rapportandola alla situazione locale e italiana.<br />
Roberto Barni, pittore, ottimo disegnatore, scultore, si misurava con una sua<br />
idea, tutta europea, di una Pop quotidiana (catene, corde, tubi Innocenti, bastoncini<br />
di Shangai...). Ma subito dopo iniziava un suo ripercorrimento della<br />
storia della pittura italiana, incentrato sulla storia degli anni Trenta, da De Chirico<br />
a Savinio, che recuperava anche col suo disegno degli anni ’80, una matrice<br />
metafisica. La sue sculture si incentrano sull’idea di un uomo contemporaneo<br />
chiuso in una sua astratta e assente distanza dalla vita del mondo.<br />
Umberto Buscioni, fondamentalmente pittore e straordinario colorista, iniziava<br />
18 19
con una sua Pop casalinga (cravatte, camicie, tende, bandiere, tutte coloratissime,<br />
dapprima dipinte à plat, poi come lievitanti, diventate panneggi pesanti,<br />
ricchi di pieghe solcate di ombre, ispirate alle vesti dei santi nelle grandi pale<br />
d’altare seicentesche, in lavori dapprima solo allusivi ai corpi cui si riferiscono, e<br />
che poi compaiono in visioni quasi surreali di santi, di angeli sospesi in un volo<br />
pesante e concretamente reale.<br />
Gianni Ruffi ha elaborato un suo concetto di Pop-ular Art italiana, anzi toscana<br />
(e contadina), una Pop che non parla della vita quotidiana di una città di oggi,<br />
ma incarna, esaltandone le dimensioni, l’idea di quella”cultura materiale”che<br />
il Superstudio, il gruppo di architetti ‘radical’ fiorentini, di cui Adolfo Natalini<br />
è stato il promotore, ha sempre studiato. Ruffi ha trasformato tagliole, cestole,<br />
gabbie, fionde, onde del mare solidificate e basculanti, in simboli ironici, talvolta<br />
anche crudeli, di un mondo millenario. E vi ha espresso una sua ironia<br />
sottile, il suo continuo gioco linguistico, in un concettualismo legato anche,<br />
in qualche modo, e passando da Duchamp, allo “strabismo” di Boetti e alla<br />
leggera poeticità di Finlay.<br />
Adolfo Natalini che aderiva al gruppo di <strong>Pistoia</strong> mentre, a Firenze, seguiva i corsi<br />
di architettura e nel 1966 promuoveva, con altri, la Superarchitettura da cui sarebbero<br />
nati i gruppi di Architettura radicale (Superstudio, Archizoom, Ufo, 999).<br />
Nell’ambito del gruppo pistoiese realizzava grandi quadri di nuotatori, di giovani,<br />
di grandi personaggi (Mao Zedong, Louis Armstrong), secondo una sua libera<br />
interpretazione della Pop Art americana, lavori di notevole vitalità e interesse.<br />
Chiudiamo il XX <strong>secolo</strong> inserendo, come esempi degni di nota, i nomi di tre artisti<br />
fra i più interessanti del periodo, Franco Bovani che, formatosi sulla scorta<br />
della ‘Pop’ ironica della Scuola di <strong>Pistoia</strong>, matura un linguaggio personale in<br />
cui l’aspetto materico diviene centrale; Massimo Biagi, col suo “graficismo”, le<br />
sue sculture estroflesse, gli “eccitoplastici”, la sua incessante ricerca e Andrea<br />
Dami, noto per le grandi realizzazioni, le “sculture sonanti”, la Città-sonante,<br />
la “pitto-architettura”. Siamo riusciti anche, allo scopo di completare, seppure<br />
in maniera ridotta, ma in ogni caso identificativa dell’arte del Novecento e dei<br />
primi del nuovo <strong>secolo</strong> a <strong>Pistoia</strong>, e anche qui a titolo più esemplificativo che<br />
di scelta responsabile, i nomi di due artisti giovanissimi, Federico Gori e Zoè<br />
Gruni, che esprimono una loro interpretazione del “fare arte”, perfettamente<br />
in chiave con le più vivaci manifestazioni artistiche internazionali contemporanee,<br />
con un proprio linguaggio personale e, vorrei dire, anche profondo.<br />
Federico Gori impegnato in un percorso di continuo approfondimento del<br />
rapporto col suo specchio continuo di riferimento, il bosco, i suoi segni, in cui<br />
trasferisce la memoria, il significato stesso del suo “fare arte”.<br />
Zoè Gruni imposta il suo lavoro, al femminile, su una linea oggettuale. La sua<br />
scelta consiste nel raccogliere balle usate nei lunghi trasporti transoceanici,<br />
che parlano di mari e paesi stranieri, di popoli e mondi lontani. Con le sue balle<br />
di juta realizza copricapi-copricorpi che indossa nelle sue accese, polemiche<br />
e aggressive performance.<br />
Questo avvicinamento alla situazione artistica attuale a <strong>Pistoia</strong>, mi ha mostrato<br />
un panorama, ripeto, legato a quello nazionale e internazionale, che pure non<br />
dimentica quella che è stata una delle qualità peculiari degli artisti pistoiesi,<br />
il rapporto e la collaborazione, la discussione e il confronto di idee, che ormai<br />
sono quasi dimenticati altrove...<br />
Fuori da questa corsa nella storia artistica di <strong>Pistoia</strong>, in mostra un’opera eseguita<br />
attorno al ’29 di Giacomo Balla, che può porsi anche come immagine<br />
simbolo di tutta una linea dell’arte del ‘900, non tanto per il significato del<br />
lavoro, pur notevole per la limpida sintetizzazione geometrica, che in qualche<br />
modo si riporta alle Compenetrazioni iridescenti, quanto per aver aperto, con le<br />
sue ricerche sulla scomposizione del colore, che partono da quella dello spettro<br />
luminoso e dalle sperimentazioni di Marey e Muybridge sul dinamismo,<br />
quanto per aver aperto la strada a quella che è stata definita “la linea analitica”<br />
che passerà dall’“astrattismo geometrico” per un verso, dall’“astrazione lirica”<br />
dall’altro, che dal Quadro bianco (1917) di Malevič, al lavoro di Albers, di<br />
Noland, di Rothko, al nero immateriale di Reinhardt, arriva fino alla luminosa<br />
tessitura di Dorazio e oltre...<br />
Nella seconda parte di questo volume presentiamo anche il grande lavoro<br />
portato avanti in questi anni dalla Fondazione sul territorio, dove promuove e<br />
finanzia installazioni permanenti straordinarie, di grandi e grandissimi artisti<br />
internazionali. Le opere saranno presenti in mostra grazie a un bel video di<br />
Tayu Vlietstra.<br />
Ringrazio per la disponibilità, la cordialità, la<br />
collaborazione continua Elena Ciompi della<br />
Fondazione; Cristina Tuci della Cassa di Risparmio<br />
di <strong>Pistoia</strong> e Pescia per l’aiuto, l’amicizia,<br />
l’affabilità; Cecilia Barbieri per essermi<br />
stata sempre vicina con affetto; Annamaria Iacuzzi<br />
per aver seguito con passione, attenzione<br />
e impegno l’editing del volume e l’allestimento<br />
della mostra. <strong>Un</strong> grazie particolare a Roberto<br />
Boschi per averci prestato alcuni importanti<br />
cataloghi.<br />
Cenni bibliografici<br />
A. Parronchi, Artisti toscani del primo Novecento,<br />
Firenze 1958.<br />
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano<br />
1967.<br />
D. Roter, Agenore Fabbri, cat. acquisizioni, <strong>Pistoia</strong><br />
1997.<br />
Motivi e figure nell’arte toscana del XX <strong>secolo</strong>, a cura<br />
di C. Sisi, Banca Toscana, Firenze 2000.<br />
P. F. e A. Iacuzzi, Corrado Zanzotto e il dialogo<br />
dietro il Paesaggio, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 2004.<br />
E. Vittorini in A. Iacuzzi, Alberto Caligiani, in<br />
Arte in Maremma nella prima metà del Novento, a<br />
cura di E. Crispolti, A, Mazzanti, L. Quattrocchi,<br />
Cinisello Balsamo 2005-2006.<br />
20 21
LE PRIME AVANGUARDIE<br />
Andrea Lippi<br />
Mario Nannini<br />
23
Andrea Lippi<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1888-1916<br />
“… Uomo eterno Mistero Dolore profondo / donde vieni? Qual’è<br />
la tua mèta? / Finisci morendo, oppure cometa / che torna rivivi nel<br />
mondo? / O vecchio bambino che vai senza mamma / in seno alla<br />
gelida morte, che gridi? / Contento a la legge divina / contempla e<br />
sorridi”.<br />
Sono dei versi, forse tra gli ultimi, di Andrea Lippi, uno degli artisti più discussi<br />
del primo Novecento a <strong>Pistoia</strong>. Vissuto, fin dall’infanzia, a contatto con gli architetti,<br />
gli scultori del tempo che frequentavano la Fonderia Artistica paterna (da<br />
Coppedè a Calandra, Bistolfi, Rubino, Romanelli), in un periodo dominato dal<br />
simbolismo di un Liberty tardo, fantasioso, coinvolto e coinvolgente come lo<br />
snodarsi della sua linea che da sensuale volgeva (Bistolfi ne è il simbolo) verso un<br />
tragico, funereo, disperato sfaldarsi, anche perché molto Liberty si sfiniva, molto<br />
spesso, in lugubri linguaggi cimiteriali, Andrea Lippi, sotto la guida del padre, si<br />
impadroniva con grande velocità del mestiere: eseguiva, ancora bambino, piccoli<br />
gruppi scultorei e bassorilievi, per darsi poi a copie di sculture e di decorazioni<br />
antiche. Dal 1906 studiava all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove i maestri<br />
erano Rivalta, De Carolis… Nutrito di grande passione anche per la letteratura e<br />
per la poesia, passione che anche De Carolis gli trasmetteva (da Baudelaire a Pascoli,<br />
da Poe a Dante), era già molto attento ai movimenti artistici fuori d’Italia,<br />
e particolarmente agli esiti dell’Espressionismo tedesco.<br />
La sua prima giovinezza, come scrive Rosanna Morozzi nel suo bel saggio Gli<br />
anni delle avanguardie “coincide con la grande stagione delle riviste, non solo<br />
come le fiorentine “Il Leonardo” e “La Voce”, di cui esistono interessanti appendici<br />
anche in provincia”. Lippi segue “Athena”, diretta dallo scrittore e critico<br />
Renato Fondi, che disapproverà fortemente il “Manifesto e Fondazione del<br />
Futurismo” sul secondo numero di “Athena”. Nel ’14 uscirà “La Tempra”, che<br />
porterà Costetti a <strong>Pistoia</strong>. Vi scriveranno Campana, Prezzolini, vi si presenteranno<br />
le xilografie di Lega e di Michelucci, tra le altre. Durante gli studi a Firenze<br />
Lippi si avvicinava a due giovani scultori, Alfeo Faggi e Luigi Luparini, coi quali<br />
condivideva la passione per il fantastico (con Faggi), la tendenza alla stilizzazione<br />
della struttura formale (con Luparini), portando all’esasperazione il suo simbolismo,<br />
di carattere fortemente espressionista. Da allora la sua linea si fa via via più<br />
convulsa, le figure si affollano, si contorcono, l’una sull’altra nei suoi lavori sempre<br />
più esasperati. La presenza a <strong>Pistoia</strong>, nel 1911, di Bistolfi, incoraggia la sua ostinata<br />
passione. Stava allora lavorando a La Chimera che opprime l’uomo, ispirata dal<br />
poemetto di Baudelaire Chacun sa Chimère, già impostata in un blocco unico, che<br />
vede il mostro abbarbicato addosso all’uomo, su cui stende, ad avvolgerlo, le sue<br />
ali (1913). Non siamo ancora alle sue composizioni più complesse, dove le figure<br />
umane, rese scheletriche e quasi deformi (ne La Chimera il corpo dell’uomo è ancora<br />
legato ad una formatività classica) si arrampicano l’una addosso all’altra, in un<br />
tentativo angoscioso di salita, in spirali improbabili, come in Campane, 1912-‘13,<br />
una composizione “torreggiante” (Morozzi), dove il re dei vampiri “suonando il<br />
rintocco rotola e rotola senza fine il canto lugubre delle campane” (Poe), o come<br />
Scioperanti, 1913, un lavoro di una drammaticità esasperata, che, peraltro, fa emergere,<br />
in alto, una testa che si ispira alla Pietà Rondanini di Michelangelo: è l’intero<br />
blocco che si curva verso l’alto, quasi immedesimandosi nella forma allusiva di<br />
una donna piegata dal dolore. Anche i disegni preparatori delle sculture (Scioperanti),<br />
si svolgono per tratti convulsi, nervosi, quasi gestuali. Del ’13 è anche La<br />
Deposizione, che sembra anche voler tradurre in violenza angosciosa la spirale<br />
allucinata della Deposizione del Pontormo in Santa Felicita a Firenze. Alla morte<br />
del padre (1908) Lippi si vede costretto ad assumersi la direzione della fonderia.<br />
Ma continuerà “a portare avanti ostinatamente, nel disegno e nella scultura,<br />
la rappresentazione di un universo popolato da creature fantastiche e da esseri<br />
deformi”. Dal ’14 abbandonerà sempre più il suo mondo di fantasmi per adire<br />
ad un sintetismo formale ispirato all’arte primitiva (Testa del fratello Ulisse, 1914),<br />
ammirato a Firenze da Maraini e Stanghellini, criticato duramente da Calandra.<br />
Lippi esporrà alla Biennale di Venezia del ’14 I Titani e poco dopo realizzerà<br />
uno dei suoi lavori più importanti, l’altorilievo La Guerra (ispirato all’Inferno di<br />
Dante), un blocco diviso in due grandi riquadri, La Torre dei Venti e L’Acheronte,<br />
sovrapposti ed emergenti in vortici dinamici, che creano un rapporto di luce e<br />
ombra di una forza sconvolgente. La sua ultima opera, prima della sua morte<br />
precoce, è il rilievo Levane (1915), creato per il concorso Curlandese di Bologna;<br />
qui la forza appassionata della sua violenza sembra placarsi in una dolorosa rassegnazione.<br />
È alle soglie la guerra. Lippi sta morendo.<br />
“Bisogna ritrovarsi a tutto prima di morire<br />
dice la zia Teresa ma però è un crepuscolo meraviglioso<br />
e la carretta rossa spicca contro la terra<br />
bigia ma la palla del letto mi para le foglie verdi,<br />
ma non importa guardo il cielo dove pigolano gli<br />
uccelli attraverso le nuvole e una stella bianca apparisce<br />
all’improvviso... Mentre scrivo mi diverto<br />
a guardare le nuvole che cambiano sempre ecco<br />
Sordello che abbraccia Virgilio piano piano Dante<br />
svanisce Virgilio doventa un vipistrello, ecco il<br />
vipistrello diventa un coro d’angioli e il terzo cielo,<br />
il cielo di Venere Dio meraviglioso il cielo di<br />
Venere diventa un leone…” (in R. Morozzi, Gli<br />
anni delle avanguardie).<br />
Cenni bibliografici<br />
A. Parronchi, Artisti toscani del primo Novecento,<br />
Firenze 1958, pp. 58-91 e pp. 291-300.<br />
A. Morozzi, Andrea Lippi, in Scultura italiana del<br />
Novecento, Firenze 1980.<br />
A. Parronchi, Due artisti innovatori nella <strong>Pistoia</strong><br />
del primo Novecento, in La città e gli artisti. <strong>Pistoia</strong><br />
tra avanguardia e Novecento, cat. mostra a cura<br />
di C. Mazzi e C. Sisi, <strong>Pistoia</strong> 1980.<br />
R. Morozzi, Andrea Lippi. La melodia infinita<br />
della linea, in “Tremisse pistoiese”, XIX, 1,<br />
1994, pp. 40-48.<br />
Il linguaggio della passione in Lorenzo Viani e<br />
Andrea Lippi. La lezione di Giovanni Pisano, altre<br />
fonti, letture e scritti, a cura di A. Serafini, Lucca<br />
1995.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
R. Morozzi, Gli anni delle avanguardie. Andrea Lippi<br />
e Mario Nannini, in Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>,<br />
<strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
24<br />
25
Andrea Lippi<br />
disegno preparatorio per Guerra (1914)<br />
matita nera, penna e inchiostro bruno su carta pergamenata<br />
parzialmente incollato, a sua volta, alla c. 1 della cartella<br />
di disegni di A. Lippi, cm 24,5 x 18,5<br />
Il disegno presenta sulla destra una figura gravata sotto un peso<br />
che quasi la schiaccia /ancora un ricordo della Chimera che opprime<br />
l’uomo?, ai piedi e in mezzo tre figure di cadaveri nudi; in alto un<br />
angelo della morte indica un fine (di salvezza?). Anche qui una<br />
grafia nervosa e convulsa ad esprimere una ricerca appassionata,<br />
inquieta e travolgente.<br />
26<br />
27
Andrea Lippi<br />
Figura maschile nuda, che incede portando sulle spalle un corpo nudo<br />
inerte, disegno preparatorio per il gesso Scioperanti (1913)<br />
matita nera, penna e inchiostro bruno su carta pergamenata,<br />
parzialmente incollato, a sua volta, alla c. 4 della cartella di<br />
disegni di Andrea Lippi, cm 27,5 x 19,8<br />
<strong>Un</strong> disegno di grande intensità espressiva che mostra la stessa,<br />
convulsa drammaticità legata, da un lato, al tardo, cupo Liberty<br />
italiano, reso più intenso e coinvolgente da una componente<br />
tardo-espressionista che Lippi ha sempre perseguito. Il segno<br />
mosso, sottile, talvolta spezzato, evidenzia i diversi livelli e i<br />
rilievi del corpo secondo gli spessori di un’opera tridimensionale,<br />
essendo, comunque, il disegno preparatorio di uno scultore.<br />
C’è una precisa descrizione dell’anatomia dei corpi fortemente e<br />
pesantemente intrecciati.<br />
28<br />
29
Andrea Lippi<br />
Scioperanti, 1913<br />
gesso, cm 150 x 65<br />
Ho già scritto che l’andamento di questa scultura, nella sua<br />
complessa unità, sembra, prima che ci avviciniamo a coglierne<br />
i molti, drammatici e intricati particolari, quello di una morbida<br />
figura femminile piegata verso destra, secondo i modi di un<br />
tardo Liberty italiano alla Bistolfi. È quando ci avviciniamo che<br />
possiamo coglierne il diverso contenuto corale, l’arrampicamento<br />
faticoso e dinamico, il groviglio dei personaggi che salgono<br />
in un avvolgimento vertiginoso verso l’alto, che appare quasi<br />
irraggiungibile. Prima del vertice, al di sopra della mano<br />
nervosamente aggrappata di una donna, una testa, più grande<br />
delle altre, sembra ispirarsi, pur nella sua abbreviata definizione,<br />
alla testa incappucciata della Pietà Rondanini di Michelangelo.<br />
Cosa che non meraviglia. Lippi adorava Michelangelo, che<br />
giudicava “il più grande artista di tutti i tempi”. Ma tutta<br />
l’opera è un addensarsi di personaggi inquietanti, tormentati,<br />
uniti in una sorta di cerchio della morte, immersi nel buio dal<br />
quale emergono, nell’ alternarsi di luce e di ombra, per alcuni<br />
particolari dei corpi convulsi. Suggestioni di un espressionismo<br />
esasperato si uniscono ad allusioni secessioniste che fanno di<br />
questo lavoro (in realtà un grande bozzetto lasciato non finito<br />
nella parte posteriore), una sorta di modello di un sentire<br />
violentemente drammatico.<br />
30<br />
31
Mario Nannini<br />
Buriano, Quarrata 1895 – <strong>Pistoia</strong> 1918<br />
Nel 1905, alla morte del padre, la famiglia (di proprietari terrieri), si trasferisce<br />
a <strong>Pistoia</strong> mentre, nel 1915, Nannini conseguiva la licenza in chimica all’Istituto<br />
Buzzi di Prato. Ostacolato dalla madre nella sua vocazione artistica, lasciava<br />
allora <strong>Pistoia</strong> per tornare a Buriano, presso la zia Ester, della quale egli realizzerà<br />
alcuni notevolissimi ritratti.<br />
Lavorerà, come la maggior parte degli artisti pistoiesi, nella campagna, accanto<br />
all’amico Caligiani. Iniziava a disegnare e a dipingere a quattordici anni.<br />
Dipingerà, inizialmente, volti di vecchi contadini, consapevole che “su quei<br />
corpi provati all’eccesso si innestano i germi rivoluzionari della poesia. Poesia<br />
uguale verità, e dunque anche per lui protesta sociale, non arte sociale”. (R.<br />
Morozzi, Gli anni delle avanguardie).<br />
I primi lavori di Nannini si ispirano a quel socialismo umanitario che stava<br />
sorgendo anche nella provincia toscana. Ma Arrigo Levasti, su “La Tempra”<br />
critica i suoi dipinti (Suono dell’organo, una xilografia dura, che si ispira alla grafica<br />
tedesca antica; La sera dei morti, 1915, commosso omaggio al dolore degli<br />
umili; Primo ritratto della zia Ester, ’13-’14, nel quale la donna, dal volto intenso,<br />
vestita di nero, seduta su una poltrona dai colori chiari che fa da sfondo al<br />
quadro, tiene una mano sopra un libro di preghiere). Il giudizio di Levasti può<br />
essere una delle cause per le quali, dal ’15, prima ancora di esser sollecitato<br />
anche dai racconti degli artisti che avevano fatto un viaggio a Parigi, elaborava<br />
i suoi primi tentativi di scomposizione e compenetrazione dei piani di cui<br />
scriveva a Primo Conti. Significa, come suggerisce Rosanna Morozzi, che egli<br />
aveva meditato sulla tecnica divisionista prefuturista di Balla e di Boccioni.<br />
Già nel Secondo Ritratto della zia Ester la tecnica pittorica, la luce contro la<br />
quale si staglia la figura vestita di nero si impostano secondo una nuova visione.<br />
Con la Mostra d’Arte alla Reale Accademia degli Armonici (1915) oltre a<br />
Mario Nannini, anche Innocenti, Michelucci, Lega si presentavano con lavori<br />
che li facevano segnalare dalla stampa locale come “ala sinistra, anzi estrema<br />
sinistra”. “Il Popolo Pistoiese” ne riconosceva, peraltro, “lo sforzo di rinnovamento”.<br />
Innocenti, intanto, veniva addirittura invitato a pubblicare sul giornale<br />
“Perla” le sue “parole in libertà”.<br />
I primi lavori futuristi di Nannini hanno ancora molti riferimenti naturalistici<br />
(Strada di campagna, ’15, che Rosanna Morozzi definisce “un capolavoro cubofuturista<br />
capace di reggere il confronto con un paesaggio di Braque”; Paesaggio,<br />
’16), anche se i riferimenti sono ancora Conti e Soffici. Scriveva allora<br />
Nannini a Lega: “Non confondere [...] Soffici ha raggiunto la sintesi per la<br />
forma ma anche pel colore, mentre io sono sempre sulla verità – colore delle<br />
viti – degli ulivi – dei monti – delle case –, e il paesaggio è il solito di quello<br />
che facevo nel ’14 (ricordate ?) soliti grigi e solita tavolozza”.<br />
Del ’16 è anche il lavoro Natura morta con bottiglia (1916?), presente in questa<br />
collezione e che Rosanna Morozzi avvicina ai lavori della russa Alexandra<br />
Exter. Vi appare la lettera tipografica che Soffici definisce “non più muto segno<br />
di convenzione, ma forma viva tra forme vive, la lettera può far corpo con<br />
la materia della rappresentazione”. Nannini continuerà coi lavori del ’17 e del<br />
’18 ad approfondire e chiarire la sua ‘sintassi’ pittorica con opere di grande<br />
abilità compositiva e di grande maturità, sia nell’uso del colore sia nella maestria<br />
con la quale riesce a inserire nella composizione, come elementi strutturali,<br />
ritagli di giornale, strisce di stampa...<br />
Nel Quarto ritratto della zia Ester (’17) Nannini<br />
raggiunge, nella sicurezza compositiva<br />
e nella dinamica del quadro, una padronanza<br />
che niente ha da invidiare a molte esperienze<br />
francesi. Con Luce+aereo+notte (’17) egli arriva<br />
a una intensità, anche emotiva, di grandissimo<br />
significato.<br />
Nel ’18 Nannini scriveva a Conti di voler costituire<br />
un gruppo futurista a <strong>Pistoia</strong>. Intendeva<br />
con Conti, Venna, Notte, Lega. Ma questi artisti,<br />
che nel frattempo tentavano loro di formare<br />
questo gruppo futurista senza riuscirvi,<br />
lo avevano escluso. E certamente la sua qualità<br />
va ben oltre i limiti del Futurismo in Toscana.<br />
“Solo la sua morte, nel ’18, impedì a <strong>Pistoia</strong> di<br />
diventare un luogo effettivo dell’avanguardia”<br />
(R. Morozzi).<br />
Giulio Innocenti raccoglieva allora i dipinti e i<br />
disegni di quel “figlio ribelle” che la famiglia,<br />
la madre per prima, rifiutava, assieme al suo<br />
nome.<br />
Cenni bibliografici<br />
Alessandro Parrochi, Il futurista in incognito<br />
Mario Nannini, in “Paragone”, 1957, VIII, 85,<br />
pp. 87-99.<br />
A. Parrochi, Artisti toscani del primo Novecento,<br />
Firenze 1958.<br />
S. Bartolini, Mario Nannini. Dipinti e disegni<br />
nella raccolta della Casa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e<br />
Pescia, <strong>Pistoia</strong> 1984.<br />
R. Morozzi, Mario Nannini. <strong>Un</strong> futurista a<br />
<strong>Pistoia</strong> (1895-1918), cat. mostra <strong>Pistoia</strong> 1995.<br />
M. Pratesi, A. Scappini, Il disegno in Toscana<br />
1900-1945, cat. mostra Poggio a Caiano,<br />
Firenze-Siena 1998.<br />
Mario Nannini nel laboratorio dell’opera. Disegni<br />
e dipinti 1913-1918, cat. mostra a cura di A.<br />
Iacuzzi, Centro di Documentazione sull’Arte<br />
moderna e contemporanea pistoiese, 2007<br />
<strong>Pistoia</strong>.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, 2007.<br />
R. Morozzi, Gli anni delle avanguardie. Andrea Lippi<br />
e Mario Nannini, in Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>,<br />
<strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
Mario Nannini (1895-1918), cat. mostra a cura<br />
di R. Morozzi, Galleria Enrico Frascione,<br />
Firenze 2009.<br />
32<br />
33
Mario Nannini<br />
Natura morta con bottiglia, 1916<br />
tecnica mista (olio e collage) su cartone, cm 43,5 x 25,5<br />
Già costruito con sicura abilità tecnica, questo lavoro appartiene<br />
al primo periodo dell’esperienza futurista di Nannini, che avrà,<br />
purtroppo, breve durata perché, come si è visto, troncata da una<br />
morte prematura; ma già qui presenta una maturità che non<br />
molti artisti, anche con maggior tempo a disposizione, hanno<br />
raggiunto. Coerente e precisa la scomposizione dei piani, trattati<br />
per passaggi di colore ancora tonali, mentre la bottiglia è trattata<br />
à plat. Perfetta la disposizione delle strisce di giornale inserite<br />
a collage. Il riferimento è ancora il futurismo di Conti e di<br />
Soffici, ma già si indovina una tensione personale, la ricerca di<br />
un linguaggio aperto verso orizzonti più vasti. Rosanna Morozzi<br />
come ho già detto, avvicina questo quadro a quelli di Alexandra<br />
Exter. Ma è chiaro che il lavoro precedente gli è servito per<br />
raggiungere questa morbidezza dei passaggi dei piani e del<br />
colore. Anche nei suoi quadri futuri, di una complessità e di<br />
una maturità perfettamente autonome, opere accostabili alle<br />
più importanti realizzate a livello nazionale e internazionale,<br />
il riferimento al “vero”, che egli rivendica, gli permetterà una<br />
profondità e una sensibilità assolutamente personali.<br />
34<br />
35
Mario Nannini<br />
Doppia scomposizione di figure, 1916-1917<br />
carboncino su carta beige, cm 26,5 x 35,5<br />
La prima figura di donna seduta col lavoro in mano, ancora<br />
chiaramente distinguibile, si articola su una sorta di semicerchio<br />
formato dalle spalle e dalle braccia chiuse su un lavoro a maglia o<br />
di ricamo; a questa è sovrapposta una massa piccola, la testa della<br />
donna, i cui particolari si definiscono con fitti segni; ed è come<br />
divisa dal corpo da due grandi linee incrociate; la parte inferiore,<br />
dai fianchi alle gambe è solcata da segni fitti a disegnare ombre,<br />
linee che si scontrano formando, in complesso, come un<br />
grande guscio morbido e concluso. In definitiva una profonda<br />
ricerca portata avanti da Nannini nei suoi ultimi anni, tesa alla<br />
definizione di un suo particolare cubo-futurismo, che diverrà uno<br />
tra gli esempi più vivaci e particolari di questa linea, evidente<br />
anche negli ultimi quadri dell’artista. La seconda parte del<br />
disegno, divisa da una linea verticale, presenta una più profonda<br />
definizione nella scomposizione dei volumi che segni netti e<br />
tracce fitte riescono a trasformare in una stravolta immagine di<br />
donna seduta al lavoro vista di profilo.<br />
36<br />
37
Mario Nannini<br />
Figura di donna, 1917 ca<br />
carboncino e collage su carta beige, cm 34,5 x 23,5<br />
Questo bel disegno è ancora un esempio più maturo del<br />
peculiare cubo-futurismo di Nannini che ancora si riferisce alle<br />
sue interpretazioni nei molti ritratti della zia Ester; il lavoro si<br />
arricchisce di un numero disegnato o stampato a sinistra; a destra<br />
un collage di fogli di giornale sovrapposti che contorna la figura<br />
della donna dalle spalle al fondo del foglio; ancora, a destra<br />
verso l’angolo del quadro, il disegno è coperto da un collage di<br />
colore giallo a caratteri grandi neri che aggiunge un tocco vivo<br />
di colore. Si evidenzia sempre più il carattere particolare del<br />
linguaggio di Nannini che si differenzia da quello del futurismo<br />
italiano (e toscano): Nannini non grida mai “alla guerra sola<br />
igiene del mondo”, al mito della macchina e della velocità, ma<br />
intende, comunque, essere sempre legato alla natura, alla realtà,<br />
all’eredità artistica della sua città, che si riflette anche nei suoi<br />
lavori freschi, ispirati alla leggerezza, del suo ultimo, bel periodo<br />
futurista.<br />
38<br />
39
Mario Nannini<br />
Scomposizione di figura (Zia Ester con l’ombrellino), 1917<br />
olio su cartone, cm 56 x 34, 5<br />
<strong>Un</strong> lavoro di grande interesse, dove la ricerca di Mario Nannini<br />
si esprime nella sua complessità, dalla definizione della figura,<br />
la cui scomposizione è anche qui svolta per volumi. La donna<br />
è rivolta per tre quarti verso sinistra, col piccolo volto sotto il<br />
cappello che le fa ombra; il movimento sembra affidato ai volumi<br />
delle vesti, dall’azzurro della sciarpa, al cappotto bordato di<br />
pelliccia, che forma triangoli acuti che finiscono, in basso, alla<br />
destra della figura, nel lungo triangolo dell’ombrellino e, a metà<br />
busto, nel manicotto cilindrico. Sul fondo gli edifici della città,<br />
distinti dall’andamento verticale, dal colore delle mura e degli<br />
intonaci; nell’angolo in alto, a destra, un numero nero su bianco<br />
(un’insegna, un simbolo caratteristico del fare di Nannini?).<br />
La maturità del linguaggio, la vitalità del suo segno, il rapporto<br />
luce-ombra, la profondità della ricerca non impediscono,<br />
comunque, all’autore, di esprimere un rapporto, anche<br />
affettuoso, verso la persona che è sempre stata, per lui, un<br />
riferimento di vita.<br />
40<br />
41
CONTRIBUTI CULTURALI<br />
ALLO SVOLGIMENTO<br />
DELL’ARTE A PISTOIA<br />
Giovanni Costetti<br />
Galileo Chini<br />
Giovanni Michelucci<br />
43
Giovanni Costetti<br />
Reggio Emilia, 1874 – Settignano, Firenze, 1949<br />
A Parigi, circa ventenne, con Ardengo Soffici, Gino Brunelleschi, Gino Melis,<br />
si stabiliva subito dopo a Firenze, dove resterà fino agli anni Quaranta, quando<br />
arriverà in Olanda e viaggerà per l’Europa. A Firenze era subito entrato<br />
in rapporto con gli esponenti della cultura, da Papini, per il quale realizzava<br />
l’incisione di testata per la sua rivista “Leonardo”, a Gabriele D’Annunzio.<br />
Dal ’14 ha inizio la sua collaborazione con la rivista pistoiese «La Tempra»,<br />
allora diretta dall’amico Renato Fondi, noto critico, che forse è stato il primo a<br />
parlare di “Scuola pistoiese”, per la quale Costetti scrive poesie, recensioni e<br />
saggi ideologici. È attraverso questa rivista che Costetti iniziava a trasmettere<br />
agli artisti pistoiesi la sua concezione di arte “pura”, cioè libera da influssi<br />
letterari, filtrata attraverso la lezione del Postimpressionismo e di Cézanne, il<br />
cui principale tramite è il colore, “bellezza che si estrae dalla natura”, ma che<br />
ha origine nello spirito. Il colore assume, per Costetti, un significato misterioso,<br />
magico e simbolico, e si pone all’origine della forma dell’opera pittorica,<br />
anche della sua strutturazione. E si ricordi che, nel 1911, era uscito, di Kandinskij,<br />
Lo spirituale nell’arte...<br />
Scriveva Costetti in Consigli generosi ai critici ne “La Tempra”, I, 4, maggio<br />
1914: “Avendo dunque il colore un valore di plasticità ecco dunque svilupparsi<br />
la forma, e il sentimento essendo il risultato della sensibilità pittorica,<br />
ecco dunque apparire la composizione, l’architettura del quadro. Ecco tutto<br />
quel mondo apparso più vivo per averlo guardato sotto il chiaro aspetto della<br />
pittura pura”.<br />
Costetti sarà tra i promotori della famosa Mostra del Bianco e Nero a <strong>Pistoia</strong><br />
del 1913, alla quale furono presenti tutti i più noti artisti toscani, quasi tutti<br />
dediti alla xilografia, da Viani a Lega, a Rosai.<br />
Con la nascita del “Cenacolo”, i cui esponenti si riunivano, dal ’24, nella fattoria<br />
di Agostini (da Bugiani, Cappellini, Mariotti, Zanzotto, Caligiani, Michelucci<br />
e, probabilmente Marino Marini) si concretizzava quel clima di rinnovamento<br />
promosso da Costetti, fondato sul “contatto francescano con la natura<br />
alla luce dei grandi ‘primitivi’” (R. Campana 2003).<br />
Già era presente a <strong>Pistoia</strong> Giuseppe Lanza del Vasto, giovane filosofo e poeta,<br />
nato in Puglia da famiglia sveva, che, dopo aver studiato a Parigi, era venuto<br />
in Toscana per studiare filosofia a Pisa, e che molto contribuirà alla conoscenza<br />
all’estero dell’arte pistoiese del Novecento.<br />
Lo straordinario rapporto di Costetti col colore, “la cui materia pittorica” come<br />
ancora scrive Rossella Campana “intende gli spagnoli attraverso Cézanne, in<br />
una sintesi straordinaria di passato e presente, che trasfigura i personaggi rap-<br />
presentati, spiritualizzandoli quasi fossero dei<br />
moderni El Greco”, resta, a mio avviso, la sua<br />
qualità più notevole.<br />
Basterebbero i due splendidi ritratti presenti<br />
in questa collezione, quello di Dino Campana<br />
(incerto, non documentato), tutto giocato sul<br />
rapporto tra il volto dai tratti vibranti, gli occhi<br />
intensi, dorati, quasi stralunati, i capelli, la<br />
barba, i baffi biondi e il verde cangiante della<br />
giacca e del panciotto (forse di velluto), in contrasto<br />
col triangolo bianco della camicia.<br />
O quello di Marino Marini, straordinario esempio<br />
di un rapporto privilegiato tra l’eleganza<br />
quasi modiglianesca della figura e il colore stupendamente<br />
calibrato, nella morbidezza degli<br />
impasti e nelle raffinatissime scalature che<br />
culminano nello splendore dell’azzurro della<br />
camicia, con lievi sfumature d’ombra, col morbido<br />
trascorrere nei toni rosati della faccia, e il<br />
fondo di un cielo sereno.<br />
Cenni bibliografici<br />
G. Costetti, Lezione generosa di critica d’arte a<br />
chi d’arte scrive senza capirne un’acca, in “La<br />
Tempra”, <strong>Pistoia</strong>, a. I, n. 2, 1 aprile 1914.<br />
G. Costetti, Dopo una dichiarazione, in “La<br />
Tempra”, 1 aprile 1914.<br />
Vita e morte: poesie e disegni di Giovanni Costetti,<br />
a cura di M. Sewell Costetti e E. Vallecchi,<br />
Firenze 1950.<br />
Grafica di Giovanni Costetti, Reggio Emilia 1976.<br />
Giovanni Costetti, cat. mostra a cura di R. Barilli<br />
e G. Ambrosetti, Milano 1983.<br />
S. Ragionieri, Giovanni Costetti e le “Danze del<br />
cielo”, in “Artista”, I, 1, 1989, pp. 18-32.<br />
Giovanni Costetti: Maestro del Novecento Italiano,<br />
cat. mostra a cura di Giuseppe Paccagnini,<br />
<strong>Pistoia</strong> 1998.<br />
R. Campana, Renzo Agostini, ‘Il cenacolo’ di Giovanni<br />
Costetti e l’alternativa del colore, in Renzo<br />
Agostini, cat. mostra Centro di Documentazione<br />
sull’Arte moderna e contemporanea pistoiese,<br />
<strong>Pistoia</strong> 2003.<br />
<strong>Un</strong> interludio fiorentino. Giovanni Costetti, Anieka<br />
Leggett e i disegni per Poggiochiaro, a cura di S. De<br />
Rosa, Firenze 2004.<br />
Giovanni Costetti 1874-1949, a cura di G.<br />
Paccagnini, Montecatini Terme 2004.<br />
Carlo Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong><br />
2007.<br />
44<br />
45
Giovanni Costetti<br />
Ritratto di Mai Sewell Costetti, s.d.<br />
olio su cartone riportato su tela, cm 60 x 49<br />
<strong>Un</strong> bel ritratto della moglie, nel quale Costetti esprime, come<br />
sempre, il suo rapporto privilegiato, mistico e simbolico, ma<br />
anche profondamente estetico, col colore, anche se qui il colore<br />
è tenuto costantemente su toni bassi e non sul rapporto vivo di<br />
colori luminosi e chiari, come in altre opere. Anche in questo<br />
ritratto, comunque, il profilo della donna riesce a emergere dal<br />
fondo di un rosso scuro, attraverso una lieve luce che fa risaltare<br />
il morbido incarnato del volto e l’oro dei capelli.<br />
Dietro la figura della donna una lunga tavola a fondo oro<br />
presenta una figura sottile di donna il cui volto fa pensare a certi<br />
ritratti del Fayum, ma anche a certi fondi oro medievali secondo<br />
la tendenza eclettizzante del momento. Si tratta di un altro<br />
saggio della grande abilità di Costetti nel trattamento del colore<br />
e della luce.<br />
46<br />
47
Giovanni Costetti<br />
Ritratto di Dino Campana (?), 1909 (?), da posticipare al 1914 (?)<br />
olio su tela, cm 100 x 60, firmato in basso a sinistra con data 1909<br />
Lascio, intenzionalmente, il punto interrogativo nel titolo, nella data di esecuzione,<br />
e in quella da me presunta, dell’opera, perché so quanto siano ancora difficili alcune<br />
datazioni relative alla durissima vita di uno dei nostri più grandi poeti, poco riconosciuto<br />
in vita, se non da qualche intellettuale e da qualche poeta (<strong>Un</strong>garetti e De Robertis,<br />
per esempio), vittima di sgradevoli soprusi. Si pensi alla brutta avventura del suo unico<br />
manoscritto de I Canti Orfici – inizialmente Il più lungo giorno – che egli, a Firenze, nel<br />
1913, aveva consegnato a Papini, e questo a Soffici, il quale, alla successiva richiesta<br />
del poeta, negò di averlo mai ricevuto, costringendolo a un lavoro massacrante per<br />
una nuova stesura, con parti del tutto a memoria, del testo. Si ritroverà alla morte di<br />
Soffici (’71), tra le sue carte. Smemoratezza? Disprezzo? Invidia? Personaggio inquieto,<br />
nevrotico, certamente fuori dalle righe, che, dati i tempi, ad ogni trasgressione veniva<br />
arrestato e chiuso in manicomio... I genitori inoltre, quando lo mandarono in Argentina,<br />
gli procurarono un permesso-passaporto di sola andata... Il ritratto porta la data del 1909.<br />
Molto probabilmente (già alcuni critici discutono su alcune datazioni dei lavori di Costetti)<br />
è da spostarsi al ’13-’14, quando si pubblicavano I Canti Orfici e sembra sia questo il ritratto<br />
cui allude Campana nella sua lettera a Emilio Cecchi del ’16. Mentre il ritratto successivo,<br />
anch’esso eseguito da Costetti, confrontato con alcune fotografie (di cui una inedita) di<br />
Campana, sarebbe da spostare almeno verso la soglia degli anni Venti, anni dopo i quali il<br />
poeta restò definitivamente in manicomio. Comunque io ho confrontato questo superbo,<br />
fiero ritratto, con quello successivo. Ho osservato i tratti somatici: lo stesso naso, la stessa<br />
bocca, la stessa scriminatura dei capelli, lo stesso il taglio dei baffi e della barba. La faccia<br />
di Campana nelle fotografie è più rotonda. Certo, nel secondo ritratto si è come imbolsita,<br />
gli occhi sono spenti, le palpebre abbassate. Ma si pensi a come può essere stata stroncata<br />
una persona (e in questo caso un poeta), costretta alle ‘cure’ di un manicomio dei primi<br />
anni del ‘900. È vero che nella lettera a Cecchi Campana scrive: “Io ero un povero<br />
disgraziato esaurito, vestito da contadino con i capelli lunghi…”. Ma non è forse possibile<br />
che un mago del colore come Costetti sia riuscito a fare di questo “disgraziato”, un poeta<br />
(che egli ammirava), un eroe “vagabondo e audace”, e trasfigurato? (cfr. “La Tempra” II,<br />
1915, 1, dove Costetti scrive: “La musica invade il poema che è pieno di colori – la musica<br />
è nelle parole commosse, nelle immagini nuove – la pittura è in tutto...”. E “una sincerità<br />
che solo gli spiriti vagabondi e audaci... hanno”). Il mio giudizio è del tutto legato allo<br />
sguardo, al confronto visivo. È chiaro che posso sbagliare. Del resto su Campana le incertezze<br />
sembrano infinite e ogni anno nasce una nuova scoperta, come quella del ritratto di Tramonti<br />
(suo compagno di liceo) scambiato per il suo e per tanto tempo anche sulla copertina delle<br />
pubblicazioni dei Canti Orfici. Comunque questo primo ritratto è un altro simbolo perfetto<br />
della passione per il colore (ma anche per l’intuizione psicologica) di Costetti: il rapporto tra<br />
il biondo dei capelli e dei baffi, il colore dorato degli occhi, fieri e corruschi (“<strong>Un</strong>a volta una<br />
signora s’innamorò dei miei occhi di fauno”, Arabesco-Olimpia), col verde della giacca e del<br />
panciotto – forse di velluto un po’ cangiante, il triangolo bianco della camicia (quasi identico<br />
a quello nell’altro ritratto), il fondo chiaro, fanno di questo lavoro uno straordinario esempio<br />
della qualità pittorica di Costetti. Tuttavia il punto interrogativo resta, per prudenza.<br />
48<br />
49
Giovanni Costetti<br />
Ritratto di Marino Marini, 1926<br />
olio su tela, cm 120 x 94, firmato in basso a destra<br />
Splendido lavoro, tutto giocato sul colore, “una bellezza che si<br />
estrae dalla natura e la natura è, di fronte al colore, come la terra<br />
pietrosa che contiene il diamante”. Il colore è carico di “energia<br />
lirica” da trasformare in “scoperta, canto spiegato, luce”. Se si<br />
dovessero citare tutte le definizioni di Costetti relative al colore,<br />
non si finirebbe più.<br />
Ma, al di là delle sue teorie sul significato orfico spiritualista del<br />
colore, ne è straordinario l’uso nel suo lavoro.<br />
Questo ritratto è forse il simbolo più esaltante del suo rapporto<br />
pittorico col colore, che diventa protagonista di un’opera che, a<br />
mio avviso, rasenta la perfezione.<br />
“Avendo dunque il colore un valore di plasticità ecco dunque<br />
svilupparsi la forma [...] e il sentimento essendo il risultato della<br />
sensibilità pittorica, ecco dunque apparire la composizione,<br />
l’architettura del quadro”. Ripeto questa definizione, già citata,<br />
che mi sembra la lettura più esatta di questo quadro, impostato<br />
tutto sull’azzurro, dalla camicia nella quale il colore vivo si<br />
stempera in sfumature d’ombra, si interrompe nell’impasto<br />
morbido del giovane volto di Marino, riprende sul fondo azzurro<br />
chiaro che trascolora in grigio. È come l’esaltazione e il trionfo di<br />
una gioventù orgogliosa, forte del suo sicuro avvenire.<br />
50<br />
51
Galileo Chini<br />
Firenze, 1873-1954<br />
Dopo un inizio, in giovanissima età, dèdito al restauro e alla decorazione parietale,<br />
si dedicava alla manifattura ceramica. Apriva, nel 1896, con alcuni suoi<br />
familiari, una piccola fabbrica dandosi alla creazione di splendidi vasi, per i<br />
quali faceva uso di tecniche diverse, recuperando anche antichi metodi di<br />
lavorazione con i quali, pur usando moduli quattro e cinquecenteschi, riusciva<br />
ad elaborare progetti di forme e di decorazione in termini di modernità, acquistando,<br />
così, una notevole fama come ceramista. Si presentò, con successo,<br />
a varie mostre internazionali (Esposizione <strong>Un</strong>iversale di Parigi, 1900, Esposizione<br />
<strong>Un</strong>iversale di Torino, 1902). È nota la sua collaborazione con importanti<br />
architetti per la decorazione parietale di facciate e di interni di strutture architettoniche<br />
in Italia e fuori, che riusciva a interpretare non solo come espressione<br />
decorativa, ma anche realizzando lavori che divenivano parte integrante dello<br />
spazio architettonico. A Firenze lavorò soprattutto nelle architetture di Michelazzi<br />
(tra le altre al Villino Broggi-Caraceni, 1911).<br />
Nel 1909 eseguiva i cartoni per la decorazione della sala centrale del palazzo<br />
della Biennale di Venezia per la quale si ispirava alle rutilanti decorazioni,<br />
al prezioso corpuscolarismo e al simbolismo allegorico dei mosaici di Klimt.<br />
Nel 1911, chiamato dallo scià, che aveva visto i suoi lavori alla Biennale di<br />
Venezia, si trasferiva in Persia, dove rimaneva fino al 1913, per realizzare la<br />
decorazione parietale del Palazzo del Trono, progetto dell’architetto italiano<br />
Rigotti. Riporterà da questo soggiorno anche un arricchimento stilistico e<br />
formale di carattere orientalizzante, di cui farà tesoro nei suoi lavori ceramici<br />
e nelle decorazioni per vetrate. Nel suo lavoro decorativo aderiva, non senza,<br />
peraltro, interpretazioni personali, ai modi della Secessione viennese, ma si è<br />
poi sempre più ispirato alle decorazioni rinascimentali, interpretate in termini<br />
di un suo personale modernismo. Se infatti i suoi Putti sono più direttamente<br />
ispirati al Quattrocento fiorentino, le sue immagini femminili, pur riferendosi,<br />
anch’esse, a moduli quattrocenteschi, si distinguono sempre per un preciso<br />
riferimento al mondo contemporaneo. Invece nella pittura, che ha sempre<br />
continuato a portare avanti, ha seguito una linea legata ad un morbido, fresco<br />
naturalismo postimpressionista, con qualche riferimento fauve. Ne è un<br />
esempio l’arioso Autoritratto (1901), esposto in questa mostra. Il suo rapporto<br />
con <strong>Pistoia</strong> risale al periodo nel quale realizzava le decorazioni parietali interne<br />
del Palazzo della Cassa di Risparmio (1904-1905). “È dunque giunto<br />
Galileo Chini, nervoso, improvvisatore, libero e senza disciplina, con in petto<br />
uno sterminato orgoglio e un fuoco insostituibile. Dall’atrio alle gallerie, dalla<br />
scala alla sala delle adunanze, egli ha travolto tutto, operando di sorpresa, in<br />
un sol getto. Ha steso arazzi ovunque, ha sfondato vòlte, ha iniettato di rosso<br />
pompeiano gli interstizi della pietre, ha impallinato di frantumi d’oro ciò che<br />
gli pareva spento, persino le luminose lunette invetriate della sala maggiore,<br />
traslocando le robbiane di Cantagalli su un fondo viennese da Kolo Moser. E<br />
con Cantagalli egli ha duettato costantemente, sin da Fortezza e Abbondanza,<br />
le due donne accanto alla porta d’ingresso ed occhieggianti la leggiadria botticelliana<br />
[...]”, (C. Pizzorusso 2006).<br />
Questo lungo e variato lavoro di Chini tende “a una maggiore monumentalità,<br />
propria dell’Accademia di Belle Arti di Bologna”, come scrive Mirella<br />
Branca (1997), con motivi che essa definisce, con felice intuizione, “di ispirazione<br />
mantegnesca”. Il lavoro di Chini fu ostacolato dagli artisti pistoiesi<br />
come molti altri lavori eseguiti a <strong>Pistoia</strong> da artisti non pistoiesi, in nome di un<br />
preteso diritto di prelazione. In particolare Fabio Casanova, Lorenzo Guazzino<br />
e Francesco Chiappelli dichiaravano il ‘fregio policromo’ di Chini “ostico<br />
all’occhio toscano, il quale non poteva ammettere colori dove già brillavano i<br />
rilievi robbiani”; in realtà l’azzurro lapislazzuli che fa da fondo ai putti della<br />
sala si riporta proprio, nel tono, a quello delle<br />
ceramiche robbiane...<br />
“Chini” scrive ancora Mirella Branca “ora ragiona<br />
da decoratore in senso ampio [...]; c’è<br />
tutta l’adesione al naturalismo toscano e, insieme,<br />
la capacità di accompagnare le partiture<br />
architettoniche senza per questo esserne<br />
limitato”. E ancora: “Nel fregio”(interno) “con<br />
putti si esprime con una vera e propria felicità<br />
decorativa, che viene dalla capacità dal pittore<br />
di riflettere e poi inventare liberamente [...]”.<br />
La lucentezza dei putti di Galileo Chini si richiama<br />
a quella delle terrecotte invetriate di<br />
Luca della Robbia. Ma è anche evidente la modernità<br />
del suo lavoro, nutrito della sua cultura<br />
artistica che unisce la conoscenza dell’arte del<br />
passato con quella contemporanea. Per quanto<br />
riguarda il suo rapporto con gli artisti pistoiesi,<br />
va ricordato che molti sono stati suoi allievi<br />
quando insegnava a Firenze all’Accademia.<br />
Cenni bibliografici<br />
C. Marsan, Galileo Chini 1873-1956, cat. mostra,<br />
Borgo San Lorenzo 1971.<br />
L.-V. Masini, Art Nouveau, Firenze 1976.<br />
Galileo Chini 1873-1956, cat. mostra a cura di<br />
P. Chini Polidori, C. Paolicchi, L. Stefanelli<br />
Torossi, Milano 1987.<br />
Gilda Cafariello Grosso, Raffaele Monti, La<br />
manifattura Chini, Roma 1989.<br />
M. Branca, Decorazione murale tra <strong>Pistoia</strong> e Firenze:<br />
1900-1950, in “Bollettino quadriennale<br />
dell’Istituto Regionale di ricerca sperimentale”,<br />
n. 3, Firenze 1997.<br />
Il Tarlo polverizza anche la Quercia, Le memorie di<br />
Galileo Chini, a cura di F. Benzi, Firenze-Siena<br />
1998.<br />
Ad Vivendum, Galileo Chini e la stagione<br />
dell’incanto, cat. mostra a cura di F. Benzi,<br />
<strong>Pistoia</strong> 2002.<br />
Galileo Chini 1873-1956, a cura di P. Pacini,<br />
Firenze 2003.<br />
<strong>Un</strong> palazzo nuovo di stile vecchio. La sede della<br />
Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong>, a cura di G.<br />
Chelucci, <strong>Pistoia</strong> 2006.<br />
C. Pizzorusso, Ode a <strong>Pistoia</strong> 1898-1915. <strong>Un</strong> apocrifo<br />
del Comm. Giulio de’ Ricci sulle decorazioni in<br />
<strong>Un</strong> palazzo nuovo...cit.<br />
52<br />
53
Galileo Chini<br />
Autoritratto, 1901<br />
olio su tela, cm 100 x 100; firmato in basso a destra con data 1901<br />
Questo quadro appartiene al periodo nel quale Galileo Chini<br />
si occupava, in modo particolare, di arti applicate: decorazione<br />
parietale, splendide creazioni ceramiche che lo portavano a<br />
esporre nelle più importanti mostre nazionali e internazionali.<br />
Portava avanti, peraltro, anche la pittura da cavalletto, che ha<br />
sempre seguito una linea legata a un postimpressionismo che<br />
esalta la funzione della luce e del colore. Questo Autoritratto<br />
è già non del tutto consueto nel formato quadrato, mentre<br />
generalmente l’autoritratto si svolge in verticale. Ma è proprio<br />
questo formato che consente a questo lavoro di configurarsi con<br />
questa dilatata ariosità. <strong>Un</strong>’altra originalità è che il quadro è stato<br />
realizzato all’aperto, davanti al mare e al cielo luminoso, cosparso<br />
di nubi bianche che, a tratti, filtrano il sole; del quadro compare,<br />
sulla sinistra, una parte del retro; l’autore guarda con attenzione<br />
verso l’osservatore, il volto in parte in ombra. La mano sinistra<br />
sorregge la tavolozza rettangolare con alcuni pennelli; la mano<br />
destra è appena accennata.<br />
È un’opera di tutto rispetto, piacevole, serena, malgrado lo<br />
sguardo un po’ severo del protagonista.<br />
54<br />
55
Giovanni Michelucci<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1891 – Firenze, 1990<br />
Avviato all’amore per l’arte nell’officina della famiglia, nota per la lavorazione<br />
artigianale e artistica del bronzo (che, alla morte dei fratelli, nel ’22, egli<br />
sostituì con una delle più importanti fonderie artistiche del bronzo a <strong>Pistoia</strong>),<br />
seguì dapprima gli studi tecnici, diplomandosi poi a Firenze alla Scuola di Architettura<br />
dell’Accademia di Belle Arti di Firenze (non c’era ancora la Facoltà<br />
universitaria di Architettura). Mentre a Firenze si avvicinava a Fattori, Papini,<br />
Rosai, frequentava, a <strong>Pistoia</strong>, gli artisti della prima generazione del ‘900<br />
(Lippi, Nannini, Innocenti, Caligiani...), coi quali esponeva le sue xilografie.<br />
La sua attività grafica aveva infatti inizio nel 1913 e sarà portata avanti fino al<br />
’24-‘25, quando lascerà <strong>Pistoia</strong> per Roma per dedicarsi quasi esclusivamente<br />
all’ architettura.<br />
Acquistava, in questi anni, un’autonomia del segno, un tratto grafico un po’<br />
arcaicizzante, duro, netto, assolutamente personale, un linguaggio che, pur<br />
variando secondo i temi e i periodi, assolutamente inconfondibile, che rimarrà,<br />
pur in una gestualità più dinamica, anche nei tratti dei suoi progetti architettonici.<br />
Dai primi lavori (I taglialegna, 1913, I covoni, 1914, l’unica sua xilografia pubblicata<br />
su “La Tempra”), fino ai lavori degli ultimi anni passati a <strong>Pistoia</strong> (le<br />
piccole xilografie in formato ovale raffiguranti “illustri pesciatini”, i legni per<br />
una edizione (mai uscita) dei Fioretti di San Francesco, alcuni dei quali pubblicati<br />
sull’“Eroica”, Michelucci aveva realizzato un corpus notevolissimo di<br />
opere grafiche. Profondamente amico di Renato Fondi, letterato e critico, tra<br />
i fondatori de “La Tempra” (1914) progettava le illustrazioni xilografiche dei<br />
suoi lavori letterari L’ombra del tempo e Io e Giovanni (che non usciranno).<br />
A <strong>Pistoia</strong>, dopo il suo diploma, aveva aperto uno studio e iniziato il suo insegnamento<br />
presso la Scuola d’Arte di Casanova, diventando, con Costetti,<br />
Lanza del Vasto, Chini, uno dei cardini della cultura artistica dei giovani artisti<br />
pistoiesi e un maestro di vita, di formazione etica e spirituale per Bugiani,<br />
Cappellini, Mariotti, Zanzotto…, che spesso accompagnava nelle loro gite di<br />
studio e di lavoro nella campagna pistoiese, per lavorare con loro e per portare<br />
avanti la sua missione culturale con letture, discussioni, approfondimenti, che<br />
faranno della Scuola pistoiese un modello di grande interesse.<br />
Nel 1925, si è visto, Michelucci lascerà <strong>Pistoia</strong> per Roma, dove nei primi anni<br />
invitava gli amici artisti per collaborare ai suoi lavori di interni (Bugiani in<br />
particolare).<br />
Ma ormai il suo contributo culturale a <strong>Pistoia</strong> era praticamente finito.<br />
Ma non si può non citare, per grandi linee, senza proporre alcun approfondimento,<br />
che sarebbe estraneo al nostro tema, lo svolgimento del suo lavoro se-<br />
guente, non solo rivolto all’insegnamento ma inteso al rinnovamento dell’architettura<br />
italiana, seppure facendo tesoro della lezione della tradizione.<br />
Dal ’28 al ’36 era professore di architettura e decorazione presso l’Istituto Superiore<br />
di Architettura di Roma, dal ‘33 professore anche a Firenze dove, col<br />
suo gruppo di allievi (Baroni, Berardi, Gamberini, Guarnieri, Lusanna) vinceva<br />
il concorso per la Stazione di Santa Maria Novella a Firenze (1932-’35); dal<br />
’36 era libero docente di Architettura degli Interni e di Arredamento presso la<br />
Facoltà di Architettura, in seguito professore di Urbanistica e Composizione<br />
architettonica. Dal ’47 preside, sempre a Firenze. Dal ’40 al ’46 dirigeva la<br />
rivista “La Nuova città” e da ’49 “Esperienza Artigiana”. Nel dopoguerra era<br />
attivo nei problemi di restauro e di ricostruzione<br />
del centro storico di Firenze. Tra i suoi<br />
progetti la Chiesa di Collina a Pontelungo di<br />
<strong>Pistoia</strong> (’46-’53), la Borsa Merci di <strong>Pistoia</strong> (’40-<br />
’50), la Chiesa della Vergine (’47-’56), ancora<br />
a <strong>Pistoia</strong>, la Chiesa di San Giovanni Battista<br />
(’62-’64), dell’Autostrada del Sole, per citare<br />
solo alcuni dei suoi tanti lavori.<br />
Nell’82 nasceva a Fiesole, nella sua casa-studio,<br />
la “Fondazione Michelucci”, ad opera del<br />
Comune di Fiesole e della Regione Toscana,<br />
che raccoglie il suo archivio e porta avanti la<br />
conoscenza e lo studio del suo lavoro.<br />
Cenni bibliografici<br />
Michelucci il linguaggio dell’architettura, a cura di<br />
M. C. Buscioni, Roma 1979.<br />
Le Officine Michelucci e l’industria artistica del<br />
ferro in Toscana (1834-1918), a cura di M. Dezzi<br />
Bardeschi, <strong>Pistoia</strong> 1981.<br />
G. Michelucci, La felicità dell’architetto (1948-<br />
1980), <strong>Pistoia</strong> 1981.<br />
Giovanni Michelucci. <strong>Un</strong> viaggio lungo un <strong>secolo</strong>,<br />
cat. mostra a cura di M. Dezzi Bardeschi,<br />
Firenze, 1987-1988.<br />
Michelucci mago, a cura di R. Bertoni, Firenze<br />
1991.<br />
L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />
Itinerari michelucciani a <strong>Pistoia</strong>, a cura di F.<br />
Agnoletti e F. Bevilacqua, Firenze 2001.<br />
C. Conforti, R. Dulio, M. Marandola, Giovanni<br />
Michelucci 1891-1990, Milano 2006.<br />
56<br />
57
Giovanni Michelucci<br />
I covoni, 1914<br />
xilografia su foglio a stampa, cm 19 x 25<br />
pubblicata su “La Tempra”, a. I, n. 6, 16 giugno 1914<br />
<strong>Un</strong>’immagine semplice, arcaicizzante, dal segno fortemente<br />
incisivo, dai contorni come ripresi e ribattuti, un segno<br />
che delinea tutto il paesaggio, dalle basse colline ai covoni<br />
tondeggianti, vicini l’uno all’altro, ai due personaggi intenti a<br />
comporli, nella loro compattezza.<br />
È lo stesso segno che crea, con sicuro andamento lineare, spesso<br />
e libero, la cornice rettangolare del lavoro. Questa xilografia è<br />
forse una delle più sintetiche, libere, essenziali, di Michelucci.<br />
Negli anni successivi le sue incisioni si faranno più complesse,<br />
i fondi saranno riempiti di linee orizzontali, i paesaggi si<br />
riempiranno di morbidi addensamenti di tratti leggeri (La nuvola<br />
e il pastore, 1919 ca), di drammatici intrecci di rami e tronchi<br />
(Paesaggio collinare – monte conico, s.d.), di cieli tempestosi e nere<br />
ombre (Casa colonica, 1921). Nelle xilografie preparate per I<br />
Fioretti dominano una strutturazione architettonica più razionale<br />
e un clima di maggior serenità (Quando gli altri frati mangeranno<br />
tu mangerai fuori della porta del luogo, 1920-’24).<br />
58<br />
59
IL PRIMO NOVECENTO<br />
NELL’ARTE A PISTOIA<br />
Francesco Chiappelli<br />
Alberto Caligiani<br />
Giulio Innocenti<br />
Renzo Agostini<br />
Pietro Bugiani<br />
Alfiero Cappellini<br />
Umberto Mariotti<br />
Egle Marini<br />
Corrado Zanzotto<br />
61
Francesco Chiappelli<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1890 – Firenze, 1947<br />
Dopo aver frequentato, a <strong>Pistoia</strong>, il Liceo, si trasferiva a Firenze dove seguiva<br />
gli studi artistici all’Istituto d’arte e, di seguito, all’Accademia, dove frequentava<br />
la Libera Scuola dell’Acquaforte di Celestini e Tommasi, che si era<br />
aperta, sulla spinta dell’interesse crescente per l’incisione, già dal 1912 e che<br />
culminerà nella Mostra del Bianco e Nero a <strong>Pistoia</strong> del ’13.<br />
Eseguiva allora grandi lastre i cui temi, molto variati, si distinguono per la<br />
sensibilità dei rapporti luce-ombra. Di seguito subirà una certa influenza dalle<br />
prospettive architettoniche di Rosai, che conosceva, appunto, durante la Mostra<br />
del Bianco e Nero. Note le sue Sguerguenze (fine anni Trenta), incisioni<br />
nelle quali la sua vena ironica, derivatagli dallo studio delle opere grafiche<br />
degli incisori del Settecento e dell’Ottocento (da Goya a Daumier), si manifesta<br />
con forza.<br />
Dal ’28 Chiappelli si sposta definitivamente a Firenze dove, dal ’31 è chiamato<br />
ad insegnare Arti Grafiche all’Istituto d’Arte di Firenze, a Porta Romana.<br />
La pittura di Chiappelli è sempre stata legata<br />
al clima artistico pistoiese. Era amico di tutti i<br />
più noti artisti pistoiesi che seguiva nelle loro<br />
incursioni collettive e nelle loro esperienze<br />
dirette nel paesaggio pistoiese, molto più di<br />
quanto non seguisse gli studi presso l’Istituto<br />
d’Arte di Firenze. Aderiva anche ai consigli di<br />
Costetti, che propugnava, nella stampa locale,<br />
la severa semplicità della visione artistica<br />
di Cézanne, in chiave simbolico-spirituale,<br />
unita con quella predisposizione che lo steso<br />
Costetti aveva riconosciuto nel “carattere poeticamente<br />
malinconico, ma forte, della terra<br />
pistoiese”.<br />
La sua pittura si riconosce per l’attenzione per<br />
la figura umana (quindi per il “ritratto”), secondo<br />
un intimismo di grande sensibilità, ma<br />
la sua grande maestria si esprime soprattutto<br />
nelle incisioni.<br />
Cenni bibliografici<br />
Personale di Francesco Chiappelli alla Galleria<br />
Trieste, cat. mostra, 3-18 dicembre 1934.<br />
U. Apollonio, Francesco Chiappelli, in<br />
“Emporium”, LXXX, 1934, pp. 378-379.<br />
Francesco Chiappelli alla Galleria Gian Ferrari,<br />
cat. mostra, Milano, 6-17 gennaio 1940.<br />
C.A. Petrucci, Mostra retrospettiva delle incisioni<br />
di Francesco Chiappelli, cat. mostra, Roma, 1949.<br />
Le incisioni di Francesco Chiappelli, a cura di O.<br />
Pogliaghi e F. Chiappelli, Firenze 1965.<br />
E. Bardazzi, La mostra del Bianco e Nero a<br />
<strong>Pistoia</strong> nel 1913 e la rinascita dell’incisione in<br />
Italia nel primo Novecento, in Cultura figurativa<br />
fra le due guerre. <strong>Pistoia</strong> e la situazione italiana,<br />
atti del corso di aggiornamento a cura di C.<br />
Sisi, Scuola IRRSAE Toscana, <strong>Pistoia</strong> 1997,<br />
pp. 46-47.<br />
Francesco Chiappelli incisore, cat. mostra,<br />
Firenze 1999.<br />
S. Tucci, Francesco Chiappelli, in “Il Tremisse<br />
pistoiese”, a. XXIV n. 70, settembre-dicembre<br />
1999.<br />
G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />
Firenze 2000, pp. 51-73.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
63
Francesco Chiappelli<br />
Senza titolo (<strong>Pistoia</strong> vista da viale Arcadia), s.d.<br />
firmato in basso a destra<br />
acquaforte, n. 13/50, cm 41 x 44 interno (65 x 62 esterno)<br />
Bella acquaforte di uno degli artisti pistoiesi della prima<br />
generazione del Novecento, che hanno lavorato tra le due guerre<br />
e che si è caratterizzato soprattutto nella sua abilità grafica,<br />
particolarmente nell’acquaforte; interesse che ha contribuito a<br />
diffondere in tutta Italia e che porterà a quello che rappresenta,<br />
in Toscana, uno degli avvenimenti più importanti del periodo,<br />
la grande Mostra del Bianco e Nero a <strong>Pistoia</strong>, 1913, organizzata<br />
dalla “Famiglia Artistica”, di cui erano membri anche Renato<br />
Fondi e Giovanni Michelucci, che sarà presentata da Costetti.<br />
Alla mostra partecipavano, oltre ai pistoiesi e ai fiorentini, artisti<br />
da tutta Italia.<br />
Chiappelli è noto per la sensibilità e la bellezza delle sue<br />
acquaforti dal segno netto e sottile, la luminosità, il rapporto vivo<br />
tra luce e ombra; caratteri che, purtroppo, in questa acquaforte<br />
si devono per gran parte dare per scontati guardando le sue<br />
poche parti integre: il bel profilo della città, la luce morbida che<br />
scende, a destra, fino a una sorta di emiciclo erboso e, ancora,<br />
verso una strada in primo piano sulla quale la luce scende,<br />
creando giochi di ombre. Poco di più si può dire perché questo<br />
esemplare è stato bruciato dagli acidi durante la stampa. È<br />
andata completamente persa la parte sinistra, coperta da una<br />
grande macchia nera che, pur alleggerita, si estende a oscurare<br />
tutta la sezione mediana verso destra nascondendo la parte più<br />
bassa della città, la lunga serie delle case, prolungando il peso<br />
della macchia scura in tutta la sezione centrale.<br />
Questa rimane, purtroppo, l’unica acquaforte presente in questa<br />
collezione.<br />
64<br />
65
Alberto Caligiani<br />
Grosseto, 1894 – Firenze, 1973<br />
Legato a <strong>Pistoia</strong> dalla sua famiglia, che in città aveva beni immobili e interessi<br />
e che perciò egli ha sempre frequentato fin dalla prima infanzia, si trasferiva<br />
definitivamente con la famiglia a Bussotto, un paese immerso nella campagna<br />
pistoiese, che forniva al giovanissimo Caligiani il mezzo principale del suo<br />
esprimersi. Dopo una dolorosa malattia agli occhi che a undici anni lo costringeva<br />
a letto per lungo tempo, studiava per un anno all’Accademia di Belle Arti<br />
di Firenze (<strong>1910</strong>). Ha mantenuto sempre rapporti di lavoro e di amicizia con<br />
gli artisti pistoiesi emergenti, ma anche con la vita artistica nazionale. Amico<br />
di Lippi, Nannini, Michelucci, Innocenti, coi quali condivideva l’amore per<br />
la campagna e l’aspirazione a un’arte intimista e praticamente lontana dai problemi<br />
legati alla situazione reale dell’Italia del tempo, partecipava con loro alle<br />
riunioni della Famiglia Artistica pistoiese, frequentando anche Lega e Rosai.<br />
Giovanissimo, fu presente alla nota Mostra del Bianco e Nero, dove presentava<br />
lavori ispirati a quelli di Lorenzo Viani, che lo interessava particolarmente,<br />
da quando si era dedicato anche alla grafica, soprattutto alla xilografia.<br />
Dal ’15 circa collaborava con la rivista spezina “L’Eroica” ed esponeva con<br />
Viani, De Witt, Casorati e Sensani alla III Mostra della Secessione a Roma<br />
(1915). Durante la prima guerra mondiale contrasse, nella lunga campagna<br />
del Carso, una pesante invalidità polmonare. Al ritorno dalla guerra, essendosi<br />
dedicato, con gli amici Nannini e Innocenti, a una sua ricerca sul Futurismo,<br />
tenne una personale presso la Casa d’Arte di Enrico Prampolini e Mario Recchi.<br />
Nel ’21 era in America, ma dovette tornare in Italia per l’aggravarsi della<br />
malattia polmonare. Dalla quale lo salvò il soggiorno nelle montagne pistoiesi,<br />
dove si ritirava con la moglie.<br />
Continuerà, comunque, i suoi rapporti con la vita artistica nazionale, in contatto<br />
con Marino Marini, Libero Andreotti e, a <strong>Pistoia</strong>, con Giovanni Costetti,<br />
Giovanni Michelucci, e con gli artisti più giovani del “Cenacolo”: Agostini,<br />
Bugiani, Cappellini, Mariotti.<br />
Dal ’24 si avvicinava al movimento del Novecento Italiano e dal ’26 collaborava<br />
alla rivista “Solaria”. Presente alla Prima mostra del Novecento italiano a<br />
Milano e alla quindicesima Biennale di Venezia.<br />
Di seguito parteciperà alla diciottesima, alla diciannovesima, alla ventesima,<br />
alla ventiduesima Biennale fino al 1942; alle prime tre edizioni della Quadriennale<br />
romana, ottenendo premi nel ’35 e nel ’39.<br />
Dagli anni Trenta a Firenze, tiene una cattedra di Figura all’Istituto d’Arte. Si<br />
dedicava anche alla poesia e alla narrativa.<br />
Alla Prima Sindacale del ’33, scrive Annamaria Iacuzzi (2006): “si propon-<br />
gono temi consueti al ‘novecentista’ Caligiani,<br />
permeati da una malinconia poetica intimistica<br />
e paesana, propria della scuola pistoiese all’interno<br />
del più generale indirizzo del novecento<br />
toscano, prediligendo in gran parte le visioni<br />
delle colline tra Prato e <strong>Pistoia</strong>, di San Pellegrino<br />
o della Val di Bure”. Iacuzzi riporta anche le<br />
parole di Vittorini, impostate a quel “sano realismo<br />
inconfondibile e senza tristezza”. E parla<br />
di “colori sornioni che rendono pesa, gonfia,<br />
e pur non ingombra, la tela. È oscuro come di<br />
una gioia nascosta; di una gioia non propriamente<br />
visiva, che cova profonda sotto la cenere<br />
della materia”. I suoi ritratti raggiungono<br />
spesso una straordinaria intensità e, talvolta,<br />
una dolcezza che tradisce un senso di umanità<br />
e una sensibilità di tratto che esprimono una<br />
maturità artistica insuperabile.<br />
Cenni bibliografici<br />
G. Settala, Alberto Caligiani, Galleria d’Arte<br />
Firenze, Firenze 1935.<br />
G. Ferroni, Alberto Caligiani, Galleria<br />
Gianferrari, Milano 1939.<br />
U. Sabatini, Quattro Pittori alla Galleria<br />
Michelangelo, cat. mostra, Firenze 1949.<br />
Alberto Caligiani, cat. mostra, Galleria Giorni,<br />
Firenze 1975.<br />
La città e gli artisti. <strong>Pistoia</strong> tra avanguardia e<br />
Novecento, cat mostra a cura di M. C. Mazzi e C.<br />
Sisi, Firenze 1980.<br />
Alberto Caligiani, in Il Novecento italiano<br />
1923/33, Milano 1983.<br />
G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />
Firenze 2000, pp. 83-95.<br />
E. Crispolti, A. Mazzanti, L. Quattrocchi, Arte<br />
in Maremma nella prima metà del Novecento, cat.<br />
mostra, Cinisello Balsamo 2006.<br />
A. Iacuzzi, Alberto Caligiani, in Arte in<br />
Maremma... cit.<br />
E. Vittorini in A. Iacuzzi, Alberto Caligiani, in<br />
Arte in Maremma... cit.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
66<br />
67
Alberto Caligiani<br />
Poggiolo a Montemurlo, 1930<br />
olio su cartone, cm 65 x 74; firmato in basso a destra<br />
<strong>Un</strong>’immersione realistica nella natura, una grande casa nel verde,<br />
il colore “sornione” (E. Vittorini citato in A. Iacuzzi 2005) un<br />
po’ basso, il segno preciso, la descrizione esatta della casa, degli<br />
alberi, dei cannicci, dei particolari, sembrano in netto contrasto<br />
con una pennellata, trattata quasi a macchia, in mezzo al prato,<br />
a destra (forse una piccola fontana in marmo, o un’erma?). <strong>Un</strong><br />
piccolo mistero in una visione fin troppo descritta.<br />
68<br />
69
Alberto Caligiani<br />
Bambina assonnata (nella targhetta:<br />
Bambina che scrive), 1936<br />
olio su tela, cm 50 x 70; firmato e datato in basso a destra<br />
Questo ritratto, dal colore basso, quasi monocromo, dai passaggi<br />
cromatici morbidi e dolci, dimostra una sensibilità pittorica<br />
raffinata, un’analisi del personaggio di un tratto delicato: la<br />
ragazzina, la mano ancora stretta attorno alla penna che sfiora<br />
il quaderno, le palpebre abbassate sotto la spinta di un sonno<br />
infantile, sembra immersa nella penombra che ammorbidisce le<br />
zone scure e lascia emergere il volto roseo, finemente disegnato.<br />
70<br />
71
Alberto Caligiani<br />
Paesaggio nell’Appennino pistoiese, 1937<br />
olio su tela, cm 87 x 80; firmato in basso a sinistra e datato 1937<br />
<strong>Un</strong> bel paesaggio tra Prato e <strong>Pistoia</strong>, dai colori densi, “sornioni”<br />
(li definisce Annamaria Iacuzzi 2006) “che rendono pesa, gonfia,<br />
e pur non ingombra, la tela”. <strong>Un</strong> lavoro dall’impianto solido,<br />
fermo e pure vibrante e sensibile, ricco di particolari ben definiti:<br />
le case, il pagliaio, la scala che sale verso la parte alta di una casa.<br />
Non mancano tuttavia zone trattate con morbide pennellate<br />
libere: nella parte in basso leggeri ciuffi erbosi. La scena si<br />
stempera verso il fondo, nelle colline azzurre e nel cielo solcato<br />
da nubi bianche. C’è tutta la linea morbida della pittura pistoiese<br />
del periodo ma, come scrive Vittorini “svolta secondo quel sacro<br />
realismo inconfondibile”.<br />
72<br />
73
Giulio Innocenti<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1897 – Firenze, 1968<br />
Autodidatta, eclettico, appassionato delle attività più diverse, dalle “luci della<br />
ribalta” come ipnotizzatore e “mago” dell’occulto fin dai suoi quattordici<br />
anni ma, come scrive Sigfrido Bartolini (1997), tra gli artisti suoi amici, ma<br />
anche suo esegeta “passibile invece di gravi turbamenti avrebbe potuto essere<br />
l’interruzione improvvisa di quel bel sogno realissimo per rientrare in un<br />
anonimato di provincia” quando una legge proibiva i pubblici spettacoli di ipnotismo,<br />
facendolo rientrare nei ranghi, introducendolo “alla vita mediocre”<br />
(A. Stanghellini 1920). “Il gusto del personaggio pubblico” continua Bartolini<br />
“magari con un po’ di successo, non lo lascerà mai: dal teatro allo sport, ai<br />
tornei di biliardo, di scacchi e di scopone [...] Di natura versatile e d’interessi<br />
poliedrici, può dedicarsi a cose diversissime tra loro, districandosi con acume<br />
e abilità; può far bene un po’ di tutto, ma solo per un po’”. A poco più di<br />
quindici anni Alberto Caligiani, “pittore di vaglia” lo “stradò all’arte della<br />
xilografia”. “Fui xilografo” scrive Innocenti “e credo che morirò xilografo:<br />
quindi, per prima cosa, il nero sul bianco” (G. Innocenti 1955). E la xilografia<br />
resterà per tutta la sua vita una vera passione: dalle prime, ingenue, xilografie<br />
che trattava a grossi tratti neri, sulla scia di Caligiani (e di Viani), che inviava a<br />
Gianna Manzini, nella loro corrispondenza segreta (quando la futura scrittrice,<br />
già sua vicina e suo primo amore, era partita per Firenze, avviata alla sua bella<br />
carriera), a quelle che realizzerà per tutta la sua vita, forse tra le sue opere<br />
migliori (L’Aquilone, ’39, a fittissimi tratti paralleli, a definire il mare e il cielo,<br />
solcato da grandi nubi bianche). “È impossibile” scrive Bartolini “guardare<br />
L’Aquilone senza pensare ai versi che Pascoli ha dedicato, circa mezzo <strong>secolo</strong><br />
prima, allo stesso soggetto, con lo stesso titolo: rara e felice commistione tra<br />
arti figurative e poesia”. Arruolato dal ’16 al ’20, in guerra, ufficiale del genio,<br />
trovava nel disegno un suo ruolo determinante. Anche Innocenti, ai suoi inizi<br />
in pittura, come gli altri pistoiesi, amerà il tema della campagna, secondo una<br />
sua visione legata alle semplici abitudini della via quotidiana, familiare. Ma,<br />
dopo un primo, frenetico periodo di lavoro “ecco entrare in ballo una delle<br />
caratteristiche del nostro artista, l’indolenza” (Bartolini). Gli si riconoscono<br />
comunque buone qualità di pittore e di scrittore. Artista bizzarro, con una<br />
madre arguta e intelligente (che peraltro, durante la seconda guerra, sostituiva<br />
un vetro rotto durante un bombardamento con la metà segata di un quadro<br />
del figlio) e con quattro sorelle colte che lo adoravano (tra l’altro è forse il solo<br />
a trattare il tema degli interni casalinghi, che durerà per tutta la vita: Donna<br />
che lava i piatti, ’15; Giocatori di scacchi, ’44; Caffè, La domenica dell’ulivo, ’55;<br />
Lavori di casa, ’55; Amici all’osteria, ’55). Amico di Fernando Melani; amicizia<br />
almeno strana, la loro, date le rispettive impostazioni ideologiche: laico e immerso<br />
nella sua ricerca quantistica, nello studio della qualità del colore e teso<br />
all’astrazione assoluta Melani, cattolicissimo e insieme dedito a una ricerca<br />
sulla figurazione, Innocenti. I due, sempre persi in discussioni animate, erano<br />
legati da affetto e rispetto reciproco. Nel suo opuscolo su Innocenti Addio<br />
Giulio!, Melani riconosceva all’amico l’uso del colore “come accessorio [...]<br />
in questo merletto”, quello della sua pittura, avvolta “entro una tela di ragno<br />
continua”, come un colore “tipico dei ‘naïf’: ingenuo [...]”; ma gli riconosceva<br />
anche “una costante sola – la luce”; e scriveva ancora Melani: “una tenue<br />
luminosità, un filo di luce diffusa si stacca dalle sue tele”, e si chiede se “la<br />
qualità di questo ‘lume’ divenuto sommessa poesia è, sarà sufficiente”. Lui,<br />
che aveva studiato scientificamente la qualità della luce e del colore...<br />
Melani parla del lavoro di Innocenti come di un “fatto minore, ma complesso<br />
nelle sue istanze [...] la sua scala cromatica emerge come un arcobaleno fra<br />
nere nuvole: i colori sono emersioni sullo scuro fondo retinico dell’occhio... In<br />
altre parole Giulio, stando al concetto classico della ‘Genesi’, scrittura chiara,<br />
ritiene fermamente che il ‘colore luce’ sia un’apparizione ‘magica’ di forme<br />
emerse dal fondo caotico delle tenebre; per Giulio il fondo del quadro pittorico<br />
non è il bianco [...] ma il naturale fondo ‘retinico’ oculare, che è approssimativamente<br />
il colore del sangue, il rosso fegato”.<br />
Ma Innocenti, che nel tempo si era avvicinato all’arte internazionale, soprattutto<br />
attratto dai Nabis, dai Fauves, da Matisse, andava schiarendo la sua<br />
tavolozza, sia nelle nature morte, nelle quali<br />
è sempre presente il riferimento alla vita<br />
quotidiana, sia nelle rappresentazioni di paesaggio,<br />
nelle quali la figura umana è definita<br />
a macchie di colore piatto, timbrico, ma dove<br />
il paesaggio si traduce in morbide trasparenze<br />
di colore o in trame segniche (Lavandaie, ’51;<br />
Donna al lavatoio, ’51). Dal ’56 Innocenti si<br />
trasferirà a Firenze, dove tenterà nuove strade,<br />
senza però raggiungere la forza espressiva<br />
del suo periodo precedente.<br />
Cenni bibliografici<br />
A. Stanghellini, Introduzione alla vita mediocre,<br />
<strong>Pistoia</strong> 1920.<br />
F. Melani, Addio Giulio, 1955 <strong>Pistoia</strong>.<br />
G. Innocenti, Autobiografia, in F. Melani, Addio<br />
Giulio! cit.<br />
S. Bartolini, Giulio Innocenti (1897-1968),<br />
Firenze 1997.<br />
Giulio Innocenti, a cura di S. Bartolini, <strong>Pistoia</strong><br />
1997.<br />
G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />
Firenze 2000, pp. 96-99.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
74<br />
75
Giulio Innocenti<br />
Figura sul mare, 1927 ca<br />
olio su compensato, firmato in basso a destra, cm 85 x 49<br />
Deliziosa composizione marina, dominata dalla figuretta sottile<br />
di una giovane donna vista di spalle, di fronte al mare. La<br />
donna, con una fresca pettinatura ‘alla garçonne’, l’abito a righe<br />
diagonali bianche e rosse appena mosso dal vento, fermato in<br />
vita da una cintura dello stesso tessuto del vestito, con le righe<br />
in direzione opposta, le gambe fasciate da calze di seta – si<br />
intravede la riga lungo la gamba – le scarpette bianche allacciate<br />
alla caviglia.<br />
È una classica figuretta déco, quasi da rivista di moda. Ma il<br />
lavoro, come scrive Chiara Toti (Dentro la città e fuori le mura:<br />
percorsi espositivi di artisti pistoiesi tra le due guerre in Arte del<br />
Novecento a <strong>Pistoia</strong>, cit.) risente “[...] di suggestioni matissiane”,<br />
nella stesura piatta del colore, nei contorni netti. Nella raffinata<br />
composizione, dal verde della riva, da cui la fanciulla guarda il<br />
mare con un dolce atteggiamento pensoso che si indovina dal<br />
lieve curvarsi della testa, si alza un triangolo di mare azzurro, due<br />
vele bianche sul fondo; dietro un cielo solcato da una grande,<br />
luminosa nube bianca.<br />
76<br />
77
Giulio Innocenti<br />
Sant’Alessio, 1940<br />
olio su cartone, cm 33,5 x 41,5<br />
Al centro, sul fondo, la piccola chiesa inquadrata contro una<br />
breve staccionata tra due pilastri rosa con un muretto ai due<br />
lati. <strong>Un</strong>a visione quasi idilliaca legata ancora a quella serena<br />
morbidezza della pittura pistoiese degli anni precedenti.<br />
78<br />
79
Giulio Innocenti<br />
Scardazzatrice di lana, 1955<br />
olio su compensato, cm 70,5 x 63<br />
Pittore eclettico, appassionato di molte, diverse attività,<br />
Innocenti passa, anche in pittura, da una figurazione “avvolta”<br />
scriveva Fernando Melani “entro una tela di ragno continua”<br />
di cui riconosceva però “il colore come accessorio”, a una<br />
successiva chiara e timbrica, in cui è evidente il riferimento ai<br />
Nabis. Questo lavoro, con la scardazzatrice di lana seduta su una<br />
sedia impagliata, una gamba piegata all’indietro, al piede dentro<br />
una ciabattina rossa, in mezzo a una natura rigogliosa, piena di<br />
verde e di colore nei piccoli fiori sparsi tra l’erba, è inserita in un<br />
fondo abbastanza scuro, da cui emerge, tra le mani della donna,<br />
una piccola palla di lana da sbrogliare (scardazzare), di un bianco<br />
abbagliante (in realtà del tutto irreale quando la lana è ancora<br />
vello), proprio al centro del quadro, con rimandi, in diagonale,<br />
ai due lati che, collegandosi al bianco delle nubi, sul fondo,<br />
rendono il quadro scattante e vivo.<br />
80<br />
81
Giulio Innocenti<br />
Interno della cattedrale di <strong>Pistoia</strong>, 1950<br />
olio su cartone, cm 73 x 103,5<br />
Innocenti, a poco più di quindici anni, aveva imparato da Alberto<br />
Caligiani, che egli dichiara “pittore di vaglia”, la tecnica della<br />
xilografia e certo aveva visto la Mostra del Bianco e Nero del<br />
’13, dove Rosai era presente con parecchi lavori di grafica; tra<br />
questi un Notturno (sull’Arno), un’acquaforte al cui taglio sembra<br />
ispirarsi questo lavoro di Innocenti che, alla verticalità delle<br />
colonne (o dei pilastri di Rosai), aggiunge la dinamica diagonale<br />
della luce che le ombre tagliano. Le piccole immagini dei<br />
fedeli e delle funzioni della chiesa, a destra, nella semioscurità,<br />
vitalizzano questo lavoro di grande interesse per il taglio<br />
coraggioso e per la forte carica dinamica.<br />
82<br />
83
Renzo Agostini<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1906-1989<br />
“Renzo Agostini è una fonte offerta a chi ha sete di poesia”. Così Sigfrido Bartolini<br />
(2003). E pone la “schiettezza” come sua “dote primaria” dichiarando<br />
che “lo slancio creativo dell’artista romantico in lui si è sposato al ‘fanciullino’<br />
del Pascoli”. Agostini non ha mai smentito la sua origine contadina. Anzi,<br />
nell’aia del podere paterno, anche quando aveva cominciato a seguire le lezioni<br />
private di Fabio Casanova, accoglieva le riunioni del “Cenacolo” (il gruppo<br />
che, mirando al recupero del valore formale della pittura, quasi fine a se stessa,<br />
secondo quell’intimismo caratteristico, nel periodo, dei pittori pistoiesi, faceva<br />
capo a Giovanni Michelucci e riuniva Bugiani, Cappellini, Mariotti, Zanzotto,<br />
gli artisti che, in seguito, come Gruppo pistoiese, parteciperanno alle rassegne<br />
regionali e nazionali).<br />
Con loro Agostini condivideva quella “poetica del reale”che lo portava verso<br />
la rappresentazione del quotidiano, in particolare della vita della campagna,<br />
che ne risultava, secondo la loro intenzione, spiritualmente nobilitata. Questa<br />
era anche la linea che suggeriva il Sindacato Fascista delle Arti per la provincia<br />
italiana, che ne risultasse, da un lato, spiritualmente, appunto, “nobilitata”, ma<br />
che, dall’altro, corrispondesse alle regole di una visione autonoma nei confronti<br />
delle tendenze innovative e rivoluzionarie delle avanguardie internazionali<br />
e fosse più in chiave con le premesse di indirizzo fascista della Sarfatti.<br />
L’ingenuità e il candore del dipingere del giovane Agostini conquistavano,<br />
subito dopo, anche Giovanni Costetti, presente e attivo a <strong>Pistoia</strong> dal 1914, che<br />
prediligeva la sua semplicità “francescana” e sollecitava il suo spiritualismo,<br />
seguendolo con tale costanza da suscitare, in qualche modo, l’invidia degli altri<br />
artisti seguaci di Costetti. Farà seguito anche l’entusiasmo per Agostini del<br />
poeta Lanza del Vasto. “Il desiderio di sfiorare il sublime accoglie la possibilità<br />
di calarsi attraverso la poesia che si fa interprete di una sacralità della natura”<br />
(Ragionieri 1989). Lanza del Vasto, già presente alla prima mostra del Palazzo<br />
del Comune nel 1928, cercherà di far conoscere a Berlino, a Parigi, negli Stati<br />
<strong>Un</strong>iti il gruppo pistoiese.<br />
Agostini frattanto, di ritorno dal servizio militare (’28) che aveva passato a Torino,<br />
trovava lavoro a Nizza come operaio negli stabilimenti cinematografici della<br />
città. Di seguito, con la giovane moglie, si stabiliva presso Parigi, a Joinville,<br />
dove lavorò, oltre che come operaio nel cinema, come disegnatore di vetri sabbiati,<br />
incrociando Miró e altri artisti, senza neppure provare a cogliere qualche<br />
possibile occasione. Dipingeva nei momenti liberi dal lavoro e raggiungeva,<br />
dal ’28 alla fine degli anni Trenta, il suo momento più alto, arricchito anche<br />
dalla conoscenza dell’arte francese postimpressionista, secondo la lezione di<br />
Cézanne, che già gli era stata trasmessa, in Italia, da Costetti sul “sensoriale<br />
delle cose”, espresso anche nell’interpretazione umana delle cose stesse.<br />
Nel ’35 Agostini veniva accettato al Salon d’Automne e nel 1938 a una mostra<br />
all’Accademia di Artisti italiani a Parigi.<br />
Durante la seconda guerra mondiale, con l’arrivo dei tedeschi a Parigi, abbandonava<br />
la Francia, dimenticando in una valigia il suo lavoro di anni di pittura,<br />
sia quei lavori (dipinti e disegni), realizzati a <strong>Pistoia</strong>, sia quelli portati avanti<br />
nei suoi ritagli di tempo libero in Francia. Lavorerà ancora a Roma, a Cinecittà,<br />
per la Scalera Film, finché non sarà richiamato soldato fino all’8 settembre<br />
1944, quando tornerà prima a Roma, di là a Firenze e a <strong>Pistoia</strong>. Stabilitosi a<br />
Firenze otteneva il posto di assistente per l’insegnamento all’Istituto d’Arte.<br />
I suoi lavori sono di un primitivismo quasi infantile, ma di una straordinaria<br />
freschezza che il colore raccorda in dolci, morbide sinfonie; si fanno per lui<br />
(si pensi alla Deposizione del ’24), i nomi di Gauguin e Bernard, ma anche di<br />
Chagall e Kandinskij; ma, al di là dei riferimenti colti, è sempre la semplicità,<br />
è il rapporto spontaneo delle forme e dei colori che Agostini ritrova nella sua<br />
campagna, nelle sue casette, nei suoi olivi chiari e come spumosi, che torna<br />
nelle sue stradine di campagna, nella sua Casa rosa (1930), col grande albero<br />
dal colore solare, col piccolo pagliaio giallo e azzurro, nel bianco dei panni stesi<br />
e, oltre il lungo tetto della casa, nelle morbide<br />
colline, che si riproporrà in mille modi, nella<br />
sua bella Chiesa di Candeglia, del ’28, nei suoi<br />
paesaggi, nei quali si ripetono i suoi rapporti<br />
tonali, dal bianco al rosa al giallo delle case,<br />
al verde che sfuma in un morbido marrone e,<br />
in lontananza, nell’azzurro delle colline e del<br />
cielo (La casa del Tordo, del ’28). È lo stesso<br />
colore che si stempera nelle nature morte,<br />
come quella del ’27, dove la tovaglia taglia in<br />
diagonale il bruno del tavolo; o negli interni; si<br />
veda Il camino, del ’25, con la piramide tronca<br />
del camino, la scala che riapre la chiusa salita<br />
del camino, il merlo sulla scala, il tavolo con la<br />
tovaglia spiegazzata in primo piano, il tocco di<br />
rosa e azzurro a destra.<br />
E i ritratti, un po’ spauriti, coi grandi occhi tristi,<br />
come aperti da un taglio netto sulla pelle.<br />
Cenni bibliografici<br />
Renzo Agostini, Galleria d’Arte Vannucci, <strong>Pistoia</strong><br />
1962.<br />
Renzo Agostini, cat. mostra Museo Civico di<br />
<strong>Pistoia</strong> 1971.<br />
G. Marchi, Renzo Agostini, cat. mostra<br />
Accademia delle Arti del Disegno, Firenze<br />
1971.<br />
G. B. Bassi, Settanta opere di Renzo Agostini,<br />
Galleria d’arte Silvana, <strong>Pistoia</strong> 1976.<br />
La città e gli artisti. <strong>Pistoia</strong> tra avanguardia e<br />
Novecento, cat. mostra Officine San Giorgio<br />
<strong>Pistoia</strong> a cura di M. C. Mazzi e C. Sisi, Firenze<br />
1980.<br />
C. Sisi, S. Bartolini, Omaggio a Renzo Agostini,<br />
<strong>Pistoia</strong> 1989.<br />
S. Ragionieri, Giovanni Costetti e le “Danze del<br />
cielo”, in “Artista”, I, 1, 1989, pp. 18-32.<br />
G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />
Firenze 2000, pp. 144-147.<br />
S. Bartolini, Candido Agostini in Renzo Agostini.<br />
Il “Cenacolo” pistoiese di Giovanni Costetti e<br />
l’alternativa del colore, Siena-Prato 2003.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
84<br />
85
Renzo Agostini<br />
Strada di campagna, 1923<br />
olio su cartone, cm 50 x 40, firmato in basso a destra<br />
Ingenuità, uso di un colore chiaro, limpido, in rapporti di<br />
morbida dolcezza, questo lavoro, come quasi tutti quelli di<br />
Agostini, risponde pienamente agli ideali di “arte pura” di<br />
Giovanni Costetti e, di seguito, di Lanza del Vasto; appartiene<br />
al primo periodo pistoiese di Agostini: la casa rosa, cui si accosta<br />
una piccola costruzione bianca, quasi come sfondo, e una strada<br />
bianca tra due bassi muretti che la delimitano e la dividono dai<br />
campi, dai quali si levano gli alberi soffici, come fatti di spuma<br />
o di ovatta; lungo i muretti un breve filare di cespugli che<br />
sembrano quasi una decorazione direttamente dipinta sui muri<br />
stessi; una madre con un bambino per mano, appena delineati a<br />
macchia, arricchiscono la scena, perfettamente equilibrata.<br />
86<br />
87
Renzo Agostini<br />
La chiesa di Candeglia, 1928<br />
olio su cartone, cm 49 x 42; firmato in basso a destra<br />
Tra i lavori più famosi di Agostini, questo quadro, la cui data<br />
coincide col suo ritorno dal servizio militare, incarna il significato<br />
più autentico del suo dipingere: il colore chiaro che dagli alberi<br />
più alti, secondo il suo fare, morbidi e bianchi come piumini,<br />
venati di un leggero azzurro, sale verso la chiesa che domina la<br />
scena, sulle costruzioni più basse che si susseguono sul retro,<br />
interrotte dalle linee rosse dei tetti, per perdersi in un rapporto<br />
tonale perfettamente calibrato, verso le colline azzurre. In<br />
primo piano, di scorcio, una strada tra cipressi dal verde vivo e, a<br />
sinistra, una donna con una pecora e un agnellino, in un rapporto<br />
prospettico sfasato e fuori scala, che sembrano, da un lato, un<br />
disegno infantile, ma anche immagini tratte da un codice antico.<br />
<strong>Un</strong> lavoro, secondo la stampa del tempo, in cui “ogni aspetto<br />
trovava il suo arabescato ordine, come se prati, boschi, ruscelli, si<br />
componessero per un gioco del caso”.<br />
88<br />
89
Renzo Agostini<br />
La casa rosa, 1930<br />
olio su cartone, cm 32 x 41; firmato e datato in basso a destra<br />
Il mondo pittorico di Agostini si elabora secondo la sua visione<br />
chiara, diretta, di una semplicità disarmante: in questo quadro<br />
la casa ‘rosa’ (un rosa chiaro), occupa il centro del lavoro che<br />
taglia quasi a metà in orizzontale; ci sono tutti gli ingredienti di<br />
una visione limpida, bucolica, serena, quasi da favola: la lunga<br />
casa, il piccolo tabernacolo a sinistra, le lenzuola stese, che fanno<br />
partire il quadro dal bianco di base, per salire al rosa della casa, al<br />
giallo e viola del piccolo fienile, a sinistra la macchia dorata di un<br />
albero, piumoso, secondo l’uso dell’autore; sul dietro le colline<br />
che sfumano dal verde all’azzurro.<br />
“Il desiderio di sposare il sublime accoglie la possibilità di<br />
catarsi attraverso la poesia che si fa interprete della sacralità<br />
della natura”, scriveva Lanza del Vasto a proposito del lavoro di<br />
Agostini (Ragionieri 1989).<br />
La casa rosa è tra i lavori che appartengono al periodo migliore<br />
di Agostini, quando, di ritorno dal servizio militare, stava per<br />
spostarsi, in cerca di lavoro, a Nizza e, di seguito, a Joinville,<br />
presso Parigi.<br />
90<br />
91
Pietro Bugiani<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1905-1992<br />
“Attraverso la pittura di Bugiani emergono i più tipici e originali orientamenti<br />
di tutto il gruppo pistoiese, trovando una formulazione che può essere considerata<br />
perciò emblematica di quel periodo. Non è infatti l’unicità o l’individualità<br />
del suo percorso il carattere più degno di attenzione, giacché la<br />
sintonia e la vera fratellanza con alcuni altri artisti lo indirizzano lungo binari<br />
abbastanza frequentati dove si trovavano capisaldi di indiscusso valore, quali<br />
Giotto, Beato Angelico, Masaccio, Fattori, Cézanne”, scriveva Chiara d’Afflitto<br />
(1999). Ciò non toglie, come prosegue Chiara d’Afflitto, che non si debbano<br />
attribuire qualità artistiche e “di primo piano” a Bugiani; qualità che, a mio<br />
avviso, non sono soltanto “la semplicità, la freschezza, la sintesi, il lirismo”<br />
che già Costetti gli attribuiva nel 1924. Pietro Bugiani, dapprima autodidatta,<br />
fu poi allievo della Scuola d’Arte applicata all’Industria di Santa Croce a Firenze,<br />
dove studiava decorazione murale, per divenire poi, a <strong>Pistoia</strong>, assistente<br />
di Fabio Casanova, pittore e fondatore (1920) della Scuola d’Arte, dove fu<br />
anche allievo di Giovanni Michelucci, di Galileo Chini, di Giovanni Costetti<br />
ed ebbe amici e compagni Agostini, Mariotti, Cappellini, Zanzotto. Nel suo<br />
lavoro passava da un naturalismo postmacchiaiolo, attraverso uno studio profondo<br />
del Tre e Quattrocento fiorentino e della letteratura del periodo (sotto<br />
il continuo incoraggiamento di Michelucci), a una responsabile apertura verso<br />
un aggiornamento che ritrovava, inizialmente in Soffici, poi in Cézanne, la<br />
corrispondenza moderna ai suoi studi. Il disegno e la grafica e lo studio continuo<br />
della natura erano divenuti per lui gli strumenti essenziali di elaborazione<br />
di una visione plastica e compositiva rispondente alla lezione di Costetti,<br />
tendente a un’arte che equivalesse alla dimensione dello spirito. Frattanto,<br />
chiamato militare a Torino, conosceva, presentato da Costetti, Casorati, che<br />
fu suo amico e consigliere. Decorava, allora, alcune pareti della sua caserma.<br />
Michelucci intanto, trasferitosi a Roma e insegnante presso la Scuola Superiore<br />
di Architettura, realizzava alcune tra le sue prime opere architettoniche e lo<br />
chiamava presso di sé per affidargli alcune decorazioni murali, di cui peraltro<br />
non si hanno notizie, se non da qualche progetto. Tornato a <strong>Pistoia</strong>, elaborava<br />
alcuni dei suoi lavori più importanti, quelli realizzati nella campagna presso<br />
il Mulino della Bure, dove aveva seguito la giovane moglie, che vi insegnava.<br />
Pensiamo a La casa rosa (Sera sull’aia), ’29, che appare quasi il più straordinario<br />
raggiungimento del periodo, ammiratissima anche da Lanza del Vasto,<br />
filosofo e poeta che, spostatosi in Toscana da San Vito dei Normanni, seguiva<br />
con passione il lavoro degli artisti pistoiesi. Comunque il periodo che esprime<br />
la più alta definizione del lavoro di Bugiani è quello che va dagli anni ’22-’24<br />
agli anni ’40. E c’è, nel suo lavoro, quel senso di attesa, quasi di sospensione,<br />
quella “poetica dell’addio e della perdita con cui Pietro Bugiani cinge d’un<br />
assedio tenero e dolorante un mondo in attonito smarrimento, rapisce e spinge<br />
la sua solida iconicità verso un’astrazione fatta di quello squillante valore<br />
simbolico” per cui “le forme vengono rapite entro una dimensione estatica<br />
di squisita e suggestiva rarefazione. Voglio dire che, oltre l’astrazione, proprio<br />
l’‘estatico’ è la cifra dell’addio”. Così Pietro Bellasi, nel catalogo citato, definisce<br />
la “nostalgia” di Bugiani, che io avvicinerei pure a quello che, in anni<br />
successivi, e in termini diversi, si diffondeva anche a Firenze, la ripresa, cioè,<br />
di un “realismo magico”, quell’“aura che circonda, anzi, che ritaglia gli oggetti<br />
del mondo” di Bugiani: i suoi silenziosi paesaggi incantati, dai colori morbidi<br />
e soffusi, dove piccoli personaggi della campagna pistoiese sembrano perdersi<br />
nel silenzio, dove gli animali immobili, sembrano “presi per incantamento”<br />
(come nel “vasello” di Dante) i ritratti, che sembrano chiusi in un’atmosfera<br />
di magico silenzio, le sue Madonne, dalla Natività, 1928, alla Madonna in<br />
preghiera, 1928. Si pensi soprattutto alla Madonna dal manto rosso, 1931 ca, di<br />
un livello artistico difficilmente raggiungibile, presente in questa mostra: una<br />
Madonna che il manto avvolge di un colore piatto, timbrico, compatto e leggero,<br />
desunto dai Nabis e da Matisse (dove si respira il ricordo dell’Angelico,<br />
ma anche quello della Madonna del parto di Piero nella lunga apertura nera<br />
da cui esce la mano). Ma anche molte opere<br />
successive, dove figure umane, lievemente<br />
indefinite, come la Madonna, vengono in primo<br />
piano, compatte, quasi giottesche, L’appuntapali,<br />
1930, La maestra, 1932, le diverse<br />
versioni de L’attesa, 1932 e 1961, Contadini al<br />
lavoro, ’30 ca, le nature morte, opere che Costetti<br />
non approvava perché sembravano affrontare<br />
temi più sociali o più “naturalistici”.<br />
(“L’ora estrema del naturalismo è venuta e<br />
tu t’imbarchi con lui...”!, Ragionieri 1998); e<br />
molti, straordinari disegni, che sembrano aver<br />
assorbito e resa personale la lezione di secoli<br />
di artisti, da Giotto, a Masaccio, a van Eych, a<br />
Soffici, a Casorati, a Rosai (ma con una diversa<br />
impostazione, dura e cittadina quella di Rosai<br />
– “Firenze è una città dura” come ripeteva<br />
spesso nei suoi scritti Piero Santi – morbida e<br />
dolce la sua), ai francesi contemporanei...<br />
Cenni bibliografici<br />
P. Bugiani, Autobiografia, in “Il Frontespizio”,<br />
1939, n. 6, pp. 382-385.<br />
B. Occhini, Mostra del pittore Pietro Bugiani,<br />
Firenze, Galleria “Il Ponte”, 16-25 marzo 1942.<br />
A. Soffici, Pietro Bugiani, cat. mostra,<br />
Accademia delle Arti e del Disegno, Firenze,<br />
24 aprile1954-8 maggio 1954.<br />
P. Bellasi, Pietro Bugiani, <strong>Pistoia</strong> 1963.<br />
P. Bellasi, <strong>Un</strong> affresco di Pietro Bugiani al Convento<br />
di San Domenico di <strong>Pistoia</strong>, in “L’Osservatore<br />
Romano”, 17/3/1963, <strong>Pistoia</strong>, p. 6.<br />
G. Vigorelli, Pietro Bugiani, cat. mostra Galleria<br />
Turelli, <strong>Pistoia</strong> 1989.<br />
G. Vigorelli, Pietro Bugiani, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong><br />
1989.<br />
Pietro Bugiani. Gli anni tra le due guerre, cat.<br />
mostra, a cura di S. Ragionieri, Firenze-Siena<br />
1998.<br />
Chiara d’Afflitto, Presentazione, in Pietro<br />
Bugiani. Gli anni tra le due guerre cit.<br />
S: Ragionieri, Itinerario di uno spirito che si cerca,<br />
in Pietro Bugiani. Gli anni tra le due guerre cit.<br />
G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />
Firenze 2000, pp. 128-132.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
92<br />
93
Pietro Bugiani<br />
Natura morta con bricco, 1925<br />
olio su cartone cm 44 x 58; firmato sul lato destro<br />
Bella natura morta, impostata quasi a cannocchiale, come da un<br />
punto di fuga verso la parte posteriore del quadro, secondo le<br />
linee della finestra albertiana. Gioca sul rapporto tra il bianco<br />
del bricco e della tovaglia spiegazzata con la rotondità dei frutti<br />
– che sembrano non ignorare gli esempi di Cézanne. Al centro il<br />
cilindro in prospettiva del bicchiere pieno a metà di vino rosso,<br />
che si richiama al rosso della tenda sul fondo.<br />
94<br />
95
Pietro Bugiani<br />
Pomeriggio domenicale o Quiete domenicale o L’omino che pesca, 1928<br />
tempera su cartone, cm 60 x 80; firmato in basso a destra<br />
Bellissimo lavoro appartenente al periodo di quello che ho<br />
definito “realismo magico” di Bugiani, che esprime un senso<br />
di silenzio e di calma nel quale sembra perdersi l’omino seduto<br />
presso il fiume, intento a pescare nella calma di un pomeriggio,<br />
in mezzo a una natura viva e tranquilla (il pianoro sul bordo del<br />
quale l’uomo siede nel grande silenzio appare quasi come un<br />
cuscino morbido, accogliente, che gli alberi sembrano trapassare<br />
come uno spillo trapassa un cuscino di piume). È il sentimento<br />
di una natura amica che non rende solitario il silenzio.<br />
96<br />
97
Pietro Bugiani<br />
L’appuntatore di pali, 1930 ca<br />
carboncino su carta da scena, disegno monumentale, cm 148 x 100<br />
Questo è probabilmente anche il disegno preparatorio per<br />
L’Appuntapali del 1930: l’uomo e la donna alla sua destra sono<br />
qui descritti con maggior realismo di quanto non lo siano nel<br />
quadro. In quello la lezione giottesca è più evidente. La stessa<br />
cosa si può dire per il fondo. È peraltro un disegno che mostra, di<br />
Bugiani, la grande forza e la profonda esperienza costruttiva.<br />
98<br />
99
Pietro Bugiani<br />
Madonna col manto rosso, 1931 ca<br />
tempera su compensato, cm 94 x 69,5; firmato in basso a destra<br />
Appartiene al periodo del lavoro di Bugiani nel quale si<br />
avvicinava con maggiore interesse alla rappresentazione della<br />
vita umana, in particolare di coloro che lavoravano in campagna,<br />
espressa nella sua condizione, cioè rivolta più all’uomo che al<br />
paesaggio, trovando peraltro un suo modo particolarissimo di<br />
rappresentarlo, che riesce a cogliere la vita senza affondare in quel<br />
“naturalismo”che invece Costetti gli rimprovera: “L’ora estrema<br />
del naturalismo è venuta e tu t’imbarchi con lui”. Ma quello che<br />
Bugiani raggiunge non è affatto “quel” naturalismo; ho parlato<br />
infatti di “realismo magico”. Il suo “non finito”, che egli estende<br />
a molte opere di questo periodo (Contadini al lavoro, 1930 ca;<br />
L’Appuntapali, 1930) trova, a mio avviso, il suo punto più alto<br />
proprio in questa Madonna col manto rosso, che sembra portare a<br />
sublimazione la lezione dell’Angelico, di Piero della Francesca<br />
(nel netto taglio nero dal quale esce la mano della Madonna che<br />
chiaramente allude al taglio bianco nel grembo della Madonna del<br />
parto), di Matisse e dei Nabis nell’à plat timbrico del manto rosso<br />
e della montagna bruna retrostante, che è quanto di più lontano<br />
ci sia dal naturalismo, i passaggi del colore, dal sabbia delle rocce<br />
sulle quali siede la Madonna, al fondo piatto nel suo marrone<br />
uniforme come lo è il rosso nel manto. Non posso non pensare<br />
che questa opera possa degnamente collocarsi tra le più grandi del<br />
primo Novecento italiano.<br />
Sul verso del quadro, Pietro Bugiani, Natività, s. d.<br />
tempera su compensato, cm 66 x 90 ca<br />
Questo lavoro, in molte parti sciupato, ovviamente rifiutato da<br />
Bugiani che ne usò il supporto per il quadro della Madonna col<br />
manto rosso, tagliato e ricoperto da una sorta di imbracatura lignea<br />
a supporto della tavoletta, appartiene molto probabilmente agli<br />
anni nei quali Bugiani realizzava le sue prime Natività (1928 ca).<br />
Qui infatti la Madonna, all’interno di una stalla ben disegnata, con<br />
una luce ben dosata dalla porta semiaperta, è inginocchiata davanti<br />
al Bambino che non c’è (cancellato da una grande abrasione nella<br />
campitura), ha la testa completamente disegnata, scoperta; veste<br />
una blusa rossa su una gonna scura; il manto è azzurro; sul fondo,<br />
sulla paglia, a sinistra un bue accovacciato; a destra un cavallo<br />
grigio la cui testa è coperta dai listelli di contorno.<br />
100<br />
101
Pietro Bugiani<br />
Studio per il commiato o Viandanti, 1933<br />
carboncino su carta da scena, disegno monumentale<br />
cm 148 x 100<br />
<strong>Un</strong>o dei grandi disegni monumentali che evidenziano la<br />
straordinaria abilità di Bugiani e la partecipazione emotiva che<br />
egli ha sempre profuso nei suoi lavori dedicati alla figura umana;<br />
e anche la sua totale assimilazione della storia della cultura<br />
artistica del Tre e Quattrocento fiorentino, da Giotto a Masaccio,<br />
ma anche la solida lezione di Cézanne... È evidente la tensione<br />
emotiva delle due persone, dalle forme compatte, chiuse<br />
nelle loro vesti a difendersi dal freddo, un cappotto dal collo<br />
rialzato a coprire le orecchie dell’uomo, un piccolo scialle che,<br />
partendo dal davanti, copre a metà il volto della donna. Forte e<br />
commovente l’intensità della partecipazione dei due personaggi<br />
che si avviano probabilmente verso un triste ufficio. Ma anche<br />
qui non siamo di fronte a quel “naturalismo” che Costetti<br />
deprecava, ma a un realismo che si avvicina al “realismo magico”<br />
del periodo.<br />
102<br />
103
Alfiero Cappellini<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1905-1969<br />
Inizialmente legato agli artisti pistoiesi suoi coetanei, condivideva con loro<br />
l’impostazione artistica che vedeva nella natura il suo riferimento diretto, secondo<br />
i seduttivi incoraggiamenti di Costetti, verso un’arte espressione dello<br />
spirito, seppure nutrita dello studio dei grandi artisti fiorentini del Tre e Quattrocento,<br />
rivisitata da Carrà, Rosai, Soffici, ma con un occhio alle linee costruttive<br />
e strutturate del Novecento italiano e del Ritorno all’ordine, imposti dalla<br />
Sarfatti. Fu un testo di Bugiani su “L’Azione” del ’29, che lo definiva “uno<br />
dei giovani più promettenti del gruppo pistoiese”, che indirizzava tutta l’impostazione<br />
della critica sul suo lavoro, già peraltro volto a una interpretazione<br />
della natura in modo più drammatico di quanto non facesse per gli altri artisti.<br />
Quando, durante la seconda guerra mondiale, i nazisti entrarono in Toscana,<br />
Cappellini fu derubato di oltre sessanta quadri (quasi tutto il suo primo periodo)<br />
e spariva anche tutta la sua documentazione. A questo punto la sua linea<br />
di ricerca e di lavoro, consona al suo carattere ombroso, scontroso, fortemente<br />
impegnato politicamente e socialmente, si caratterizza per la sua violenza<br />
espressiva, di carattere quasi espressionista. Per lui il rapporto tra opera e impegno<br />
morale è sempre stato strettissimo. Il suo lavoro si fa quasi violento;<br />
“la sua pittura”come scriveva Mario Ciattini (1968) “non è mai un fenomeno<br />
di gusto, ma semmai di reazione”. E nello stesso volume Giancarlo Savino<br />
aggiungeva: “Cappellini non ha nostalgie [...] la pennellata è unicamente se<br />
stessa, e non segno d’altro; allo stesso modo della parola nella poesia [...] un<br />
segno carico di una forza espressiva e del peso di una sua intensità cromatica,<br />
il quale non piega mai a uno stimolo di narrazione contemplativa, capace di<br />
uscire dall’ambito di un’esperienza effimera, e finanche al compromesso di un<br />
suggestivo decorativismo”.<br />
I suoi temi sono ancora quelli caratteristici degli altri artisti pistoiesi: il paesaggio,<br />
la campagna, i contadini al lavoro, drammatiche e forti scene religiose... Si<br />
pensi al Bacio di Giuda (’35), un’opera di grande impatto, una sorta di violenta<br />
sinfonia corale; ai Funai di <strong>Pistoia</strong> (’37), dove la macchina e l’intricato avvolgimento<br />
delle funi invadono tutta la scena, chiudendo gli uomini che lavorano<br />
in una sorta di gabbia oppressiva (un lavoro di straordinaria forza dinamica);<br />
a Contadino che vanga (’46), dove si crea un chiasmo violento tra la gamba<br />
dell’uomo e lo strumento. C’è un lavoro Renaioli al Mugnone (‘49), nel quale<br />
un renaiolo ha quasi la stessa posizione di uno dei contadini ne L’appuntatore<br />
di pali (1930) di Bugiani.<br />
Ma quanto più dura, rigida è la figura del renaiolo di Cappellini: c’è tutto il<br />
dramma di una durissima condizione di vita; mentre l’immagine nella posi-<br />
zione simile di Bugiani assume un carattere più contemplativo, quasi bucolico.<br />
Ma si veda anche la Natura morta del ’27 (Museo Civico, <strong>Pistoia</strong>), con un<br />
uccello morto su un piatto, che Chiara Toti (2007) descrive “bloccata entro<br />
un’ascetica sintesi neogiottesca”, che a me sembra anche di una sconvolgente<br />
modernità.<br />
Le interpretazioni della vita locale (e italiana) del momento sono particolari<br />
e diverse dalle consuete: è diverso l’uso del colore che si fa spesso acido, timbrico,<br />
freddo, è diverso il suo segno, che si fa sprezzante della forma, quasi<br />
gestuale. Cappellini parla del suo lavoro e dell’arte contemporanea su alcuni<br />
suoi interventi, sempre improntati a una visione socio-politica sul “Ferruccio”<br />
nel ’33 e nel ’34 e continuerà su questa linea per tutta la vita, mantenendo la<br />
stessa coraggiosa violenza espressiva, anche se provato da una dura malattia.<br />
Nel catalogo della mostra di Cappellini al convento di San Domenico a <strong>Pistoia</strong><br />
(Alfiero Cappellini 1985) è riportato un testo di Cappellini pubblicato sul “Ferruccio”<br />
(n. 3, 3 giugno ’33): “In questa naturalezza del pensiero che interpreta<br />
sempre meno mimeticamente la natura corrisponde una nietzchiana concezione<br />
orfica di quest’ultima, a cui l’arte intesa<br />
nel suo farsi, deve necessariamente ricondursi.<br />
L’arte, come la natura è una cosa continuamente<br />
diversa ma non per sempre uguale. Come il<br />
mondo possiede la divina armonia rotativa il<br />
cui andare da nulla potrà essere impedito”.<br />
Presente a tutte le mostre regionali, nazionali,<br />
alla Biennale di Venezia nel ’36 e, nel ’40, con<br />
una personale.<br />
Negli anni Cinquanta fu invitato in Romania<br />
dove, spinto dal suo impegno sociale, tentava<br />
di far passare, nel suo lavoro, il significato dei<br />
complessi problemi sociali di quel paese.<br />
Cenni bibliografici<br />
A. Cappellini, Autopresentazione, in “Il<br />
Frontespizio”, 1939, n. XI, pp. 381.<br />
P. Conti, Alfiero Cappellini espone alla Galleria<br />
Vannucci, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 1960-1961.<br />
A. M. Ciattini, G. Savino, Alfiero Cappellini,<br />
Firenze 1968.<br />
M.C. Mazzi, C. Sisi, La città e gli artisti. <strong>Pistoia</strong><br />
tra Avanguardia e Novecento, Firenze 1980,<br />
pp 115-121.<br />
Alfiero Cappellini, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 1985.<br />
G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />
Firenze 2000, pp. 133-143.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
C. Toti, Dentro la città e fuori le mura: percorsi<br />
espositivi di artisti pistoiesi tra le due guerre in Arte<br />
del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, cit.<br />
104<br />
105
Alfiero Cappellini<br />
Bosco, s. d.<br />
olio su truciolare, cm 32 x 37; firmato in basso a destra<br />
<strong>Un</strong>’opera affidata al segno, che definisce, più realisticamente<br />
che in Paesaggio, le forme scheletriche degli alberi, ma anche<br />
qui con dense spatolate di colore, che creano l’albero in prima<br />
fila, coperto di rami fronzuti e grandi macchie di verde, e di<br />
un giallo luminoso a definire le macchie di sole, che filtrano<br />
tra gli alberi. Il fondo, più gradatamente miscelato, presenta<br />
un cielo morbidamente fuso; dietro gli alberi l’azzurro delle<br />
colline. Anche qui l’esempio di un lavoro a metà tra il realismo<br />
e la sua trascrizione in termini di più libera modernità tecnica e<br />
immaginativa.<br />
106<br />
107
Alfiero Cappellini<br />
Paesaggio, 1966<br />
olio su tela, cm 40 x 50; firmato in basso a destra<br />
Il quadro non parte da un disegno definito, ma si compone quasi<br />
esclusivamente di spatolate di colore che creano, nella loro<br />
variazione, l’immagine allusiva di un panorama ricco di verdi<br />
diversi, di ombra e di luce, di alberi, mentre i bianchi accennano<br />
a sentieri, a file di case, di acque. Nel fondo azzurri chiazzati<br />
disegnano le colline, tra le quali si affaccia la macchia gialla<br />
rotonda, di un grande sole. Appare chiara la volontà di rendere la<br />
realtà con nuovi mezzi espressivi, perfettamente e chiaramente<br />
assimilati.<br />
108<br />
109
Umberto Mariotti<br />
<strong>Pistoia</strong> 1905-1971<br />
Nato a <strong>Pistoia</strong> nel 1905, nel 1912 a seguito di un incidente, Mariotti subisce<br />
una lesione alla spina dorsale che lo costringe per lungo tempo ingessato.<br />
Il trauma ne compromette il pieno sviluppo fisico, ma la malattia però lo fa<br />
avvicinare velocemente alla pratica del disegno. Frequenta le scuole tecniche<br />
e contemporaneamente l’ambiente dell’azienda paterna, che è tipografo,<br />
apprendendo i primi rudimenti della litografia, delle tecniche d’incisione e<br />
cartellonistiche. Alla morte del padre nel 1917, si iscrive alla Scuola d’Arte di<br />
Fabio Casanova dove conosce gli amici che di lì a poco avrebbero formato il<br />
‘Cenacolo’ artistico, Agostini, Bugiani, Cappellini, Zanzotto, Rosatelli, Magni,<br />
Michelucci, coltivando fin dagli inizi un’amicizia privilegiata con Alberto<br />
Caligiani. Frequenti sono le uscite nella campagna pistoiese.<br />
Come gli altri del Cenacolo pistoiese i temi a lui cari sono le vedute di paesaggio,<br />
il ritratto e la natura morta, anche se con il tempo dimostrerà di avere una<br />
particolare sensibilità per gli ultimi due. Alla Terza Esposizione del Sindacato<br />
Toscano delle Arti del Disegno, nel 1927, Libero Andreotti acquista una sua<br />
bellissima Natura morta con tovaglia a righe; mentre alla Prima Mostra Provinciale<br />
d’Arte, organizzata dal Comune di <strong>Pistoia</strong> nelle sale del Palazzo civico,<br />
viene notato quale fulgida promessa dell’arte pistoiese per la sua Maternità,<br />
opera riprodotta su molta della stampa del momento.<br />
A questa altezza il suo linguaggio si esprime attraverso lavori di compiuta sintesi<br />
formale che, tra il 1927 e il 1930, scaturiscono dalla ricezione ben miscelata<br />
della lezione di Casorati e di Carena, dalla riflessione sugli antichi, seppur<br />
alla luce di Cézanne, dando vita a una peculiare e raffinata pasta cromatica che<br />
diviene la cifra per le opere di maggior rilievo di questo periodo. Sono opere<br />
che è difficile comprendere se non si tiene conto di quel ‘realismo magico’<br />
che già a quei tempi si respirava, seppur con altre modulazioni, nei paesaggi<br />
di Bugiani, nelle nature morte di Cappellini, di Eloisa Pacini Michelucci o di<br />
Egle Marini. Al largo degli anni Trenta Mariotti recepirà anche il colorismo di<br />
Spadini, portando avanti nel tempo una pittura fatta di minimi accordi di luce<br />
che inondano i dipinti accarezzando i corpi dei familiari affetti o degli amici;<br />
una pittura che avrebbe decretato all’artista una certa fama cittadina come<br />
fine esecutore di ritratti. (cfr. Iacuzzi 2005)<br />
Tra il 1929 e il 1934 partecipa alle più importanti esposizioni del Sindacato<br />
di Belle Arti a Firenze, alla Prima Regionale nel 1933, alla II, III e IV Mostra<br />
Provinciale pistoiese, con un buon successo di critica. Nel 1936 in contrasto<br />
con il regime, aderisce al partito di Giustizia e Libertà e tra il 1935 e il 1939<br />
è assente dalle mostre cittadine ufficiali per dissapori con il regime. Arrestato<br />
nel 1943 è costretto in seguito a rifugiarsi in clandestinità nelle campagne<br />
pistoiesi.<br />
Al termine della guerra, già dal 1944, Mariotti è tra i fautori della riapertura<br />
della Scuola d’Arte e ne viene nominato direttore; a lui si affiancano nell’insegnamento<br />
gli amici Pietro Bugiani, Vasco Melani, Alfiero Cappellini, Corrado<br />
Zanzotto che alternano con ottimismo le lezioni nelle aule alle gite all’aperto<br />
o negli studi degli artisti.<br />
Sullo scorcio degli anni Quaranta arriva anche la partecipazione alla V Quadriennale<br />
romana e si succedono nei due decenni le presenze a numerose<br />
esposizioni: Biennale di Venezia (1950), nel Mezzo <strong>secolo</strong> d’arte in Toscana a<br />
Firenze (1952), solo per citarne alcune.<br />
L’ultimo decennio della sua vita trascorre tra l’insegnamento e la pittura cui si<br />
dedica con proverbiale dedizione, insegnando pittura dal vero. La sua amicizia<br />
con il Gallerista Arrigo Valiani lo porta a fondare, insieme ad altri amici, la<br />
Brigata del Leoncino, associazione volta alla valorizzazione della cultura cittadina.<br />
Nel 2005 il Centro di Documentazione<br />
sull’Arte moderna e contemporanea pistoiese<br />
dedica al maestro un’ampia retrospettiva, curata<br />
da Annamaria Iacuzzi, ricostruendo le fasi<br />
artistiche del suo lavoro con opere storiche di<br />
riferimento all’interno dello sviluppo della sua<br />
attività.<br />
Cenni bibliografici<br />
Umberto Mariotti. 1905-1971, a cura di A.<br />
Iacuzzi, Centro di Documentazione sull’Arte<br />
moderna e contemporanea pistoiese, <strong>Pistoia</strong><br />
2005.<br />
C. Toti, Dentro la città e fuori le mura..., in C.<br />
Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
110 111
Umberto Mariotti<br />
Ritratto di Sigfrido Bartolini fanciullo (1945)<br />
olio su tela, cm 79,5 x 65; firmato in basso a destra<br />
Il ritratto del giovanetto Sigfrido Bartolini può a buon titolo<br />
essere rappresentativo di quella pittura di ‘intimi affetti’ che<br />
caratterizza la produzione ritrattistica di Umberto Mariotti<br />
degli anni Quaranta. A turno i giovani allievi della Scuola<br />
d’Arte posavano per l’insegnante che con incisività e maestria<br />
riusciva a cogliere i tratti più salienti delle acerbe personalità.<br />
L’interno dello studio di Porta Carratica a <strong>Pistoia</strong>, dove un ampio<br />
finestrone rischiarava con la sua luce l’ambiente è lo sfondo<br />
di questo ritratto tutto giocato sulle sottili tonalità pastello di<br />
bianchi, rosa pallidi e verdi. Sul cavalletto fa capolino il ritratto in<br />
fieri di un’allieva nel suo bel grembiule.<br />
112 113
Egle Marini<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1901 – Viareggio, 1983<br />
Gemella di Marino Marini, condivideva con lui un’infanzia e un’adolescenza<br />
amorosamente e attentamente seguite verso un futuro aperto e consapevole,<br />
prefigurato dalla propensione di entrambi all’arte, uniti in una comune e condivisa<br />
preparazione culturale e artistica.<br />
Luana Cappugi, curatrice del catalogo della mostra antologica dell’artista<br />
presso l’ex Centro Marino Marini nel Palazzo Comunale di <strong>Pistoia</strong> (Egle Marini<br />
1990) cita alcuni dolci passaggi dei testi letterari di Egle Marini sulla vita<br />
dei due fratelli: “[...] la stufa ardente, due seggioline eguali e quattro mani nel<br />
tepore di un grembo, donde un che di forte, di riparo certo, di roccia”. E “accovacciati<br />
in due sulla poltrona, e il grembiulino del fratello odora stranamente<br />
di scuola [...] Che tetri banchi e che finestre grigie! I doveri. Le domeniche<br />
accompagnate da riti. Certe lunghe preghiere la sera dei Morti... I giocattoli<br />
chiari. La medicina rossa. La ruota rossa della carrozza, l’odore di finimenti e<br />
lo svolare delle tendine...”.<br />
C’è sempre, in Egle Marini, una sensibilità dolce e allo stesso tempo sicura<br />
nei confronti dei rapporti familiari e degli oggetti quotidiani che traspare nei<br />
suoi quadri (in particolare in molti ritratti femminili, intrisi spesso di un luminoso<br />
intimismo e insieme di una sontuosità quasi settecentesca (Autoritratto al<br />
cavalletto, 1930; Figura in bianco, 1930; Testa di donna giovane, 1931 – in questa<br />
collezione – Ragazza seduta in giardino, s. d.; come avvolti in morbide, diffuse,<br />
dolci atmosfere). Altri lavori risentono di echi culturali e di amate predilezioni<br />
(Maschera, 1928, bel ritratto, assorto, la testa reclinata come quella di molti<br />
personaggi dei periodi rosa e blu di Picasso. Ne cito soltanto uno, del periodo<br />
blu, Il cieco, 1903). E ancora i lavori sapienti come Bambina con pupattola, s.d.;<br />
Bambino col grembiulino grigio, 1928; il superbo Autoritratto con la casacca blu,<br />
anni Cinquanta circa. E certe sapienti nature morte (Natura morta con pianta<br />
grassa, cestino di limoni ed anfora e Natura morta con pianta grassa, cesto di limoni<br />
ed anfora, di scorcio (s.d.), che certo non nascondono, come nota Luana Cappugi<br />
“il ricordo di nature morte spagnole del Seicento, segnatamente opere di<br />
Zurbaran”. E accenna a quella straordinaria della collezione Contini Bonacossi,<br />
oggi negli Stati <strong>Un</strong>iti.<br />
E ancora Veduta di uno stabilimento balneare, s.d., per il quale come si può non<br />
pensare alla deliziosa Rotonda Palmieri di Fattori?<br />
Per arrivare, infine, a Paesaggio (certamente dopo il ’60), dove vive, con grande<br />
autonomia e freschezza, un’allusione al Dubuffet delle Terre. E certi disegni, a<br />
tratti fitti, sottili, netti, che sembrano voler creare una sorta di bruma, (“similmente<br />
ad una cattedrale di Monet”), legato anche a un informale segnico...<br />
La dolcezza, la morbidezza, la “nostalgia” sono, nei lavori di Egle Marini,<br />
qualità che la avvicinano alle caratteristiche della pittura pistoiese del Novecento,<br />
ma coniugate in una sua personalissima, autonoma, aristocratica, forte e<br />
gelosa ritrosia, che peraltro non la fa rinunciare<br />
al suo “vigoroso e sensibile linguaggio poetico”<br />
che l’ha accompagnata per tutta la sua vita<br />
da quando, come scrivevo in un brevissimo<br />
testo del ’57, pubblicato ne “Il Ponte” (1962)<br />
portava avanti il suo vivace confronto tra lei<br />
e il fratello gemello, Marino, in “una sorta di<br />
gara vivace ed agile tra una scultura divenuta<br />
espressione di un mito moderno e un linguaggio<br />
plasticamente esaltante l’eroe caduto da<br />
un mondo superumano”.<br />
Cenni bibliografici<br />
L.-V. Masini, Egle Marini, in “Il Ponte”, n. 1,<br />
1962.<br />
E. Marini, Commenti poetici ispirati alle opere di<br />
Marino, Livorno 1975.<br />
Egle Marini 1924-1968, cat. mostra a cura di L.<br />
Cappugi, Milano 1990.<br />
G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />
Firenze 2000, pp. 119-120.<br />
M. Del Serra, D. Giuntoli, Egle Marini, La<br />
parola scolpita, <strong>Pistoia</strong> 2001.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
Egle Marini 1924-1968, cat. mostra a cura L.<br />
Cappugi, Milano 1990.<br />
114<br />
115
Egle Marini<br />
Ritratto, 1931<br />
olio su cartone telato, cm 49,5 x 34; firmato e datato in basso a destra<br />
I ritratti di Egle Marini esprimono, tutti, l’intensità della sua<br />
sensibilità, la forza del suo carattere schivo, e anche gentile,<br />
del suo dipingere orgogliosamente autonomo. Direi che i suoi<br />
ritratti si distinguono per essere, alcuni, come questo, risolti con<br />
estrema delicatezza: il colore chiaro, l’immagine trattata con<br />
finezza, tutta svolta dal bianco al lieve rosa del volto, all’azzurro<br />
del fondo, il tutto in un’atmosfera lievemente brumosa, come<br />
sotto un leggerissimo velo; altri che si propongono con più viva<br />
intensità, con una presenza quasi imperiosa, con una descrizione<br />
più realistica e insistita. Si pensi al bellissimo Autoritratto con<br />
la casacca blu, più tardo, che esprime tutto l’orgoglio del suo<br />
ombroso individualismo.<br />
116<br />
117
Egle Marini<br />
Paesaggio toscano, 1950 ca<br />
olio su compensato, cm 24,5 x 34,5; firmato in basso a destra<br />
<strong>Un</strong> paesaggio chiaro, dai colori luminosi, trattato a tocchi fitti e<br />
leggeri nella vegetazione dai verdi diversi, a spatolate più larghe<br />
nel terreno color sabbia rosato, con un morbido e leggero impasto<br />
nel cielo che gioca sull’azzurro chiaro, sul verde tenerissimo, sul<br />
bianco soffice, come soffiato. Non c’è dubbio però che i lavori di<br />
Egle dedicati ai ritratti, alle nature morte, alla descrizione degli<br />
oggetti le siano più congeniali ed esprimano più passione.<br />
118<br />
119
Corrado Zanzotto<br />
Pieve di Soligo, Cadore, 1903 – San Marcello Pistoiese, <strong>Pistoia</strong>, 1980<br />
“<strong>Un</strong>a carnalità malinconica”. Questa la definizione di Zanzotto nel dialogo tra<br />
Paolo Fabrizio e Annamaria Iacuzzi in Corrado Zanzotto e il dialogo dietro il paesaggio<br />
(2004) nel centenario della nascita dell’artista. <strong>Un</strong>a vita difficile, quella di<br />
Zanzotto, a <strong>Pistoia</strong> dagli anni giovanili, reso già claudicante da una poliomielite<br />
infantile. Poco si sa del suo lavoro prima della seconda guerra mondiale, durante<br />
la quale fu costretto a tornare a Pieve di Soligo perché, a <strong>Pistoia</strong>, “indesiderato”.<br />
Certo, non doveva essere persona facile e docile, già colpito dalla sorte come<br />
era stato e come fu, quando tornò, dopo la guerra, a <strong>Pistoia</strong>, e trovò la sua famiglia<br />
per metà distrutta da un bombardamento tedesco durante il quale furono<br />
irrimediabilmente rovinate moltissime sue opere plastiche. Senza mezzi, senza<br />
lavoro, armato solo della sua passione per l’arte, fu accolto presso la Casa di riposo<br />
per anziani al Villone Puccini. Si dedicava allora al suo disegno “da scultore”.<br />
I suoi soggetti erano i vecchi della casa di riposo dei quali, nel disegno (e anche<br />
nella scultura), egli privilegia il profilo, che “doveva essere ‘per lui’ sicuramente<br />
stimolante per cogliere lo scatto nervoso dei muscoli sottesi sotto l’epidermide.<br />
Usava spesso anche una costruzione dei volti che privilegiava la visione di<br />
profilo ma leggermente sfuggente, in cui l’attenzione si focalizza prima sulla<br />
nuca per poi trascorrere verso il limite esterno del volto”. Sono, i suoi, ritratti<br />
di una intensità di intuizione psicologica straordinaria, pietosa verso quella<br />
vita difficile che mostra nel volto tutto il suo passato. E soggetto erano anche i<br />
paesaggi del Villone Puccini. Dopo guerra insegnava, per qualche tempo, alla<br />
Scuola d’Arte di <strong>Pistoia</strong>. Dal ’52 si ritirava, in solitudine, in montagna, tra Pracchia<br />
e Sammommè. E sono, anche i suoi nuovi<br />
paesaggi, ‘da scultore’, con quelle montagne<br />
spoglie, a grandi blocchi, incombenti “dietro il<br />
paesaggio”. Le sue montagne sono trattate, infatti,<br />
come i suoi ritratti di vecchi contadini, nel<br />
disegno e nelle sculture, solcate come terreni<br />
rovesciati dall’aratro. Scrivono ancora Paolo Fabrizio<br />
e Annamaria Iacuzzi: “Zanzotto usa il lapis<br />
come fosse un aratro; come il contadino ara<br />
il campo, lui ara questi volti e queste superfici.<br />
Le figure sono sempre in stato di calma, non<br />
è né attesa né rassegnazione. È il tempo che<br />
si posa sulle figure, che scaturisce la pazienza<br />
sui volti”. Ciò che può applicarsi anche alle sue<br />
sculture.<br />
Cenni bibliografici<br />
M.Borghi, Pitture e sculture di Corrado Zanzotto,<br />
Roma 1956.<br />
Corrado Zanzotto. Opere dal 1956-1971, Roma<br />
1972.<br />
Donazione Corrado Zanzotto, Cassa di Risparmio<br />
di <strong>Pistoia</strong> e Pescia, <strong>Pistoia</strong> 1991.<br />
Corrado Zanzotto (1903-1980). Scultura, pittura,<br />
grafica, cat. mostra a cura di A.Parronchi, P. F.<br />
Iacuzzi, E. Dei, <strong>Pistoia</strong> 1987.<br />
G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />
Firenze 2000, pp. 124-127.<br />
Corrado Zanzotto. <strong>Un</strong> segno plastico, cat. mostra,<br />
Centro di Documentazione sull’Arte moderna<br />
e contemporanea, <strong>Pistoia</strong> 2004.<br />
P. F. e A. Iacuzzi, Corrado Zanzotto e il dialogo<br />
dietro il paesaggio, in Corrado Zanzotto. <strong>Un</strong> segno<br />
plastico, cit.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
121
Corrado Zanzotto<br />
Autoritratto con idea di figura, s.d.<br />
olio su tela, cm 80 x 100<br />
Autoritratto a mezzo busto, senza il solito tabarro che compare<br />
anche nell’Autoritratto in Collezione Cassa di Risparmio di<br />
<strong>Pistoia</strong> e Pescia S.p.A., con una sciarpa e il solito cappello da cui<br />
fuoriescono i capelli ricci e ispidi. Lo sguardo è, come altrove,<br />
abbastanza cupo, come quello di chi non si trova al suo massimo<br />
nella vita. A destra il profilo di un tavolo, tracciato a matita e,<br />
sulla parete di fondo, sempre a veloci tratti di matita, una “idea<br />
di figura”, come dal titolo. Il cappello in testa, la sciarpa al collo<br />
sopra la camicia bianca, dicono molto sulle dure condizioni di<br />
vita di questo forte, vitale scultore e pittore, sul freddo di una<br />
stanza (una soffitta?) dove non esiste neppure un filo di fuoco.<br />
Comunque un autoritratto che, con pochi segni sa rappresentare<br />
con crudezza ma anche con chiarezza psicologica, una condizione<br />
del vivere.<br />
122<br />
123
Corrado Zanzotto<br />
Cesarone, 1935<br />
bronzo, cm 28 x 40 x 28, firmato sul retro<br />
Si sono sempre definiti la pittura e il disegno di Zanzotto come<br />
espressioni “di uno scultore attento alle mosse e ai volumi da<br />
ritrarre” . Si è parlato della sua “attenzione tutta plastica verso il<br />
soggetto”. Fu Giovanni Michelucci che, vedendo la forza incisiva<br />
dei disegni di Zanzotto, lo spinse a dedicarsi alla scultura.<br />
Questo Cesarone è forse il lavoro scultoreo più caratterizzato di<br />
Zanzotto. La forte incisività del volto contratto, dalla fronte<br />
solcata da dense pieghe che convergono verso il centro, agli<br />
occhi dallo sguardo che sembra rivolto verso l’interno, la bocca<br />
contratta in un forzato mutismo, fortemente determinato. Tutto<br />
il volto sembra tendere verso il basso privilegiando secondo<br />
l’abitudine dell’artista “la visione di profilo, ma leggermente<br />
sfuggente, in cui la tensione si focalizza, prima nella nuca per poi<br />
trascorrere verso il limite esterno del volto, costruzione che gli<br />
permetteva di sintetizzare, in un ideale tutto tondo disegnativo<br />
e scultoreo l’intera testa”, come osservano nel loro dialogo Paolo<br />
Fabrizio e Annamaria Iacuzzi (in cat. Corrado Zanzotto, 2004).<br />
124<br />
125
Corrado Zanzotto<br />
Testa di donna con cicatrici, 1973<br />
bronzo, cm 38 x 15 x 26<br />
<strong>Un</strong>a bella testa di donna, la fronte e la guancia destra solcate<br />
da profonde cicatrici, il volto severo, gli occhi quasi chiusi,<br />
la bocca serrata e un po’ sporgente che esprimono una forte<br />
determinazione interiore (come quella del Cesarone, l’altra<br />
scultura di Zanzotto presente in mostra). I tratti di questa<br />
giovane donna, ben delineati, la fanno apparire come chiusa<br />
in una sua profonda, quasi cupa interiorità. I capelli, trattati a<br />
ciocche piatte sono legati dietro la testa e scendono raccolti, ad<br />
accentuare la tendenza di Zanzotto a chiudere l’immagine verso<br />
il davanti della faccia.<br />
126<br />
127
ARTISTI PISTOIESI VISSUTI<br />
FUORI DALLA CITTÀ<br />
Marino Marini<br />
Agenore Fabbri<br />
Mario Nigro<br />
Gualtiero Nativi<br />
129
Marino Marini<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1901 – Forte dei Marmi, 1980<br />
Da sempre legato alla sua città, dove partecipava, ai suoi inizi, a tutte le manifestazioni<br />
espositive promosse dal Sindacato Fascista di Belle Arti assieme ai<br />
giovani artisti pistoiesi, e dove tornava spesso, anche quando viveva a Milano,<br />
anche perché a <strong>Pistoia</strong> viveva la sorella gemella, Egle, che lo aveva sempre seguito<br />
condividendo con lui il periodo della sua formazione, e che a <strong>Pistoia</strong> portava<br />
avanti il proprio lavoro artistico, in una sua schiva autonomia. Marini aveva<br />
studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, allievo, tra gli altri, di Trentacoste<br />
e di Galileo Chini. Si dedicava, inizialmente, alla pittura e al disegno,<br />
seguendo, in questo, le idee di Costetti, relative all’uso del colore nel quale,<br />
come dichiarava Costetti, è “l’inizio di ogni idea”. Dagli anni Trenta affrontava<br />
anche la scultura.<br />
Frattanto era stato a Parigi, dove aveva incontrato la maggior parte degli artisti<br />
più noti, dagli italiani De Chirico, De Pisis, Magnelli, a Picasso, Kandinskij, Braque,<br />
e aveva visto la scultura di Rodin e di Medardo Rosso. Nello stesso periodo,<br />
dal ’29 al ’40, succedeva, presso la Scuola d’Arte di Monza, nella cattedra di Arturo<br />
Martini. Durante la seconda guerra mondiale visse nel Canton Ticino, dove<br />
conobbe Giacometti e dove affrontò l’attività di incisore che continuerà, con risultati<br />
straordinari, per tutta la vita. Dopo la guerra si trasferiva definitivamente<br />
a Milano. Ha portato avanti, con straordinaria creatività e con uno spirito innovativo,<br />
il suo lavoro di scultore. Non ha mai seguito infatti le linee del “Novecento<br />
italiano” e dei “Valori plastici”, allora dominanti, rivolti a proporre una posizione<br />
di “centralità nazionale”, secondo i canoni di Margherita Sarfatti e del Regime,<br />
che intendevano imprimere anche al gruppo pistoiese una forte impronta politica.<br />
Marino si volgeva invece verso una ricerca di plastica pura, rifacendosi anche<br />
a certi moduli astratteggianti dell’arte egizia e di quella etrusca, in termini di una<br />
rinnovata intenzionalità formale, tesa ad una nuova formatività scultorea che non<br />
rifiuta il naturalismo a tutto tondo, di forte impianto architettonico. Scriveva nel<br />
1992 Danilo Eccher: “L’arcaismo sottile di Marino Marini affonda [...] le proprie<br />
radici da un lato sull’opulenta visionarietà etrusca e dall’ altro lato in un sobrio e<br />
quasi barbarico medievalismo compositivo”. Si pensi alle sue magnifiche, esuberanti<br />
Pomone, bloccate e monumentali, ai suoi Giocolieri, così agili in scultura, così<br />
vivi e ricchi di colore in pittura, ai suoi straordinari ritratti, di una rara e preziosa<br />
intensità psicologica, tra le realizzazioni più importanti, sul tema, nell’ ambito<br />
della scultura contemporanea, che si ispirano, pur nella loro assoluta autonomia,<br />
alla scultura del Rinascimento e a quella romana, e che superano il riferimento<br />
realistico al soggetto per evidenziarne la personalità più segreta. “<strong>Un</strong>isono a<br />
una somiglianza spesso angosciante anche un alto livello di transvisualizzazio-<br />
ne spirituale” (Erich Steingräber 1992). Si ricordino anche le sue tante versioni<br />
di cavaliere e cavallo, uniti spesso in una sola, dinamica, ambigua, drammatica<br />
creatura. Pensiamo allo straordinario Miracolo del ’43, che apre il suo periodo<br />
definito “gotico”, nel quale il blocco si apre come per una esplosione interna, in<br />
gestualità scattanti, in uno slancio violento, trasformando il gruppo equestre in<br />
una dinamica, simbolica, disperata esistenzialità. “Il cavaliere rappresenta per lui<br />
una figura tragica. Lo vede come simbolo del dramma umano. Balza immediatamente<br />
all’occhio la relazione che intercorre tra i cavalieri di Marini e la desolata<br />
situazione esistenziale del dopoguerra”. “Le mie figure di cavaliere” dichiarava<br />
lo stesso Marini “sono simboli dell’affanno che mi prende quando guardo la<br />
mia epoca. I miei cavalli diventano sempre più inquieti; i cavalieri sempre più<br />
incapaci di controllarli. La catastrofe che schiaccia uomo e animale assomiglia<br />
a quelle che distrussero Pompei e Sodoma”. Su questa via Marino arriverà alla<br />
totale scarnificazione della forma. Per quanto riguarda la pittura, il disegno e la<br />
grafica cito ancora una frase di Marino: “Per me il dipingere è innato, un’esigenza<br />
originaria e potente che mi spinge a cercare il colore. Non c’è scultura che non<br />
sia passata attraverso questa esperienza”. Ma pittura, scultura, grafica, non sono<br />
per lui solo le premesse della scultura; rappresentano momenti essenziali del suo<br />
fare: anche se i temi sono gli stessi, sia in pittura,<br />
che nel disegno e nella grafica, spesso egli travalica<br />
il “figurale” per arrivare a sintesi formali<br />
praticamente (o apparentemente) astratte, che<br />
tendono a rendere più drammatici i temi inquietanti<br />
trattati in scultura. Bisognerà dire che,<br />
per il disegno e la grafica, egli viene da una città<br />
che nel 1913 aveva dato vita alla Mostra del<br />
Bianco e Nero, che avrà peso e risonanza per gli<br />
artisti pistoiesi per tutto il Novecento. “Il disegno”<br />
scrive ancora Erich Steingräber “incarna<br />
l’ aspetto più originario e geniale dell’atto creativo,<br />
la prima traduzione della visione e l’idea<br />
o il concetto, come venne chiamato l’atto creativo<br />
a partire dal Rinascimento”. I disegni e le<br />
grafiche di Marino (anche se restano disegni e<br />
grafiche di scultore), tendono sempre più, dal<br />
secondo dopoguerra, ad una “riduttività” verso<br />
forme elementari, ma violentemente spezzate e<br />
sempre più tese, espressione della sempre più<br />
minacciata distruzione del mondo occidentale.<br />
Cenni bibliografici<br />
U. Apollonio, Marino Marini scultore, Milano<br />
1953.<br />
Marino Marini. L’opera completa, Milano 1970.<br />
C. Pirovano, Marino Marini scultore, Milano<br />
1972.<br />
Marino Marini, cat. Centro di Documentazione<br />
dell’opera, a cura di Giorgio e Guido Guastalla,<br />
<strong>Pistoia</strong> 1979.<br />
Marino pittore, cat. mostra a cura di M. De<br />
Micheli e C. Pirovano, Milano 1987.<br />
M. De Micheli, Marino Marini, <strong>Pistoia</strong> 1990.<br />
Il Museo Marino Marini di Firenze, cat. mostra a<br />
cura di C. Pirovano, Milano 1990.<br />
Marino Marini, a cura di D. Eccher, Galleria Civica<br />
di Arte contemporanea, Trento 1992.<br />
E. Steingräber, Marino Marini, in Marino<br />
Marini, a cura di D. Eccher, Galleria Civica di<br />
Arte contemporanea, Trento 1992.<br />
L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />
Marino Marini. Catalogo ragionato della scultura,<br />
saggio introduttivo di G. Carandente, Milano<br />
1998.<br />
M. Bazzini, M.T. Tosi, Marino Marini, la forma<br />
del colore, <strong>Pistoia</strong> 2001.<br />
E. Steingräber, M. Bazzini, Marino Marini e il<br />
ritratto, <strong>Pistoia</strong> 2004.<br />
M.T. Tosi, V. Gaiffi,Marino Marini e il nudo,<br />
<strong>Pistoia</strong> 2005.<br />
130<br />
131
Marino Marini<br />
Arlecchino, 1939<br />
bronzo a patina verde, cm 161,5 x 4 x 13,6, base in pietra<br />
Bel ritratto di giovane uomo librato in un inizio di salto, il<br />
braccio sinistro alzato, come a voler difendere, con la mano,<br />
quel che resta del braccio destro mozzato a metà avambraccio,<br />
ad evidenziare il riferimento diretto a statue etrusche e<br />
romane. Intensa l’espressione del volto, come rivolto verso una<br />
mèta lontana, che questo giovane uomo non può mancare di<br />
raggiungere.<br />
Opera giovanile, perfetta, che appare come il simbolo della<br />
volontà del giovane Marino di prefigurarsi un destino eroico.<br />
132<br />
133
Marino Marini<br />
Il giocoliere, 1944<br />
bronzo, cm 88,4 x 37,8 x 67,7<br />
L’uomo, dal corpo solido e compatto, seduto su un piedistallo<br />
cubico, in legno, una gamba piegata sotto l’altra, la mano sinistra<br />
appoggiata sul piedistallo, ha il braccio destro mozzato sotto la<br />
spalla. Questo avrebbe dovuto essere il braccio alzato intento a<br />
far volteggiare, in alto, piccoli elementi (cerchi, palline...) verso il<br />
cui movimento è rivolto il volto alzato dell’uomo, con lo sguardo<br />
intento.<br />
134<br />
135
Marino Marini<br />
Nudo di fanciullo, s.d.<br />
cera su tavoletta di compensato, cm 44 x 34,3 x 16<br />
Morbido nudo di bambino che agita le braccia e punta un piede<br />
sulla tavoletta sulla quale è collocato, quasi a volersi liberare da<br />
questa posizione. La morbidezza della cera accentua il senso di<br />
delicatezza del giovane corpo, anche questo di una naturalezza<br />
che dimostra quanto la ricerca di Marini tendesse, fin dai suoi<br />
inizi, ad una nuova, più libera formatività scultorea, che non<br />
rifiuta il naturalismo di forte impianto architettonico.<br />
136<br />
137
Marino Marini<br />
Acrobata, 1952<br />
inchiostro su carta, cm 64,5 x 39; firmato in basso a destra<br />
<strong>Un</strong>a morbida figura di donna descritta da un segno che ne<br />
definisce il contorno e che prosegue attorno al collo a mostrare<br />
la presenza, altrimenti indecifrabile, di una maglia bianca intera.<br />
La qualifica di acrobata si rivela solo attraverso la posizione delle<br />
gambe e dei piedi quasi incrociati e nell’accentuato piegamento<br />
laterale della testa.<br />
Dietro la figura, chiusa nel suo contorno lineare, una traccia<br />
scura, a grossi tratti di inchiostro, le crea attorno un’ombra scura,<br />
che la fa risaltare in primo piano.<br />
138<br />
139
Marino Marini<br />
Chevaux et Cavaliers I, 1972<br />
litografia a colori, es. XXI / XXX, cm 38 x 50 interno<br />
(50 x 65, esterno); firmata in basso a destra<br />
Chevaux et Cavaliers VIII, 1972<br />
litografia a colori, es. XXI / XXX, cm 39 x 52 interno<br />
(49,5 x 65, esterno); firmata in basso a destra<br />
Due bellissime incisioni, di una grande libertà, di forte e sicuro<br />
impianto, dai colori vivi. Come quasi tutto il lavoro grafico di<br />
Marino, queste due incisioni, di una dinamicità quasi violenta<br />
nel raddoppiamento e rovesciamento delle immagini, esprimono<br />
la carica espressiva, la sinteticità, la drammatica tensione del<br />
periodo maturo della sua ricerca.<br />
140<br />
141
Agenore Fabbri<br />
Barba, <strong>Pistoia</strong>, 1911 – Savona, 1998<br />
Già dimostrava, da giovanissimo, la sua chiara propensione verso la scultura; è infatti<br />
del ’29 il suo bel Ritratto della madre, in terracotta; partecipava, con gli altri artisti<br />
pistoiesi, alle mostre regionali e provinciali. Nel ’32 era ad Albissola, sede privilegiata<br />
per il lavoro ceramico e frequentata da tanti artisti, e dove nel ’54 Jorn, del<br />
Gruppo Cobra, avrebbe organizzato gli “Incontri Internazionali della Ceramica”,<br />
a cui partecipavano Fontana, Baj, Dangelo, Scanavino, Appel, Corneille, Matta,<br />
Koenig, Pinot Gallizio... Fabbri lavorava in un piccolo laboratorio La Fiamma, ma<br />
già si avvicinava al gruppo di artisti che si ritrovavano ad Albissola, che continuò<br />
a frequentare anche quando, dal ’45, si trasferiva definitivamente a Milano. Dava<br />
inizio allora alle sue sculture il cui tema era la lotta tra uomo e animale. Presente<br />
alla Biennale veneziana dal ’48, alla Quadriennale di Roma dal ’52, consegnava<br />
direttamente e prepotentemente la sua presenza nell’ambito della nuova scultura<br />
italiana della metà del Novecento. Da un naturalismo luministico legato al Novecento<br />
italiano passerà a una sua interpretazione della scultura, dapprima ancora<br />
figurativa, ma già espressione di un’energia ostinata, di una “tragicità allucinata”.<br />
“Per quanto torturata” scriveva Dieter Ronte (1997) “la figura umana vista da<br />
Fabbri rimane stabile, eretta, orgogliosa, lineare, si impone, quasi a contrasto con<br />
la condizione che esprime, secondo moduli plastici, di volumi di impostazione,<br />
che suggeriscono un distacco, un allontanamento”. La collocazione di alcune sue<br />
sculture, singole o a coppie, su sedie altissime, filiformi, fuori scala, ne accentua<br />
l’ambigua, improbabile condizione: “E se l’insistita operazione di stravolgimento<br />
a cui tutte le opere di Fabbri sono sottoposte” prosegue Ronte “è il segno di<br />
una volontà di distruzione della forma, di ‘abolizione della materia con cui l’atto<br />
drammatico vorrebbe esprimersi allo stato puro’, ciò significa non solo che lo<br />
scultore, per analogia, compie tale operazione di<br />
stravolgimento per rappresentare una condizione<br />
appunto stravolta, di umanità tradita, ferita nella<br />
coscienza attraverso la ferita visibile inflitta al<br />
corpo”. Dal ’57 Fabbri utilizza il bronzo e volge<br />
verso uno stravolgimento dinamico del figurativo,<br />
realizzando lavori in chiave con quelli europei<br />
contemporanei (Butler, Chadwick...), che<br />
sembrano prefigurare un’umanità trasformata in<br />
macchina distruttiva, in un mondo già in via di<br />
estinzione. Dedito dal 1982 anche alla pittura, vi<br />
esprime con la materia e il colore la forza della sua<br />
drammaticità.<br />
Cenni bibliografici<br />
M. Valsecchi, Sei artisti milanesi 1960-1965, cat.<br />
mostra di Bruno Cassinari, Agenore Fabbri,<br />
Toni Fabris, Franco Francese, Umberto<br />
Milani, Ennio Morlotti, Verona 1966.<br />
M. de Micheli, G. Gassiot Talabot, Fabbri,<br />
Milano 1972.<br />
Agenore Fabbri, cat. mostra a Palazzo Reale,<br />
Milano, 1975.<br />
R. Sanesi, D. Ronte, Agenore Fabbri, Opere<br />
1929-1995. Acquisizione, Collezione 1, a cura<br />
di C. d’Afflitto, <strong>Pistoia</strong> Palazzo Fabroni,<br />
Poggibonsi 1997.<br />
G. Damiani, La scuola Pistoiese tra le due guerre,<br />
Firenze 2000, pp. 148-149.<br />
G. Uzzani, M. De Micheli, C. Cappellini,<br />
Agenore Fabbri. Il mito di Orfeo, <strong>Pistoia</strong> <strong>2010.</strong><br />
143
Agenore Fabbri<br />
Personaggio, 1962<br />
bronzo, cm 66 x 57 x 18; firmato sulla base<br />
Questo lavoro appartiene al momento nel quale la stilizzazione<br />
stravolta del figurativo, provocata dalla profonda crisi esistenziale<br />
che segue la seconda guerra mondiale, (crisi che Argan<br />
definiva “delle scienze europee”) che si manifesta, in arte, con<br />
l’Informale, in tutte le sue forme, espressione del grande disagio<br />
del sistema culturale europeo, sul filo dell’irrazionalismo: una<br />
frattura emotiva, strutturale; anche perché la seconda guerra<br />
mondiale, pur con tutto il suo orrore, aveva aperto i confini e,<br />
in certo senso, spazzato via le differenze nazionali. Quasi tutta<br />
la scultura europea risponde a questa nuova esigenza. Anche le<br />
sculture di Fabbri si fanno scheletriche, si allineano in questo<br />
percorso con quelle europee (Butler, Chadwick) elaborando<br />
queste presenze martoriate e scarnificate.<br />
144<br />
145
Agenore Fabbri<br />
L’uomo atomizzato, s.d.<br />
bronzo, cm 38,5 x12,5 x 6,5; titolo e firma sulla base<br />
Anche questa piccola scultura, contorta, bruciata come da<br />
un bombardamento atomico, fa parte dei lavori realizzati nel<br />
secondo dopoguerra, provato dalle devastazioni disumane, anche<br />
nella memoria della sorte di Hiroshima. Fa pensare alla fine della<br />
civiltà, alla fine dell’umanità, come la si è fin qui conosciuta.<br />
È un documento forte di quanto l’arte riesca ad esprimere<br />
criticamente la situazione nella quale si produce, senza rivelarne,<br />
come purtroppo avviene oggi, sempre più spesso, la compiaciuta<br />
e sempre più vuota e intollerabile indifferenza.<br />
146<br />
147
Agenore Fabbri<br />
Personaggi spaziali, s. d.<br />
tecnica mista su tela, firma e titolo sul verso della tela<br />
cm 120 x 100<br />
Bel lavoro, di grande impatto visivo, che sembra alludere a un<br />
cielo solcato da esplosioni laceranti tra raggi/nuvola bianchi,<br />
gialli, rossi, di carattere informale e allo stesso tempo gestuale e<br />
segnino, all’interno del quale si indovinano apparizioni confuse,<br />
occhi gialli spalancati su quelli che appaiono quasi musi azzurri,<br />
neri, di animali dalle lunghe orecchie che sembrano attraversare<br />
e sfondare nubi inquiete in un magma generale, in continuo<br />
sconvolgimento.<br />
Appartiene al secondo periodo del lavoro di Fabbri, quando si<br />
dedica anche alla pittura.<br />
148<br />
149
Mario Nigro<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1917 – Livorno, 1992<br />
Da <strong>Pistoia</strong> si trasferiva prima a Livorno, dove viveva fino al ’57 e dove, ai suoi<br />
inizi, era vicino agli artisti fiorentini del movimento dell’ “astrattismo classico”.<br />
Si trasferiva poi a Milano, dove fu parte integrante del MAC (Movimento Arte<br />
Concreta), fondato nel ’48 a Milano da alcuni artisti tra i quali Munari, Dorfles,<br />
Soldati. Portava avanti, allora, le sue ricerche progettuali e pittoriche su quello<br />
che definiva “tempo totale”. Ha quasi sempre composto i suoi quadri a mezzo<br />
di un “colore-segno”, organizzato secondo una raffinata e sottile strutturazione<br />
ritmica e dinamica, dapprima elaborata in rapporto alla storia dell’astrattismo<br />
dagli anni Trenta ai Cinquanta, così da formare un incastro di elementi geometrici,<br />
svolto secondo variazioni di direzione, con continui imbrigliamenti, a<br />
suggerire condizioni di ansia, di angoscia, cui corrispondono aperture di campo<br />
ritmiche, come respiri di speranza. Dalle Stagioni esposte alla Biennale veneziana<br />
del ’68, un lavoro composto di quattro elementi componibili per 12 metri<br />
lineari, a Lettere di un nuovo amore (’72), una variante del lavoro precedente,<br />
arrivava, nel ’73, ad un’opera composta di sette rombi incastrati tra loro, che titolava<br />
Sogno di un vero amore, come scriveva allora Marisa Volpi: “Il tragico può<br />
essere alluso non più dalla curva (Mondrian), ma dalla retta diagonale, e […]<br />
i percorsi dinamici della diagonale non conducono all’assoluto (Malevič), ma<br />
all’angosciosamente limitato” (1965). Nigro arriverà ad un linguaggio più lirico,<br />
più disteso, occupando, con le sue forme, spesso a rombo, pareti e pavimento,<br />
che disponeva secondo un equilibrio libero e dinamico, variando l’aggregazione<br />
dei segni colorati sulla tela bianca, teso ad una serenità contemplativa,<br />
di grande sensibilità ed eleganza, verso quella sua interpretazione di “Spazio<br />
Totale”che “visualizza il compenetrarsi di diversi gradi di realtà e di dimensioni,<br />
riferendosi al contempo alla scienza relativistica<br />
e alla tragicità del divenire dell’ esistenza,<br />
rese presenti in immagine nelle fughe prospettiche<br />
irriducibili di reticoli ottico-percettivi che<br />
l’ artista movimenta sia in termini strutturali<br />
cromatici”. (G. Celant 2006). La scelta di una<br />
pittura di tessitura geometrica e colori piatti, vicina<br />
alla concezione neoplastica del De Stijl di<br />
van Doesburg, si carica sempre più, nel lavoro<br />
di Mario Nigro, di energia vitale che si manifesta<br />
nelle sue strette griglie di verdi acidi, gialli<br />
accesi, con interventi svolti spesso in rapporti<br />
rovesciati, di rossi.<br />
Cenni bibliografici<br />
M. Volpi, Mario Nigro, cat. mostra, Roma 1965.<br />
Mario Nigro, cat. mostra a cura del Comune di<br />
<strong>Pistoia</strong>, Milano 1984.<br />
L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />
Correnti astratte in Toscana 1947-1955, cat.<br />
mostra a cura di O. Casazza, M. Moretti, 1997<br />
Pisa.<br />
Mario Nigro. Opere 1987-1992, cat. a cura di G.<br />
M. Accame, Archivio Artistico Mario Nigro,<br />
Milano 1998.<br />
Mario Nigro. Meditazioni, cat. mostra a cura di<br />
G. Verzotti, Milano 2006.<br />
G. Celant in Omaggio a Mario Nigro, Collezione<br />
Peggy Guggenheim, Venezia 2006<br />
G. Celant, Mario Nigro: catalogo ragionato, 1947-<br />
1992, Milano 2009.<br />
151
Mario Nigro<br />
Spazio totale, 1953<br />
tempera verniciata su tela, cm 150 x 120<br />
firma, data e titolo sul retro<br />
Bel lavoro, tutto giocato sul blu del fondo, il giallo e il rosso delle<br />
consuete successioni di bande che si incrociano, dal basso in<br />
alto e viceversa, ciascuna composta di piccoli quadrati gialli che<br />
linee rosse incrociano; bande che, protendendosi in avanti, dal<br />
fondo, trasformano la visione piatta in tridimensionale, portando<br />
in primo piano e ingrandendo i piccoli quadrati, trasformandoli<br />
in una sorta di luce raggiata, mentre quelle che degradano verso<br />
il fondo, ne abbassano la luminosità e le dimensioni. Si crea così<br />
una dinamica fortemente tesa, un movimento altermo continuo,<br />
che sembra trasformare le bande stesse in raggi che percorrono lo<br />
spazio di un cielo virtuale, a indagarne la possibilità di pericolose<br />
incursioni.<br />
Ne derivano, allo stesso tempo, un’estetica di straordinaria forza<br />
emotiva e un senso continuo di allarme.<br />
152<br />
153
Mario Nigro<br />
Spazio Totale, 1955<br />
olio su tela, cm. 50 x 60<br />
<strong>Un</strong>’opera del periodo nel quale Nigro si era trasferito da <strong>Pistoia</strong><br />
a Livorno. Si articola secondo una sua strutturazione dinamicoritmica<br />
a creare incastri di elementi geometrici, qui rettangoli<br />
azzurri percorsi da una rete quadrata che incrocia quadrati di<br />
diversa misura per ogni rettangolo, dal bianco al rosa acceso. I<br />
rettangoli si sovrappongono l’uno sull’altro, a creare una continua<br />
variazione di direzioni e una sensazione di suspense. <strong>Un</strong>a sorta<br />
di “spazio totale”, appunto, una mappa complessa, stimolante<br />
che suggerisce emozioni forti che passano dall’apprensione<br />
all’angoscia, alla distensione, che una complessa armonia,<br />
seppure inquieta, può suggerire.<br />
154<br />
155
Mario Nigro<br />
Spazio Totale 18; Simultaneità ritmiche, 1955<br />
tempera verniciata su tela, cm 65 x 100; firma, data e titolo sul retro<br />
<strong>Un</strong>o “Spazio Totale” nel quale dalla parte alta, a destra si<br />
dispiegano allargandosi e dilatandosi verso il basso, bande<br />
sovrapposte ognuna coperta di piccoli quadrati gialli crociati<br />
in rosso, su base verde, bande che si sovrappongono aprendosi<br />
l’una all’altra, in direzione raggiata, realizzando una dilatazione<br />
luminosa nello spazio brulicante di reticoli di piccole figure<br />
geometriche che si incontrano assumendo direzioni diverse.<br />
<strong>Un</strong>o spazio, comunque, ancora lievemente angoscioso<br />
quell’“angoscioso limitato” di cui scriveva Marisa Volpi (1965)<br />
a proposito dei lavori più vecchi dell’artista, che si apriranno, in<br />
seguito, a una maggiore distensione.<br />
156<br />
157
Mario Nigro<br />
Vibrazioni simultanee, 1961<br />
tempera su carta riportata su tela, cm 72 x 50,5; firmato e datato<br />
in basso a destra<br />
È come un’esplosione “simultanea” di tanti fuochi d’artificio<br />
che si formano sull’incontro di quattro angoli retti, ciascuno dei<br />
quali incastona un fuoco che si espande da una prima esplosione<br />
di fondo di raggi verdi, che successivamente esplodono in<br />
una sorta di fuoco sul viola, fatto di raggi sfrangiati. Raggi che,<br />
scontrandosi con quelli emergenti dai triangoli accostati, creano<br />
punte acuminate, ad accentuare l’intensità della tragica carica<br />
emotiva delle diverse forze.<br />
158<br />
159
Gualtiero Nativi<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1921 – Greve in Chianti, Firenze, 1999<br />
Figlio di Giuseppe Nativi, sindaco socialista di Sambuca Pistoiese e della<br />
pittrice Angela Pericoli. Laureato in lettere a Firenze, si avvicinava al gruppo<br />
di artisti riuniti attorno al giornale “Torrente” e in seguito al gruppo di<br />
ispirazione marxista Arte d’oggi, cui erano vicini anche Vinicio Berti (che<br />
Nativi già aveva conosciuto nella redazione di “Torrente”), Bruno Brunetti,<br />
Alvaro Monnini, Mario Nuti. Con loro firmava, nel 1950, il Manifesto<br />
dell’Astrattismo classico, quando il critico e professore di estetica Ermanno<br />
Migliorini ne stilava il testo, inizialmente firmato con il titolo di “Fine<br />
dell’Astrattismo”.<br />
Delle intenzioni del manifesto Nativi ha espresso, forse più di tutti gli altri,<br />
nella purezza del suo lavoro, la radice razionale, astratta, nutrita di una<br />
cultura classica e severamente umanistica, in una trascrizione astratta della<br />
prospettiva rinascimentale toscana, ma anche delle metafisiche astrazioni di<br />
Piero della Francesca e della “finestra” albertiana.<br />
Nativi ha portato avanti il suo lavoro, elaborato attraverso studi e ricerche<br />
sulla dinamica espressiva della forma, che traduceva in scansioni cristalline,<br />
nella ricerca di un colore luminoso, chiaro, timbrico, che lo distingue fortemente<br />
dagli altri esponenti dell’Astrattismo classico, che sceglievano spesso<br />
una tavolozza scura e un cromatismo generalmente basso, quasi tonale.<br />
C’è, nel lavoro di Nativi, una componente “riduttiva”, “minimale”, un’intenzionalità<br />
fortemente sociale, alla ricerca delle “strutture profonde” del<br />
dipingere. Ha anche perseguito, nel suo lavoro, un’indagine sulla possibilità<br />
di strutturazione tridimensionale, nella quale ha anche recuperato certa<br />
scansione ritmica, quasi a gradienti, che si è tradotta nell’esperienza della<br />
scultura, nella quale ha anche trasformato in “reale” la virtualità “spaziale”<br />
della sua pittura.<br />
Tra il ’47 e il ’60 le opere di Nativi, impostate secondo un astrattismo dinamico<br />
e ritmico, si denotavano come “Oggetti Spazio” (Simbolo, ’48, Modulazioni,<br />
’49; Spazio dinamico, ’51); quelle dal ’60 al ’70 punteranno a un rigore<br />
compositivo fortemente significante e drammatico (Lacerazione, ’60-’64,<br />
uno dei lavori presenti in mostra, Momento dinamico, ’67; Momento magico,<br />
’68; Messaggio, ’68).<br />
Altro suo tema quello degli “scontri” spazio-dinamici, tendenti a una visione<br />
spaziale architettonica, evidente anche nei lavori presenti in questa<br />
mostra.<br />
Scrive di lui Piero Pacini (1976): “La pittura di Nativi manifesta una toscanità<br />
che lo imparenta a due artisti altrettanto toscani ed europei, qua-<br />
li Magnelli e Severini, che lo ha portato per<br />
decenni a perseguire utopisticamente ma<br />
con tenacia e lucidità mentali un antico sogno<br />
umanistico prodotto da civiltà raffinate<br />
in una situazione visibile di elevato equilibrio<br />
spirituale e proteso ad affermare quanto<br />
di più elevato si affaccia all’immaginazione<br />
dell’uomo”. Nativi ha fatto parte anche del<br />
gruppo “Espace” di Parigi. Ricordiamo che,<br />
tra i molti riconoscimenti, nel ’47 vinse il Premio<br />
“Cino” della città di <strong>Pistoia</strong>. Da sempre<br />
legato alla sua città di origine,cui ha sempre<br />
tenuto, continuando a passare spesso l’estate<br />
a Sambuca Pistoiese.<br />
Cenni bibliografici<br />
Gualtiero Nativi : astrattismo classico 1947-1950,<br />
cat. mostra, Firenze 1973.<br />
P. Pacini, Nativi, Galleria Michaud, Firenze<br />
1976.<br />
E. Crispolti, P. Pacini, Astrattismo Classico, cat.<br />
mostra, Firenze 1980.<br />
E. Crispolti, Nativi. Per un modello formale<br />
dell’<strong>Un</strong>iverso. Trentacinque anni di ricerca, cat.<br />
mostra, <strong>Pistoia</strong> 1982.<br />
Firenze anni Sessanta: Riccardo Guarneri,<br />
Gualtiero Nativi, Luciano Ori, cat. mostra a cura<br />
di A. Alibrandi, Galleria Il Ponte, Firenze 1989.<br />
L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />
Correnti Astratte in Toscana, cat. mostra, Pisa<br />
1997.<br />
Nativi 1947-1956, cat. mostra a cura di L.<br />
Caramel, Sarzana 2008.<br />
Gualtiero Nativi. Lo spazio astratto, Sculture e<br />
opere scelte 1947-1963, cat. mostra, Verona 2009.<br />
160<br />
161
Gualtiero Nativi<br />
Senza titolo o Lacerazione, 1960/1964<br />
tempera acrilica su tavola, cm 130 x 80<br />
<strong>Un</strong> lavoro “classico”, giocato sul rapporto severo di lunghe spine<br />
lanceolate che tagliano il quadro in verticale, con una lieve<br />
angolatura, in una sorta di scansione cristallina, sovrapposte l’una<br />
all’altra, dal nero all’azzurro al blu, per terminare al fondo con<br />
un grigio freddo su bianco. Ogni successiva spina si protende<br />
in lunghe diramazioni regolari che fanno pensare a una lotta<br />
violenta e, appunto, a una lunga “lacerazione” interna, peraltro<br />
fortemente contenuta, come congelata in una fissità che ricorda<br />
certe lame nelle mani statiche di alcuni guerrieri dalla fissità<br />
immota di Piero della Francesca.<br />
162<br />
163
Gualtiero Nativi<br />
Grande Apocalisse, 1983<br />
tempera grassa su tela, cm 111,5 x 161,5; firmato in basso a<br />
sinistra<br />
<strong>Un</strong>’opera complessa nella quale da un fondo viola e rosso scuro,<br />
interrotto da una fascia regolare, per metà bianca, per metà circa<br />
di un lilla sordo si sporgono grandi forche aguzze, che alternano<br />
verdi diversi e sembrano rovesciarsi verso una totale catastrofe,<br />
in sottili barre geometriche spezzate, anche se ancora legate ad<br />
uno schieramento ordinato dal colore blu acceso. <strong>Un</strong>o scontro<br />
travolgente, una apocalisse tra forze troppo diverse che già<br />
hanno travolto il piccolo esercito lineare che cerca, in un ultimo<br />
allineamento, una impossibile salvezza. <strong>Un</strong> lavoro di grande<br />
forza dinamica e di un impatto duramente drammatico.<br />
164<br />
165
LA GENERAZIONE DI MEZZO:<br />
CONTRASTO TRA FIGURAZIONE<br />
E ASTRAZIONE<br />
Sigfrido Bartolini<br />
Marcello Lucarelli<br />
Jorio Vivarelli<br />
Mirando Iacomelli<br />
Lando Landini<br />
Valerio Gelli<br />
Aldo Frosini<br />
Fernando Melani<br />
Remo Gordigiani<br />
167
Sigfrido Bartolini<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1932-2007<br />
Pittore, incisore, critico e polemista, ricco di intuizione e di sensibilità. Vivaci e intelligenti<br />
le sue presentazione di amici artisti; è stato autore di molte monografie<br />
(Soffici, Sironi, Innocenti, Lega, Rosai, Cremona, Boldini...); noto per le sue accese<br />
polemiche sul giornale “Totalità”, che fondava nel ’66 con Barna Occhini – considerato<br />
erede de “La Voce” e di “Lacerba”; collaborerà in seguito col “Borghese”,<br />
poi col “Giornale” e con “Libero”. Ha illustrato (con disegni e xilografie) libri di<br />
molti autori noti (Bernardo di Clairvaux, Vieira de Silva, Petrocchi, Serpieri, Savinio,<br />
Cattabianchi, Narni, Beatrice di Pian degli Ontani), e il Vangelo (2000). Per il<br />
centenario dell’uscita di Pinocchio ne curava la pubblicazione monumentale arricchendola<br />
di 309 xilografie in nero e a colori (dodici anni di lavoro accanito, dal 1983,<br />
che porterà ad una grande mostra che ha fatto, praticamente, il giro del mondo).<br />
Nel 2000 gli è stata dedicata una mostra nel palazzo della Triennale a Milano. ll suo<br />
ultimo grande lavoro sono state quattordici vetrate per la chiesa dell’Immacolata a<br />
<strong>Pistoia</strong> (2006). Il suo libro più noto è la raccolta di molti suoi articoli critici, La Grande<br />
Impostura (2002), dove si scaglia contro moltissimi artisti del XX <strong>secolo</strong>, mostrandosi<br />
chiuso e anacronistico nei confronti dell’arte moderna e contemporanea, che legge<br />
quasi esclusivamente come manifestazione di mercato. Legato, ostinatamente, al<br />
figurativo, ma un figurativo, come scrive Stelio Solinas nel 2007 “anomalo, senza<br />
figure, senza volto, una specie di mondo ai confini del mondo, dove l’essere umano<br />
era scomparso e rimanevano le vestigia del suo passato; case che sembravano<br />
fortezze, spiagge solitarie, paesaggi con rovine...”. La sua pittura, che ha dichiaratamente<br />
come punti di riferimento Carrà e Soffici, si distingue per la naturalezza<br />
dello sguardo malinconico sulla natura dove è intervenuto l’uomo, per la sua visione<br />
netta, chiara, impietosa del reale come in Rudere, qui in mostra, un lavoro intenso,<br />
raggelato. “L’architettura rovinata, abbandonata<br />
sul limite di spiagge infinite, di paesaggi solitari,<br />
si vela adesso di cromie cupe, livide, austere”, Iacuzzi<br />
2007. Le sue incisioni (pensiamo soprattutto<br />
alle 309 xilografie delle Avventure di Pinocchio,<br />
su legno di ciliegio, acero, bossolo, olivo, essenze<br />
esotiche, e ai 73 “linoli” per le tavole fuori testo a<br />
tre colori) esprimono in pieno la qualità della sua<br />
sensibilità e della sua energia espressiva. Comunque,<br />
malgrado la sua notorietà in campo nazionale<br />
Bartolini rimase sempre legato alla sua città, dove<br />
continuò ad insegnare incisione all’Istituto d’Arte<br />
di <strong>Pistoia</strong>.<br />
Cenni bibliografici<br />
Sigfrido Bartolini testimone del suo tempo, cat.<br />
mostra a cura di C.F. Carli, Milano 2000.<br />
Quattordici vetrate moderne di Sigfrido Bartolini<br />
nella chiesa dell’Immacolata a <strong>Pistoia</strong>. Le Sette<br />
Opere di Misericordia. I Sette Sacramenti, a cura di<br />
S. Simoncini, Firenze 2007.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
A. Iacuzzi, Cultura artistica dal dopoguerra a<br />
<strong>Pistoia</strong>, in Arte de Novecento, cit.<br />
Sigfrido Bartolini e il suo mondo: Soffici, Sironi,<br />
Carrà... Le favole e il paesaggio italiano, cat.<br />
mostra a cura di E. Pontiggia, Milano 2008.<br />
B. Buscaroli, Sigfrido Bartolini. La forma del<br />
tempo, cat. mostra, Firenze 2009.<br />
E. Pontiggia, Sigfrido Bartolini. Monotipi 1948-<br />
2001, catalogo generale, Firenze <strong>2010.</strong><br />
169
Sigfrido Bartolini<br />
Rudere, 1984<br />
olio su faesite, cm 50 x 69; firmato in basso a destra<br />
Anche questo quadro può darsi come specchio del carattere di<br />
Sigfrido Bartolini, testimone della sua grande abilità, ma anche<br />
del suo pessimismo, che sceglie a modello una casa abbandonata<br />
che sembra esprimere la tristezza della solitudine attraverso le<br />
orbite vuote delle finestre, le macchie scure di un intonaco una<br />
volta bianco, attraverso il grigio smorto dei ciuffi di erba secca<br />
che la circondano, le rade, piccole isole d’erba bassa.<br />
Qualche tocco di rosso nel breve tetto della parte aggiunta<br />
sulla facciata della casa e in qualche casa lontana. A sinistra un<br />
triangolo di mare di un blu gelido, che si lega all’azzurro sbiadito<br />
del cielo. Comunque un lavoro magistrale, di impianto solido e<br />
forte, esempio notevole della grande abilità pittorica di Bartolini,<br />
e anche della sua natura orgogliosa e ribelle..<br />
170<br />
171
Marcello Lucarelli<br />
<strong>Pistoia</strong> 1923-2010<br />
Studiava dal ’38 alla Scuola d’Arte di <strong>Pistoia</strong>, dove incontrava Remo Gordigiani<br />
e Aldo Frosini, coi quali farà poi parte della cosiddetta generazione di mezzo<br />
degli artisti pistoiesi.<br />
A Firenze presso l’Istituto d’Arte di Porta Romana, completerà la sua formazione.<br />
Rimarrà a Firenze fino al ’46. Collabora allora col suo professore Giuliano<br />
Zeti alla realizzazione di una serie di affreschi nella chiesa di Montemurlo. Di<br />
seguito, nello studio di Cesare Fiumi, (dove dipinge pannelli in creta), poi in<br />
quello di Primo Conti, frequenta Farulli e Guasti. A Firenze ha modo di seguire<br />
le mostre di Morandi, De Chirico, De Pisis e di conoscere direttamente nei<br />
musei e nelle chiese Giotto, Masaccio... Dal ’46 al Magistero segue la sua inclinazione<br />
verso l’insegnamento. Assistente a <strong>Pistoia</strong> di Pietro Bugiani, alla Scuola<br />
d’Arte e insegnante al Liceo Scientifico, si presenta con Frosini, Gordigiani,<br />
Vivarelli alla mostra presso la Saletta Masaccio a <strong>Pistoia</strong>. Anche per lui sarà determinante<br />
la visita alla Biennale del ’48; lo affascinano il lavoro di Kandinskij<br />
e l’astrattismo in generale. Infatti, dopo un primo periodo legato al naturalismo<br />
pistoiese tenterà una sua adesione a forme di astrattismo, legate, peraltro, “ad<br />
una interpretazione coloristica del dato reale” (Iacuzzi 2007).<br />
Nel ’50 gli viene proposta una cattedra di disegno in Sardegna, prima ad<br />
Ales, poi a Cagliari. L’incontro con la natura, il paesaggio, la cultura del luogo,<br />
così forti e caratterizzati, produce in Lucarelli un effetto straordinario, che lo<br />
porta a recuperare nella sua pittura il paesaggio,<br />
che diventa, secondo Iacuzzi, una sorta di<br />
“rielaborazione della memoria, fatta di ricordi<br />
e suggestioni disparate nel tempo, nata da piccoli<br />
appunti schizzati dal vero e poi ripensati<br />
nello studio”.<br />
Dal ’60 di nuovo a <strong>Pistoia</strong>, insegna all’Istituto<br />
Tecnico e, amico di Gordigiani, ne condivide<br />
lo studio. La sua ricerca dedicata a un dialogo<br />
incessante con il paesaggio lo accompagna per<br />
tutto l’arco della vita.<br />
Cenni bibliografici<br />
Marcello Lucarelli mostra antologica. Opere dal<br />
1943 al 1996, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 1997.<br />
S. Naitza, G. Pellegrini, Galleria Comunale<br />
d’Arte. La Collezione Sarda 1900-1970. Guida<br />
all’esposizione permanente, a cura di A.M.<br />
Montaldo, Cagliari 2003.<br />
N. Miceli, S. Simoncini, Percorsi della<br />
Figurazione a <strong>Pistoia</strong>. Dalle antologie della<br />
Circoscrizione 2 alle opere recenti, <strong>Pistoia</strong> 2006.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
A. Iacuzzi, Cultura artistica del dopoguerra a<br />
<strong>Pistoia</strong>, in Arte del Novecento... cit.<br />
173
Marcello Lucarelli<br />
Vagoni a Golfo Aranci, 31 agosto 1972<br />
olio su compensato, cm 50 x 60; firmato in basso a destra<br />
<strong>Un</strong>a visione accesa e forte del paesaggio sardo, dai “toni riarsi<br />
e affocati della Sardegna a quelli pacati e trascorrenti della<br />
campagna pistoiese, che è costantemente atto di memoria<br />
rielaborato nel chiuso dello studio” (A. Iacuzzi 2007),<br />
nell’azzurro intenso del mare contro un paesaggio collinare<br />
dove il verde si alterna ad un azzurro vivo che gioca con libertà<br />
e con un felice e netto uso del colore (rosso e verde) nei blocchi<br />
geometrici dei vagoni (arancio e rosa ultravioletto), degli invasi<br />
dove si collocano. Perfetto il taglio dell’inquadratura del lavoro.<br />
174<br />
175
Jorio Vivarelli<br />
Fognano, Montale, 1922; vive a <strong>Pistoia</strong><br />
Avviato al lavoro del marmo dal padre, studiava prima presso la Scuola Artigiana<br />
di <strong>Pistoia</strong>, poi presso l’Istituto d’Arte di Firenze. Durante la seconda guerra<br />
mondiale, ferito, fu fatto prigioniero sul fronte balcanico dai tedeschi e inviato<br />
in un campo di concentramento in Bulgaria; di seguito, ancora prigioniero,<br />
in <strong>Un</strong>gheria, Austria, Germania. Di qui riusciva a fuggire in Belgio, di là in<br />
Lussemburgo, finché, nel ’46, riusciva a tornare a <strong>Pistoia</strong> dove riprendeva gli<br />
studi e il suo lavoro.<br />
Iniziava con un approfondimento continuo di ricerca sulla figura umana, sui<br />
volti e sulle espressioni, studiati dal vero, ma anche alla luce dell’approfondimento<br />
sulla scultura antica fino a quella della scuola pisana. Lavorava il legno,<br />
la pietra (si pensi alla sua famosa Etruria, ricavata da una grande pietra trovata<br />
nel ’50 in un torrente ai piedi del Cimone e lavorata in loco), il marmo e realizzava<br />
lavori in terracotta, per arrivare alla fusione in bronzo quando entrava a<br />
lavorare nella Fonderia Michelucci. Nel ’51 aveva inizio la sua collaborazione<br />
con Giovanni Michelucci, per il quale realizzava i Crocifissi per la chiesa di<br />
Larderello, per la chiesa della Vergine (‘56) a <strong>Pistoia</strong>, per la chiesa dell’Autostrada<br />
del sole (’63).<br />
È forse questo il suo periodo più intenso, più drammatico, con accenti quasi<br />
espressionisti.<br />
Intanto il suo nome acquistava notorietà anche a livello critico. La conoscenza,<br />
la collaborazione e l’amicizia con Oskar<br />
Stonorov, un noto architetto americano, faceva<br />
uscire il suo nome e la sua fama a livello<br />
internazionale. Anche il suo linguaggio cambiava,<br />
assumendo una formatività più fluida,<br />
elastica, vicina, per certi aspetti, alla scultura<br />
lievemente manierista di Emilio Greco (Acrobati,<br />
’61; Figura nello spazio, ’64), con molte<br />
uscite verso un’astrazione surrealisteggiante<br />
(Le cariatidi, ’64).<br />
Realizzava opere monumentali come le fontane<br />
negli Stati <strong>Un</strong>iti (Riti di primavera, ’64; Ragazze<br />
toscane, ’67, Philadelphia).<br />
Ha realizzato grandi opere architettonicoscultoree<br />
anche in Italia e, soprattutto, in Toscana.<br />
Cenni bibliografici<br />
Storia ideale di una scultura, Galleria d’arte<br />
Cairola, Milano 1964.<br />
G.B. Bassi, J. Vivarelli, Sulla casa-studio<br />
Vivarelli, in “L’Architettura, cronache e storia”,<br />
n. 200, 1972.<br />
Jorio Vivarelli, 1933-1983, cat. mostra, Firenze<br />
1984.<br />
Jorio Vivarelli, <strong>Pistoia</strong> 1991.<br />
<strong>Un</strong> seme per le grandi sculture. Jorio Vivarelli, cat.<br />
mostra, Verona 1999.<br />
Jorio Vivarelli, 1933-2003, Verona 2002.<br />
Jorio Vivarelli. <strong>Un</strong> ponte tra Firenze e le Americhe,<br />
Cataloghi dell’Accademia delle Arti del<br />
Disegno, 23, Firenze 2004.<br />
Jorio Vivarelli. Disegni, a cura di V. Ferretti,<br />
Verona 2006.<br />
Jorio Vivarelli scultore. La materia della vita, a<br />
cura di V. Ferretti, Verona 2007.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
177
Jorio Vivarelli<br />
Autoritratto, 1952<br />
matita su carta da spolvero, cm 37 x 24; firma, titolo e data<br />
in basso, al centro<br />
<strong>Un</strong> disegno veloce, del periodo nel quale Vivarelli indagava sulla<br />
forma e sull’espressione del volto umano, condotto con una netta<br />
definizione, mentre le ombre sono evidenziate a mezzo di fitti e<br />
veloci tratti paralleli. Lo sguardo fisso, intento nell’osservazione<br />
della propria immagine, si fa quasi strabico. <strong>Un</strong> bel disegno<br />
giovanile, un esempio dell’ abilità, anche tecnica, dell’autore.<br />
178<br />
179
Jorio Vivarelli<br />
Testa di vecchio, 1952<br />
matita su carta da spolvero, cm 35 x 23; firma e data in basso<br />
Il disegno insiste sulla definizione di un profilo intenso, chiuso in<br />
una smorfia tra l’ironico e l’amaro, solcato da rughe evidenziate<br />
da segni fitti e ripetuti, che si sfrangiano verso il dietro della testa<br />
che non è disegnato, mentre sopra la testa è accennata l’idea di<br />
un cappello con tesa. Profondamente incavato, l’occhio sembra<br />
irridere il mondo e la realtà che lo circonda.<br />
180<br />
181
Mirando Iacomelli<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1929-2007<br />
Educato all’arte nella bottega dello scultore Cleto Lapi, dal ’45 studente presso<br />
la Scuola d’Arte di Casanova a <strong>Pistoia</strong>, sotto la guida di Zanzotto, Bugiani, Mariotti,<br />
Cappellini, fa parte di quella che si definisce “la generazione di mezzo”<br />
degli artisti pistoiesi. Iniziava il suo lavoro dopo la fine della seconda guerra<br />
mondiale, dalla metà degli anni Quaranta con una pittura “di macchia”, nei suoi<br />
paesaggi eseguiti all’aperto presso la Bure, zona resa nota anche dal “realismo<br />
magico” delle opere di Bugiani da cui Iacomelli si distacca, pur dandone per<br />
scontati i risultati, per una stesura morbida, severa, che già fa trapelare la sua<br />
tendenza a cogliere la fragilità e l’instabilità della realtà, alla quale, a suo modo,<br />
resterà sempre fedele.<br />
Si dedicava anche alla professione di restauratore presso la Soprintendenza che<br />
proseguirà per tutta al vita. Si presentava nel settembre del ’51 alla “Mostra<br />
Provinciale di pittura, scultura e disegno” organizzata nell’ambito del Settembre<br />
pistoiese “come punto di incontro tra popolo e artisti”. Sarà il momento nel<br />
quale si definiranno le due linee, figurativa e astratta, che caratterizzeranno,<br />
anche in seguito, l’arte a <strong>Pistoia</strong>.<br />
Anche per Iacomelli, come per quasi tutti gli artisti pistoiesi, le Biennali veneziane<br />
del ’48 e del ’52 costituiranno due momenti indimenticabili: vi scoprirà<br />
non tanto i Nabis, Matisse come altri (Melani, Gordigiani...), quanto Ensor.<br />
Amerà le “forzature”, come le definisce in un’intervista con Maurizio Tuci (Mirando<br />
Iacomelli 1990) di Van Gogh, Viani, Grosz... Quindi la sua linea sarà quella<br />
di un espressionismo allucinato che gli “suggeriva di scavare nella realtà, (lo)<br />
spingeva a proporla in un modo più crudo...” (Mirando Iacomelli, Storie, 1997).<br />
Nascono da allora le sue “figure” e i suoi personaggi satirici, dalle Processioni<br />
alle Pinzochere, dai Magistrati ai Politicanti, agli Accademici (trasformati in somari),<br />
dagli Uomini di cultura alle Femministe, alle Donne al caffè (e si pensi a Grosz),<br />
alle Manifestazioni, ai Dibattiti, alle Esposizioni d’arte, “dove si trovavano riunite<br />
tutte le attività cittadine. Io le trasponevo sul quadro cercando di evidenziare<br />
certi caratteri peculiari e di metterne in ombra altri: adoperando il colore per<br />
caratterizzare un tipo anziché un altro” come dice l’artista.<br />
<strong>Un</strong>a satira pungente ma sempre ironica, mai aspra, che colpisce la presunzione,<br />
la vanagloria, l’invidia, la maldicenza, la stupida tracotanza degli esponenti di<br />
tutti i ruoli sociali; immagini grottesche, maschere grondanti di macchie di colore<br />
acceso, dove il segno si perde.<br />
Arriverà, di mano in mano a immagini che quasi sembrano disfarsi fino a trasfigurarsi,<br />
dove l’artista, per dirlo con Paolo Fabrizio Iacuzzi (in Mirando Iacomelli,<br />
1990) “non trasfigura solo la sua ‘anarchica protesta’ ma anche la forma estre-<br />
ma di una resistenza creaturale, genetico-informale, al nulla, dalla quale poter<br />
infine tentare di ricostruire un cosmo diverso. Dunque, realista solo nel punto<br />
iniziale, l’occhio prima sugge, poi emulsiona il bianco – si direbbe – l’ambiente<br />
circostante, le figure, che sembrano pulcini dalle carni raggelate, appena usciti<br />
dall’incubatrice di un albume rassodato”.<br />
Questa sorta di tensione al disfacimento della forma si ritrova anche nei Paesaggi<br />
di questo periodo (dagli anni Settanta ai Novanta), nelle case sbilenche dei suoi<br />
paesaggi urbani, anche nelle sue belle Nature morte. Ma non ammetterà mai di<br />
essere entrato in un mondo pittorico diverso. Non lo vorrà mai riconoscere. Nel<br />
catalogo citato del ’97, alla domanda di Maurizio Tuci: “Quindi per te la pittura<br />
del Novecento è una pittura malata?”. “In un certo senso si” risponde. Di seguito<br />
il dibattito prosegue: “Mirando tu non dipingi né come i pittori del 1200,<br />
né come quelli di un <strong>secolo</strong> fa”. “Si, ma adopero lo stesso punto di vista”. “No,<br />
tu adoperi gli stessi mezzi, ma il punto di vista è opposto…”. “…come loro io<br />
voglio vedere nel quadro un pezzo di realtà…”. “… la tua realtà è dunque quella<br />
che rivedi nei quadri…”. “… è evidente, una<br />
realtà che è però fedele a quello che c’è…”. “…<br />
fedele a quello che c’è o fedele a quello che tu<br />
vedi, Mirando?” “Quello che vedo poi diventa<br />
quello che c’è”.<br />
L’ironia graffiante di Iacomelli si è sempre<br />
espressa anche attraverso i suoi vivaci epigrammi<br />
che hanno accompagnato il suo dipingere.<br />
Cenni bibliografici<br />
Mirando Iacomelli mostra antologica. Opere 1945<br />
al 1989, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 1990.<br />
G. Cecconi, Novecento pistoiese. I dipinti di<br />
Mirando Iacomelli, cat. mostra, Firenze 1997.<br />
Mirando Iacomelli, Storie, cat. mostra a cura di<br />
M. Tuci, <strong>Pistoia</strong>, 1997.<br />
Percorsi della figurazione a <strong>Pistoia</strong>. Dalle<br />
antologiche della Circoscrizione 2 alle opere recenti,<br />
cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 2005.<br />
182<br />
183
Mirando Iacomelli<br />
I giudici, 1975<br />
olio su cartone, cm 73 x 73; firmato in basso a destra<br />
Tre figure a mezzo busto due delle quali con occhiali neri, i<br />
cappelli con la banda gialla, il mantello rosso da giudici, le facce<br />
segnate da macchie livide e rossastre, che fanno dei volti, uno<br />
dei quali di profilo è rivolto verso la parete rossa, una sorta di<br />
maschera stravolta. Anche il volto del ritratto è trattato a macchie<br />
come quello dei personaggi: si tratta di una sorta di ironica e<br />
drammatica commedia umana che sembra voler annullare ogni<br />
pretesa di onorabilità, mettendo in luce, con impietosa violenza,<br />
la meschina realtà di personaggi indegni del proprio ruolo.<br />
184<br />
185
Lando Landini<br />
Bonelle, <strong>Pistoia</strong>, 1925<br />
La formazione di Landini, trasferitosi giovanissimo nel sud della Francia e di<br />
ritorno a <strong>Pistoia</strong> nel 1939, si svolge tra il liceo ginnasio e lo studio del pittore<br />
pistoiese Umberto Mariotti. Ben presto, il suo interesse si volge a Matisse e<br />
Monet, a cui avvicina la lezione di Piero della Francesca sullo spazio e la luce.<br />
Solo nel dopoguerra si avvicina ai maestri della generazione di pittori attiva tra<br />
le due guerre, con i quali condivide alcune esperienze espositive.<br />
Come avviene per altri esponenti del gruppo di artisti definiti della ‘generazione<br />
di mezzo’, come anche il più anziano Cappellini, a metà degli anni Quaranta<br />
la sua ricerca prende la via del realismo, al quale aderisce con fervore ideologico.<br />
L’avvicinamento al Partito Comunista (1947) lo porta sulla strada di una<br />
personale elaborazione del realismo socialista, mediato dalla lezione di Matisse,<br />
impostando la propria ricerca su un senso più cromatico della forma intesa come<br />
superficie luminosa e segno. Nel 1950 si laurea con Roberto Longhi alla Facoltà<br />
di Lettere a Firenze, divenendo in seguito collaboratore della rivista “Paragone”<br />
da Parigi, dove si era trasferito subito dopo la laurea. A questo periodo francese,<br />
tra il 1951 e il 1956, risalgono articoli su Picasso, Villon, i Cubisti, Dufy.<br />
Grazie a Longhi entra anche in contatto a Roma con Trombadori e Guttuso che<br />
nel 1955 presenterà la sua personale alla Galleria d’arte “Il Pincio”.<br />
Malgrado anche alcuni interventi critici sulla rivista “Realismo” (Landini 1954)<br />
circa il valore della scelta operativa dei giovani della propria generazione che<br />
avevano abbracciato il realismo nel tentativo di interpretare la realtà con forme<br />
e linguaggio nuovi, ma che vivevano un profondo dissidio tra cultura della<br />
metropoli e quella della provincia, l’opera di Landini, rimane schiva alle programmatiche<br />
direttive del realismo socialista. La sua attività, infatti, fatti salvi<br />
alcuni tentativi in questo senso, ben presto si volge ai linguaggi dell’informale<br />
e a personaggi come Rothko, Pollock, De Stael, del quale – primo in Italia – recensisce<br />
l’opera su “Paragone” nel 1956. Nello stesso anno si distacca dall’ideologia<br />
marxista, lascia Parigi e decide di dedicarsi completamente alla pittura<br />
abbandonando l’attività di critico d’arte.<br />
Nel 1958, tornato a Milano, porta avanti una ricerca incentrata su una peculiare<br />
forma di astrattismo emozionale, in cui la tela si ‘impressiona’ di suggestioni<br />
provenienti da sollecitazioni psicologiche interiori ed esteriori, giustapposte<br />
come frammenti. Le opere di questo periodo, poi esposte nel 1961 alla Galleria<br />
“Il Milione” a Milano, mostrano grande vicinanza linguistica con l’attività di<br />
De Stael, riscontrando un certo interesse nell’ambiente culturale milanese.<br />
Già nel 1964, come ebbe a dichiarare egli stesso in una Autopresentazione (Personale,<br />
“Galleria Vannucci”, <strong>Pistoia</strong>), cerca di coniugare il linguaggio astratto<br />
con sollecitazioni provenienti dalla realtà, pur mantenendo una libera struttura<br />
compositiva. Sulla fine del decennio le sue opere s’impostano a una sorta di<br />
‘collage’ pittorico, organizzato in sequenze di vere e proprie ‘visioni-frammenti’<br />
di vita quotidiana, composti in una sorta di continuità spazio-temporale-cromatica,<br />
in cui si può leggere una personale interpretazione della lezione artistica<br />
di Robert Rauschenberg. Sovente il suo lavoro prende spunto da materiali fotografici<br />
o pubblicitari che costituiscono la base dei frammenti visivo-pittorici che<br />
poi riconnette in unità sulla superficie del dipinto: a questa ricerca si riferiscono<br />
i dipinti eseguiti a Monza — città in cui si trasferisce con la moglie Donatella<br />
Giuntoli nel 1964. Gli anni successivi sono caratterizzati da una sorta di curiosità<br />
intellettuale e di ansia conoscitiva; frequenti gli spostamenti: i soggiorni a<br />
Barcellona per il Ministero della Pubblica Istruzione dal 1969 al 1972, a Lione<br />
nel 1978, i viaggi tra l’Italia e la Francia che hanno costituito una parte fondante<br />
della sua esistenza, dimidiata tra <strong>Pistoia</strong> e Parigi.<br />
Nelle opere eseguite dagli anni ottanta il suo lavoro è nuovamente impostato<br />
su problematiche di luce in cui la forma si smaterializza nel colore e il segno<br />
incide, con sensibilità tutta epidermica, spessi impasti di materia pittorica.<br />
Il processo di progressiva disgregazione del dato reale a opera della luce, risulta<br />
evidente anche in opere impostate sul segno, come nella serie di disegni di<br />
‘argini’ di fiume, di forte connotazione tellurica, eseguiti a partire dagli anni Novanta.<br />
Qui il tratto marcato è segnato da profonde fenditure di luce che si pongono<br />
come squarci della superficie visiva. È questo, un valido punto di partenza<br />
per la riflessione pittorica dell’ultimo decennio (mostra chiesa di San Giovanni<br />
Battista, 2003). Il valore di questo linguaggio<br />
poetico precocemente impostato alla trasfigurazione<br />
lirica del dato reale è sottolineato da Dino<br />
Carlesi (cat. mostra antologica 1994): “Giudicando<br />
serenamente quel periodo — e anche<br />
tutto l’insieme della produzione successiva —<br />
si avverte che l’alternanza tra figurazione e non<br />
figurazione ha rappresentato per Landini non<br />
uno scotto pagato saltuariamente alle mode ma<br />
una necessità intrinseca alla sua vivacità intellettuale<br />
e alla sua innata esigenza di trasfigurazione<br />
lirica della realtà”.<br />
Cenni bibliografici<br />
L. Landini, Pittori pistoiesi oltre la provincia, in<br />
“Realismo”, a. III, n. 23, luglio-agosto 1954<br />
Autopresentazione, in L. Landini, pieghevole<br />
mostra Galleria Vannucci, <strong>Pistoia</strong> 1964<br />
L. Landini. Mostra antologica, opere dal 1941 al<br />
1994, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 1994<br />
Museo di Arte Contemporanea e del Novecento.<br />
Collezione Civica “Il Renatico”, Monsummano<br />
Terme, Pisa 2001, pp. 115-117.<br />
A. Iacuzzi, Cultura artistica dal dopoguerra a<br />
<strong>Pistoia</strong>, in Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, a cura di<br />
C. Sisi, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />
L. Landini, Lo spazio luminoso. La mia ricerca<br />
artistica, <strong>Pistoia</strong> 2008<br />
186<br />
187
Lando Landini<br />
Figure, s.d. (fine anni Quaranta), firmato in basso a sinistra<br />
olio su cartone, cm 50 x 60<br />
<strong>Un</strong>a prova acerba sulla via del ‘realismo’ da riferirsi alla fine degli<br />
anni Quaranta: i volumi dei due personaggi si compongono lungo<br />
la linea prospettica di una fila di case. La visione di due uomini<br />
(forse operai, forse contadini) dagli ampi volumi, seduti su un<br />
muretto che costeggia le case dagli alti profili colorati, con le<br />
spalle allo spettatore, suggerisce l’atmosfera di una città desolata<br />
e silenziosa, di una pausa dal lavoro nei campi o in fabbrica; di<br />
una smisurata solitudine esistenziale che caratterizza spesso, in<br />
questi stessi anni, anche molte visioni di figure dedite al lavoro<br />
rappresentate da Francesco Melani (gli operai della San Giorgio,<br />
1949/1954) o da Alfiero Cappellini (i pescatori di Acitrezza o i<br />
funai, anni Cinquanta).<br />
188<br />
189
Valerio Gelli<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1932<br />
L’avvicinamento di Gelli all’arte risiede nell’età mitica dell’infanzia: lo stesso<br />
scultore ricorda l’impressione ricevuta dal piccolo volume sulla cappella degli<br />
Scrovegni, regalatogli dal nonno, ancora ragazzino; o la suggestione provata dalla<br />
conoscenza, già quattordicenne, dello scultore Corrado Zanzotto, che, ospite<br />
al Villone Puccini, costituiva per i ragazzi che, come Gelli, frequentavano quella<br />
colonia estiva, un personaggio di grande fascino.<br />
Per lui fu una sorta di folgorazione, soprattutto la visione dei disegni dello scultore:<br />
incisivi, taglienti, con tratti obliqui e veloci. E lo fu anche trovare Zanzotto,<br />
come insegnante di scultura, alla Scuola d’Arte, dove si iscrisse nel 1946. Qui<br />
studia con i coetanei Alfio Del Serra, Mirando Iacomelli e Sigfrido Bartolini.<br />
Passato a Firenze per frequentare i corsi liberi del nudo all’Accademia d’Arte,<br />
è avviato alla scultura da Giorgio Settala e all’acquaforte da Rodolfo Margheri<br />
mentre ha la possibiltità anche di entrare in contatto con Primo Conti, Rosai,<br />
Oscar Gallo e Quinto Martini.<br />
Ai primi anni Cinquanta, la sua attività è concentrata sul disegno e su alcune<br />
prime prove scultoree, dedicate a personaggi dell’ambiente familiare e della<br />
campagna pistoiese (Contadina 1950; Ritratto della nonna, 1952; Ritratto del<br />
nonno, 1955). Sono anni di lavoro intenso, durante i quali trova impiego come<br />
assistente alla cattedra di disegno al Liceo Scientifico di <strong>Pistoia</strong>, e segnati dalla<br />
conoscenza di Egle Marini e di Giovanni Michelucci, impegnato in alcune<br />
committenze cittadine, con il quale stringe una profonda amicizia. In collaborazione<br />
con l’architetto e con Corrado Zanzotto e Jorio Vivarelli partecipa alla<br />
realizzazione delle quattordici stazioni della Via Crucis all’interno della chiesa<br />
di Collina (Vinacciano, <strong>Pistoia</strong>). Il decennio si chiude con l’esposizione alla<br />
Galleria Alibert a Roma (1956) insieme ai pistoiesi Agostini, Bugiani, Mariotti,<br />
Bartolini e Gordigiani e con una prima personale all’Accademia pistoiese del<br />
Ceppo (1958). Intanto l’esperienza di Gelli si arricchisce di nuove sollecitazioni<br />
culturali: infatti nel corso degli anni Sessanta, e anche in seguito negli anni<br />
Settanta, riflette sulla lezione di grandi maestri come Marino Marini, Henry<br />
Matisse, Brancusi e Moore, maturando un segno plastico morbido e incisivo<br />
in un processo di sottile semplificazione formale che tuttavia pone una grande<br />
attenzione alla superficie ‘vibratile’ della scultura. Di questi anni Piccolo nudo<br />
sdraiato, 1959, Il bagno 1963, Il bacio, 1965, e una serie d’intensi ritratti in cui<br />
la superficie non completamente levigata dona alle opere una patina di antico.<br />
Si intuisce il dialogo intimo che l’artista instaura con il modello: lo si coglie,<br />
parola per parola, sussulti, sospiri, in ogni piccolo, cadenzato, scelto, lentissimo<br />
gesto con cui Gelli lavora la superficie dei volti ritratti. Così ne parla l’amico<br />
Michelucci, in una lettera (datata Fiesole, giugno 1987, in Valerio Gelli 1988):<br />
“[...] alcune tue sculture, generalmente di piccola dimensione (anche questo è<br />
significativo) nelle quali ho scorto una penetrazione sottile, paziente, commossa<br />
del soggetto rappresentato. La tua “Erminia “ ad esempio, è il risultato di un<br />
colloquio che non ha confini per penetrare negli spazi profondi della natura.”<br />
Altre volte i suoi ritratti assumono la forza di un totem: “Gelli costruisce dei<br />
volti come se fossero catapulte, con le quali sfonda il muro del reale: sono cunei<br />
aerodinamici che tendono lo spazio: magicamente in equilibrio si preparano al<br />
bacio della forma come se da lei chiedessero insistentemente di essere amati:<br />
sono totem selvaggi che esorcizzano ogni mimesi del quotidiano quanto più<br />
sembrano insistervi” (Iacuzzi 1988). Al largo dei decenni si pongono importanti<br />
partecipazioni a esposizioni come il XIX<br />
Premio internazionale del Fiorino a Firenze<br />
(1967), una personale al Palazzo comunale di<br />
<strong>Pistoia</strong> (1967).<br />
Dagli anni Ottanta la sua ricerca elegge a motivo<br />
poetico la figura di Erminia, sua compagna<br />
dal 1970, e il tema intimo e affettivo della<br />
maternità (Madre col bimbo, 1986; Mater Matuta,<br />
1986). <strong>Un</strong> processo di decantazione del segno,<br />
distillato, essenziale. Nel 1988 la Circoscrizione<br />
2 di <strong>Pistoia</strong> insieme a Comune e Provincia dedica<br />
all’artista una importante mostra antologica;<br />
Gelli continua a vivere e lavorare nella casa<br />
di via San Pietro che fu, un tempo, quella di<br />
Marino Marini.<br />
Cenni bibliografici<br />
Gelli, la scultura e la grafica dal 1949 al 1987, cat.<br />
mostra, <strong>Pistoia</strong> 1988.<br />
P. F. Iacuzzi, Il segno dell’uomo e il sogno della<br />
materia, in Valerio Gelli: la scultura, cit.<br />
T. Paloscia, <strong>Un</strong> arcaico stupore, in “La Gazzetta<br />
delle Arti”, XX, n. 7/8, settembre-ottobre 1988.<br />
T. Paloscia, Accadde in Toscana. L’arte visiva dal<br />
1941 ai primi anni 70, Firenze 1999.<br />
Museo di arte Contemporanea e del Novecento.<br />
Collezione civica “II Renatico” I, Monsummano<br />
Terme 2001, pp. 90-91<br />
Corrado Zanzotto. <strong>Un</strong> segno plastico, cat. mostra,<br />
<strong>Pistoia</strong>, Centro di documentazione sull’arte<br />
moderna e contemporanea pistoiese, 2004<br />
A. Iacuzzi, Cultura artistica dal dopoguerra a<br />
<strong>Pistoia</strong>, in Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, a cura di<br />
C. Sisi, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />
Valerio Gelli: L’uomo e l’artista, <strong>Pistoia</strong> 2009<br />
190<br />
191
Valerio Gelli<br />
Ritratto di Umberto Mariotti, 1964<br />
bronzo, cm h 25,5 x 15 x 20, titolo data e firma sul retro<br />
Il ritratto conservato in questa collezione è al tempo stesso un<br />
esemplare rappresentativo della ritrattistica dell’artista agli<br />
anni Sessanta e testimonianza affettuosa dell’amicizia che<br />
legava Gelli al più anziano Umberto Mariotti, suo insegnante<br />
alla Scuola d’Arte di <strong>Pistoia</strong>, nel secondo dopoguerra. Il bronzo<br />
ha una bella patina rossiccia che traspare dal sottile gioco di<br />
luci e ombre creato dalla leggera lavorazione della superficie,<br />
soprattutto in corrispondenza della calotta cranica e dei capelli.<br />
Il soggetto è rappresentato qui in un’attitudine introspettiva<br />
(come di sospensione dello sguardo, a cui concorre forse il<br />
particolare degli occhi con la pupilla scavata), carica di intensità<br />
emotiva, che mette in evidenza la frequentazione umana<br />
intercorsa con lo scultore.<br />
192 193
Aldo Frosini<br />
<strong>Pistoia</strong> 1924<br />
Appartiene alla seconda generazione di artisti pistoiesi che iniziano a lavorare<br />
dopo la seconda guerra mondiale. Membro di una famiglia per tradizione<br />
di decoratori, fin da giovanissimo attratto dal colore, studiava presso la Scuola<br />
serale d’arte di Fabio Casanova. Dal ’41 frequentava l’Istituto d’Arte di Porta<br />
Romana di Firenze, sotto la guida di Lunardi, Caligiani, Guerrini. Nel periodo<br />
fiorentino, interrotto dalla chiamata alle armi, si fa amico di Lucarelli e di Vivarelli,<br />
scopre con loro agli Uffizi, Giotto e Masaccio e ne rielabora la lezione<br />
nelle sue prime nature morte. Diplomato maestro d’arte, per circa tre anni si<br />
dedica alla realizzazione di giocattoli in legno. Assistente alla cattedra di disegno<br />
al Liceo Scientifico di <strong>Pistoia</strong>. Si avvicina allora ai pittori della prima generazione<br />
del Novecento (Bugiani, Cappellini, Mariotti). Restauratore dal ’54<br />
lavora costantemente, anche in giro per l’Italia, con Iacomelli, col quale tiene<br />
a Viareggio, presso la Bottega del Vageri, la sua prima personale. Seguiranno<br />
altre mostre assieme agli artisti pistoiesi. È il periodo nel quale si avvicina, nel<br />
colore vivo, ai Fauves e a Matisse, prediligendo una pittura di interni di raffinata<br />
fattura. Seguiranno una progressiva “semplificazione e interiorizzazione<br />
della figurazione” che negli anni Sessanta, col periodo delle Reti, lo avvicina<br />
alle ricerche geometriche concrete e alla Op-<br />
Art, ma allo stesso tempo gli fa scoprire la vena<br />
bizantina orientale dell’architettura romanica<br />
pistoiese (Tele romaniche). Seguirà, da allora un<br />
astrattismo geometrico ricco, sempre di colore e<br />
di riferimento figurativo. Dagli anni Novanta si<br />
dedica a una totale rarefazione geometrico-cromatica<br />
verso visioni di pura luce, monocrome,<br />
bianche candide.<br />
Cenni bibliografici<br />
L. Ladini, Personale di Aldo Frosini, cat. mostra<br />
Galleria d’Arte Vannucci, <strong>Pistoia</strong> 1981.<br />
Aldo Frosini mostra antologica. Opere dal 1941<br />
al 1989, cat. mostra, Edizioni del Comune di<br />
<strong>Pistoia</strong> 1989.<br />
N. Miceli, S. Simoncini, Percorsi della<br />
Figurazione a <strong>Pistoia</strong>. Dalle antologie della<br />
Circoscrizione 2 alle opere recenti, cat. mostra,<br />
<strong>Pistoia</strong> 2006.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
A. Iacuzzi, Cultura artistica del dopoguerra a<br />
<strong>Pistoia</strong> in Arte del Novecento, cit.<br />
195
Aldo Frosini<br />
Impalcatura e Palazzo dei Vescovi, 1980<br />
olio su faesite, cm 135 x 120, datato e firmato in basso a destra<br />
È un raffinato esempio del lavoro dell’artista nel quale, scoperta<br />
a Parigi l’arte astratto geometrica, recupera, in forma astratta,<br />
con una resa di delicata e morbida colorazione il significato<br />
e la raffinata forza dell’architettura romanica pistoiese che<br />
riesce a rendere in termini di astrazione geometrica che non è<br />
mai rigida e razionale, ma si stempera nella morbidezza delle<br />
scansioni libere e del colore. Questa linea di ricerca e di lavoro<br />
caratterizzerà la sua pittura dei decenni successivi, “in cui<br />
tassellature di colore trasfigurano liricamente la realtà in ritmi di<br />
grande raffinatezza cromatica” (Iacuzzi 2007).<br />
196 197
Fernando Melani<br />
S. Piero Agliana, <strong>Pistoia</strong>, 1907 – <strong>Pistoia</strong>, 1985<br />
È forse la personalità più interessante tra gli artisti del Novecento a <strong>Pistoia</strong>.<br />
Personaggio schivo, allo stesso tempo sempre presente nella vita cittadina dagli<br />
anni Cinquanta, da quando cioè iniziava ad applicare al “fare artistico” le sue ricerche<br />
teoriche e scientifiche. Inimitabile presenza mentale e fisica, lo si trovava<br />
vestito della sua tuta azzurra, sempre nitidissima, cui accompagnava, estate<br />
e inverno, una piccola sciarpa metà rossa, metà gialla: raffinato operaio, clown<br />
tragico e gentile, ha sempre portato avanti il suo lavoro artistico parallelamente<br />
alla sua teorizzazione, geniale nel suo approccio all’arte e alla scienza (“Arte<br />
= Riproduzione di se stessi – simile dal simile. Ma attenzione! <strong>Un</strong> riprodursi<br />
non per immagini, nascite spontanee o magia, ma attraverso gli inosservabili<br />
scambi di energia più o meno codificati, codificati o imprevisti che siano”,<br />
pubblicato in Brancolini 1986). È su questa sua teoria, della forza insita nella<br />
materia, dell’energia intesa inizialmente come caos, che poi, nel suo espandersi,<br />
si fa forma, teoria secondo la quale egli sembra, in certo senso, anticipare anche<br />
l’Arte Povera.<br />
Questa sua impostazione spiega anche il suo apparente eclettismo, il suo affrontare<br />
le “maniere” più diverse, sempre sul filo di un’apertura concettuale<br />
avant-lettre. Passava dall’elaborazione di stesure di colore puro, di cui analizzava<br />
le qualità fisiche, apparentemente legato al più limpido concretismo astratto<br />
(come quando inscenava un suo grottesco “bucato” appeso lungo lo studio),<br />
spaziando, con vitalità e freschezza, usando i materiali più diversi, le tecniche e<br />
le modalità operative più disparate, dalla pittura alla fotografia, oppure saldando<br />
tra loro fili di ferro sottile, a creare delicatissime ragnatele e osservandone<br />
il movimento, dalla piccola composizione all’oggetto boutade, ironico, sorridente,<br />
facendosi guidare da una concettualità che, come scrive Annamaria Iacuzzi<br />
(2007) “eliminava il rapporto emozionale che scaturisce dall’osservazione del<br />
reale, riducendo al minimo la presenza dell’io soggettivo dell’artista”.<br />
Ho altrove paragonato, paradossalmente, Melani a Beuys; paradossalmente<br />
poiché “tanto (Beuys) si distingue per il protagonismo, per la concezione<br />
dell’artista-eroe, per la durezza delle sue proposizioni, per l’assoluta mancanza...<br />
di qualsiasi accenno di ironia, quanto Melani è silenzioso, anti-eroe, antiartista,<br />
gentilmente e silenziosamente ironico. Né certo lo si può paragonare<br />
per l’importanza raggiunta sia nel sistema dell’arte, sia nell’incidenza e nel peso<br />
che la loro attività ha riscosso; così noto, così seguito Beuys, sia a livello critico<br />
che di mercato, così amato da pochi amici, quasi tutti artisti” (Fabro, Ranaldi,<br />
i colleghi pistoiesi...), e volutamente fuori dai circuiti commerciali, Melani.<br />
Ma c’è una qualità, una caratteristica che li avvicina e li fa, entrambi, apostoli<br />
di una rinnovata concezione dell’arte. È appunto<br />
il tema dell’energia insita nella materia.<br />
La sua ricerca, come scriveva Carla Lonzi nel<br />
’67 “attorno alla QUANTITÀ, considerando<br />
la qualità come una categoria concettuale che<br />
riflette ancora una volta l’abuso della presunzione<br />
dell’uomo. Egli ritiene che spingendo a<br />
fondo l’esame quantitativo si può giungere al<br />
rilievo delle strutture più nascoste, le più ricche<br />
e imprevedibili (altamente informative); da ciò<br />
il tentativo di rendersi sempre disponibile, nel<br />
suo operare, al rilievo di queste non calcolate<br />
armonie, aderendovi strettamente…”<br />
Cenni bibliografici<br />
C. Lonzi, Presentazione, in cat. mostra, Galleria<br />
Numero, Milano 1967.<br />
L.-V. Masini, Arte Cronaca, Attività artistiche in<br />
Toscana 1973-75, cat. mostra, Vinci 1976.<br />
F. Melani in A. Brancolini, Fernando Melani, gli<br />
scritti, Panzano in Chianti 1986.<br />
Bruno Corà, Fernando Melani. La casa-studio, le<br />
esperienze, gli scritti, dal 1945-1985, Milano 1990.<br />
L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />
B. Corà, D. Giuntoli, Fernando Melani. La Casa<br />
studio, <strong>Pistoia</strong> 2004.<br />
N. Miceli, S. Simoncini, Percorsi della<br />
Figurazione a <strong>Pistoia</strong>. Dalle antologie della<br />
Circoscrizione 2 alle opere recenti, cat. mostra,<br />
<strong>Pistoia</strong> 2006.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
A. Iacuzzi, Cultura artistica del dopoguerra a<br />
<strong>Pistoia</strong> in Arte del Novecento, cit.<br />
198<br />
199
Fernando Melani<br />
FM APR 54, n. 658, 1954<br />
olio su cartoncino, cm 36,5 x 49,5; firmato e datato in basso al<br />
centro<br />
<strong>Un</strong> esempio del continuo lavoro di Melani attorno al colore,<br />
relativo alle qualità fisiche, al significato dei rapporti tra i colori<br />
stessi: tre elementi irregolarmente geometrici, accostati uno<br />
all’altro ma delimitati da un netto profilo nero che si carica e si<br />
allarga verso il fondo dell’immagine, praticamente romboidale,<br />
al centro; il fondo, di un azzurro uniforme, quasi in un gioco di<br />
contrasti. I tre colori dell’immagine centrale, rosso, bianco, giallo<br />
carico, formano un nucleo che nasce dall’accostamento delle tre<br />
figure geometriche, come nel rifiuto giocoso di una formatività<br />
razionale in nome di una libertà calcolata, senza, peraltro,<br />
rifiutarne le matrici.<br />
200<br />
201
Fernando Melani<br />
L’attesa, s.d., (primi anni Cinquanta)<br />
stampa tipografica da fotografia in bianco e nero, cm 26 x 40<br />
siglato in basso a destra: “FM”<br />
Anche questa fotografia è giocata tutta sul rapporto di luceombra<br />
e sulla simmetria, appena squilibrata dalle ombre che<br />
i due piccioni a fronte creano nel contesto architettonico nel<br />
quale si collocano, quasi come piccole sculture decorative. Fa<br />
parte, assieme a molti altri piccoli lavori (composizioni, lavori<br />
realizzati con filo di metallo su carta, disegni, oggetti-gioco),<br />
della splendida cartella Arcobaleno nella quale egli coniuga la<br />
sua continua ricerca con un’ironia sottile, fresca, mai, peraltro,<br />
sarcastica. Nella cartella, contenuta in una scatola, si evidenziano<br />
anche una felice, estrema raffinatezza, una leggerezza e una<br />
libertà che hanno pochi confronti e che fanno del lavoro<br />
di Melani un unicum straordinario nel panorama artistico<br />
contemporaneo.<br />
202<br />
203
Fernando Melani<br />
Senza titolo (Battistero di <strong>Pistoia</strong>), s. d. (primi anni Cinquanta)<br />
stampa tipografica da fotografia in bianco e nero, cm 26 x 40<br />
foglio intero cm 34,5 x 46<br />
in basso a destra: “FM”<br />
Questa fotografia, che coglie, con felice “occhio”, una dinamica<br />
successione di linee parallele bianco-nere, colte in diagonale<br />
lungo la facciata dell’edificio gotico pistoiese fa parte della<br />
raccolta di lavori di Melani contenuti nella cartella Arcobaleno,<br />
che sembra raccogliere in sé tutta la carica concettuale ed<br />
espressiva, tutta la vitalità della ricerca dell’artista, che coinvolge,<br />
in una intensa complessità, i suoi profondi riferimenti teorici alla<br />
quantistica, alla filosofia, al tema dell’energia insita nella materia<br />
(anticipando anche i modi dell’Arte Povera e del Concettuale).<br />
Con questa inquadratura Melani riesce a trasformare una<br />
semplice successione di linee parallele in un gioco di grande<br />
vitalità nella forza dinamica e nel disegno che la visione laterale<br />
enfatizza nel rapporto tra le linee viste diagonalmente e la<br />
diversa gradualità dei piani.<br />
204<br />
205
Fernando Melani<br />
FM OTTOBRE 56, n. 873, 1956<br />
tecnica mista su carta, cm 36,5 x 49; firmato e datato sul retro<br />
<strong>Un</strong> bel lavoro impostato sulla forza dinamica del colore nella<br />
disposizione opposta e sfalsata delle due bande, rossa e verde<br />
chiaro, che vanno diminuendo di spessore, contro un fondo<br />
scuro uniforme, creando un senso di profondità e di dilatazione<br />
spaziale, di viva forza emotiva.<br />
206<br />
207
Fernando Melani<br />
FM GIU 56, n. 809, 1956<br />
assemblaggio di cartapaglia dipinta, cm 38,5 x 53; firmato e<br />
datato in alto a sinistra<br />
<strong>Un</strong>’altra composizione formata dall’accostamento e dalla<br />
sovrapposizione di carte colorate con tinte al metallo, a creare<br />
un rapporto dinamico tra forma e colore combinando assieme<br />
diversi elementi geometrici colorati, in un rapporto vitale, nel<br />
gioco verticale dei lunghi, sottili rettangoli bianchi, dei gialli in<br />
rapporti angolari, dei rossi che si uniscono l’uno all’altro dei due<br />
lati del quadrato nero centrale, che si lega col verde e l’azzurro.<br />
208<br />
209
Fernando Melani<br />
FM LUG 57, n. 986, 1957<br />
tecnica mista su carta, cm 58 x 38,5; firmato e datato in basso a<br />
destra<br />
<strong>Un</strong>o studio sul rapporto nello spazio di linee dritte di diverso<br />
colore e di tratto di vario spessore, a verificare l’effetto<br />
tridimensionale di una sorta di rete irregolare di colori diversi,<br />
su un fondo uniforme neutro, dove le linee creano ombre e aloni<br />
che addensano lo spazio. Si veda la straordinaria coincidenza con<br />
l’opera di Sol Lewitt sul soffitto della sede della Fondazione<br />
in Palazzo de’ Rossi: a distanza di circa cinquant’anni, a<br />
dimostrare l’anticipazione della ricerca di Melani nell’ambito del<br />
Concettualismo e l’unicità senza tempo della creazione artistica.<br />
210<br />
211
Fernando Melani<br />
FM 26 AP 61, n. 1842, 18.30 / 18.50, 1961<br />
pittura acrilica su carta, cm 61,5 x 34; firmato e datato in basso a<br />
destra<br />
<strong>Un</strong> lavoro fresco, felice, come un gioco di un attimo che può<br />
scomparire l’attimo successivo: una figuretta che sembra<br />
giocare con un bastoncino lanciato in alto, delineata con poche,<br />
liberissime pennellate di colore (rosso, giallo, verde, blu, un<br />
trattino nero – il bastoncino volante – un altro a terra...). Nessuna<br />
descrizione più realistica avrebbe potuto rendere con altrettanta<br />
leggerezza e felicità questo senso di aerea, lievemente ironica,<br />
spensieratezza.<br />
212<br />
213
Remo Gordigiani<br />
Empoli, 1926 – <strong>Pistoia</strong>, 1991<br />
Dal ’29 è a <strong>Pistoia</strong>, e qui dal ’38 al ’41 studiava presso la Scuola d’Arte, in<br />
seguito passava all’Accademia d’Arte di Firenze. Giovanissimo aveva raggiunto<br />
una maturità espressiva, in pittura, nutrita di un profondo studio<br />
della storia dell’ arte in tutte le sue manifestazioni.<br />
Da un figurativo cólto e maturo si incammina in un mondo personale di<br />
ricerca, ricco di un profondo amore per la natura, vista attraverso una trascrizione<br />
immaginifica, soffusa e rarefatta (il periodo delle Magnolie, fine<br />
anni Sessanta, e dei Vascelli, ‘61, per volgersi poi verso ricerche ispirate a<br />
studi sulle esperienze artistiche contemporanee internazionali. Costretto<br />
ad abbandonare la pittura a causa di una dermatosi cronica, causata<br />
dall’uso di sostanze chimiche contenute nei coloranti che aveva lungamente<br />
usato nel laboratorio della Scuola d’Arte, dove insegnava decorazione<br />
su stoffa.<br />
Dalla fine degli anni Sessanta si dedicava con maggiore assiduità al disegno<br />
e all’acquerello (la serie del Mare, anni Settanta, nella quale portava<br />
avanti una sperimentazione sulle variazioni della luce e del colore). Faceva<br />
seguito un suo personale ritorno al figurativo (che egli sentiva nell’aria):<br />
nascevano le Bagnanti (1975): disegni perfetti, dinamici, che sembrano<br />
ispirati a sequenze ritmiche, fotogrammi tratti da un video.<br />
Ma il suo irrinunciabile amore per la pittura lo portava a inventarsi un nuovo<br />
modo per raggiungere nel suo lavoro, con “altri” strumenti, le stesse<br />
condizioni (e, per lui, lo stesso appagamento) della pittura.<br />
Dal 1964 infatti, quando iniziava a usare come strumenti, non più il pennello<br />
e i pigmenti, ma il collage, usato in modo inusuale e personalissimo,<br />
attraverso il quale riusciva a realizzare un lavoro di una vitalità, di una<br />
energia creativa, di una freschezza straordinarie. Emergono, da allora, nei<br />
suoi quadri, una ricchezza di vibrazioni, un brulicare del colore, quasi senza<br />
precedenti. Affrontava i temi di una grafica new-dada e pop, per passare poi<br />
a opere nelle quali lo spazio del quadro è spartito in due sezioni, in orizzontale<br />
o in verticale, con zone di accelerazione di segni ripetuti in termini<br />
scalari, e zone monocrome; in alcuni lavori il segno si dispone a gradienti,<br />
in altri la disposizione dei piccoli tasselli di colore sembra mimare il “dripping”<br />
del pigmento; oppure si evidenzia la ricerca di una percezione di profondità<br />
tridimensionale. I diversi collage (in totale 161) sono raggruppati<br />
secondo vari temi: Il Prater di Vienna; Venezia; Aquileia...) tutte realizzazioni<br />
che passano da una freschezza luminosa e coloristica, a una forte tensione,<br />
talvolta a una solenne drammaticità.<br />
Si tratta di lavori che Gordigiani non ha mai<br />
presentato in vita, e che si sono potuti vedere,<br />
a diciassette anni dalla sua morte, in<br />
una bella retrospettiva realizzata dal “Centro<br />
di documentazione sull’Arte moderna e<br />
contemporanea a <strong>Pistoia</strong>”, a Palazzo Fabroni<br />
(2008-2009).<br />
Cenni bibliografici<br />
L.-V. Masini, Presentazione, in Gordigiani,<br />
Galleria Numero, Roma 1964.<br />
Il mare di Remo Gordigiani, cat. mostra, a cura di<br />
G. Bassi, <strong>Pistoia</strong> 1977.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
Remo Gordigiani. Il futuro nel passato, cat. mostra<br />
a cura di A. Iacuzzi, <strong>Pistoia</strong> 2008.<br />
214<br />
215
Remo Gordigiani<br />
Senza titolo (Romanico), 1961<br />
tecnica mista su carta, cm 32 x 40; firmato e datato in basso a<br />
destra<br />
<strong>Un</strong> lavoro degli anni Sessanta, vicino a quelli che Gordigiani<br />
definiva Romanici, che lascia intravedere, nella patina quasi<br />
uniforme, sul verde, spartizioni geometriche e rilievi dove<br />
traspaiono colori diversi, stesure rossastre, bordi di rilievi dorati,<br />
morbide trame luminose. <strong>Un</strong>’opera nella quale si individua<br />
uno strano connubio tra un’allusività informale-materica e una<br />
intenzionalità razionale-ordinatrice. Comunque un’opera densa,<br />
fortemente espressa, uniformata dalla morbidezza del colore.<br />
216<br />
217
Remo Gordigiani<br />
Foglie di magnolia autunnali, fine anni Sessanta<br />
tempera grassa su tela, cm 81,5 x 91,5<br />
Quest’opera apre un periodo di passaggio dalla pittura<br />
figurativa dell’artista, a uno legato anche alla sua passione per<br />
il naturalismo astratto, come quello di Morlotti e degli altri<br />
italiani del periodo. Si ricordi che del lavoro di Morlotti userà<br />
alcune strisce di copie di opere come supporto per alcuni dei<br />
suoi futuri collage. Questo periodo va dalla fine degli anni<br />
Cinquanta fino a tutto il ’60, ma già l’artista sperimentava<br />
tecniche e modalità diverse (Notturno, ’59, Colori nel vigneto,<br />
’59, cui seguivano Sottobosco ’61, Il fondo del fiume ’61) dove già<br />
sperimentava tecniche informali e nascevano i suoi evanescenti,<br />
poetici Vascelli. Questo lavoro è ancora un esempio della raffinata<br />
sensibilità di un artista che ha messo sopra ogni cosa il suo amore<br />
per la pittura, cui ha sottomesso ogni momento della sua vita,<br />
riuscendo, dalla metà degli anni Sessanta (quando, per gravi<br />
ragioni di salute, dovette abbandonare la pittura) a continuarne<br />
la realizzazione ricorrendo al mezzo del collage.<br />
218<br />
219
Remo Gordigiani<br />
Omaggio a Debussy, da Images; Reflets dans l’eau, 1974-1976<br />
collage su tela, cm 130 x 100; titolo, data e firma sul retro<br />
È uno dei 161 collage che Gordigiani ha realizzato, a iniziare dal<br />
’66, quando doveva abbandonare obbligatoriamente, a causa della<br />
grave malattia cutanea, contratta per l’uso di solventi durante i<br />
suoi corsi all’Istituto d’Arte di <strong>Pistoia</strong> sulla decorazione su stoffa,<br />
la pittura ad olio. Dopo aver lavorato, inizialmente, sul disegno<br />
e sull’acquerello (la serie del Mare, le Bagnanti...), ritrovava<br />
la gioia della pittura attraverso questa serie di collage, che ha<br />
tenuto quasi nascosti per tutta la vita, e che sono stati presentati<br />
nella sua grande mostra, Il futuro nel passato, a Palazzo Fabroni<br />
(2008-2009). Questo lavoro, impostato tutto su rapporti vivi di<br />
colore, usando il collage come pigmento, riducendolo spesso<br />
quasi ad un dripping organizzato secondo un ritmo perfettamente<br />
programmato, esprime una vitalità, una felicità “del dipingere”,<br />
nella quale Gordigiani ritrovava l’esplicazione totale della sua<br />
grande capacità espressiva.<br />
220<br />
221
LA SCUOLA DI PISTOIA<br />
Roberto Barni<br />
Umberto Buscioni<br />
Gianni Ruffi<br />
Adolfo Natalini<br />
223
Roberto Barni<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1939; vive a Firenze<br />
Membro della “Scuola di <strong>Pistoia</strong>” (denominazione che Cesare Vivaldi attribuiva<br />
al gruppo nel 1964, Vivaldi 1969), con Buscioni, Ruffi, inizialmente<br />
anche Natalini, che si trasferirà poi a Firenze e sarà il promotore dei gruppi di<br />
Architettura Radicale Archizoom e Superstudio.<br />
Artista inquieto, ombroso, esuberante si è sempre dedicato, con la stessa passione<br />
e intensità, alla scultura, alla pittura e, non certo con minor impegno e<br />
risultato, al disegno, secondo le leggi della storia dell’arte italiana, che egli ripercorre<br />
fin dagli anni Settanta, che da sempre ha dato grande importanza al<br />
concetto di “primato del disegno”, e che quasi tutti i pittori pistoiesi del ‘900<br />
hanno seguito.<br />
Iniziava ai primi anni Sessanta con un interessante, materiale e naturalistico<br />
concetto di “campo di intervento”, per passare a una sua interpretazione di<br />
“popular-art”, con le sue immagini colorate di oggetti tecnologici e ludici<br />
(catene, corde, tubi Innocenti, bastoncini dello Shangai), per volgere subito<br />
dopo verso la “citazione iconografica”, in un suo ripercorrimento della storia<br />
della pittura, dagli angeli di Piero della Francesca al recupero di una sorta<br />
di mitologismo allegorico, riferito per gran parte all’arte italiana degli anni<br />
Trenta.<br />
Affrontava, con grande violenza espressiva e con la irruente carica della sua “pittoricità”,<br />
l’enigma complesso della pittura di De Chirico, il “fascino discreto”<br />
della letterarietà pittorica di Savinio, che si rivela vincente nel suo disegno degli<br />
anni Ottanta, a recuperare anche certa matrice metafisica, che la sua grande mostra<br />
fiorentina del 2007 di scultura e pittura, Gambe in spalla, ha messo in luce.<br />
Tra l’altro, nella sezione organizzata da Mirella Branca, I passi mettono i rami, alle<br />
Pagliere esprimeva una sua grande forza sintetica e un’apertura essenziale in<br />
certi nuovi grandi lavori pittorici su fondo rosso, con violente gestualità di grandi<br />
tralci neri; lavori che, in certo senso, recuperano, “in progress”, certe istanze<br />
di alcune sue interessanti opere della metà degli anni Cinquanta.<br />
Porta avanti, con la stessa urgenza espressiva, non priva di una sottile ironia, anche<br />
il suo lavoro di scultore, incentrato sempre sul concetto dell’uomo, isolato e<br />
chiuso in una sua drammatica e profonda grandezza, nella sua astratta distanza<br />
dal mondo, come chiuso nella sua assenza totale.<br />
Cito qui alcuni pensieri dell’artista perché mi sembrano definire bene il significato<br />
che egli intende attribuire al suo Uomo che cammina (in Roberto Barni.<br />
Passaggi..., 1998): “L’arte all’inizio ti fa sentire un tutto uno con il mondo | in<br />
seguito quel tutto si allontana e l’arte ne misura la distanza”.<br />
E: “il pittore non riesce a tenere gli occhi aperti. Significati e simboli sono ani-<br />
mali che non possono essere lasciati liberi su<br />
territori troppo vasti, rischiano di perdersi. Gli<br />
artisti fanno il possibile per entrarci. La loro opera<br />
ne riceverà un’attribuzione di valore, gli sarà<br />
garantito il contatto col mondo ma anche il suo<br />
distacco, al di fuori di questo recinto che sarà la<br />
fine e un nuovo inizio”.<br />
Cenni bibliografici<br />
C. Vivaldi, Barni, Buscioni, Ruffi.<br />
<strong>Un</strong>’avanguardia in Toscana, Roma 1969.<br />
Roberto Barni. Disegni e sculture, cat. mostra a<br />
cura di G. Carandente, Firenze 1994.<br />
Roberto Barni. Affezioni, cat. mostra a cura di A.<br />
Boatto, <strong>Pistoia</strong> 1997.<br />
Roberto Barni. Passaggi di fortuna: scritti e<br />
disegnati, cat. mostra, Prato 1998.<br />
A. Boatto, Roberto Barni Sculptures, cat. mostra<br />
Marlborough Gallery Monaco 2007.<br />
Roberto Barni. Gambe in spalla, cat. mostra,<br />
Prato-Siena 2008.<br />
224<br />
225
Roberto Barni<br />
Groviglio, anni Sessanta<br />
olio su tela, cm 100 x 100; firmato sul retro<br />
Il quadro appartiene al primo periodo del lavoro dell’artista<br />
relativo alla sua ricerca su una trascrizione nuova della Pop Art,<br />
rivolta alla vita, al lavoro quotidiano, agli strumenti e agli oggetti<br />
che fanno parte dell’attività della gente ma, in questo lavoro,<br />
nel groviglio dei fili, probabilmente elettrici, mantiene anche<br />
un chiaro riferimento a una gestualità di memoria informale,<br />
tradotta, peraltro, in voluta, dinamica, colorata oggettualità.<br />
226<br />
227
Roberto Barni<br />
Macchina da cucire (o Groviglio), anni Sessanta<br />
olio su compensato, cm 80 x 80; firmato sul retro<br />
Ancora un intreccio di fili in gomma e piccole strutture metalliche,<br />
per un lavoro giocato tutto sul rapporto rosso/nero: forme elastiche<br />
in curve segniche, in nero; forme lineari, incrociate e imbullonate,<br />
come gesti netti, scattanti, che ricordano, di Barni, gli Shangai,<br />
praticamente dello stesso periodo, a creare, nella doppia tensione<br />
che si elabora sulla superficie bianca del fondo, una formatività<br />
complessa, allo stesso tempo libera e dinamica, ma anche<br />
perfettamente bilanciata e composta.<br />
228<br />
229
Roberto Barni<br />
Sonno, 1993<br />
tecnica mista, cm 165 x 115; firmato sul retro<br />
La grafica è sempre stata uno dei momenti importanti nel lavoro<br />
di Barni, dal disegno all’uso di tecniche diverse, che egli porta<br />
avanti, in vari modi, in ogni fase della sua ricerca e che, verso<br />
gli anni Novanta, si arricchì di grumi rilevati, fatti di carta di<br />
giornale pressato, a creare agglomerati in rilievo, allo scopo di<br />
rendere più mosso e dinamico tutto il lavoro, posti sui velli degli<br />
animali, sulla testa dei pastori; era il periodo nel quale l’uomosimbolo<br />
di Barni era, appunto, il pastore, con le sue greggi e,<br />
spesso, come in questo lavoro del ’93, con un cane, nettamente<br />
disegnato, la sola immagine perfettamente bianca in tutto il<br />
lavoro. È il solo essere sveglio, vigile nell’oscurità della notte.<br />
Qui la parte rilevata occupa quasi tutto lo spazio dell’opera, quasi<br />
in una sorta di horror vacui, facendone quasi un altorilievo, nel<br />
quale un uomo seduto, il pastore, a destra, all’interno di una<br />
caverna, è in stato di riposo. Attorno, a coprire tutta la superficie,<br />
animali arrampicati sulle rocce, nascosti in anfratti, in una densità<br />
di materia oscura, di una notte fatta solo di respiro.<br />
230<br />
231
Roberto Barni<br />
Rasoio, 2002<br />
bronzo, cm 50 x 38 x 21<br />
Questa piccola scultura si propone quasi a simbolo di tutta quella<br />
linea del lavoro scultoreo di Barni che parte dagli anni Ottanta,<br />
impostata sul concetto dell’“uomo che cammina” (uno dei suoi<br />
temi abituali, elaborati in mille varianti e in mille misure) che<br />
pone l’uomo, con tutte le sue inquietudini, i suoi rischi continui<br />
(camminare sul rasoio – sembra la traduzione, tra ironica e<br />
satirica, di un proverbio popolare: essere “sul filo del rasoio”),<br />
pone l’uomo, comunque, al centro del mondo, ma lo lascia quasi<br />
sempre solo. Qui le tre lunghe figure sembrano quasi cloni l’una<br />
dell’altra: ad evidenziare il senso di solitudine e la fragile nudità<br />
dell’uomo che cerca, in ogni modo, di andare avanti, di proporsi<br />
ostinatamente come eroe, in un mondo sempre più ingannevole<br />
e inquietante.<br />
232<br />
233
Umberto Buscioni<br />
Bonelle, <strong>Pistoia</strong>, 1931; vive a <strong>Pistoia</strong><br />
Tra gli esponenti della “Scuola di <strong>Pistoia</strong>” nata nel 1964 (con Barni, Ruffi,<br />
inizialmente anche con Natalini, architetto, trasferitosi poi a Firenze), Umberto<br />
Buscioni è quello più legato alla sua “spontanea vocazione pittorica”,<br />
a quella che Renato Barilli (’67) definiva la sua “felicità della pittura”, che lo<br />
costringeva (è ancora Barilli che scrive) ad “un limpido vedere e percepire”.<br />
Partiva da riferimenti a cose e materiali che costituivano l’esempio di un uso<br />
e di un consumo generale e “popular” (cravatte, camicie, tende, bandiere<br />
colorate mosse dal vento, ma tali da attrarre la sua passione per il colore), e<br />
di mano in mano ponendo sempre più l’accento sulla “piega” gonfiata dal<br />
vento (si pensi al concetto deleuziano di piega come simbolo di ridondanza,<br />
di fastosità e, in fondo, anche di occultamento). Usciva così, a poco a poco,<br />
dalla pittura timbrica, piatta, di superficie, caratteristica della Pop Art per<br />
affrontare il lievitare delle superfici: le stoffe si gonfiavano al vento portando<br />
sempre avanti la sua qualità di grande colorista; all’inizio, in lavori come Sul<br />
prato, del ’66, Particolare fra le bandiere, del ’67, manteneva ancora il senso<br />
di superficie piatta, come in Fedora del ’73, a pieghe piatte in una superficie<br />
distesa. Ma di seguito, cogliendone sempre più i riferimenti diretti alla storia<br />
della pittura le sue immagini di stoffe volanti diventavano panneggi sempre<br />
più fitti e pesanti come quelli dei dipinti manieristi e barocchi. Le superfici<br />
dei suoi lavori, dagli anni Settanta, si caricano di ombre cangianti che ne creano<br />
il volume; i riferimenti alla figura sono ancora solo allusivi; sono le vesti, le<br />
pieghe, gli avvolgimenti che continuano a prefigurare il corpo: drammatica la<br />
Deposizione fra cielo e terra, del 1981, nei colori acidi, raggelati del Manierismo,<br />
col bianco lenzuolo sostenuto da mani invisibili. E vediamo ancora Sudario<br />
con arcobaleno, ’81; un lavoro dinamico e “sonoro”; di un suono inudibile è La<br />
caduta degli angeli ribelli, ’82-’83, ancora senza figure.<br />
Dalla metà degli anni Ottanta appaiono, tra le agitazioni dei panni ampi mossi<br />
dal vento, i primi elementi del corpo umano, braccia, gambe, piedi, appena<br />
modulati dalle ombre: Testimoni di fuoco,’87-’88; Nostre ombre (La sera),’91:<br />
figure sempre avvolte da un vento impetuoso, violento, che rende il quadro<br />
come in continua levitazione. I volti, quando appaiono, sono come indistinti,<br />
inafferrabili.<br />
Da questo momento, peraltro, i lavori di Buscioni si caricano di immagini<br />
quasi surreali di santi, le cui vesti gonfie e drappeggiate li sostengono in una<br />
sorta di volo pesante e sospeso.<br />
Su questi temi egli ha eseguito anche i cartoni per le vetrate realizzate per la<br />
chiesa di S. Paolo a <strong>Pistoia</strong>, secondo una tradizione abbastanza comune nel la-<br />
voro degli artisti pistoiesi del ‘900. A proposito dell’apparire dei volti scriveva<br />
Cesare Vivaldi nel ’92: “[...] in verità il problema di Buscioni è sempre stato<br />
lo stesso, perseguito con molta coerenza e conseguenza anche se riproposto<br />
in termini di volta in volta diversi, ed è grosso modo riassumibile appunto<br />
nei termini ‘alludere’ e ‘adombrare’: era tale quando negli anni Sessanta, con<br />
un occhio svagato alla pop art e un altro più attento alla grande tradizione<br />
rinascimentale, dipingeva camicie, stoffe, bandiere quasi più vere del vero<br />
eppure semplicemente simboliche di un’invisibile umanità, metafore quindi<br />
del reale; è tale oggi allorché dipinge scie rivelatrici<br />
d’angeli caduti, metafore di metafore<br />
dietro le quali si nasconde l’inattingibilità del<br />
reale, vanamente inseguito anche attraverso<br />
la cultura. Vero è che le maschere, le quali in<br />
molte diverse maniere ricoprono un volto invisibile,<br />
proprio con il nasconderlo lo designano;<br />
dal che si arguisce facilmente che il punto<br />
centrale della questione non risiede nel volto,<br />
nella realtà, ma nel come celarlo e insieme<br />
evidenziarne la presenza-assenza”.<br />
Cenni bibliografici<br />
R. Barilli, Presentazione, in Lo spettacolo del<br />
mondo, cat. mostra, Bologna 1967.<br />
Umberto Buscioni 1963-1973, a cura di E.<br />
Crispolti, Firenze 1973.<br />
V. Bramanti, Umberto Buscioni, cat. mostra,<br />
Prato 1985.<br />
C. Vivaldi, R. Barilli, Umberto Buscioni. 1963-<br />
1991. Mistero e rivelazione del quotidiano, Milano<br />
1992.<br />
L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />
R. Barilli, Il giorno e la sera. A rebours vetrate<br />
artistiche di Umberto Buscioni, Prato-Siena 2002.<br />
Umberto Buscioni. Nostre ombre. Dipinti 1990-<br />
2005, a cura di M. Cianchi, Prato-Siena 2006.<br />
M. Calvesi, Umberto Buscioni. Quel che resta è<br />
pittura, cat. mostra, Poggibonsi 2009.<br />
234<br />
235
Umberto Buscioni<br />
Alla finestra, 1967<br />
olio e tecnica mista su carta intelata, cm 66,5 x 48,5; firma e data<br />
in basso a destra, titolo in basso a sinistra<br />
<strong>Un</strong> esempio del primo periodo della versione pop di Buscioni,<br />
rivolta agli oggetti della vita quotidiana italiana: qui una gruccia<br />
alla quale è appesa una cravatta a righe diagonali, dai colori vivi,<br />
che svetta nel vento, contro un cielo di un azzurro chiaro, con<br />
nuvolette bianche. Il tutto, per quanto sospeso in una sorta di<br />
vuoto, è reso secondo una stesura piatta, timbrica, dove domina<br />
il colore.<br />
236<br />
237
Umberto Buscioni<br />
Grandi particolari, 1967<br />
olio su tela, cm 132 x 95; titolo, data, firma sul retro<br />
Ancora un quadro del primo periodo pop. Diviso in due parti<br />
verticalmente, riporta nelle due sezioni particolari diversi, di una<br />
giacca bianca dalla quale fuoriesce una cravatta a righe diagonali<br />
dai colori vivaci. Si intravedono, in una parte, un guanto bianco e<br />
anche una camicia rosa e dei pantaloni. La visione pop si traduce<br />
in simboli (quelli del vestire dell’uomo italiano in estate), che<br />
sembrano anche dosare la forza della luce e del colore.<br />
238<br />
239
Umberto Buscioni<br />
Caduta degli Angeli ribelli, 1988<br />
olio si tela, cm 100 x 70; titolo, data e firma sul retro<br />
<strong>Un</strong> quadro della fine degli anni Ottanta, che evidenzia un<br />
passaggio nel lavoro di Buscioni, che recupera, in certo senso,<br />
la complessità della figura e del volto umano che negli anni<br />
precedenti erano proposti à plat e, nel caso dei particolari (volto,<br />
mani) mai definiti. Qui le figure degli angeli sono viste piuttosto<br />
come puttini avvolti in veli trasparenti, contro i suoi precedenti,<br />
coperti di pesanti drappi baroccheggianti. Questi angeli cadenti,<br />
anch’essi quasi trasparenti, trovano nella loro caduta vorticosa<br />
una loro collocazione nella divisione del quadro nelle due bande<br />
di colore, nelle quali sono rappresentati: un forte rosso cardinale,<br />
nei due che occupano la banda inferiore del quadro, un azzurro<br />
lievemente sordo, quasi petrolio, in quelli della banda superiore,<br />
in mezzo a nubi che accentuano la divisione delle due sezioni<br />
orizzontali. <strong>Un</strong> lavoro interessante che nei due colori trova il suo<br />
significato più profondo.<br />
240<br />
241
Umberto Buscioni<br />
Allegoria della felicità, (particolari), 1994<br />
olio su tela, cm 55,5 x 87; titolo, data e firma sul retro<br />
<strong>Un</strong> quadro recente, giocato su quattro colori: l’azzurro in diverse<br />
sfumature nel fondo, nel volto femminile (una figurazione<br />
tradotta sempre à plat come nelle opere degli anni Sessanta-<br />
Settanta), nell’orologio senza ore nella parte destra del quadro;<br />
il bianco dei segni e di un profilo-rimando, di buscioniana<br />
memoria, a quelle grucce da armadio, senza i colori rutilanti<br />
delle camicie e delle cravatte a righe che ne pendevano negli<br />
anni di adesione dell’artista a una Pop casalinga e privata (ora è<br />
l’orologio che vi sta appeso, forse nel vento della memoria?); una<br />
sorta di ombra di un giallo acceso dietro la testa della donna; un<br />
tocco di violetto sfumato...<br />
Allegoria di quale felicità? Sta forse nella distruzione del tempo<br />
misurabile? Nell’allusione ad un cielo cosparso di nubi chiare e<br />
di un orologio che vi si perde?<br />
O si tratta di un gioco di spaesamento nel titolo?<br />
242<br />
243
Gianni Ruffi<br />
Firenze, 1938; vive a <strong>Pistoia</strong><br />
Tra i protagonisti di una particolare interpretazione della Pop-culture, in termini<br />
europei, anzi specificatamente legata alla vita contadina toscana, che ha<br />
portato avanti col gruppo dal nome di “Scuola di <strong>Pistoia</strong>”. Il gruppo, formato<br />
da Ruffi, Barni e Buscioni, inizialmente includeva anche Natalini che, trasferitosi<br />
a Firenze era tra i fondatori dei gruppi di Architettura radicale Archizoom<br />
e Superstudio). Il gruppo pistoiese riusciva a raggiungere, negli anni<br />
Sessanta-Settanta, un ruolo importante in campo nazionale. Fu un notevole<br />
esempio di apertura culturale che, in questo caso, distinse <strong>Pistoia</strong> anche da<br />
Firenze, in quel momento più legata all’interpretazione della Pop secondo le<br />
linee americane.<br />
Ruffi iniziava realizzando oggetti legati alla “cultura materiale” contadina che,<br />
in chiave con la pratica pop (da Oldenburg all’italiano Pascali) egli ingigantiva,<br />
usando peraltro materiali meno pesanti degli originali (legno, filo di ferro,<br />
plastica) trasformandoli in totem ironici e spesso crudeli (tagliole, cestole,<br />
gabbie, fionde, ma anche onde di mare solidificate, coloratissime, basculanti,<br />
giocattoli giganti – Il mare a dondolo, 1957), praticando una sua caratteristica,<br />
sottile ironia, secondo un suo gioco linguistico (Barilli cita Pascali, ma si può<br />
pensare anche a Manzoni – Cannoni – al felice “strabismo” di Boetti, legato<br />
alla lezione di Duchamp, ad un mondo poetico alla Finlay).<br />
È un’ironia, quella di Ruffi, che sfocia direttamente nel Concettuale e, appunto,<br />
sulla componente linguistica, giocando con gli oggetti e con le parole,<br />
con rebus nei quali gli oggetti si pongono in termini mentali. Pensiamo alle<br />
sue installazioni, spesso con argute varianti che egli approfondisce di volta in<br />
volta: Ri-corda,’76-’86, dove una corda arrotolata, a destra di un “RI” in legno,<br />
completa la parola; La Via Lattea, ’81, che vede migliaia di contenitori di latte<br />
in cartone composti in una lunga, fitta cordata a formare un modulato, lungo<br />
percorso; o ancora Dipanare il mare, ’88-’90, nel quale una parete coperta di<br />
corte, fitte onde piatte di filo di ferro vede a terra, vicino, un grosso gomitolo<br />
di filo di ferro; un esempio, anche, di raffinata, poetica fantasia. Talvolta la<br />
metafora è più diretta, come in Fontana malata, ’84, dallo zampillo formato<br />
da una catena di ganci...<br />
Seguiranno poi le citazioni dei grandi della storia dell’arte “nominati” ognuno<br />
su una porta dal colore allusivo (Bianco Fontana, Giallo Vangogh, Rosso Matisse,<br />
Verde Cesanne (sic), Nero Burri, ’76.<br />
Ma anche la materia delle porte bianche per indicare M. Buonarroti, Canova,<br />
’77. E ancora Dinamite, ’71, di un’ acuta, stridente, amara intensità; La Strada<br />
ferrata, ’92, un gustoso Ready-Ready-Made da Man Ray.<br />
Il lavoro di Ruffi dunque, partito dal cordiale, giocoso Mare a dondolo, che<br />
diverrà Mare a tre canti, ’67; Messaggio, ’67, con sopra una bottiglia verde; per<br />
finire piccolo, monocromo sopra un’alta colonna; continuerà con opere sempre<br />
più incisive e forti. Ricorderò Aquilone, ’88, un povero aquilone pesante,<br />
in ferro (qui il suo gioco si rovescia), costretto a terra, a sognare inutilmente<br />
un cielo irraggiungibile; e infine, omettendo<br />
pezzi intensissimi, La luna nel pozzo che, dal<br />
’99, trova la sua collocazione, nella versione in<br />
ferro, nella piazza Giovanni XXIII a <strong>Pistoia</strong>.<br />
Da ricordare anche l’intervento nel Nuovo<br />
Padiglione di Emodialisi a <strong>Pistoia</strong>, con Lunatica,<br />
2005.<br />
Dicevo che il lavoro di Ruffi si è fatto più incisivo:<br />
la sua fantasia si carica progressivamente<br />
di un duro e pungente sarcasmo nei confronti<br />
di un mondo sempre più incapace di cogliere<br />
il significato profondo, liberatorio, dell’ ironia,<br />
e sempre più chiuso nella propria, ottusa “seriosità”.<br />
Cenni bibliografici<br />
C. Vivaldi, Barni, Buscioni, Ruffi, Collana di<br />
Arte Contemporanea, Roma 1969.<br />
Omaggio a Gianni Ruffi, a cura di V. Bruni, in<br />
Declinare lo sguardo, San Giovanni Valdarno<br />
1989.<br />
R. Barilli, Gianni Ruffi. Le trappole del senso<br />
1965-1990, cat. mostra, Milano 1990.<br />
L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />
Gianni Ruffi, cat. mostra, <strong>Pistoia</strong> 2000.<br />
Il Nuovo Padiglione di Emodialisi all’Ospedale di<br />
<strong>Pistoia</strong>, Prato-Siena 2005.<br />
Gianni Ruffi. Metamorfosi dell’oggetto, Bologna<br />
2006.<br />
Arte ambientale. La Fattoria di Celle. Collezione<br />
Gori, Prato-Siena 2009.<br />
L. Pratesi, Gianni Ruffi Per fermare il tempo<br />
2008-2009, <strong>Pistoia</strong> 2009.<br />
244<br />
245
Gianni Ruffi<br />
Chiodi, 1969-1973<br />
tecnica mista su legno, cm 55 x 65 x 6; , firmato sul retro<br />
Bloccati su tavola in ordine sparso come se, gettati liberamente<br />
dall’alto fossero rimasti attaccati in una fissità irregolare perché<br />
nessuno dei chiodi è stato fissato naturalmente, inserendone<br />
la punta nel legno e soprattutto perché i chiodi non sono di<br />
ferro, ma di legno. La base in legno è disegnata a raffigurare un<br />
pavimento presso la parete. È un lavoro leggero, fresco, ironico,<br />
secondo lo stile consueto di Ruffi, tutto mentale, ma allo stesso<br />
tempo anche carico di una fantasia lieve e poetica. La capacità<br />
offensiva, perforante e tagliente dei chiodi è qui annullata nel<br />
loro essere morbidi e non duri come il legno, fissati in posizione<br />
assolutamente inoffensiva e innocua. Va anche ricordato che i<br />
chiodi fanno parte di quel “Pop-ular” operaio e contadino che<br />
Ruffi sceglie per i suoi lavori, che giocano spesso anche sul<br />
rapporto rovesciato di morbido/duro.<br />
246<br />
247
Gianni Ruffi<br />
Giallo, Rosso, Verde, 1968<br />
assemblaggio su legno, quattro tavole legate a libro tra loro<br />
cm 60 x 39 x 7,5 ciascuna (aperto cm 60 x 80); firma sul retro<br />
<strong>Un</strong> bel lavoro impostato sui colori giallo, rosso, verde: ognuno<br />
dei tre colori ricopre il davanti di una tavola, (quello nel quale<br />
si colloca la sagoma di una grande matita dalla punta del colore<br />
della tavola stessa), e il retro della tavola-pagina che le succede,<br />
che reca invece, sulla sua facciata, il secondo colore e la sagoma<br />
di una matita la cui punta è dello stesso colore. E così di seguito.<br />
È un gioco di rimandi, di ingigantimento “pop” di tre matite<br />
di tre colori diversi. Fa parte dei lavori del primo periodo della<br />
interpretazione del Pop-ular quotidiano dell’artista, portata<br />
avanti con una stesura timbrica del colore à plat, già, peraltro,<br />
improntata sulla sua lieve, sottile ironia.<br />
248<br />
249
Gianni Ruffi<br />
Giotto, 1972<br />
vinili su legno, dittico, cm 170 x 190 x 12<br />
Composto da due pannelli della stessa altezza e larghezza,<br />
accostati, che trattano ironicamente di una grande personalità<br />
di artista, Giotto, rifacendosi peraltro allo scritto e alle immagini<br />
che trovavamo, da bambini, nelle scatolina di cartone “Fila”,<br />
che conservava le nostre piccole matite scolastiche e che portava<br />
su una faccia la storia romanzata di “Angelo da Bondone detto<br />
GIOTTO” che, da ragazzino, mentre guardava un gregge,<br />
tracciava su una pietra, inginocchiato a terra, con una matita,<br />
l’immagine di una pecorella, quando fu osservato dal “famoso<br />
pittore Cimabue, che, osservando la perfezione del disegno<br />
intuì in quel fanciullo un artista” e “lo portò seco a Firenze e gli<br />
fu maestro”; con tutta la storia che segue fino alla morte e alla<br />
sepoltura “in Santa Maria del Fiore a Firenze”.<br />
Le due figurette del ragazzo piegato sulla pietra e del “grande”<br />
pittore di cui si indovinano le vesti alla moda si perdono un poco<br />
nella logica cancellazione del tempo.<br />
Con questo lavoro Ruffi contrappone il ricordo infantile<br />
all’ingigantimento delle stesse matite nel suo lavoro precedente,<br />
Giallo, Rosso, Verde del 1968 di carattere “Pop-ular”, a cui viene<br />
in qualche modo confrontato in mostra.<br />
250<br />
251
Gianni Ruffi<br />
Come una rosa, 1984<br />
legno tamburato e dipinto a tempera, cm 336 x 85 x 13<br />
<strong>Un</strong> lavoro che gioca sull’à plat che scardina il concetto di<br />
tridimensionalità e di rotondità del lungo vaso in legno lasciato<br />
grezzo e sulla visione impropria e irregolare della rosa, vista<br />
dall’alto, appunto, a svelare il suo interno. A confermare<br />
l’intenzionalità quasi costante dell’artista, di mettere in crisi,<br />
con un’ironia discreta e un po’ sfottente, tutte le certezze,<br />
anche quelle dell’occhio e delle convenzioni che lo riguardano<br />
(prospettiva, punto di vista, anche quella della finestra<br />
albertiana).<br />
252<br />
253
Adolfo Natalini<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1941; vive a Firenze<br />
Seguiva a Firenze gli studi universitari di architettura “a scuola” come scrive<br />
“da Benevolo, Quaroni, Ricci e Savioli” dove leggeva Architectural Design,<br />
L.C. (Le Corbusier), e dava vita, con altri, alla “Superarchitettura”, da cui nascevano<br />
i gruppi di architettura radicale, Archizoom e Superstudio (di cui Natalini<br />
era il capofila nel ’66, anno dell’alluvione a Firenze). Il tentativo era di<br />
“liberarsi dai residui e dalle infatuazioni architettoniche attraverso massicce<br />
ingestioni di progetti-immagine e di iniziare una demolizione della disciplina<br />
attraverso azioni di guerriglia”.<br />
Nello stesso anno Natalini, a <strong>Pistoia</strong>, diventava membro, con Barni, Buscioni,<br />
Ruffi, della nuova “Scuola di <strong>Pistoia</strong>” che, ai suoi inizi, aveva interpretato<br />
l’ideologia della Pop Art americana (diffusa in Europa dalla Biennale del<br />
1964) non in rapporto alla vita degli abitanti delle grandi città americane, ma a<br />
quella della cultura europea, e italiana, (nel caso di Ruffi a quella “materiale”<br />
contadina). Natalini portava avanti, nella sua pittura, una figurazione più vicina<br />
a quella di Warhol, nei suoi grandi ritratti di<br />
giovani, di nuotatori; una visione volutamente<br />
legata alle grandi immagini pubblicitarie, dai<br />
contorni nettamente disegnati, dai colori piatti<br />
e uniformi, di grande impatto visivo.<br />
Trasferitosi definitivamente a Firenze, Natalini<br />
si dedica totalmente alla professione architettonica,<br />
lavorando in Italia e in tutta Europa.<br />
Cenni bibliografici<br />
Superstudio. Storie con figure 1966-1973, a cura di<br />
A. Natalini, Firenze 1979.<br />
Adolfo Natalini, Architetture raccontate, Milano<br />
1989.<br />
A. Belluzzi, C. Conforti, Architettura Italiana<br />
1944-1994, Bari 1994.<br />
L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />
Adolfo Natalini Architettare, cat. mostra a cura di<br />
V. Fagone, Lucca 2003.<br />
C. Sisi, Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
255
Adolfo Natalini<br />
Armstrong a righe rosse e blu, 1964<br />
olio su tela, cm 151 x 151; datato e firmato sul retro<br />
<strong>Un</strong>a bella interpretazione autonoma che si ispira ai grandi<br />
ritratti pop di Warhol, in termini, peraltro, di una più vivace e<br />
“nostrana” trascrizione allusiva e psicologica del personaggio<br />
attraverso non solo la presenza della tromba, ma anche nel vivace<br />
e dinamico riferimento al flusso veloce del suono attraverso<br />
l’onda espressa nelle sue diverse intensità, rappresentate dalle<br />
onde sonore delle righe azzurre e rosse, che scorrono parallele<br />
ma con scarti e variazioni di ampiezza.<br />
256<br />
257
ALLA FINE DEL XX SECOLO<br />
Franco Bovani<br />
Massimo Biagi<br />
Andrea Dami<br />
259
Franco Bovani<br />
<strong>Pistoia</strong> 1949-1988<br />
Compie i suoi studi all’Istituto d’Arte di <strong>Pistoia</strong> e si avvia a esperienze formative<br />
nel campo della ceramica, accostandosi ai temi figurativi propri della<br />
tradizione pistoiese.<br />
Attorno al 1970 si interessa di temi sociali legati alla condizione reietta e alienante<br />
dei malati degli ospedali psichiatrici: visita spesso in questo periodo<br />
la struttura cittadina delle Ville Sbertoli dalla cui suggestione nasce la serie<br />
O[spedale] P[sichiatrico], opere di grandi dimensioni in cui già sperimenta,<br />
seppure in un contesto figurativo ‘allucinato’, gli impasti materici ricchi e<br />
densi che diverranno una caratteristica di preziosità del suo lavoro futuro.<br />
Con questo lavoro si segnala al Premio Nazionale XXV APECO nel 1973 a<br />
Milano.<br />
Presi come punto di riferimento gli esponenti della Scuola Pistoiese Buscioni,<br />
Ruffi e Barni orienta la propria ricerca verso il linguaggio della pop art italiana<br />
e segnatamente pistoiese con uno sguardo anche al new-dada. Alla sua<br />
prima Personale alla Galleria Vannucci (1975) presenta la serie delle Mappe<br />
geografiche, tele e compensati sagomati dedicate a questo tema eseguiti con<br />
una tecnica mista di grande preziosità, spesso usando motti d’ironia per sottolineare<br />
una propria idea, un proprio concetto.<br />
Già nel 1976 si rivolgeva a Milano, alla Galleria Il Naviglio, per un confronto<br />
artistico ed esistenziale nell’intento di uscire dai ristretti confini della provincia<br />
pistoiese: la verifica in corso è sul lavoro che ha come soggetto una serie di<br />
paesaggi ‘incorniciati’ da colonne e lesene in rilievo che già propongono un<br />
riferimento formale alla classicità. Successivamente a questi ‘paesaggi’ affianca<br />
le Invenzioni da Caravaggio in cui re-inventa la tradizione iconografica del<br />
grande pittore secentesco usando, per ambedue i soggetti, il generale titolo di<br />
Traslazione. Intensificati i rapporti con la galleria milanese, allo scorcio degli<br />
anni Ottanta si susseguono esposizioni a Basilea, a Bologna, a Milano, a Sabbioneta.<br />
Nel 1980 a Venezia è presente al Progetto Speciale della Biennale<br />
con Nel tempo col tempo, opera in cui elementi vegetali e reperti archeologici<br />
in gesso aggettano dal fondo; mentre a Milano nello stesso anno tiene una<br />
seconda mostra personale al Naviglio che segna, tuttavia, anche la fine dei<br />
rapporti stabili con la città milanese. Negli anni Ottanta l’interesse per il passato<br />
e la tradizione si palesa in opere della serie delle Sinopie in cui crea stratificazioni<br />
cromatiche con pigmenti naturali e cera. In questi anni lavora anche<br />
su strutture di legno ondulate in cui si dispongono sembianti arcaici oggetto<br />
di una nuova personale al Naviglio a Milano e quindi a Parigi. Sullo scorcio<br />
degli anni Ottanta, negli ambienti dello studio di via Cammelli, si orienta<br />
verso una pura ricerca cromatica con creazioni di grandi fiori i cui particolari<br />
si espandono anche su strutture tridimensionali (Flowers). Nei suoi propositi<br />
c’è nuovamente l’idea di trasferirsi, questa volta a Prato, alla ricerca di nuovi<br />
stimoli creativi, ma la morte, sopraggiunta prematuramente nel novembre<br />
del 1988, lascerà inesauditi i suoi desideri.<br />
“Ecco dunque il suo ‘breviario di immagini!’ E se pensiamo quanto egli tenesse<br />
a manipolare la materia pittorica a ‘intrattenerla’ con raffinate preziosità,<br />
a darle quel senso di recondito, di misteriosa e garbata procedura tra<br />
l’affresco e l’encausto, la tempera su intonaco o su pastiglia di stucco; ora con<br />
la materia a rilievo e le abrasioni del tempo e dell’usura, ora con la levità e<br />
la tenue lucentezza di una superficie passata a<br />
cera, allora possiamo capire appieno tale predilezione<br />
e rendersi conto che il citazionismo<br />
visibile del suo lavoro, il continuo richiamo al<br />
passato, è intimamente connesso alle necessità<br />
stesse del suo linguaggio” (Simoncini 1996)<br />
Cenni bibliografici<br />
Franco Bovani, opere 1971-1988, cat. mostra,<br />
Firenze-Siena 1996<br />
S. Simoncini, Franco Bovani, in Franco Bovani,<br />
opere... cit.<br />
A. Iacuzzi, Cultura artistica dal dopoguerra a<br />
<strong>Pistoia</strong>, in Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, a cura di<br />
C. Sisi, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />
260<br />
261
Franco Bovani<br />
Mappa (Mappa inservibile per camminare), 1975<br />
tecnica mista su carta, cm 100 x 70; titolo, data e firma in basso a<br />
destra<br />
La Mappa che reca in filigrana la grafia dello stesso Bovani con le<br />
parole ‘Mappa inservibile per camminare’ propone un reticolato<br />
geografico tracciato a matita su cui si sovrammette una materia<br />
pittorica gestuale. Bande colorate diverde, rosso, arancio, bianco,<br />
azzurro, celeste e giallo denunciano l’inutilità dello strumento<br />
che diviene pretesto formale per una estrema perizia tecnica<br />
che Simoncini (1996) definisce elaborata con raffinatezza di<br />
linguaggio peculiare e personalissima.<br />
262 263
Massimo Biagi<br />
Marliana, <strong>Pistoia</strong>, 1949; vive a Marliana<br />
Ha compiuto i suoi studi artistici presso l’Istituto d’Arte Petrocchi a <strong>Pistoia</strong> e<br />
all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Si dedicava, inizialmente, alla pittura<br />
e a sperimentazioni grafiche. Infaticabile organizzatore e ricercatore ha pubblicato<br />
manifesti e scritti suoi.<br />
Nel ’78 usciva il suo primo Manifesto sul “graficismo”, che Pierre Restany<br />
pubblicherà su “Natura integrale” e al quale aderivano artisti e letterati italiani<br />
e stranieri, tra i quali Samuel Beckett, Emilio Vedova, Raphael Alberti...<br />
Del 1984 è la sua prima mostra sul Graficismo, presentata da Mario Nigro.<br />
Dall’85 tiene rapporti con alcuni importanti Centri di Documentazione. Alla<br />
Biennale del 1985 presentava il suo Manifesto del Dissenso Totale e i suoi<br />
Art Spaces. <strong>Un</strong> suo grande intervento plastico, il progetto di una grande facciata,<br />
sarà collocato nella zona industriale di Calenzano.<br />
Ha organizzato molte personali e ha partecipato a molte manifestazioni artistiche.<br />
Si è anche dedicato al “libro d’artista”. Del 1990 è il libro a quattro<br />
mani (con Anna Brancolini).<br />
Ha lavorato anche nella ceramica. A questo proposito va ricordato il “Cenacolo”<br />
(25 marzo 2010), la cena di incontro e di discussione che vedeva riunite<br />
presso la galleria Vannucci di <strong>Pistoia</strong>, alcune fra le personalità più note della<br />
cultura della città; incontro per il quale realizzava i piatti e le suppellettili<br />
in ceramica dipinta, oggetti di grande effetto<br />
e di grande gusto decorativo. Famosi anche i<br />
suoi “eccitoplastici” (grandi lavori sagomati in<br />
legno, generalmente monocromi, nei quali il<br />
disegno è come incastonato da un lieve bordo<br />
rialzato), e soprattutto le sue sculture “estroflesse”,<br />
che realizza in legno e lavora asportandone<br />
strati, a ricavare una sorta di bassorilievo,<br />
che tratta a colori vivi, giallo, verde, viola, azzurro<br />
(Bagnanti, Nudonauti...).<br />
Cenni bibliografici<br />
M. Biagi, I manifesti del Graficismo, Firenze<br />
1986.<br />
Dal Graficismo all’Eccitoplastica, cat. mostra a<br />
cura di M. Biagi, Monsummano Terme 1989.<br />
M. Bazzini, Massimo Biagi, <strong>Pistoia</strong> 1997.<br />
Ma. Biagi, Miradario. Pagine Manoscritte, <strong>Pistoia</strong><br />
2005.<br />
Massimo Biagi Miradario. Il segreto dei corpi<br />
sospesi, cat. mostra Galleria Vannucci, <strong>Pistoia</strong><br />
2007.<br />
Immagina. Arte e poesia e made in Italy, cat.<br />
mostra, a cura di S. Simoncini, <strong>Pistoia</strong> 2009.<br />
Massimo Biagi. Terrecotte musicali, <strong>Pistoia</strong> 2009.<br />
265
Massimo Biagi<br />
Grande tondo graficista, 1988<br />
pennarello indelebile su tela, ø cm 159; datato e firmato sul retro<br />
<strong>Un</strong> bell’esempio del lavoro sul Graficismo che Biagi porta<br />
avanti dal ’78, quando presentava il suo primo manifesto sul<br />
Graficismo, appunto, e che Restany pubblicava sulla rivista<br />
“Natura integrale”. I fitti segni paralleli rossi, portati avanti a<br />
formare avvolgimenti, percorsi grafici, si muovono sulla grande<br />
superficie circolare in andamenti quasi vermicolari; in percorsi<br />
dinamici, che si trasformano in una sorta di racconto magico,<br />
espresso in una scrittura dimenticata o inventata per un futuro<br />
ancora inenarrabile.<br />
266 267
Andrea Dami<br />
<strong>Pistoia</strong>, 1946; vive a <strong>Pistoia</strong><br />
Ha studiato a <strong>Pistoia</strong>, presso l’Istituto d’Arte Petrocchi e dal ’66 si dedicava<br />
all’insegnamento di educazione artistica.<br />
Come dichiara nel suo I quattro cantoni (2003), egli si è formato sulla Scuola<br />
Pistoiese, “quella dei Bugiani e Mariotti per il disegno e la pittura, Gordigiani<br />
per la decorazione su materiali diversi come la seta, Vivarelli per la tridimensionalità<br />
della scultura, Bassi per i volumi dell’architettura, mentre Cappellini<br />
era una voce ancora diversa nel mondo dei colori”... E ricorda, inoltre,<br />
Fernando Melani, che “aprì uno spiraglio, apparve una voce nuova”.<br />
Liberatosi dalle prime esperienze affrontava ricerche personali, ricche anche<br />
di un suo ripercorrimento della storia dell’arte, che lo portava verso esperienze<br />
diverse, teatrali, di giornalismo, di video, e ancora di pittura, di scultura, di<br />
architettura, per cui ha usato materiali varii.<br />
La città sonante è un suo grande lavoro “teso” come dichiara “alla ricerca della<br />
speranza”. Lo ha realizzato in varie sezioni lavorando “più che sul perimetro<br />
quadrangolare della città… da un dentro a un fuori… su particolari interni<br />
del tessuto urbano, su un segno”. Pittura, scultura, in un rapporto di “luoghi<br />
simbolici”.<br />
Negli anni Novanta realizzava lo spazio verde attrezzato Il giardino della memoria<br />
a Castelmartini, a memoria della strage del Padule di Fucecchio durante<br />
la seconda guerra mondiale: una grande struttura pittoarchitettonica in ferro<br />
dipinto. Realizza anche una serie di quelle che definisce “materializzazioni”<br />
in ferro. Nascono inoltre le sue “sculture<br />
sonanti”, una delle quali è esposta e suonata<br />
nella Fattoria di Celle nel 1999. Del 2001 è il<br />
suo libro Giardino della memoria. Del 2003 è<br />
la scultura sonante Direzioni che, assieme ad<br />
opere di Jaume Plensa e Armando Marrocco,<br />
crea il “Giardino sonoro” nella Villa di Groppoli<br />
a <strong>Pistoia</strong>.<br />
Cenni bibliografici<br />
A. Brancolini, Dami, Spoerri, Ulivi. Tre artisti<br />
dell’Est America, cat. mostra, Montecatini Alto<br />
1992.<br />
Sculture sonanti. A. Dami, D. Esposito, A.<br />
Marrocco, J. Plensa, cat. mostra, Perugia 1999.<br />
Andrea Dami, Giardino sonoro, <strong>Pistoia</strong> 2005.<br />
Confidenze dell’Arte. Studi d’artista e generazioni<br />
a confronto a <strong>Pistoia</strong>, cat. a cura di A. Agostini,<br />
<strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
269
Andrea Dami<br />
Lontananza dal centro, 2009<br />
ferro dipinto, cm 163 x 90 x 40<br />
Su base cubica in ferro nero lavorato in alcune parti a righe<br />
parallele disposte in diagonale, realizzate col trapano, la sezione<br />
superiore della scultura, di forma semicircolare in ferro dipinto<br />
in arancio è disposta sulla base stessa in equilibrio instabile e<br />
presenta, sulla superficie del suo spessore, una serie di linee<br />
parallele, anche qui tracciate in diagonale e ottenute con l’uso<br />
del trapano. Sul bordo esterno dello spessore, a metà dell’orlo, è<br />
posata una piccola farfalla azzurra che sembra aver la forza, con<br />
la sua leggerezza, di spostare l’equilibrio del semicerchio verso il<br />
basso.<br />
La leggerezza e la sua agile mobilità la vincono sulla pesantezza<br />
della stabilità? Questo sembra essere quanto questo interessante<br />
lavoro, destinato a vivere in mezzo al verde, ci vuol dimostrare.<br />
Di fronte a una natura, quella vegetale, che appare fragile, ma sa<br />
rinascere ogni giorno.<br />
270 271
ALL’ALBA DEL TERZO MILLENNIO<br />
Federico Gori<br />
Zoè Gruni<br />
273
Federico Gori<br />
Prato, 1977; vive a Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />
Non so se quello che esprime, nel suo lavoro, Federico Gori, come scrive nel<br />
suo bel saggio, Fabio Migliorati (2010) possa rappresentare una sua interpretazione<br />
del mondo dichiaratamente panpsichista o animista. È vero che<br />
esiste, in lui, una visione della natura di carattere, anche, fortemente spirituale,<br />
che egli identifica nell’immagine del bosco, come espressione globale di<br />
tutto l’esistente, esempio-sintesi di tutto ciò che è legato alla natura umana,<br />
animale, vegetale, in tutte le sue manifestazioni, ma anche a quella di tutto<br />
l’universo, della terra, del sole, delle stelle…, che si riconosce nel nascere, nel<br />
vivere, nel morire secondo percorsi diversi, tempi diversi, cause e condizioni<br />
diverse.<br />
Ma è vero anche che Gori ha scelto, da sempre, l’immagine del bosco perché<br />
è questo lo strumento, lo specchio nel quale si riflette il suo sentire, il senso<br />
della sua vita stessa; è la sua memoria, l’immagine nella quale egli trasferisce<br />
il significato del suo esser nato, del suo vivere, forse, soprattutto del suo “fare<br />
arte”.<br />
Ci sono dietro i suoi ricordi d’infanzia: ha visto, da sempre, il bosco crescere,<br />
morire, rinascere. Ma, come dice nell’intervista di Luisa Castellini (in “Expoarte”<br />
n. 63, 2010): “… il mio non è un lavoro strettamente legato alla natura.<br />
Dipingo segni che diventano frammenti di alberi e i boschi, da sempre,<br />
ormai, anche se ciclicamente tento di allontanarmi da quelle presenze. Sono<br />
gli alberi e i boschi che mi hanno visto crescere, e che osservo mutare con<br />
il passare delle stagioni, Con la differenza che io invecchierò e morirò mentre<br />
loro continueranno a rimanere in piedi. È questo un pensiero che ritorna<br />
sempre mentre lavoro”.<br />
Forse è anche per questo suo lungo, quasi quotidiano sodalizio col bosco, con<br />
la sua presenza sempre uguale e sempre variata che si manifesta in forma di<br />
un continuo intreccio di “segni”, che è maturata la sua passione per il segno,<br />
che egli usa in forme sempre variate, e che ha permeato la sua vita e la sua<br />
ricerca. C’è in lui, dunque, prima di tutto, la necessità quasi fisiologica di dipingere<br />
“segni”, quelli stessi che ritrova negli alberi e nel bosco.<br />
Iniziava trasferendo le immagini fotografiche del bosco su lastre di plexiglas<br />
trasparente, che disponeva nello spazio della sala che le accoglieva, ricreando<br />
una sorta di nuovo bosco, cui conferiva colori luminosi diversi, combinati alla<br />
sua fitta, “segnica” grafia.<br />
È passato, in seguito, a trasferire con un processo chimico la fotografia su<br />
tavolette di alluminio bianche sulle quali interviene con una sorta di scrittura<br />
complessa, che talvolta forma come una rete che isola i suoi boschi, si inserisce<br />
nel folto intreccio dei rami dei suoi alberi boschivi, in una sorta di simbio-<br />
si tra naturale e artificiale. Assembla poi le tavolette, tutte della stessa misura,<br />
in composizioni-installazioni, secondo una programmazione visiva che crea<br />
percorsi, vuoti di distacco e luoghi di continuità.<br />
Ha chiaramente dichiarato il suo amore per gli artisti dell’Informale segnico<br />
(Twombly, Vedova – ma anche Bacon e Burri e Hopper) e, fra gli antichi,<br />
Bosch, Pontormo, Rublëv, Caravaggio...<br />
Si tratta, grazie al cielo, di un artista a tutto tondo, che sa che cosa significa la<br />
parola “sacrificio” quando ricorda (Apocalisse 2007) i tre mesi “fantastici e terribili”<br />
del lavoro nel Giardino di Spoerri a Seggiano (2003); ed è davvero uno<br />
dei pochi giovani che non tende solo a “emergere” e che, quando gli si chiede<br />
quanto gli interessi che “la gente capisca quello che egli crea” risponde: “In<br />
arte non c’è niente da capire. È una contraddizione.<br />
<strong>Un</strong>’opera può essere accolta, e allora ci si entra dentro, oppure al contrario<br />
si respinge e non la si accetta. Queste sono le<br />
uniche scelte che uno spettatore può avere.<br />
Quel che succede dopo che un artista ritiene<br />
conclusa la sua opera lo deve riguardare poco o<br />
nulla”. C’è solo, per lui, la sua “fede nell’atto<br />
creativo”; è una componente fortemente sentita<br />
che sembra voler coniugare nel suo lavoro,<br />
in un unicum profondo, ordine e disordine,<br />
sim-patia ed empatia.<br />
Cenni bibliografici<br />
Stadtflucht, Federico Gori, Manuela Menici,<br />
Susanne Neuman, Gerardo Paoletti, cat. mostra a<br />
cura di A. Mazzanti, Seggiano, Grosseto 2003.<br />
Confidenze dell’Arte. Studi d’artista e generazioni<br />
a confronto a <strong>Pistoia</strong>, Gerardo Paoletti e Federico<br />
Gori incontrano Cristina Palandri, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
Apocalisse, Federico Gori, Gerardo Paoletti, cat.<br />
mostra, Quarrata 2007.<br />
Eternal Sunshine. Federico Gori, cat. mostra a<br />
cura di F. Migliorati, Pontedera <strong>2010.</strong><br />
274<br />
275
Federico Gori<br />
Eternal Sunshine, 2006-2010<br />
smalto e inchiostro su alluminio, cm 208 x 112,5<br />
venti lastre di alluminio di cm 26 x 37,5 ciascuna<br />
È uno dei lavori che Federico Gori realizza trasferendo, secondo<br />
un percorso compositivo libero, le sue fotografie, con un processo<br />
simile a quello dell’acquaforte, sulle lastre di alluminio bianche,<br />
su cui interviene con un “segno” dinamico, vivo che si insinua<br />
dentro l’immagine dell’albero, del tronco, dei rami, delle foglie,<br />
secondo la sua libera progettazione dell’opera.<br />
La composizione delle tavolette si articola secondo una visione<br />
complessa che segue un preciso processo visivo, che crea<br />
percorsi, scarti, vuoti intenzionali, a formare un lavoro unitario,<br />
stimolante, sensibile, di forte intensità espressiva.<br />
276<br />
277
Zoè Gruni<br />
<strong>Pistoia</strong> 1982; vive a <strong>Pistoia</strong><br />
Ha studiato all’Istituto d’Arte di <strong>Pistoia</strong> e all’Accademia di Belle Arti di Firenze.<br />
Apriva nel 2006 uno spazio di arte contemporanea Studio 8. Appassionata<br />
e profondamente impegnata in un lavoro che coinvolge il corpo, non secondo<br />
le linee della Body Art ma, in certo senso, trasformando il corpo stesso in una<br />
sorta di strumento mobile ma chiaramente dipendente dalla pesante presenza<br />
inglobante di “Kôrperpasstûcke”, come direbbe Franz West, oggetti da<br />
indossare; ma nel suo caso addirittura nei quali occultarsi facendo del suo corpo<br />
“come una sorta di preespressione priva di mediazione linguistica” come<br />
scrive. Si è sentita attratta fin da ragazzina “dalla balla di juta” che “è sempre<br />
un viaggio. Contiene le merci più varie. È toccata da tante mani diverse. Nel<br />
suo girovagare viene caricata e scaricata in porti e stazioni. Al suo arrivo risulta<br />
sporca e maleodorante. Non la lavo. La uso così come mi è arrivata”. La presenza<br />
delle balle di juta dà adito anche a molte performance e installazioni di<br />
Zoè Gruni. Questi panni portano i segni dei lunghi viaggi, hanno tutto il fascino<br />
del vissuto, dei tanti paesi per i quali sono passati. Quanto alla scelta di<br />
un materiale scadente, vile e di scarto come le balle di juta consumate, vien<br />
da pensare al loro uso “diverso” da parte di Magdalena Abakanowicz, che ne<br />
crea pesanti sculture, e prima, su basi ovviamente e assolutamente “altre”,<br />
alle prime, straordinarie opere di Alberto Burri. Zoè Gruni le rielabora, le<br />
trasforma, ne fa complessi copricapo, sculture che essa considera “misure del<br />
corpo, guscio, involucro”, “prolungamenti del corpo nello spazio come ali,<br />
code, edere”. Diventano, appunto, dei copricorpo sontuosi, con riferimenti<br />
quasi antropomorfi, di cui si serve anche nelle sue performance. “Sembra<br />
che gli oggetti attivino la memoria dello spazio e del tempo, territori attraverso<br />
cui il soggetto può espandersi”. E aggiunge: “Sono una donna e come<br />
una balla sono contenitore, e cucio con le mani fino a che mi fanno male”.<br />
E si ricordi il burka che trasforma in balle tante donne. Quello della Gruni<br />
è un lavoro sulla memoria, sull’idea di viaggio, sulla condizione femminile<br />
nel mondo, secondo una dimensione estetica<br />
e concettuale. Svolge anche, sempre usando<br />
queste sue straordinarie sculture, attività teatrale.<br />
Ha realizzato anche oggetti in ceramica<br />
raku e video, come Metacorpo (2009). Quello<br />
di Gruni è indubbiamente un lavoro coniugato<br />
al femminile, espresso con una forza, una<br />
durezza fortemente sofferta che nasconde, al<br />
suo interno, tentazioni di denuncia sociale e di<br />
critica coraggiosa e, a suo modo, rischiosa.<br />
Cenni bibliografici<br />
In visita. Giovani artisti a <strong>Pistoia</strong>, cat. mostra a<br />
cura di S. Lucchesi, <strong>Pistoia</strong> 2004.<br />
Pillole Contemporanee, Studi8 in farmacia,<br />
Agliana, <strong>Pistoia</strong> 2006.<br />
Abitati ambienti, cat. mostra a cura di S.<br />
Lucchesi, Firenze 2007.<br />
E. Pedrini, Zoè Gruni, Metato, Firenze 2008.<br />
A. Granchi, Studenti eccellenti. Zoè Gruni e Andrea<br />
Lunardi, Accademia delle Arti e del Disegno,<br />
Firenze 2008.<br />
Metato / Metacorpo, a cura di A. Alibrandi e E.<br />
Pedrini, Firenze 2009.<br />
279
Zoè Gruni<br />
Copricapo I, 2004<br />
sacchi di juta assemblati e cuciti<br />
cm 145 x 40 x 26<br />
Da qualche anno la balla di juta usata rappresenta lo strumento<br />
privilegiato del lavoro di Zoè Gruni, che raccoglie e usa come<br />
l’ha trovata, carica di vita, di memorie di viaggi in paesi lontani,<br />
di cui riporta i segni, l’usura, lo sporco, gli odori del suo carico e<br />
di tutte le mani che l’hanno toccata, dei mari e delle terre che<br />
ha percorso, di tutta la storia di un’umanità operosa che se ne<br />
è servita. Zoè la trasforma in una oggetto sontuoso, un oggetto<br />
da indossare, da presentare durante e per le sue performance e<br />
per le sue apparizioni teatrali. Il sacco si trasforma, assemblato<br />
e cucito, fino a consumare le mani, diventa veste da indossare,<br />
copricapo come questo, che copre tutto il corpo, personaggi<br />
diversi. Senza dimenticare il carico di memoria storico-artistica<br />
che va dai sacchi di Burri alle sculture di Abakanowicz...<br />
Ma, vedendo questi copricapo, non vien da pensare anche ai<br />
burka e alla condizione femminile in tante parti del mondo?<br />
Zoè Gruni, Copricapo I, 2006-2008<br />
stampa Lambda su alluminio, cm 150 x 90<br />
performance che Zoè Gruni ha realizzato indossando, appunto,<br />
lei stessa, il Copricapo I, trasformandolo in un mezzo nuovo e<br />
diverso di espressione.<br />
280<br />
281
UN MAESTRO DI RIFERIMENTO<br />
Giacomo Balla<br />
283
Giacomo Balla<br />
Torino, 1871 – Roma, 1958<br />
Formatosi a Parigi sulla lezione del Postimpressionismo e del Pointillisme trovava<br />
poi, in Italia, nell’espressione pittorica e nei contenuti sociali e simbolici del Divisionismo<br />
(di Pellizza da Volpedo e di Segantini), la condizione più adatta alla sua<br />
sensibilità e alla sua impostazione analitica. È del 1909 la sua Lampada ad arco, che<br />
anticipa anche le sue ricerche sulla scomposizione del colore e della luce. Attraverso<br />
Balla anche Boccioni e Severini si avvicinavano, allora, al Divisionismo. Nel <strong>1910</strong>,<br />
intermediari Boccioni e Severini, conobbe Marinetti e il Futurismo, e firmò il Manifesto<br />
tecnico della pittura. Da allora univa alle sue ricerche precedenti, di carattere<br />
anche tecnico-scientifico sulla scomposizione dello spettro luminoso (nelle quali<br />
faceva riferimento anche alle scoperte di Marey e di Muybridge e alla successiva<br />
applicazione della fotodinamica dei fratelli Bragaglia), quella del dinamismo, basato<br />
sulla rappresentazione analitica e ritmica dello spostamento di un corpo su un piano,<br />
a mezzo della ripetizione delle parti in movimento, poiché i corpi e gli oggetti si<br />
muovono in rapporto allo spazio e alla percezione simultanea. Con la stesura di piani<br />
di colore diverso, sui quali sovrapporre il segno, in una sintesi compositiva, arrivava a<br />
trasformare le immagini in veri “simboli linguistici”. Prescindendo “dall’immagine<br />
visiva” scrive Argan (1970) riusciva a “stabilire un codice di segni significanti velocità,<br />
dinamismo, etc. […] Sono concetti che interessano intensamente la mentalità dell’<br />
uomo moderno: concetti che vogliono essere espressi visivamente perché la percezione<br />
è più rapida della parola, e che non possono essere espressi mediante segni che<br />
implichino riferimenti alla natura, perché debbono esprimere qualcosa di non naturale,<br />
di realizzato mediante congegni meccanici”. I “segni” di Balla (triangoli disposti<br />
a cuneo, spirali, ellissi), suggeriscono l’idea di “velocità” e di progressione ritmica,<br />
sostituendo la ripetizione dell’ immagine (Mano di violinista, 1912; Dinamismo di un<br />
cane a guinzaglio, 1911-1912). Balla tenderà in seguito sempre più all’astrazione, non<br />
con un processo di sinterizzazione, ma attraverso la scansione ritmica del colore, di<br />
forme geometriche svolte per valori timbrici, in rapporto alla vibrazione della luce.<br />
Saranno le sue Compenetrazioni iridescenti, iniziate dal 1912, che verranno a costituire<br />
uno dei primi anelli della catena della “linea analitica” della pittura che passerà<br />
dall’astrattismo geometrico da un lato, dall’ astrazione lirica, dall’altro, derivata, a sua<br />
volta, dal Quadrato bianco su fondo bianco (‘17) di Malevič. E proseguirà nel lavoro<br />
di Albers, di Noland, di Rothko; addirittura nel nero quasi immateriale di Reinhardt;<br />
nella luminosa tessitura di Dorazio e oltre… Con Prampolini Balla firmava, nel<br />
1915, il manifesto Ricostruzione futurista dell’<strong>Un</strong>iverso; pubblicherà quello sul<br />
Vestito antineutrale; lavorerà, nel 1916, nel film Vita futurista e sottoscriverà, con<br />
Marinetti, Carrà, Corra, Settimelli, Ginna, il Manifesto della Cinematografia futurista.<br />
Applicherà alla scenografia i suoi studi sul movimento (in Fuochi d’artificio di<br />
Strawinsky, nei Balletti di Diaghilev, negli oggetti di arredo…).<br />
Giacomo Balla, Ballucecolormare, 1924<br />
olio magro su tela, cm 95,5 x 216<br />
<strong>Un</strong> grande quadro, che non appartiene al periodo futurista<br />
di Balla; periodo il cui riferimento resta nel titolo; il lavoro si<br />
propone come un quadro nel quadro, nel quale l’immagine si<br />
dispone al centro dell’intera superficie monocroma, definito<br />
da una cornice decorativa costituita di righe/nastro regolari,<br />
bianche e verdi, raddoppiate ai lati della composizione centrale,<br />
interrotte a metà dei lati esterni, proseguite lateralmente, in alto,<br />
fino al termine dell’ intera superficie.<br />
Al centro un mare nel quale le piccole onde fitte nel loro<br />
vertiginoso susseguirsi, lievemente rosate e bianche alla base,<br />
salgono assumendo colori diversi, in gradienti luminosi: un lieve<br />
azzurro, ancora un bianco, un rosa che si intensifica<br />
in forme puntate, angolate, che sfumano poi in<br />
un azzurro che si oscura verso l’alto interrotto da<br />
nuove onde violacee in successione orizzontale,<br />
per chiudersi sotto un cielo lieve, rosato, contro il<br />
quale si stagliano piccole vele bianche, triangolari.<br />
È proprio questo passaggio graduale, ritmico, degli<br />
elementi piatti, diversamente colorati, che può<br />
essere avvicinato al trascorrimento dinamico del<br />
colore-luce delle Compenetrazioni iridescenti che<br />
Balla aveva portato avanti circa dal 1913, in forme<br />
rigorosamente astratto-geometriche.<br />
Cenni bibliografici<br />
Nella sterminata bibliografia relativa all’artista ci<br />
limitiamo a proporre solo alcuni testi corredati di<br />
ricchi rimandi bibliografici.<br />
Giacomo Balla, cat. mostra a cura di E.<br />
Crispolti, M. Drudi Gambillo, Torino 1963.<br />
M. Fagiolo dell’Arco, Omaggio a Balla, Roma<br />
1967.<br />
G. C. Argan, L’Arte moderna, Firenze 1970.<br />
G. Lista, Giacomo Balla, Modena 1982.<br />
La donazione Balla, a cura di G. De Feo, F.<br />
Pirani, P. Rosazza, L. Velani, Roma 1988.<br />
M. Fagiolo dell’Arco, Futur-Balla. La vita e le<br />
opere, Milano 1990-1992.<br />
L.-V. Masini, Arte contemporanea, Firenze 1996.<br />
284<br />
285
286<br />
287
ARTE AMBIENTALE<br />
INSTALLAZIONI SUL TERRITORIO<br />
289
ARTE AMBIENTALE: INSTALLAZIONI SUL TERRITORIO<br />
Lara-Vinca Masini<br />
La Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia, e la Fondazione Cassa di Risparmio,<br />
hanno portato avanti un lavoro importante sul territorio, da <strong>Pistoia</strong> a Quarrata a<br />
Montecatini a Pescia, attente sempre a tutelare e ampliare le condizioni di vita e<br />
soprattutto la situazione culturale della popolazione del territorio accrescendo i<br />
diversi luoghi di opere e di installazioni di arte contemporanea, contribuendo alla<br />
realizzazione di eventi.<br />
A <strong>Pistoia</strong>, ad esempio, è stata promossa la realizzazione del Nuovo Padiglione di<br />
Emodialisi, per il quale, in certo senso, anticipando le nuove norme relative alla<br />
“umanizzazione” delle strutture ospedaliere, sono state progettate opere d’arte<br />
contemporanea realizzate a questo scopo, da artisti italiani e stranieri, tra i più<br />
noti in campo internazionale, allo scopo di rendere più accoglienti i luoghi, facendo<br />
dell’arte lo strumento atto a creare un nuovo tipo di percezione dello spazio<br />
ospedaliero, che solleciti la contemplazione, la meditazione, così da distogliere<br />
l’attenzione del paziente dalla propria condizione di ammalato, per alleggerirne,<br />
per quanto è possibile, lo stress e l’emotività prodotte dal dolore e dalla paura, ad<br />
attenuare, comunque, la violenza del processo. Vi hanno lavorato Robert Morris,<br />
che ha realizzato, all’entrata del giardino The Gate (2005), un arco che si copre di<br />
glicine; ancora nel giardino Cabane de Paix (2005), un lavoro di Dani Karavan (una<br />
sorta di gazebo che si ispira alla natura e al senso di pace accentuato anche dalla<br />
frase augurale di Rita Levi Montalcini, incisa sul profilo del tavolo in marmo),<br />
Gianni Ruffi, con Lunatica (2005), una doppia panchina bianca a forma di mezzaluna,<br />
che spinge al sorriso e all’ironia. Nella sala di attesa, all’entrata del Padiglione,<br />
una splendida, dinamica, fresca parete di Sol Lewitt, che fa pensare al flusso<br />
vitale e continuo del sangue che dà la vita. All’interno, un lungo corridoio che<br />
divide dall’esterno e il cui pavimento è costituito da un bellissimo mosaico bianco<br />
e nero di Claudio Parmiggiani, lascia vedere, attraverso una grande vetrata,<br />
tre lavori di Hidetoshi Nagasawa, due giardini che, secondo il suo fare, riportano<br />
sempre al concetto di natura e una bellissima barca, che parla di luoghi lontani, di<br />
mare, di avventura; infine, nella degenza, alcune opere di Daniel Buren, che portano<br />
il colore e la luce a sollecitare, attraverso la bellezza, coraggio e speranza.<br />
Sempre a <strong>Pistoia</strong>, nella parete di fondo della sala di lettura della nuova Biblioteca<br />
S. Giorgio, un’opera, Die grosse Fracht (Il grande carico) di Anselm Kiefer, uno dei<br />
più grandi artisti del mondo attuale. Tra le poche opere che spingono alla contemplazione,<br />
alla meditazione sulla storia, sulla vita e sulla morte. <strong>Un</strong> grandissimo<br />
apporto culturale in un ambiente creato, appunto, per lo studio e per la cultura.<br />
Ancora a <strong>Pistoia</strong>, sul soffitto di Palazzo de’ Rossi, vecchia sede della Fondazione,<br />
Sol Lewitt ha realizzato un’opera improntata sulla ricerca di uno spazio dinamico<br />
trasformando il soffitto stesso in un felice gioco spaziale, attraverso una rete intricata<br />
di linee colorate secondo i colori primari.<br />
Infine, sempre in città, due interventi in vetro policromo. La conversione di Saulo<br />
di Umberto Buscioni realizzata per monofora absidale della chiesa di S. Paolo<br />
nel 1989-1990 e il ciclo dedicato da Sigfrido Bartolini ai Sacramenti e alle Opere di<br />
Misericordia per la chiesa dell’Immacolata.<br />
A Quarrata la Fondazione ha per gran parte sostenuto la realizzazione di una<br />
serie di mostre in progress nello splendido parco di Villa La Màgia, oggi proprietà<br />
del Comune, mostre curate da Katalin Mollek Burmeister alla fine delle quali<br />
un’opera di ogni artista resta in permanenza nel parco, ad allargare la sua valenza<br />
artistica e il patrimonio locale. Fino ad oggi hanno esposto Fabrizio Corneli, di<br />
cui resta una scritta, Micat in vertice (2006, che evidenzia a mezzo di luce e ombra<br />
un processo di anamorfosi), Anne e Patrik Poirier che hanno lasciato due lavori,<br />
La Fabbrica della Memoria (2006, una sorta di capanna in pietra serena che mostra,<br />
attraverso un’apertura, un tavolo, pure in pietra serena, il cui piano reca incisa,<br />
in colori diversi, una mappa che “stilizza la forma del cervello”). Il loro secondo<br />
lavoro, che resta nel parco, presso la Limonaia di Levante, consiste in due grandi<br />
Bruciaprofumi in cotto, ad istituire un rapporto con la natura esaltandone i profumi.<br />
Hidetoshi Nagasawa lascia nel parco, presso la Tinaia di Levante il Giardino<br />
rovesciato (2008), tema consueto dell’artista, un’opera straordinaria in alberese,<br />
cotto e pigmento, formata da due parti uguali e rovesciate che si intersecano. In<br />
una di esse un piccolo albero di melograno. Di Marco Bagnoli restano Ascolta il<br />
flauto di canna (2006), una canna-fontana rossa, sonorizzata da un gracidio di rane,<br />
collocata nel giardino romantico del parco, in un piccolo specchio d’acqua e una<br />
passerella rossa, la sua Banda rossa, sporgente come un piccolo ponte levatoio dal<br />
bordo del laghetto verso l’isoletta centrale. Di Maurizio Nannucci, all’interno del<br />
cortile della villa, quattro grandi “dichiarazioni” al neon, ispirate all’idea di arte.<br />
Di fronte al Parco della villa è in via di realizzazione un altro straordinario lavoro<br />
di Daniel Buren.<br />
Sempre a Quarrata, nella piazza Agenore Fabbri sorge, decentrata, l’installazione<br />
di un’opera di Vittorio Corsini, Le parole scaldano (1999-2004), una casetta-fontana<br />
in cristallo, un lavoro raffinato, che intende aprirsi al dialogo.<br />
A Montecatini la Fondazione ha sponsorizzato e per gran parte sostenuto la creazione<br />
di due installazioni che sono allo stesso tempo opere pubbliche e produzioni<br />
artistiche: due grandi fontane cinetiche, una di Pol Bury, Duetto d’acqua (2004),<br />
l’altra di Susumu Shingu, Duo acquatico (1988), che arricchiscono e rendono più<br />
stimolante il contesto della città. Questo obiettivo di autentica vitalizzazione e<br />
modernizzazione del territorio è in continua e attenta prosecuzione da parte della<br />
Fondazione stessa. È un programma che assieme ad altri relativi al lavoro e alle<br />
necessità delle popolazioni, la Fondazione porta continuamente avanti.<br />
290<br />
291
CHIESA DELL’IMMACOLATA<br />
PISTOIA<br />
Sigfrido Bartolini<br />
293
Sponsorizzate dalla Fondazione Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia, queste<br />
vetrate, realizzate nel 2005-2006, rappresentano l’ultimo grande lavoro di<br />
Sigfrido Bartolini, al quale egli si dedicava anima e corpo.<br />
Nei suoi appunti egli spiegava il metodo di lavoro seguito per la vetrata Alloggiare<br />
i pellegrini, tra le “Opere di misericordia”: dai bozzetti in scala al loro ingrandimento<br />
a dimensione reale, al lucido trasparente preparato dal primitivo<br />
bozzetto che faceva applicare su una monofora. “Così vedrò” scrive “cosa succede<br />
visto dal basso” (in Quattordici vetrate istoriate per la chiesa dell’Immacolata<br />
di <strong>Pistoia</strong>: sette opere di misericordia, sette sacramenti. Di Sigfrido Bartolini, a cura di<br />
S. Simoncini, con scritti di Franco Cardini, Firenze 2007).<br />
<strong>Un</strong> lavoro scrupoloso, preceduto da attenti studi e ricerche sui simboli cristiani<br />
e sulla “luce visibile”, indagata dai più grandi studiosi antichi della cristianità.<br />
“Scegliendo la vetrata come mezzo di espressione artistica il pittore, disegnatore<br />
e incisore Sigfrido Bartolini ha reso omaggio a un’arte antica significativa,<br />
squisitamente cristiano-occidentale e privilegiando il mondo dei simboli<br />
cristiani” (Franco Cardini, cit.). Sette vetrate sono dedicate ai “Sacramenti”,<br />
sette alle “Opere di Misericordia”.<br />
Aveva studiato le modalità di esecuzione, delle sezioni dei vetri colorati da<br />
usare, le loro congiunzioni col piombo. Sceglierà di combinare le sezioni non<br />
per tasselli di misura casuale, ma tagliati secondo lo svolgimento del suo disegno.<br />
“<strong>Un</strong>a volta tagliati” continua nelle sue note “i pezzi possono esser rifiniti con<br />
il chiaroscuro. Così vengono disegnati i volti, eventuali parole e tracciate piccole<br />
decorazioni. I toni per il chiaroscuro sono due: nero e marrone, il nome<br />
di questi toni scuri è grisaglia, dal francese grisaille [...] Il metodo più comune<br />
per disegnare e chiaroscurare nel vetro consiste nel distendere una passata di<br />
grisaglia e una volta asciutta raschiare per ritrovare la luce secondo il disegno.<br />
Ma si può anche disegnare e chiaroscurare direttamente a pennello”. Arriverà,<br />
per raggiungere gli effetti voluti, ignoti nei tradizionali disegni per vetrate,<br />
a trovare un suo metodo particolare: “tamponando, graffiando liberamente<br />
e ottenendo il volume con poco chiaroscuro”. Aiutandosi, quindi, con la sua<br />
“pratica con la xilografia”.<br />
Così in due anni, assistito continuamente dalla moglie, e con grande dolore<br />
e fatica, Bartolini completerà il suo ultimo, grande lavoro, felice di aver realizzato<br />
“un racconto che sarà letto da un’infinità di persone per chissà quante<br />
volte in anni, in secoli. Quale differenza” scriveva ancora “con un paesaggio,<br />
una natura morta o che altro, visti ma non guardati”.<br />
Sigfrido Bartolini<br />
Il Battesimo, 2005-2006<br />
vetro colorato e dipinto, saldature in piombo, cm 300 x 57<br />
Chiesa dell’Immacolata, <strong>Pistoia</strong><br />
Scrive Franco Cardini (Quattordici vetrate istoriate per la chiesa<br />
dell’Immacolata di <strong>Pistoia</strong>: sette opere di misericordia, sette sacramenti.<br />
Di Sigfrido Bartolini, a cura di S. Simoncini, con scritti di Franco<br />
Cardini, Firenze 2007): “Le vetrate dedicate ai “Sacramenti”<br />
forniscono evidentemente un panorama simbolico ricco, organico<br />
e articolato. Così, ad esempio, in quella dedicata al Battesimo i<br />
sette simboli-chiave si riferiscono allo Spirito Santo (la colomba,<br />
la fiamma), al Cristo (la perla, il pesce), al ministro, all’elemento e<br />
agli effetti del sacramento (la conchiglia per Giovanni che con essa<br />
battezza, l’acqua del Giordano, l’albero come simbolo di eternità<br />
e di eterna giovinezza), ai fedeli battezzati (ancora le colombe,<br />
ancora i pesci, ancora gli alberi)”.<br />
In questa vetrata domina la verticalità: l’albero sulla destra,<br />
simbolo di vita, sorgendo dal fiume Giordano, sopra la campata<br />
inferiore, sale a superare l’inizio della cuspide e allarga i suoi rami,<br />
le cui foglie sembrano confrontare il loro azzurro cupo con quello<br />
più chiaro del cielo. Al centro ella conchiglia la perla sembra<br />
incastonata nella bianca scìa luminosa che porta in alto, sotto la<br />
cuspide, alla colomba e alla fiamma. Nella campata inferiore il<br />
fiume, che ha assunto un colore più cupo e due pesci, simbolo dei<br />
battezzandi (i pisciculi). Sul dietro una luminosa, verde campagna,<br />
una lunga strada bianca che, dalla scogliera del fiume, si perde<br />
verso l’orizzonte. Anche in questa vetrata Bartolini ha conservato la<br />
sintetica durezza del suo segno.<br />
294 295
Sigfrido Bartolini<br />
Estrema unzione, 2005-2006<br />
vetro colorato e dipinto, saldature in piombo, cm 300 x 57<br />
Chiesa dell’Immacolata, <strong>Pistoia</strong><br />
“In ciascuna delle vetrate” scrive ancora Franco Cardini (2007)<br />
“concepite come valve di un polittico gotico, la campata di centro<br />
narra una storia e presenta un protagonista: la cuspide a sesto<br />
acuto, in alto, isola un simbolo appartenente allo statuto storico<br />
e simbolico protagonista della campata centrale e spesso ne<br />
costituisce la prosecuzione verso l’alto; la campata inferiore, meno<br />
ampia, isola e presenta un solo simbolo-chiave”. Questa vetrata<br />
fa parte delle sette dedicate alle Opere di Carità. La parte centrale<br />
rappresenta un interno che si apre a cannocchiale: un soffitto e un<br />
pavimento in mattoni; contro la parete di fondo, sulla quale una<br />
grande croce nera diffonde raggi neri verso una figura femminile,<br />
con gli occhi chiusi, chiaramente in attesa della morte, sdraiata su<br />
un letto sotto una coperta a righe gialle e verdi. In basso, in primo<br />
piano sopra la campata inferiore, due splendidi pavoni azzurri<br />
incrociano le loro grandi code coperte di piume decorate di occhi<br />
gialli e blu e simboleggiano la resurrezione. In alto, nella cuspide,<br />
rami di olivo carichi di frutti, contro il cielo azzurro, parlano di<br />
pace e del balsamo, l’olio che, nella campata inferiore è contenuto<br />
nell’ ampolla di cui si servirà la mano del sacerdote per liberare la<br />
morente dai suoi peccati. È forse, malgrado il tema, la vetrata più<br />
serena e, a mio avviso, più raffinata. Sembra anche prefigurare,<br />
per Bartolini, una propria, serena, conquistata pace finale. Morirà<br />
l’anno successivo.<br />
296 297
CHIESA DI SAN PAOLO<br />
PISTOIA<br />
Umberto Buscioni<br />
299
Umberto Buscioni<br />
La caduta di Saulo, 1989<br />
bozzetto per la vetrata della chiesa di San Paolo a <strong>Pistoia</strong><br />
tecnica mista su carta<br />
Il bozzetto è preparatorio per la bella vetrata, 1989-1991 (La<br />
vetrata absidale della chiesa di San Paolo e progetti per le vetrate del<br />
rosone e delle monofore laterali di Umberto Buscioni (1989-1991),<br />
<strong>Pistoia</strong> 1992). Dalla cuspide trilobata, una delle numerose<br />
realizzate, l’artista porta avanti una delle linee della sua pittura<br />
che parte da suggestioni rinascimentali e barocche (anche di<br />
scuola veneziana) che vede figure, soprattutto di angeli, che<br />
si muovono in uno spazio sospeso, un cielo segnato, qui, da<br />
lievi nubi lattiginose. In questa è la mano del Signore, il cui<br />
volto appare in alto a destra, sotto la cuspide, che scende verso<br />
la figura del santo caduto da cavallo e che piegato a terra, si<br />
copre gli occhi, folgorato dalla apparizione. La raffigurazione è<br />
disposta tutta lungo la parte destra della vetrata, scendendo dalla<br />
cuspide, coperta di nubi colorate, in un dinamico avvolgimento<br />
verso il basso, nei colori caratteristici di Buscioni (rosa chiaro,<br />
rosa violaceo con qualche tocco di verde, beige chiaro), cosicché<br />
la vetrata si anima solo verticalmente da questo lato, lasciando<br />
l’altro quasi completamente libero, in un cielo chiarissimo, fatto<br />
solo di luce. Se non si osservano i particolari si può pensare<br />
che l’immagine rappresenti soltanto una fresca caduta di<br />
fiori raffigurata in un vaso di Tiffany o di Gallé. Di prossima<br />
realizzazione, ancora con il sostegno della Fondazione, quattro<br />
nuove vetrate a completare il ciclo, iniziato nei primi anni<br />
Novanta.<br />
300 301
PALAZZO DE’ ROSSI<br />
PISTOIA<br />
Sol Lewitt<br />
303
Sol Lewitt<br />
Wall drawing # 1121, 2004<br />
“seven bands in seven colors on a ceiling acrilyc paint on white<br />
ceiling”, cm 511 x 278<br />
soffitto di una sala della sede della Fondazione Cassa di<br />
Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia in via De’ Rossi, <strong>Pistoia</strong><br />
Ho davanti la riproduzione di questa opera di Sol Lewitt,<br />
una sua caratteristica operazione sullo spazio, che da piatto<br />
si trasforma in tridimensionale, attraverso la successione, gli<br />
incroci, la sovrammissione delle linee di colore diverso che<br />
percorrono questo soffitto.<br />
Accanto a questa riproduzione ho quella di un piccolo lavoro di<br />
Fernando Melani del ’57. E mi rendo conto di quanto queste<br />
due esperienze si avvicinino, al di là delle dimensioni e dei<br />
tempi in cui sono state realizzate. Che significato può avere una<br />
coincidenza simile, scaturita da esperienze diverse per tempo e<br />
per luogo ?<br />
Da parte di Melani significa, penso, come ho accennato anche<br />
nel suo profilo, che egli, nel suo lavoro di continua, aperta, libera<br />
ricerca, ha anticipato molte esperienze artistiche a lui successive,<br />
dall’Arte Povera al Concettualismo.<br />
Per quanto riguarda Sol Lewitt questo lavoro fa parte della sua<br />
felice, continua analisi dello spazio. Si pensi anche al bel lavoro<br />
di cui si dirà, sulla parete di entrata al Nuovo Padiglione di<br />
Emodialisi a <strong>Pistoia</strong>.<br />
304 305
306 307
NUOVO PADIGLIONE DI EMODIALISI<br />
PISTOIA<br />
Robert Morris<br />
Dani Karavan<br />
Hidetoshi Nagasawa<br />
Gianni Ruffi<br />
Sol Lewitt<br />
Claudio Parmiggiani<br />
Daniel Buren<br />
309
Il Padiglione, realizzato dall’architetto Gianni Vannetti, è nato intenzionalmente<br />
come struttura ospedaliera allo scopo di proporsi come strumento di<br />
‘umanizzazione’ dello spazio, a rendere i tempi di permanenza dei pazienti e<br />
degli operatori più ‘leggeri’ e sopportabili, affidando questo compito, comunque<br />
difficile, all’arte e agli artisti.<br />
Perciò la struttura, posta all’interno di uno spazio a verde, è molto semplice<br />
e aperta, basata su una forma ellittica percorsa a metà da un corridoio che<br />
unisce le sezioni interne, mettendo in rapporto, attraverso lunghe vetrate,<br />
la zona operativa con quella occupata da installazioni artistiche legate alla<br />
natura, che vengono così a far parte della missione quotidiana dell’ospedale<br />
come assidua presenza, a suggerire sensazioni di pace e di speranza nella vita<br />
e nella sua continua forza di rinnovamento.<br />
310 311
Robert Morris<br />
Kansas City, Missouri, USA, 1931; vive a Gardiner, New York<br />
Negli anni Sessanta, dopo il suo trasferimento a New York, elabora una ricerca<br />
di carattere latamente new-dada (fuori comunque dal contesto rappresentato<br />
negli Stati <strong>Un</strong>iti da Rauschenberg e Johns), semmai più vicino ideologicamente<br />
alla posizione in Europa di Klein e Manzoni (Metered Bulb, 1963,<br />
uno strano oggetto da usare, una lampadina elettrica e un contatore funzionanti;<br />
una scatoletta con un magnetofono che riproduceva i suoni legati alla<br />
sua costruzione…) per passare poi – dopo avere studiato storia dell’arte allo<br />
Hunter College ed essersi dedicato al teatro e alla danza di avanguardia – alla<br />
realizzazione di poliedri geometrici semplici, secondo le regole dell’“ABC”<br />
di quella sarà definita Minimal Art. Per Morris, peraltro, si trattava di proporre<br />
oggetti privi di relazioni interne, cioè “ottusi”, “opachi”, non significanti<br />
per se stessi (oggetti che, in realtà, per la loro trasparenza, la loro “bellezza”,<br />
malgrado l’intenzione dell’artista, mettevano comunque in crisi la ipotetica<br />
“durezza e opacità” del Minimalismo). Nel 1966 partecipava alla mostra<br />
“Primaries Structures” al Jewish Museum di New York. Diventerà poi uno<br />
dei più grandi teorici della Conceptual Arte (si vedano i suoi scritti su “Art<br />
Forum”).<br />
Dal ’67 Morris affrontava anche su base teorica il tema dell’“anti form” nei<br />
suoi straordinari lavori in strisce di feltro appesi, ricadenti morbidamente secondo<br />
la forza di gravità. Con questi lavori Morris intende evidenziare il suo<br />
passaggio alle forme di natura a “impronta tecnologica”.<br />
Dalla fine degli anni Settanta le opere di Morris si presentano come grandi<br />
strutture geometrico-architettoniche di fortissimo impatto: si pensi alla sua<br />
prima installazione ambientale in Olanda ad Oostelijk e ai suoi Blind Time<br />
Drawings, al Labirinto a Santomato, disposto in lieve pendio, carico di rimandi<br />
simbolici e mitici alla tradizione architettonica toscana, il marmo a righe bianche<br />
e verdi di Prato, al Battistero di Firenze. Riporto, a questo proposito, le<br />
parole di Robert Hobbs: “… mentre il battistero è una struttura centralizzata<br />
che celebra l’immersione simbolica degli esseri umani in un regno spirituale,<br />
l’opera di Morris comunica un senso di frammentazione e sconvolgimento”,<br />
Arte ambientale: la Collezione Gori nella Fattoria di Celle, Torino 1993. Il lavoro<br />
di Morris prosegue in un continuo, sensibile approfondimento, spesso anche<br />
molto variato e divaricato, dei suoi grandi temi, quasi decantato, in opere<br />
sempre più essenziali. In Italia ha realizzato opere ambientali a <strong>Pistoia</strong>, a Prato<br />
(in Duomo 2001), nel chiostro di San Domenico a Reggio Emilia, 2004.<br />
È del 1994 la sua antologica al Guggenheim Museum di New York, portata<br />
poi al Deichtorhallen di Amburgo e al Centre Pompidou di Parigi.<br />
312<br />
313
Robert Morris<br />
The Gate, 2005<br />
installazione in acciaio corten e glicine, m 5,60 x 8,60<br />
Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />
Il grande arco formato da una serie fili di acciaio corten piegati<br />
ad arco, sul quale si arrampica una pianta di glicine, sembra<br />
rispondere in pieno al concetto di verde come elemento<br />
terapeutico. Si riporta anche, in certo senso, al grande Arco di<br />
Kenzo Tange di Hiroshima, ispirato, oltre che al significato di<br />
attaccamento alla vita, alla aspirazione del mondo alla pace.<br />
Questo di Morris è infatti un cancello aperto dedicato al valore<br />
della vita che non può essere disgiunto da quello della pace.<br />
314 315
Dani Karavan<br />
Tel Aviv, Israele, 1930; vive tra Parigi e Tel Aviv<br />
A Firenze dal 1955 frequenta l’Accademia di Belle Arti dove studia la tecnica<br />
dell’affresco. Nel ’60 collabora, realizzando scenografie, soprattutto con Martha<br />
Graham e con il suo Balletto in Israele e a New York. In Italia lavora al Festival<br />
di Spoleto con Giancarlo Menotti e, a Firenze col Maggio Musicale Fiorentino.<br />
Tornato in Israele ritrova il rapporto con la sua terra; realizza allora uno dei suoi<br />
interventi di grande forza ambientale ed evocativa nel deserto Beer Sheva, il<br />
Monumento del Negev, 1963-’68, in onore della Brigata Palmach che nel 1947 si<br />
oppose all’invasione di Faruk, sobillato dall’Inghilterra, contro gli insediamenti<br />
ebraici e i kibuzim. Il monumento, in cemento, quasi una grande fortificazione<br />
emergente dal deserto, gioca con gli elementi naturali, acqua, luce solare, sabbia,<br />
calore, vapore, vento. “Quest’ultimo, nell’attraversare gli antri dell’opera,<br />
emette sibili paragonabili a urla umane” (G. Gori, Dani Karavan, una vita ‘Site<br />
Specific’, <strong>Pistoia</strong> 2008). Da questo momento Karavan imposterà il suo lavoro secondo<br />
un impegno sociale rivolto al concetto di pace e al riconoscimento dei<br />
diritti umani. Del ’76 è l’Ambiente per la pace presentato alla 38a Biennale di<br />
Venezia, un grande quadrato composto di nove blocchi di cemento quadrati,<br />
ciascuno di cm 180 x 180, separati tra loro da passaggi rettilinei. “Questo padiglione”<br />
vi si leggeva “lo dedico alla pace. Alla pace tra gli israeliani e gli arabi.<br />
Perché regni la pace sulle dune bianche sulle quali siamo cresciuti insieme.<br />
Perché mai più si anneriscano del nostro sangue”. Nel ’78, in una mostra che<br />
coinvolgeva Firenze e Prato, Karavan univa idealmente con raggi laser Forte<br />
Belvedere con la Cupola del Brunelleschi. Del 1980 è il suo progetto a Cergy-<br />
Pontoise presso Parigi (l’Axe Majeur, per cui lavora per oltre venti anni). Il lavoro,<br />
che non può ormai più definirsi archiscultoreo assume valenza urbana, si<br />
estende per oltre tre chilometri, scavalca il fiume Oise creando, nei due punti di<br />
convergenza, una torre belvedere alta trenta metri posta in mezzo a una piazza,<br />
circondata da un edificio semicircolare creato dall’architetto Ricardo Bofill. Questa<br />
torre, pendente verso Parigi, è stata progettata per assumere anche funzioni<br />
astronomiche. Le due grandi costruzioni sono unite da una linea centrale (l’Axe)<br />
che coinvolge frutteti e giardini circostanti. Altre quattro grandi colonne che ne<br />
coprono ciascuna altre due, fanno da quinta a una fontana che emette vapore<br />
creando una viva scenografia. Con questa realizzazione Karavan è riuscito a riqualificare<br />
l’impianto urbanistico della città satellite Cergy-Pontoise, che fino a<br />
quel momento era rimasta priva di spazi aggreganti. Non si può tralasciare La<br />
Via dei diritti umani (1993), realizzata a Norimberga, inserita nel tessuto urbano<br />
della città dalla quale nel 1935, furono emanate le leggi razziali di Hitler a causa<br />
delle quali furono massacrati sei milioni di ebrei (ma che, nel ’45-’46 ospitò anche<br />
i noti processi contro i criminali nazisti), questa grande strada passa accanto<br />
al Germanisches Nationalmuseum e ad altri musei è stata chiusa da Karavan<br />
da due porte monumentali alle due estremità: il passaggio, solo pedonale, è costeggiato<br />
da ventinove colonne alte nove metri, interrotte, in un sol punto, da<br />
un grande cedro del Libano. In ognuna delle colonne, in tutte le lingue è inciso<br />
uno dei trenta articoli emanati il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale<br />
delle Nazioni <strong>Un</strong>ite. Ha partecipato alla Biennale di Venezia (’76) a Documenta<br />
Kassel (’78). È presente nei principali musei in Europa e in Giappone. È, da<br />
sempre, molto legato alla Toscana, dove ha realizzato grandi lavori ambientali a<br />
Santomato, al Parco della Padula (2002) a Carrara; opere temporanee a Firenze<br />
(Piazza Signoria), a Prato (Museo Pecci), a <strong>Pistoia</strong> (Piazza del Duomo).<br />
316<br />
317
Dani Karavan<br />
Cabane de Paix, 2005<br />
struttura in legno, specchio, marmo bianco di Carrara<br />
m 2,90 x 2,90; h m 5,70<br />
Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />
Il lavoro (una struttura a forma di gazebo), si riferisce<br />
spiritualmente e simbolicamente alla chiesa del<br />
Carmine, davanti all’ospedale, ispirandosi, nel grande<br />
puntale dorato della capanna, alla cuspide del campanile.<br />
Immerso nel verde, porta nel suo interno una base<br />
quadrata in marmo bianco che supporta, in posizione<br />
virata di quarantacinque gradi, un gruppo marmoreo<br />
costituito da un tavolo che reca incisa sul bordo la frase<br />
augurale di Rita Levi Montalcini “Speranza, serenità,<br />
coraggio le doti vincenti” e quattro sedie anch’esse in<br />
marmo. Al centro del tavolo un albero. Il tema è quello<br />
dell’incontro e del dialogo, della partecipazione alla<br />
condivisione del dolore in una offerta di amore e di<br />
ascolto, tramite anche la natura.<br />
318 319
Hidetoshi Nagasawa<br />
Manciuria 1940; vive a Milano<br />
Di genitori giapponesi, lasciata la Manciuria occupata dal Giappone, si laurea<br />
in Architettura e Progettazione d’Interni a Tokyo; maestro di Judo (vien da<br />
pensare ad una ricerca improntata allo stesso spiritualismo astratto di Yves<br />
Klein); collabora inizialmente col gruppo di avanguardia Gutay. Nel ‘66 parte<br />
attraversando diciassette paesi per arrivare in Italia nel ’67 (a piedi, in bicicletta,<br />
in canoa); a Milano nel ’68 impostava subito il suo lavoro su un sottile<br />
discrimine in bilico tra la cultura metafisica orientale e la cultura occidentale<br />
della forma: a partire dai suoi interventi minimi sugli oggetti, volti alla dilatazione<br />
e alla concatenazione logica del pensiero, tendeva a cambiare l’aspetto<br />
della materia attraverso un gesto personale.<br />
Del ’71-’72 sono Viaggio (la parola “viaggio” scritta con inchiostro di china<br />
lascia macchie diverse su carte di diverso formato), Isola (la fusione in bronzo<br />
di una vasca in cera calda dalla quale aveva tirato via con la mano quanta più<br />
cera possibile), <strong>Un</strong> Sasso (un sasso in marmo che al suo interno nasconde un<br />
vero sasso della stessa forma). Con Piroga (’73, una piroga trattata col fuoco<br />
secondo un procedimento in uso in oriente da 35.000 anni) aveva inizio il<br />
tema della barca, che tornerà spesso nel suo lavoro. Nella casa della sua infanzia<br />
“c’era sempre una barca appesa al soffitto, pronta in caso di alluvione”<br />
Jole De Sanna, Nagasawa, Milano 1985. Ed ecco Barca del 1981 ottenuta<br />
stringendo tra le dita un pugno di argilla (poi ingrandito nella versione in<br />
marmo) all’interno della quale cresce un piccolo salice piangente; ed ecco<br />
anche la splendida barca in travertino bianco di uno dei tre giardini realizzati<br />
nell’ospedale di <strong>Pistoia</strong>, che vorrei vedere in uno spazio più dilatato che ne<br />
rimandi con più efficacia la grande forza evocativa e la sensibilità che la distinguono.<br />
Da più di dieci anni Nagasawa affronta il tema del giardino zen inteso secondo<br />
il credo orientale come luogo di culto e di meditazione.<br />
Solo in Italia ne ha realizzati diversi (a Tortolì, ’97, a Brisighella, 2000, a Certaldo,<br />
2001, a Villa La Màgia, Quarrata, 2006).<br />
Ha partecipato a varie rassegne internazionali e nazionali (Biennale di Venezia,<br />
’72, ’76, ’82, ’88, ’93, qui con una sala personale; Documenta Kassel ’92).<br />
Nel 1976 è stato tra i fondatori della “Casa degli Artisti” a Milano.<br />
320<br />
321
Hidetoshi Nagasawa<br />
Tre giardini, 2005<br />
muschio, pietra, marmo travertino<br />
uno m 2,30 x 28,30, due m 7,40 x 4,70<br />
Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />
I tre giardini, disposti presso il Padiglione di Emodialisi a<br />
<strong>Pistoia</strong>, a contatto visivo con gli spazi dell’ospedale attraverso<br />
le vetrate dei corridoi di accesso, sembra ne vogliano costituire<br />
il fulcro vitale attraverso la natura come fonte di speranza:<br />
il primo, composto di muschio e sassi, scelti direttamente a<br />
<strong>Pistoia</strong> dall’artista, è racchiuso in una sorta di serra-vetrata; il<br />
secondo, che si estende tra le due parti esterne del corridoio<br />
suggerendo una sorta di fiume (in muschio) sulle cui due sponde<br />
si appoggiano sette piccoli ponti in marmi diversi, si pone come<br />
il fulcro di unione fra i tre giardini; il terzo contiene la barca<br />
in travertino nella quale cresce un albero, simbolo fortemente<br />
emotivo del percorso della vita. È quello che avrebbe forse<br />
bisogno, per essere giustamente goduto, di maggior respiro.<br />
Esprimono tutti un sottile e intenso afflato emotivo e spirituale.<br />
Sono tra i lavori che rispondono maggiormente alle intenzionalità<br />
di coinvolgere i pazienti in una contemplazione quasi mistica<br />
che miri a distrarre la loro attenzione dalla propria condizione<br />
verso sensazioni consolatorie.<br />
322 323
Gianni Ruffi<br />
Lunatica, 2005<br />
cemento bianco, lunghezza m 18<br />
Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />
In mezzo al verde, nella parte esterna del Padiglione, a giardino,<br />
questa leggera, bianca panchina fuori scala per la lunghezza,<br />
formata da due falci di luna sovrapposte e sfalzate a creare una<br />
seduta e un dorsale, mentre rappresenta in pieno l’intenzionalità<br />
consueta dell’artista, sempre impostata su un’ironia garbata,<br />
diretta, quasi giocosa, contribuisce, assieme soprattutto ai lavori<br />
di Sol Lewitt e di Nagasawa, a creare un clima di tranquillità e di<br />
speranza; quello che si richiede a un ospedale, oggi.<br />
324<br />
325
Sol Lewitt<br />
Hartford, Connecticut, USA, 1928 – New York, 2007<br />
Sol Lewitt scriveva: “Farò riferimento al genere d’arte in cui sono coinvolto<br />
come arte concettuale. Nell’arte concettuale l’idea o il concetto è l’aspetto<br />
più importante del lavoro. Quando un artista utilizza una forma concettuale di<br />
arte, vuol dire che tutta la programmazione e le decisioni sono stabilite in anticipo<br />
e l’esecuzione è una faccenda meccanica. L’idea diventa una macchina<br />
che crea l’arte” (Paragraphs of Conceptual Art, in “Artforum”, giugno 1967).<br />
In realtà il suo lavoro si è sempre organizzato sul rapporto tra Concettualismo<br />
e Processualità, e si sviluppa cioè tra Concettualismo e Minimalismo. Le sue<br />
opere si sono sempre basate sulla modulazione e sulla progressione di segni<br />
elementari, sul quadrato che, in sviluppi successivi, si trasforma in struttura<br />
aperta o chiusa, secondo possibilità combinatorie basate, come scrive Germano<br />
Celant sulla relazione tra “logica concettuale e logica spaziale” (Inespressionismo.<br />
L’arte oltre il contemporaneo, Genova 1988). Ha realizzato lavori<br />
a parete, nei quali la parete diventa supporto della strutturazione logica dei<br />
segni.<br />
Dal ’75, oltre a linee spezzate o diagonali, usa nel suo lavoro, in nero o a colori,<br />
figure geometriche come il cerchio, il triangolo, il trapezio, che provocano,<br />
pur nel rigore dell’esecuzione dell’opera, una gamma infinita di variazioni dinamiche.<br />
Oppure i suoi segni si organizzano in combinazioni angolari e radiali<br />
secondo rapporti di colore di una purezza quasi metafisica.<br />
Anche il lavoro che ha realizzato sulla parete di entrata del Padiglione di<br />
Emodialisi di <strong>Pistoia</strong> si organizza, nella tessitura dei colori, secondo una dinamica<br />
straordinariamente felice, trasformandosi in una sorta di attrazione<br />
magica che incanta e che sollecita animazione e vitalità ma che sembra anche<br />
volersi riferire al flusso continuo del sangue che rappresenta la vita.<br />
Sol Lewitt è sempre stato legato all’Italia dove ha avuto, a Spoleto, la sua<br />
residenza italiana.<br />
326<br />
327
Sol Lewitt<br />
Wall Drawing # 1155 – Whirls and twirls, 2002-2005<br />
colore acrilico su intonaco, m 3,50 x 3,89<br />
Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />
<strong>Un</strong>o stupendo murale sulla parete di ingresso del Padiglione,<br />
svolto secondo una dinamica circolare e ciclica successione di<br />
linee curve che salgono e scendono in continuazione, composte<br />
di tasselli di colori che si alternano (rosso, verde, blu, viola),<br />
che sembra alludere al flusso continuo del sangue, regolato dal<br />
battito del cuore, a sollecitare speranza in una continua rinascita.<br />
Forse questo lavoro, con quelli di Nagasawa e di Ruffi, è uno di<br />
quelli che, al di là del significato artistico, risponde in maniera<br />
più diretta alle intenzioni di sollecitare e sollevare lo spirito dei<br />
pazienti.<br />
328 329
Claudio Parmiggiani<br />
Luzzara, Reggio Emilia, 1943; vive a Bologna<br />
Maurizio Calvesi ha definito il lavoro di Parmiggiani “di segno alchemico”<br />
(Parmiggiani e la Post-avanguardia). Ha lavorato a lungo, infatti, attorno alla<br />
storia della pittura, percorsa dall’“oro filosofale” che è, in certo senso, la sua<br />
“materia prima”. Ha spesso lavorato su opere antiche, scomponendole, studiandole<br />
secondo sottili riflessioni filosofiche, concettuali, poetiche. Si pensi<br />
a La visione di Santa Godula di un maestro fiammingo, sulla quale, nel ’78, ha<br />
introdotto l’elemento tempo, facendo muovere, fotograficamente, una piccola<br />
nave, spostandola nel tempo del suo viaggio; su una tela di Mondrian<br />
ha sovrapposto una pianta de L’Aja, sulla quale segnava, con un quadratino<br />
azzurro, la pianta del museo nel quale si conserva l’opera di Mondrian.<br />
Tra i suoi lavori il Theatrum Orbis, dall’Ars Memoriae di Robert Fludd (1612),<br />
dove trasforma il teatro elisabettiano di Shakespeare (the Globe) in Teatro<br />
della pittura, in un continuo rimando ermetico, alchemico, ricco di enigmi.<br />
Nel ’70 nascono le Delocazioni. nelle quali evidenzia, servendosi anche di<br />
fuliggine, il segno lasciato sulla parete da quadri e oggetti come fossero tolti<br />
dopo una lunga dimora “in loco” – “riflessioni hegeliane e neoplatoniche” a<br />
simboleggiare il concetto delle “idee come ombra delle cose”, secondo Peter<br />
Weiermair e, allo stesso tempo giocando sul tema dell’assenza – Claudio<br />
Parmiggiani, cat. mostra, Bologna 2003. Nel ’77 riuniva in un prezioso libretto<br />
Tavole Teatri Riti molti suoi progetti, dal ’65 al ’77. Seguono Giordano Bruno<br />
(’77, un quadro bianco alla parete, alla sua base un blocco di marmo nero),<br />
Proiezione (’78, un quadro dorato davanti al quale pende l’uovo di Piero: a<br />
terra un blocco di marmo blu). Del ’76 è Annunciazione, un’opera di grande<br />
suggestione emotiva e poetica (due lastre in rame, una delle quali a specchio,<br />
l’una di fronte all’altra; sul retro una grande vetrata spartita in quadrati).<br />
Del ’75 è <strong>Un</strong>a scultura, un’opera in quattro parti, disposte secondo ipotetici<br />
punti cardinali (in Italia, in Egitto, in Francia, in Cecoslovacchia), quindi impossibile<br />
da vedersi nella sua totalità.<br />
Tra i suoi lavori permanenti nel paesaggio Il bosco guarda e ascolta nel parco<br />
di Pourtalés a Strasburgo (1990), Il Faro d’Islanda (una luce permanente in<br />
un luogo desertico in Islanda), Melancolia II, realizzato con Robert Morris nel<br />
parco di Santomato (2002).<br />
Tra i suoi scritti anche Sangue, Stelle, Spirito (2000).<br />
Presente con una personale alla Biennale di Venezia (’92), nel Musée d’Art<br />
Moderne et Contemporain a Ginevra (’95), alla Promotrice di Belle Arti di<br />
Torino (’99) e la grande antologica a Palazzo Fabroni a <strong>Pistoia</strong> nel 2008.<br />
330 331
Claudio Parmiggiani<br />
<strong>Un</strong> mosaico per un ospedale, 2005<br />
pavimento, area mq 96<br />
Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />
<strong>Un</strong>o splendido mosaico a costituire il pavimento che,<br />
dall’ingresso del Padiglione, ne percorre tutto il corridoio<br />
centrale, nel quale l’artista ha riprodotto, sempre secondo il suo<br />
“segno alchemico” ed ermetico, le tredici tavole di un antico<br />
atlante tedesco. Vi è rappresentato il cielo notturno coi suoi segni<br />
zodiacali, coi suoi misteri, le sue figure mitologiche astrali il cui<br />
profilo è delineato da un segno bianco, costituito dal susseguirsi<br />
di singole tessere bianche sul fondo nero, a creare un fitto e<br />
avvolgente intreccio di immagini di dei e di animali magici, in<br />
una fitta rete, che rende il pavimento, mentre viene percorso, un<br />
continuo stimolo di sensazioni emotive complesse.<br />
332 333
Daniel Buren<br />
Boulogne-Billancourt, Parigi, 1938; vive a Parigi<br />
Ha studiato a Parigi. Lavora sempre, come dice, “in situ”, cioè secondo situazioni<br />
e luoghi diversi, in rapporto alla sua intenzionalità rivolta all’analisi critica delle<br />
strutture della società (quelle soprattutto coinvolte nel sistema borghese dell’arte,<br />
secondo il suo intento di carattere socio-politico). Ha ridotto la sua tecnica<br />
artistica a un minimalismo assoluto, tendendo ad interventi “anonimi” (e comunque<br />
riconoscibilissimi, righe verticali parallele, in bianco e un colore su stoffa da<br />
tende, tecnica che ha esteso anche ai suoi lavori a parete, interni ed esterni, come<br />
nella Biennale del 1986). Dal 1980 lavora realizzando installazioni architettoniche<br />
permanenti in spazi pubblici perché per lui l’architettura vuol dire “contesto<br />
sociale, politico, economico” ed è supporto di qualsiasi opera, che ne qualifica o<br />
ne accentua le qualità (<strong>Un</strong>a ragnatela, Samanedizioni, Genova 1975). Per citarne<br />
qualcuna, ad esempio, in una piazza di Lione, appesantita da una grande fontana<br />
di carattere tardo-barocco, ha creato un ambiente vitale e attuale, spartendo in<br />
quadrati la piazza, facendo uscire dal centro di ogni quadrato uno zampillo che di<br />
notte si illumina e si colora, disponendo le sue “righe” lungo le pareti degli edifici,<br />
modificando la qualità architettonica del luogo, trasformandolo in una zona di<br />
sosta, di gioco per bambini e animali, percorso, comunque, come luogo pubblico.<br />
Ha anche realizzato l’installazione Les deux plateaux presso il Palais Royal a Parigi.<br />
Ha sempre cercato di rivelare i rapporti tra l’opera d’arte e l’ambiente, dal museo,<br />
alla galleria, alla città. “L’opera, l’oggetto artistico” ha scritto “non esiste e non<br />
può esser vista in funzione del Museo/Galleria che la contiene, Museo/Galleria<br />
in vista dei quali è stata fatta e alla quale tuttavia non si presta nessuna attenzione<br />
particolare […] Fuori di questo contesto, preteso neutro perché non ci si pensa,<br />
(contesto) fuori tempo, fuori limiti, sia pure considerato puro e neutro (l’oggetto<br />
d’arte) si affossa” (Limites critiques, Parigi 1970). Nel ’71 realizzava perciò una delle<br />
sue più straordinarie installazioni nel Museo Guggenhein, a New York, spaccandone<br />
praticamente lo spazio architettonico, tagliandolo, verticalmente, con<br />
una sua enorme tela a righe verticali, una sorta di grande vessillo inteso a gridare<br />
la sua idea di libertà. “Solo la conoscenza di questi quadri/limiti successivi e la<br />
loro importanza può permettere all’opera/prodotto, così come noi la conosciamo,<br />
di porsi in rapporto con questi limiti, e di seguito, svelarli”. “L’arte” aggiungeva<br />
“qualunque cosa sia, è esclusivamente politica, Si impone dunque l’ analisi dei<br />
diritti formali e culturali (e non l’ uno o l’ altro) all’interno dei quali l’arte esiste e<br />
si agita. Questi limiti sono molteplici e di intensità diverse. Benché l’ideologia sia<br />
dominante e gli artisti uniti insieme tentino in ogni modo di camuffarli, e benché<br />
sia troppo presto per farli saltare – non concordando le condizioni, è giunto il<br />
momento di svelarli... <strong>Un</strong>a galleria non è solo sala espositiva, ma luogo di contrattazione<br />
economica” (<strong>Un</strong>a ragnatela, cit).<br />
334 335
Daniel Buren<br />
4 porte in vetro 6 divisori della sala dialisi, 2005<br />
acciaio e vetro, applicazioni di vinile<br />
ciascuno dei sei elementi m 2 x 2,50 x 26<br />
Nuovo Padiglione di Emodialisi, <strong>Pistoia</strong><br />
I sei divisori, di colore diverso, tra le due pareti vetrate dei quali si<br />
inserisce la luce, sono spartiti, come tutti i lavori di Buren, da linee<br />
verticali monocolore. Peraltro, tra le righe, si inserisce, decentrato,<br />
un cerchio del colore delle righe stesse. Le quattro porte sono<br />
invece monocrome. Ne emana una percezione di colore-luce che<br />
rende l’ambiente gradevole, a trasmettere un senso di vita e di<br />
speranza, teso soprattutto a distrarre il malato dal pensiero fisso<br />
del suo male. Scrive Buren in proposito: “Accettare di fare un<br />
lavoro d’arte visiva per un ospedale è – fatto rarissimo per quel<br />
che mi riguarda – accettare che l’opera prodotta possa rispondere<br />
a priori a una funzione. Ha poi l’ammissione che questa funzione<br />
ha lo scopo di portare una certa serenità a chi vedrà le opere<br />
durante il trattamento di dialisi. È quindi la pretesa che l’arte<br />
possa possedere questa qualità! È sperare che questa condizione<br />
esiste, che qualcuno attingendo alle opere durante le ore in<br />
cui è dializzato possa ricavarne un certo conforto. È soprattutto<br />
sperare che l’opera non porterà ulteriore disagio in questo luogo.<br />
È sperare che senza distrarre, l’arte possa apportare quiete. È<br />
sperare che l’arte possa tentare di togliere un po’ di sofferenza<br />
dalla sofferenza”. Questo pensiero di Buren sembra esprimere<br />
l’essenza di tutti i problemi che sorgono di fronte al proposito di<br />
“umanizzare”, come ora si dice, gli ospedali...<br />
336 337
BIBLIOTECA SAN GIORGIO<br />
PISTOIA<br />
Anselm Kiefer<br />
339
Anselm Kiefer<br />
Donaneschingen, Germania, 1945; vive a Carjac, Francia<br />
Agli inizi degli anni Sessanta, nella Germania Occidentale (Berlino, Düsseldorf),<br />
si formava una nuova generazione di artisti intesi a costruirsi una<br />
nuova identità. A Düsseldorf Joseph Beuys, col suo insegnamento all’Accademia<br />
di Belle Arti, con la sua dura, prepotente eppure umanissima forza<br />
provocatoria, col suo rapportarsi all’uso straniante di materiali inconsueti,<br />
ai quali egli attribuiva qualità che lo interessavano personalmente (feltro,<br />
cera, grasso…), con la sua interiorità senza riferimenti ed effetti mediatici,<br />
contribuiva alla formazione di una nuova corrente artistica. Seguivano le<br />
sue lezioni Gerhard Richter, Sigmar Polke, Per Kirkeby e anche, dal ’70,<br />
per un certo periodo, Anselm Kiefer.<br />
Da giurisprudenza Kiefer era passato, infatti, dal ’66, allo studio della pittura.<br />
Iniziava allora una sua particolare, profonda analisi della storia della<br />
Germania, storia di cui si è sempre sentito, in certo modo, erede e vittima,<br />
come quando, tra i suoi straordinari “libri d’artista” – per i quali ha usato i<br />
materiali più diversi, fotografia, elementi vegetali, acquerello, capelli umani<br />
– realizzava Für Genet (1969) usando, con lucida e critica provocazione,<br />
la sua fotografia col braccio teso nel saluto romano-hitleriano, a evocare catarticamente,<br />
il momento più tragico della storia contemporanea tedesca.<br />
Cosa che, per molto tempo, sollecitava intorno a lui un ottuso sospetto di<br />
nostalgico nazionalismo.<br />
Dopo il ’91, quando le due Germanie si sono riunite, Kiefer ha lasciato la<br />
Germania. Stabilitosi in Francia ha iniziato una nuova fase del suo lavoro,<br />
più aperta e meno conflittuale, di straordinario respiro.<br />
Egli è riuscito, con la sua carica di creatività, la sua profondità culturale, la<br />
sua forza espressiva, a riportare in pittura il romanticismo letterario di Novalis,<br />
tendendo a evidenziare le forze naturali che si compongono nella tensione<br />
che la sua pittura mette a nudo per mezzo di una materia densa, ricca<br />
di variazioni infinite di segni, nella ricchezza e diversità dei materiali.<br />
I suoi grandi lavori, carichi di complessità, producono nell’osservatore una<br />
sorta di fascinazione quasi ipnotizzante, quella che poche opere contemporanee<br />
esercitano, convergendolo in una complessità di sensi quasi magica.<br />
Il divario tra i temi trattati e i colori usati sembra voler simboleggiare la<br />
problematica della storia tedesca.<br />
“Kiefer” scriveva Sigfried Gohr (“Flash Art” n. 107, marzo 1982) “rende<br />
giustizia al colore nella sua materialità; la distanza che lo separa dal contenuto<br />
accusa il suo impatto sensibile. Riporta la pittura a se stessa, come<br />
Baselitz ha fatto nella sua opera così strettamente intesa, ma preserva la<br />
portata simbolica immediata delle cose, una dimensione di cui Beuys ha<br />
spesso esplorato la magia”. Kiefer è un artista contemporaneo ma, a mio<br />
avviso, proprio perché è così intensamente dentro i temi della contemporaneità,<br />
la supera per porsi, veramente tra i pochi, fuori dal tempo, annullandone<br />
le distanze e le diversità.<br />
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342 343
Anselm Kiefer<br />
Die grosse Fracht, 2006-2007<br />
colore acrilico, emulsione, ruggine, argilla, piombo fuso su tela, nave e libri in<br />
piombo, cm 460 x 690<br />
Biblioteca Centrale San Giorgio, <strong>Pistoia</strong><br />
Il fascino che questo grande quadro esercita su chi gli sta davanti è la sua prima,<br />
grande qualità. E questo è dovuto, oltre che alla sua immediata capacità di<br />
coinvolgimento, alla sua innegabile profondità di evocazione: non si può non cogliere<br />
quanto riesca a farci immediatamente sentire il peso della memoria storica, politica,<br />
umana, non visibile ma chiaramente, ripeto, evocata, e non solo della Germania,<br />
di cui sembra voler risalire alle origini, dai Nibelunghi, ai cavalieri teutonici di<br />
Ejzenstejn nell’Aleksandr Nevskij, alla tragedia hitleriana, di cui Kiefer si sente erede<br />
e allo stesso tempo giudice implacabile.<br />
È troppo facile e semplice riferirsi al fatto che il tema del quadro, nel quale una<br />
nave trasporta, chissà dove, in salvo o alla distruzione totale, un “carico” di libri,<br />
sia collocata sulla parete di una biblioteca, come simbolo astratto di cultura.<br />
L’opera è molto di più: è circa dal ’79, infatti, che il tema del libro è presente quasi<br />
costantemente nel lavoro di Kiefer. È il tema del rapporto tra scrittura e immagine,<br />
che sembra rappresentare, nella nostra società, non a caso definita “dell’immagine”,<br />
una continua antitesi, che invece l’opera di Kiefer sembra ricomporre in un’unica<br />
realtà indissolubile, come osserva anche Omar Calabrese (Alcune osservazioni su Die<br />
grosse Fracht di Anselm Kiefer, in Anselm Kiefer, Die grosse Fracht, <strong>Pistoia</strong> 2007): il libro,<br />
come memoria della storia dell’uomo, dei suoi errori, delle sue conquiste, delle<br />
infinite calamità e delle terribili tragedie del mondo; con tutto il suo peso, ma anche<br />
col portato di tutto l’amore che colora la terra, si fa qui anche immagine: il libro, un<br />
carico terribile e meraviglioso, da conservare e salvare; un carico tremendo (il peso<br />
del piombo), ma anche espressione di una straordinaria morbidezza e flessibilità<br />
(ancora il piombo, dal colore cupo ma con un lucore segreto, morbido, prezioso)<br />
e, dopo tutte le sue apparizioni: ora in pile cosparso di rami di roso, di papaveri e<br />
girasoli secchi, ora allineato in scaffalature gigantesche o sulle ali di aerei da guerra<br />
atterrati, trova asilo su una nave (di piombo), sospesa a due sottili fili uniti al centro,<br />
in alto, a creare un triangolo a forma di vela, un filo appena visibile nel magma denso<br />
e prezioso di un mare/cielo che si tinge di bagliori rosati all’alba, dorati o argentati<br />
nel sole del mezzogiorno… Per arrivare dove? Verso un futuro di vita e di pensiero o<br />
verso un destino di morte, secondo i versi della poesia Die grosse Fracht di Ingeborg<br />
Bachmann, cui è dedicata l’opera?<br />
Il lavoro di Kiefer, dopo il ’91, dalla riunione delle due Germanie,<br />
e dopo il suo trasferimento nel sud della Francia e quasi<br />
tre anni di silenzio, si è come dilatato: i suoi rapporti con la<br />
filosofia, la storia, la letteratura, con l’arte stessa, hanno assunto<br />
una dimensione diversa, di ripensamento, di accettazione, di<br />
sintesi tra la memoria storica e un senso di liberazione. Il cielo,<br />
nei suoi quadri, occupa uno spazio maggiore o, come qui, si<br />
assimila completamente al mare; dove, nella densità cupa della<br />
materia si aprono improvvise schiarite, che qua e là squarciano e<br />
alleggeriscono la densità della materia stessa.<br />
Alla base della nave un craquelé quasi aranciato sembra alludere a<br />
un terreno bruciato.<br />
<strong>Un</strong>’opera da contemplare, o per meglio dire, da ascoltare per un<br />
tempo che sembra non possa aver mai fine. <strong>Un</strong>’opera alla quale,<br />
(come alla campana di Hemingway, cui non importa chiedere<br />
per chi suona) non devi chiedere a chi parla: essa parla a te. Non<br />
importa chiederle che cosa significa.<br />
Potresti rimanerle davanti per ore e ore: continuerà a parlarti<br />
facendo di te, sempre, l’‘eletto’.<br />
“Quando il gabbiano dietro a te stride e cade,<br />
l’ordine giunge da occidente di affondare:<br />
ma nella luce ad occhi aperti annegherai<br />
quando il gabbiano dietro di te stride e cade.”<br />
E non è questo che, da che mondo è mondo, i grandi poeti e i grandi artisti ci fanno<br />
intravedere?<br />
344 345
MUSEO MARINO MARINI<br />
PISTOIA<br />
Marino Marini<br />
347
Il Museo Marino Marini ha sede, oltre che nelle antiche sale del convento del<br />
Tau, nella chiesa ad esso adiacente, edificata nella prima metà del 1300 da Fra’<br />
Giovanni Guidotti che la donò ai Canonici Regolari di Sant’Antonio Abate e<br />
del Tau. Sconsacrata nel 1787, passò in proprietà privata e, solo recentemente,<br />
è stata destinata a ospitare alcune opere monumentali di Marini. Presso il<br />
Museo hanno sede anche la Fondazione e il Centro di Documentazione,<br />
inaugurato il 23 giugno 1979 nel Palazzo Comunale di <strong>Pistoia</strong> e qui trasferito<br />
nel 1990. Il Centro conserva, oltre alle opere del celebre artista, un nucleo<br />
bibliografico specializzato.<br />
Alla collocazione dell’opera Cavallo e cavaliere di Marino Marini sulla terrazza<br />
d’angolo all’esterno del Museo, ha contribuito la Fondazione della Cassa di<br />
Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia.<br />
348 349
Marino Marini, Cavallo e cavaliere, 1956-1957<br />
fusione realizzata e collocata nel 2001<br />
bronzo, cm 246 x 170,6 x 127<br />
Palazzo del Tau, Fondazione e Museo Marino Marini, <strong>Pistoia</strong><br />
<strong>Un</strong>o dei temi consueti di Marino Marini, portati successivamente<br />
a una sempre più tesa trasfigurazione, fino a giungere, talvolta,<br />
a quello che appare come un rifiuto reciproco tra cavallo e<br />
cavaliere: il cavallo che disarciona il cavaliere che, anche<br />
se scagliato all’indietro (come in questo caso), gli rimane,<br />
comunque, attaccato; oppure, come scriveva Giovanni<br />
Carandente (Marino Marini. Catalogo ragionato della scultura,<br />
Milano 1998) arrivando alla “loro repentina folgorazione nel<br />
Miracolo”, cioè alla fusione totale tra le due nature, umana e<br />
animale, in un unico, straordinario, gestuale slancio vitale. In<br />
quest’opera il cavallo sembra aver vinto il cavaliere, ridotto ad<br />
una sorta di tronco senza forma, riverso sul dorso scheletrito<br />
dell’animale, come in una reciproca, inesorabile congiunzione.<br />
350 351
PIAZZA AGENORE FABBRI<br />
QUARRATA<br />
Vittorio Corsini<br />
353
Vittorio Corsini<br />
Cecina, Livorno 1956; vive a Firenze<br />
Laureato in Storia dell’Arte all’<strong>Un</strong>iversità di Pisa, ha iniziato, alla metà degli<br />
anni Ottanta, dal Concettuale; non tanto secondo il concetto di “Arte come<br />
riflessione dell’idea di arte”, non sulla linea aniconica, ma su quella oggettuale,<br />
tendendo a “stabilire un ponte ideale tra l’arte e il perché fare arte” (Luigi<br />
Di Corato in Vittorio Corsini, Corpo fragile, cat. mostra, Siena 1998).<br />
Iniziava cancellando l’immagine sulla pellicola fotografica con graffi prima<br />
della stampa, con monocromi sulla tela illuminata, passando poi a lavori tridimensionali<br />
con oggetti in equilibrio instabile, con grandi disegni a grafite<br />
su intonaco contornati da chiodi in legno a creare crepe sulla parete (in certo<br />
senso togliendo al disegno la sua bidimensionalità), passando poi all’uso del<br />
vetro con il quale realizzava oggetti “inusabili” (letti, gabbie su cui ammassava<br />
grandi ampolle di vetro blu). Combinava vetro, ferro, smalto, garza (Cuore<br />
Malato, ’88), quando iniziava ad indagare sulla rappresentazione del corpo,<br />
tema della intensa e raffinatissima mostra all’ex Ospedale Psichiatrico di Siena,<br />
’88, dove inseriva antichi strumenti medici in vetro, coronando la mostra<br />
stessa con un tappeto di fiori in vetro blu). Il tema della casa diverrà in seguito<br />
una costante del suo lavoro.<br />
354 355
Vittorio Corsini, Le parole scaldano, 1999-2004<br />
acciaio, vetro, vetrofanie, acqua, m 3,40 x 6 x 5<br />
Piazza Agenore Fabbri, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />
Questo prezioso lavoro di Corsini risponde in pieno alla<br />
consueta, raffinata discrezione che lo distingue. Le sue opere<br />
non sono mai invadenti; sembrano cercare sempre di “ascoltare”<br />
e di “rispondere” mettendosi alla pari con chi interloquisce; non<br />
importa se in silenzio; basta che in qualche modo il dialogo ci sia.<br />
Già l’opera si connota nella scelta, consueta per lui,<br />
dell’immagine, la più semplice e diretta, della casa, quella col<br />
tetto spiovente che ancora i bambini disegnano, con le quattro<br />
pareti, con un’apertura rettangolare da cui vi si accede e dalla<br />
cui sommità scende una sottilissima tenda-cascata fatta di fili<br />
continui di gocce.<br />
La scelta dell’immagine della casa risale alla fine degli anni<br />
Ottanta. Si pensi a Respiro Domestico (1989); Paese (1990), in<br />
sottili fili di acciaio, le assonometrie disegnate sul pavimento<br />
coperto di segatura che i passi dei visitatori durante la mostra<br />
cancellavano; Meno 270, (2002); Interno (1991), un interno in<br />
stoffa e acciaio; Luce gialla, (1997), una casina rovesciata appesa<br />
al soffitto, dalla finestra illuminata; Casa di cura (1998) in vetro e<br />
legno; al bellissimo e intenso I have a head, del 2004, una casetta<br />
che riporta per traforo il famoso toccante discorso di Martin<br />
Luther King “I have a dream” (le parole riflesse sulle pareti, sul<br />
soffitto e sul pavimento dalla luce interna alla casa).<br />
In realtà la casina di Quarrata è una fontana disposta su una vasca<br />
pentagonale irregolare dai bordi rialzati dal piano di calpestio.<br />
Non si tratta ovviamente di un monumento per una piazza<br />
che pur essendo il perno vitale di Quarrata non è una piazza<br />
consueta, ma uno spazio moderno, rettangolare di cui la casina di<br />
Corsini occupa una zona quasi appartata. Vi sorgono il Comune,<br />
la Biblioteca Comunale, il Polo Tecnologico (l’Ufficio Progetti)<br />
ricavato nei capannoni dell’ex fabbrica di mobili Lenzi. Quella<br />
di Corsini è una casa che parla; che riporta in vetrofania, su tutti i<br />
lati e sul tetto, le frasi, i pensieri e le dichiarazioni che gli abitanti<br />
hanno depositato nelle molte cassettine disposte allo scopo in<br />
tutta la città. Sono state trascritte in bianco, fedeli anche nelle<br />
diverse espressioni calligrafiche; e sono veramente “parole che<br />
scaldano” perché rappresentano la partecipazione, la reazione, la<br />
testimonianza della gente.<br />
È un lavoro questo che, come scrive in catalogo Lorenzo Fusi,<br />
non chiede “di essere guardat(o) o ammirat(o), ma di essere<br />
vissut(o). È permeabil(e) e assorbent(e), nel senso che reagisc(e)<br />
in maniera metabolica allo scorrere del tempo e al (suo) utilizzo.<br />
Si arricchisc(e) perfino quando si tenta di profanarl(o)”.<br />
In realtà prima che vi fosse installata vicina una telecamera, uno<br />
dei vetri (infrangibile) è stato scheggiato, facendolo risplendere<br />
con mille raggi. Perciò Corsini lo ha voluto lasciare così.<br />
È una testimonianza del suo ‘vissuto’ insieme a quello della<br />
gente del luogo.<br />
356 357
VILLA LA MAGIA<br />
QUARRATA<br />
Fabrizio Corneli<br />
Anne e Patrick Poirier<br />
Marco Bagnoli<br />
Hidetoshi Nagasawa<br />
Maurizio Nannucci<br />
359
Villa La Màgia, la cui costruzione iniziale, ad opera della famiglia Panciatichi,<br />
risale al tardo Medio Evo, ampliata e trasformata nel Quattrocento in una<br />
grande e lussuosa residenza di campagna signorile, fu acquistata dal Granduca<br />
Francesco de’ Medici verso la fine del ‘500, ancora ristrutturata e ampliata<br />
nella forma esterna attuale da Bernardo Buontalenti che realizzò anche, nel<br />
suo splendido parco, un lago, di cui la sola testimonianza rimane nella lunetta<br />
di Giusto Utens, dedicata alla villa, nei primi del Seicento (Museo di Firenze<br />
com’era). Ai Medici seguirono, nella proprietà, gli Attamanti (1645). La villa<br />
fu, allora, nuovamente trasformata internamente e arricchita di opere d’arte.<br />
La sistemazione del parco si deve a Giuseppe Amati che la acquistò nel 1766;<br />
sorse allora la Limonaia di Levante. Successero poi i Cellesi (1863). Gli ultimi<br />
signori della villa sono stati i conti Amati Cellesi. La contessa Marcella,<br />
ultima della famiglia, arricchì il parco di alcune centinaia di varietà di rose,<br />
che ora circondano quasi tutte le sezioni a prato. Dal 2000 la villa è divenuta<br />
proprietà dell’Amministrazione Comunale di Quarrata che, con grande intuizione<br />
e forza culturale, ha destinato il parco a sede di mostre e installazioni di<br />
artisti contemporanei, ognuno dei quali lascia stabilmente un suo lavoro nella<br />
zona del parco che si è scelta. La cura delle mostre è stata affidata a Katalin<br />
Mollek Burmeister. Questa attività è in gran parte finanziata dalla Fondazione<br />
Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia.<br />
360 361
Fabrizio Corneli<br />
Firenze 1958; vive a Firenze e in Umbria<br />
Formatosi su studi matematici e teorici iniziava realizzando sculture basate,<br />
pur nella loro diversità, sulla formatività geometrica (Trifidi, ’81-’82; Melenas,<br />
’82; Nautilus, ’83; Mazzocchio, ’88) i cui riferimenti si riportano a Calder, Tinguély,<br />
Melotti. Passava poi a lavori basati sulla leggerezza (Separazione di gocce;<br />
Erasmo; Calvino; Regina, ’83-’84) passando poi a Alambicchi, Testa, Martiri ’85,<br />
arrivando a Grande Estruso, lavoro ottenuto per estrazioni successive di grandi<br />
lastre di ferro, quasi a evocare la crescita concentrica del tronco degli alberi<br />
che disponeva sul terreno a scalare, a telescopio creando immagini zoomorfiche.<br />
Interessato da sempre alla percezione ottica e alle sue infinite variazioni<br />
e possibilità, secondo peraltro, una linea legata al concettualismo, raggiungeva,<br />
prima evidenziando il rapporto luce-ombra a mezzo della fotografia, poi<br />
con l’uso dell’anamorfosi, una sorta di metafisica dell’immagine scelta dalla<br />
tradizione popolare, dal mito, dall’astrologia, dall’ermetismo.<br />
Continua a ripercorrere i suoi temi usando cristallo, acqua, più recentemente<br />
lamelle metalliche applicate a parete, su inclinazioni diverse dalle quali ottiene,<br />
attraverso la luce del sole o la luce artificiale, ombre luminose in forma<br />
di immagini, basate su memorie di antichi rituali e strumenti alchemici, riuscendo<br />
a creare un clima di mistero e di raffinato afflato poetico.<br />
Si possono evocare le ombre della caverna di Platone. O dobbiamo ricordare<br />
le molte allusioni shakespeariane sulla immaterialità (irrealtà) della vita<br />
umana? Oppure, come fa Paolo Cesarini nel suo intervento sul catalogo della<br />
mostra di Corneli a Villa La Màgia, occorrerà ricordare l’“ultimo grande<br />
astronomo dell’epoca pretelescopica”, Tycho Brahe che, quando si allontana<br />
dall’Insula Venusia che Federico II gli aveva donato per studiare sul più<br />
grande telescopio dell’epoca, “l’orologeria che fa muovere gli astri e le cose<br />
della vita”, esclama: “Sono felice per il tempo che ho passato su questa isola<br />
e sono felice per tutti gli anni che ho passato a progettare e realizzare ogni<br />
singola parte di questi strumenti. Ti mostrerò stanotte le figure che pazientemente,<br />
anno dopo anno, ho disegnato sul Grande Globo Oricalchico. Più di<br />
mille stelle e decine di costellazioni che aiuteranno naviganti e scopritori di<br />
nuove terre a comunicare fra loro, a non smarrire la rotta […] Ma non sta qui<br />
l’essenziale, l’immagine reale del mondo non si può disegnare, ha la sostanza<br />
di cui son fatti i sogni. I miei strumenti aiutano a sognarla”, Fabrizio Corneli.<br />
Micat in vertice, Quarrata 2005.<br />
Preferisco citare la fredda dichiarazione di Céline (Viaggio al termine della notte):<br />
“Tutto quel che è interessante avviene nell’ombra, davvero. Non si sa<br />
nulla della vera storia dell’uomo”.<br />
Forse è meglio citare quanto scrive Lea Vergine nel catalogo della mostra<br />
D’Ombra (Siena, Nuoro, 2006-2007), con accenti più legati al nostro tempo:<br />
“Nelle ombre, che hanno a che fare con la magia, si possono proiettare i miraggi,<br />
le paure, i desideri, il non detto, persone che non abbiamo mai incontrato,<br />
luoghi dove non siamo mai stati, riverberi di situazioni, di accadimenti<br />
magari mai vissuti. In breve, sogni. E un sogno è un sogno, non è un’illusione”.<br />
Corneli non è stato invece invitato alla mostra Inganni ad Arte, tenutasi<br />
a Firenze nell’ottobre del 2009, dove il solo artista contemporaneo presente<br />
è Pistoletto, se si escludono gli pseudocontemporanei che rifanno, pari, pari,<br />
i quadri del Seicento...<br />
362 363
Fabrizio Corneli<br />
Micat in vertice, 2005<br />
lunghezza totale m 41,50, ogni lettera h cm 160<br />
lamine metalliche applicate alla parete che, con le ombre<br />
provocate dal sole o da una luce artificiale, formano una grande<br />
scritta in lettere lapidarie<br />
Villa La Màgia, Limonaia di Levante, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />
Corneli ha riportato sulla parete della Limonaia di Ponente di<br />
Villa La Màgia la scritta che sta nello stemma della famiglia<br />
senese Chigi Saracini; scritta che è stata accolta dal Comune<br />
di Quarrata, ora proprietario della villa che ha destinato a<br />
esposizioni e ad istallazioni permanenti di arte contemporanea,<br />
come un augurio di felice successo per la destinazione scelta per<br />
la villa stessa. La mostra che Corneli ha realizzato all’interno<br />
della Limonaia di Levante ne ha inaugurato l’attività. Nella<br />
mostra l’artista ha disposto lungo la parete interna della<br />
Limonaia una sorta di catalogazione del suo lavoro con la luce<br />
e le ombre dal 1993 al 2006; tutte le sue figurazioni mitiche,<br />
ermetiche e immaginifiche sono tratte da un patrimonio<br />
culturale divenuto parte della sua ricerca sia teorica che poetica.<br />
364 365
Anne e Patrick Poirier<br />
Anne, Marsiglia 1942, Patrick, Nantes, 1942; vivono a Parigi e a Roma<br />
Diplomati presso l’Ecole Nationale des Arts Décoratifs a Parigi, Anne in architettura,<br />
Patrick in archeologia, vincevano, nel ’67, il Grand Prix de Rome in<br />
pittura e scultura. Da allora inizia il loro rapporto con l’Italia. Appassionati, da<br />
sempre, di archeologia, attenti e consapevoli, fin da allora, della fragilità della<br />
vita, iniziavano il loro lavoro su questo tema, scrivendo su petali di rosa, raccogliendo<br />
memorie, diari archeologici, parlando dell’effimero, come nella loro<br />
prima catalogazione di erbari, realizzando calchi immaginari di città distrutte,<br />
stilando diari di viaggio poetici e immaginifici, viaggiando continuamente in<br />
cerca di memorie di culture lontane, realizzando paesaggi di rovine, come<br />
frammenti e documenti della fragilità del vivere, usando l’architettura come<br />
metafora della vita, della psiche e della memoria (Domus aurea, ’76; Mundo<br />
perdido, ’82; Scogliere di marmo, ’81; Mnemosyne 1 e 2, ’90, ’93…<br />
I loro riferimenti artistici e letterari sono De Chirico, Borges, la Yourcenar de<br />
Le memorie di Adriano, il Manierismo, dove la natura tende a farsi arte e l’arte<br />
annulla la natura.<br />
Le loro città ideali sono popolate da dei, da giganti, da eroi. Di qui nascono<br />
le loro installazioni in parchi e in giardini storici, in piccoli laghi (a Boboli, a<br />
Pratolino, a Santomato) dove inscenano lotte tra dei e giganti, simboleggiati<br />
questi da grandi occhi in marmo spaccati da frecce zigzagate in bronzo lucido,<br />
scagliate forse dall’Olimpo, da Giove. Nel giardino del Museo Pecci di Prato<br />
hanno installato (1988), Exegi monumentum aere perennius, una grande colonna<br />
crollata in pezzi in acciaio lucido, come ad unire il presente al passato.<br />
I loro più recenti lavori, ispirati anche a studi sulla memoria e alle loro passioni<br />
(Giordano Bruno, Robert Fludd…) sono ancora rivolti a realizzare ricostruzioni<br />
di rovine, collegate al senso di fragilità dell’uomo e delle varie<br />
civiltà, agli innumerevoli drammi che si provocano, alle tragedie delle guerre<br />
contemporanee e alle condizioni dei popoli del terzo mondo.<br />
Nella mostra nel parco della Màgia, dove sono rimaste le loro installazioni<br />
permanenti, hanno espresso, con grande forza psichica e poetica, questo senso<br />
di perdita, che questa volta li ha anche direttamente e inesorabilmente<br />
colpiti, con la perdita del loro unico figlio, tragedia che peraltro sono riusciti,<br />
con la forza del loro amore, a trasformare in arte e, appunto, in poesia.<br />
Anne e Patrick Poirier<br />
Bruciaprofumi, 1997/2006<br />
cotto dell’Impruneta, ciascun elemento h m 3<br />
Villa La Màgia, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />
Disposti nel parco nel 2006, presso la fontana, davanti alla<br />
Limonaia di Ponente, levano nel verde la loro forma raffinata<br />
e “nuova”, anche se si ispirano ai vasi da giardino della zona,<br />
creando una elegante presenza, ma intendono anche dimostrare<br />
l’intenzione di istituire un nuovo rapporto con la natura di cui<br />
alcuni elementi che bruciano al loro interno effondono i profumi.<br />
366<br />
367
368 369
Anne e Patrick Poirier<br />
La Fabbrica della Memoria, 2006<br />
pietra serena, m 4 x 3 x 2<br />
Villa La Màgia, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />
Si tratta di una sorta di capanna cilindrica di pietra serena nella<br />
quale si apre un varco triangolare, creato “a taglio vivo” sulla<br />
morbida, liscia, bellissima materia, attraverso il quale è visibile<br />
un tavolo rotondo il cui piano si presenta come una calotta di<br />
sfera, pure in pietra serena; sul piano la zona centrale reca incisa<br />
in colori diversi una sorta di mappa che “stilizza la forma del<br />
cervello […] alla lettura delle parole segnate sulle pareti della<br />
stanza” (K. Mollek Burmaister, in Anne + Patrick Poirier, <strong>Pistoia</strong><br />
2006): la mappa è suddivisa in sezioni indicanti le relazioni<br />
intellettive e mentali che sollecitano la memoria, trasformando le<br />
relazioni stesse in rimandi poetici.<br />
370 371
Marco Bagnoli<br />
Empoli, Firenze, 1949; vive a Firenze<br />
Ha sempre lavorato sulle categorie di “Spazio e Tempo”, partendo dal titolo<br />
“(Spaz)io e Te(mpo)”, sempre sul dualismo, su concetti diversi: l’<strong>Un</strong>o e il suo<br />
Doppio, le coordinate legate alla razionalità e alla geometria, su cui interviene<br />
con continue divaricazioni, con scarti, trasgressioni, secondo un ermetismo<br />
che si carica di temi di filosofie orientali ma anche di un concettualismo<br />
astratto, trasformando, spesso, situazioni ordinarie, arcaiche, lingue morte, in<br />
elementi di rimando mentale, in esperienze formali. I suoi interventi sono<br />
spesso complessi, si caricano di riferimenti ermetici e rituali provocando atmosfere<br />
magiche, rapporti di tensione che egli rende attivi attraverso segni e<br />
colori, raggiungendo spesso una sottile, sottesa, carica poetica. Alla Galleria<br />
Persano di Torino disponeva nel 1990 una “banda rossa” su fondo bianco,<br />
attraversata da una linea nera che univa la frase “Io X Te”, dall’esterno all’interno<br />
della galleria, disponendosi poi su una grande tela bianca preparata a<br />
intonaco. Sulla tela riusciva a creare un effetto di anamorfosi con un disegno<br />
blu a spirale oltre la quale si proiettavano i profili di un corpo femminile, di<br />
uno maschile e di un robot, sotto la luce di una lampada a mercurio che faceva<br />
virare il rosso della banda in mattone, mentre da un foro si proiettava un disco<br />
di luce bianca. Sul tavolo una pila del giornale dal titolo “(Spaz)io e Te(mpo)”,<br />
si trasformava, a mezzo di una colata di solfato, in una scultura azzurra. Tutte<br />
le mostre di Bagnoli, le sue installazioni si arricchiscono di elementi simbolici<br />
e misteriosi. Della mostra tenuta a villa La Màgia sono rimaste permanenti<br />
le opere Ascolta il flauto di canna e una passerella rossa, la sua Banda rossa,<br />
sospesa nel parco all’inglese verso una piccola isola nel laghetto.<br />
372 373
Marco Bagnoli<br />
Ascolta il flauto di canna, 2007<br />
canna-fontana in metallo verniciato di rosso, acqua,<br />
sonorizzazione: gracidio continuo di rane<br />
Banda rossa, 2007<br />
Villa La Màgia, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />
Il lavoro è collocato in una zona quasi segreta del giardino<br />
romantico, nel parco, nel piccolo specchio d’acqua al centro del<br />
quale era stata collocata una statua di Venere, presso la quale,<br />
in seguito, crebbe un leccio. Il flauto, la lunga canna rossa, si<br />
propone come elemento allusivo alla ‘banda rossa’, cui Bagnoli<br />
si è spesso riferito. L’acqua sale lungo la parete interna della<br />
canna fino alla sua bocca, da cui fuoriesce scendendo lungo la<br />
superficie esterna della canna stessa, in un movimento ciclico,<br />
simbolo della rinascita incessante della natura. Dall’incavo del<br />
flauto risuona un continuo, morbido, gracidio di rane, che allude<br />
alla fertilità. Il tema del flauto torna spesso nei lavori di Bagnoli.<br />
La Banda rossa, una passerella sporgente dal bordo del parco<br />
presso il laghetto, come un ponte levatoio verso l’isoletta<br />
centrale, suggerisce una condizione di trascendenza e di<br />
superamento del reale attraverso la mente e la scienza. Di notte,<br />
illuminata, ricrea, ancora, la forza simbolica della sua “banda<br />
rossa”, Marco Bagnoli, Io X Te, <strong>Pistoia</strong> 2007.<br />
374 375
Hidetoshi Nagasawa<br />
Giardino rovesciato, 2008<br />
alberese, cotto, pigmento, pianta di melograno<br />
m 1,60 x 0,60 x 6,50<br />
Parco di Villa La Màgia, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />
Il Giardino rovesciato è l’opera permanente che Nagasawa ha<br />
realizzato, in occasione della sua mostra, nel parco della villa,<br />
presso la Tinaia di Levante.<br />
Con questo lavoro l’artista porta avanti il suo tema da anni<br />
consueto, quello del giardino, al quale sembra volere, in certo<br />
senso, unire anche l’altro suo tema, altrettanto costante, della<br />
barca. La forma della barca sembra quasi si venga a costituire<br />
all’interno dell’incrocio tra le due sezioni aperte, uguali e<br />
intersecate, del muro formato da pietre connesse “a secco” e<br />
lasciate “a vista” all’esterno dei due cerchi aperti, all’interno<br />
levigati e verniciati di un rosso acceso. La sommità delle due<br />
sezioni è come coronata di coppi rovesciati, un omaggio ad una<br />
delle attività caratteristiche della zona. All’interno dei due anelli<br />
percorribili che circondano la sezione incrociata e più segreta,<br />
che, appunto, ha la forma oblunga di una barca, è stato piantato<br />
un piccolo alberello di melograno che Nagasawa ha scelto anche<br />
perché ha la sua stessa età; una sorta, quindi, di fratello naturale,<br />
a portare avanti il rapporto diretto dell’uomo – di affinità e quasi<br />
di simbiosi, secondo la filosofia orientale – con gli elementi della<br />
natura. Il piccolo albero, cioè, non è qui collocato nello spazio<br />
interno, ovoidale, ma lungo uno dei due percorsi che portano<br />
fuori dal giardino, ad evocare l’idea del cammino, del viaggio e,<br />
allo stesso tempo, di radicamento alla terra.<br />
Anche questo lavoro corrisponde all’intenzionalità consueta di<br />
Nagasawa, di collocare i suoi giardini in spazi diversi, ciascuno<br />
con la propria individualità e con le proprie connotazioni, cui<br />
egli si riferisce, come dice “in sintonia”. “Voglio restare legato<br />
allo spazio in cui l’opera si manifesta; questa relazione tra opera<br />
e luogo per me funziona ancora”, H. Nagasawa, in Il Giardino<br />
rovesciato, <strong>Pistoia</strong> 2008. È come se, all’interno del grande<br />
giardino, il parco della Màgia, un altro piccolo giardino segreto<br />
e ‘rovesciato’, si sia inserito come un cuore pulsante, autonomo,<br />
che non cerca di essere curato, seguito, ma si adagia nella<br />
spontaneità del suo vivere e del suo vegetare.<br />
376 377
Maurizio Nannucci<br />
Firenze, 1939; vive a Firenze<br />
Iniziava, verso la fine degli anni Cinquanta, secondo una linea di ricerca concreta,<br />
basata su una progettualità di carattere razionale, anche se con continue<br />
digressioni, attento e curioso, come è sempre stato, al tema della comunicazione<br />
e al comportamento dei media.<br />
La ricerca verbale attraversa e domina, in modo quasi assoluto, tutto il suo<br />
percorso, dall’esperienza di poesia concreta (i “dattilogrammi”), fino all’attuale,<br />
totalizzante uso verbale, a mezzo della luce (neon) e del colore, nei<br />
suoi interventi spettacolari, pressoché in tutta Europa, nel territorio e nell’architettura.<br />
Dalla sua partecipazione alle ricerche di Pietro Grossi nell’ambito della fonologia<br />
musicale al Conservatorio Cherubini a Firenze nascevano le sue “programmazioni<br />
vocali”, i suoi “audioworks”.<br />
Usciva, peraltro, spesso, dallo specifico, nella sua ricerca di mezzi agevoli,<br />
come dichiarava, alla diffusione “delle idee”, coi suoi “libri d’artista”, i suoi<br />
dischi, i multipli, le cartoline degli artisti, nelle edizioni Exempla. Ha aperto<br />
anche, con altri artisti, centri di sperimentazione e di presentazione di lavori<br />
e ricerche artistiche, come ad esempio lo spazio Zona a Firenze.<br />
Il suo interesse, orientato sempre sul “visuale”, sul linguaggio tecnologico,<br />
si allargava al suono, anche questo filtrato attraverso la tecnica. Questi temi<br />
si sono ormai riuniti nella sua attività attuale, nelle sue installazioni urbane e<br />
territoriali (“lo scrivere col neon è per me, prima di tutto, la possibilità di dar<br />
luce ai pensieri, alle parole, di dar loro i colori che predispongono all’ immaginazione”,<br />
ha dichiarato).<br />
Le sue grandi scritte, studiate e organizzate in stretto rapporto e con preciso<br />
riferimento al luogo nel quale si collocano, tutte rigorosamente in inglese,<br />
tranne che in poche eccezioni, costituiscono, a questo punto, la trama del<br />
suo lavoro “in progress”, che fa parte della sua “Anthology” (sezioni della<br />
quale ha presentato nella sua mostra a La Màgia), che costituisce anche il suo<br />
straordinario “archivio”, un’ altra delle sue grandi passioni, cui ha dedicato<br />
e dedica gran parte della sua coerente e perseverante attenzione, Maurizio<br />
Nannucci. Something happened, <strong>Pistoia</strong> 2009.<br />
378 379
Maurizio Nannucci<br />
Anthology Two, 2009<br />
installazione ambientale; scritta in neon blu<br />
m 0,30 x 10,50<br />
Cortile di Villa La Màgia, Quarrata, <strong>Pistoia</strong><br />
È l’installazione luminosa che Maurizio Nannucci ha lasciato<br />
per la collezione “in progress” di Villa La Màgia dopo la mostra<br />
che ha tenuto all’ interno del cortile, nel parco della villa e<br />
che si è distinta per l’ installazione monumentale della grande<br />
scritta sonora in neon di un rosso intenso, SOMETHING<br />
HAPPENED, posta come un monito costante sulla collina<br />
prospiciente il parco, che continua anche in questo lavoro,<br />
rivolto al concetto di universalità della forza espressa, comunque,<br />
dovunque, in ogni tempo e in ogni condizione dall’arte. In<br />
questo senso, questo monito sembra anche voler sollecitare la<br />
necessità di mantenere intatto, quanto più a lungo possibile, un<br />
patrimonio straordinario costituito da un luogo privilegiato per<br />
ricchezza naturale, estetica, culturale come Villa La Màgia, il suo<br />
parco, il suo territorio, specialmente in un periodo come quello<br />
che viviamo, quando sembra che niente abbia più valore, né la<br />
memoria storica, né la sua testimonianza ancora visibile, né la<br />
sua forza evocativa, se non come strumento di profitto tangibile<br />
e immediato. Questi interventi di Maurizio Nannucci, altamente<br />
tecnologici, dimostrano il fascino che suscita la capacità dell’ arte<br />
di trasformare in una sorta di mistero anche un mezzo altrimenti<br />
assai diversamente usato, che riesce ad unire, in un prezioso<br />
unicum il presente col passato, senza limiti di tempo e senza<br />
interruzione.<br />
380 381
MONTECATINI TERME<br />
Susumu Shingu<br />
Pol Bury<br />
383
Susumu Shingu<br />
Osaka, Giappone 1937; vive a Osaka<br />
Ha studiato all’Accademia d’Arte di Tokyo, frequentando poi, con una borsa<br />
di studio, l’Accademia di Belle Arti a Roma, dove rimase per sei anni. <strong>Un</strong>a<br />
visita a Roma del Presidente dei Cantieri navali di Osaka mentre Shingu<br />
lavorava come guida turistica fu la sua occasione. Il Presidente lo richiamò<br />
a Osaka dove gli assicurò uno studio presso i suoi cantieri e la competenza<br />
tecnica di ingegneri qualificati.<br />
È come se, nel suo lavoro “high tech”, Shingu sia riuscito a trasferire, ingigantiti<br />
e moltiplicati, gli elementi che nell’arte e nella tradizione religiosa<br />
shinto e buddista esprimono la venerazione giapponese per la natura nelle<br />
sue più dirette manifestazioni, quelle soprattutto che sfuggono allo sguardo:<br />
il movimento del vento, quello dell’acqua, espressi, come scrive Peter Buchanan<br />
(in Shingu, Parigi 2005) nei carillon eolici, nei cervi e nei pesci volanti<br />
che ondeggiano nel vento durante i festivals; nello shishi-odoshi in bambù<br />
che alternativamente si riempie d’acqua e si svuota, creando un suono intermittente,<br />
ma regolare, di percussioni, nei giardini giapponesi.<br />
Nei suoi grandi lavori cinetici, spesso quasi pale eoliche disposte a “visualizzare<br />
il vento” in sequenze identiche, variate nel loro rapporto con le forze<br />
della natura Shingu coinvolge, ovviamente, nella loro realizzazione, collaboratori<br />
e tecnici altamente specializzati, e si comporta, osserva Buchanan,<br />
quasi come un direttore d’orchestra, lavorando alla frontiera, da un lato, tra<br />
l’arte, la scienza, l’ingegneria; dall’altro tra le forze della natura e quelle del<br />
paesaggio. Ha lavorato e lavora con Renzo Piano, per il quale ha realizzato, tra<br />
le altre opere, Il vento di Colombo, nel porto di Genova nel 1992, con una lunga<br />
serie di vele bianche che evidenziano e visualizzano, ciascuna secondo un<br />
programma diverso, la forza continua del vento, animando la costa di un vivo,<br />
continuo movimento; Cielo senza limiti, ’94, all’Aeroporto Kansay International<br />
di Osaka. Tra i suoi lavori dedicati al vento Il dono del vento, 1985, Porter<br />
Square, MBTA Station; Pascolo di nubi, 1990; Giardino di Sculture, Sapporo,<br />
Giappone; Caleidoscopio a vento, 1992, Brain Center Inc., Osaka, Giappone;<br />
Dialogo con le nubi, 1998, Centro Meridiana, Lecco, Italia; Ali Cosmiche, 1999,<br />
Avenue des Champs Elysées, Parigi; Piccolo teatro di luce, 2001, Fattoria Eolia<br />
di Taikoyama, Tokyo, Giappone; Nube di luce, 2001, Il Sole 24 Ore, Milano,<br />
Italia; Carovana del vento, 2000, forse il suo lavoro più conosciuto che ha girato<br />
il mondo (Inau, Finlandia, Endor Dov, Mongolia, Sambuco, Cearà, Brasile),<br />
coinvolgendo gli abitanti delle diverse sedi, soprattutto i bambini, in ognuno<br />
dei luoghi, dipingendo e colorando le tante vele del lavoro, variandone le<br />
caratteristiche visive secondo la loro creatività, hanno come legato tra loro le<br />
diverse tradizioni: un lavoro che è riuscito a dialogare con tutti.<br />
Tra le moltissime opere di Shingu che, invece, coinvolgono l’acqua, alle quali<br />
appartiene anche Duetto d’acqua, la fontana realizzata a Montecatini e sponsorizzato<br />
dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia, mi<br />
limito a citare Il soffio delle ali, 1988; Parco Olimpico, Seoul, Corea del Sud:<br />
una grande quantità di lucidi fusi galleggianti sormontati da piccole ali; Le ali<br />
delle onde, 1991, Hiroshima, Giappone; A remi attraverso la Via Lattea, 1992,<br />
Riviera Morasaki, Kitakyushu, Giappone; il leggero e festoso Albero d’acqua,<br />
1992, Aono Bam Park, Sanda, Hyogo, Giappone; Risonanza di vita, 1999, Museo<br />
all’Aperto di Hakone, Kanagawa, Giappone; Fiore d’Acqua, 1999, Banca<br />
Popolare Italiana, Lodi, Italia; Navigatore del vento, 2005, Happy Village, Marina<br />
di Camerota, Italia.<br />
Ha lavorato anche con il coreografo Jiri Kyliàn per il balletto <strong>Un</strong> Coup de dés<br />
col Nederlands Dans Théater per il Lucent Dans Theater a L’Aja, Olanda,<br />
2005, dove il movimento della sua lucente, ‘pericolosa’ scultura di mobili<br />
punte acuminate giocava, appunto pericolosamente, con il movimento dei<br />
danzatori.<br />
Shingu ha dichiarato spesso: “I miei lavori sono strumenti per tradurre i messaggi<br />
della natura in movimenti non percepibili dallo sguardo” (intervista in<br />
P. Buchanan, in Shingu, Parigi 2005).<br />
384<br />
385
Susumu Shingu<br />
Duo acquatico, 1998<br />
acciaio inossidabile, h m 3,25<br />
Montecatini Terme, <strong>Pistoia</strong><br />
La scultura, posta all’interno di uno spazio quadrangolare che<br />
contiene l’acqua, nel verde, si compone di un lungo cilindro<br />
centrale che porta in alto l’acqua, verso un intreccio mobile di<br />
una serie di elementi tubolari che, attraverso il movimento di<br />
sottili tiranti, ricevono acqua e la rimandano in un movimento<br />
continuo, alternato, regolato da un basculante bilanciamento di<br />
pesi. L’acqua crea così un continuo gioco di ritmi e di trasparenze<br />
luminose.<br />
386 387
Pol Bury<br />
Haine Saint-Pierre, Belgio, 1922 – Parigi, 2005<br />
Pittore, scultore, creatore di gioielli, ma anche scrittore, poeta, critico d’arte,<br />
editore. Incontrava, giovanissimo, Achille Chauvé, studioso del Surrealismo,<br />
Aderì, allora, al gruppo surrealista Rupture, fondato da Chauvé nel ’34. Inizialmente<br />
influenzato da Tanguy, aderiva all’ideologia comunista e dipingeva<br />
alcuni quadri ispirati al Surrealismo. Nel ’45, conosciuto Magritte, partecipava<br />
all’Exposition Internationale du Surrealisme a Bruxelles.<br />
Dal ’42 al ’51 seguiva le linee dell’Astrattismo. Frattanto incontrava Christian<br />
Dotremont e Pierre Alechinsky, del gruppo Cobra, al quale aderiva per<br />
qualche tempo contribuendo alla redazione e realizzando illustrazioni per la<br />
rivista del gruppo e partecipando anche ad una mostra con i Cobra. Nel ’52<br />
è tra i fondatori del gruppo belga Art Abstract. Studiava, allora, i lavori di<br />
Mondrian e di Miró.<br />
Troverà infine la sua vera strada quando nel 1953, vedrà le opere di Calder e<br />
scoprirà la sua vera inclinazione. Inizia allora la sua creazione di Mobiles planes<br />
(piani bilanciati su assi mobili).<br />
Esponeva, nel ’55, con Adam, Calder, Duchamp, Jacobsen, Soto, Vasarely alla<br />
galleria parigina Denise Renée.<br />
Le sue prime opere si compongono di un supporto nero o dai colori vivi, dal<br />
quale fuoriescono filamenti di nylon, leggerissimi, delicati come antenne di<br />
insetti, di grande freschezza poetica.<br />
Ha usato in seguito anche piccole sfere in movimento su elementi piramidali,<br />
cubici, parallelepipedi, in un gioco continuo, ma sempre lentissimo, di apparizione<br />
e sparizione.<br />
Ha usato il motore elettrico dal ’57, realizzando lavori che sviluppano un movimento<br />
appena percettibile. Infatti per lui il movimento è un “simbolo di<br />
precisione e di calma, di una meditazione in atto”.<br />
Ha raggiunto, comunque, col suo lavoro, risultati di grande, ma anche delicatissima<br />
poesia, che hanno fatto di lui uno tra gli esponenti più importanti<br />
dell’ arte cinetica.<br />
Del ’76 è la sua prima Fontana idraulica, nella quale, al movimento, aggiungeva<br />
il rumore dell’acqua. Da allora ha realizzato molte fontane, utilizzando<br />
cilindri, sfere, coppelle, in acciaio inossidabile. Vi ha unito l’acqua come strumento<br />
disequilibrante dell’equilibrio instabile dei suoi elementi in acciaio.<br />
Anche Duetto d’acqua, la fontana realizzata a Montecatini, sponsorizzata dalla<br />
Fondazione Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia nel 2004, fra i suoi ultimi<br />
lavori, fa parte di questa sua attività.<br />
“Quando una fontana è nella natura” ha scritto “raggiunge il suo punto massimo,<br />
il suo apogeo. Respira e si ossigena”.<br />
Pol Bury<br />
Duetto d’acqua, 2004<br />
fontana idraulica a elementi mobili in acciaio inossidabile<br />
Montecatini Terme, <strong>Pistoia</strong><br />
L’opera si forma secondo una disposizione radiale di elementi<br />
tubolari che partono dal centro, formato pure di elementi<br />
tubolari immersi nell’acqua, acquistando una forma che<br />
sembra mimare un fiore i cui tanti petali, mossi elettricamente,<br />
raccolgono acqua dal basso e la rimandano, con movimenti<br />
alternati, creando una mobile e iridescente corona di acqua.<br />
Il movimento, lento e continuo, trasforma continuamente sia la<br />
forma e la dimensione della stessa scultura-fontana che quella<br />
della corona d’acqua in continuo movimento. È un notevole<br />
esempio di arte cinetica applicata.<br />
388 389
390 391
393<br />
APPARATI
Le opere in mostra appartengono alla<br />
collezione della Fondazione Cassa<br />
di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e Pescia fatta<br />
eccezione per<br />
Collezione Biblioteca Forteguerriana,<br />
<strong>Pistoia</strong> pp. 26-29, 58-59<br />
Collezione Istituto d’Arte “Policarpo<br />
Petrocchi”, <strong>Pistoia</strong> pp. 30-31<br />
Collezione Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> e<br />
Pescia S.p.A. pp. 34-39, 48-51, 54-55, 64-65,<br />
68-71, 76-77, 86-91, 96-97, 112-113, 116-<br />
117, 124-127, 174-185, 196-197, 208-209,<br />
218-219, 252-253.<br />
Collezione Palazzo Fabroni, <strong>Pistoia</strong> pp. 152-<br />
153<br />
Famiglia Gordigiani pp. 220-221<br />
Roberto Barni pp. 230-231<br />
Umberto Buscioni pp. 240-243<br />
Gianni Ruffi pp. 250-251<br />
BIBLIOGRAFIA GENERALE<br />
La Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong> nel suo<br />
primo centenario, <strong>Pistoia</strong> 1931<br />
A. Parrochi, Artisti toscani del primo<br />
Novecento, Firenze 1958<br />
M. Tuci, Dieci artisti pistoiesi della<br />
generazione di mezzo, in “La Nazione”,<br />
gennaio 1965<br />
C. Vivaldi, La scuola di <strong>Pistoia</strong>, in<br />
“Collage”, 6 settembre 1966, pp. 73-75.<br />
A. Ciattini, La vocazione di <strong>Pistoia</strong>. Artisti<br />
pistoiesi contemporanei, Firenze 1970<br />
Scultura toscana del Novecento, Firenze 1980<br />
La città e gli artisti. <strong>Pistoia</strong> tra avanguardia e<br />
Novecento, cat. mostra a cura di M. C. Mazzi<br />
e C. Sisi, Firenze 1980<br />
Artisti e cultura visiva del Novecento, <strong>Pistoia</strong><br />
1981<br />
L.-V. Masini, Arte contemporanea. La<br />
linea dell’unicità. Arte come volontà e non<br />
rappresentazione, voll. 1-2, Firenze 1989<br />
Raccolta autori pistoiesi del Novecento, cat.<br />
mostra, <strong>Pistoia</strong> 1989<br />
M. Pratesi, G. Uzzani, L’Arte italiana del<br />
Novecento. La Toscana, Venezia 1991<br />
L.-V. Masini, Arte contemporanea. La linea<br />
del modello. Arte come progetto del mondo,<br />
voll. 3-4, Firenze 1996<br />
Cultura figurativa fra le due guerre. <strong>Pistoia</strong><br />
e la situazione italiana, atti del corso di<br />
aggiornamento a cura di C. Sisi, Scuola<br />
IRRSAE Toscana, <strong>Pistoia</strong> 1997<br />
E. Bardazzi, La Mostra del bianco e nero a<br />
<strong>Pistoia</strong> del 1913 e la rinascita dell’incisione<br />
in Italia del primo Novecento, in Cultura<br />
figurativa fra le due guerre, cit.<br />
Sol Lewitt in Italia, a cura di B. Corà, Siena-<br />
Prato 1998<br />
G. Damiani, La Scuola pistoiese tra le due<br />
guerre, <strong>Un</strong> episodio del Novecento italiano,<br />
Firenze 2000<br />
Motivi e figure nell’arte toscana del XX <strong>secolo</strong>,<br />
a cura di C. Sisi, Pisa 2000<br />
Continuità. Arte in Toscana, cat. mostra a<br />
cura di A. Boatto, Prato-Siena 2002<br />
Percorsi della contemporaneità. Arti visive in<br />
Toscana 1945/2000, a cura di M. G. Messina<br />
e G. Uzzani, Tra Art Strumenti, CD Firenze<br />
2002<br />
Magnete. Presenze artistiche straniere in<br />
Toscana nella seconda metà del XX <strong>secolo</strong>,<br />
cat. mostra a cura di Angea Vattese,<br />
Fattoria di Celle, Santomato, <strong>Pistoia</strong>, 2002,<br />
Maschietto&Musolino, Siena.<br />
Renzo Agostini. Il “Cenacolo” pistoiese di<br />
Giovanni Costetti e l’alternativa del colore,<br />
cat. mostra a cura di R. Campagna, <strong>Pistoia</strong><br />
2003<br />
I Musei di <strong>Pistoia</strong>. Vademecum, <strong>Pistoia</strong> 2004,<br />
S. Lucchesi, In visita. Giovani artisti a<br />
<strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2004<br />
Sol LeWitt. Wall Drawing # 1126 Whirls and<br />
Twirls 1 Reggio Emilia, <strong>Pistoia</strong> 2004<br />
La Scuola di <strong>Pistoia</strong>. Natura e oggetto, cat.<br />
394 395
mostra a cura di L. Saccà, Monsummano<br />
Terme 2004<br />
Sonde. <strong>Pistoia</strong>. Dieci anni con gli artisti a<br />
Palazzo Fabroni, giornale della mostra a<br />
cura di B. Corà e M. Panzera, <strong>Pistoia</strong> 2004<br />
Il nuovo padiglione di emodialisi all’Ospedale<br />
di <strong>Pistoia</strong>, <strong>Pistoia</strong> 2005<br />
Robert Morris. Less than (Reggio Emilia),<br />
<strong>Pistoia</strong> 2005<br />
Claudio Parmiggiani, Pinxit et celavit, <strong>Pistoia</strong><br />
2005<br />
Daniel Buren. Cabane eclatée aux 4 salles,<br />
<strong>Pistoia</strong> 2005<br />
Arte in Maremma nella prima metà del<br />
Novecento, cat. mostra a cura di E. Crispolti,<br />
A. Mazzanti, L. Quattrocchi, Cinisello<br />
Balsamo 2005-2006<br />
<strong>Un</strong> palazzo nuovo di stile vecchio. La sede<br />
della Cassa di Risparmio di <strong>Pistoia</strong>, a cura di<br />
G. Chelucci, <strong>Pistoia</strong> 2005-2006<br />
Anne + Patrick Poirier, La Magia, <strong>Pistoia</strong><br />
2006<br />
N. Miceli, S. Simoncini, Percorsi della<br />
Figurazione a <strong>Pistoia</strong>, Dalle antologie della<br />
Circoscrizione 2 alle opere recenti, <strong>Pistoia</strong><br />
2006<br />
Marco Bagnoli, La Magia, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />
Fattoria di Celle Collezione Gori. <strong>Un</strong> percorso<br />
nell’arte ambientale, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />
Arte del Novecento a <strong>Pistoia</strong>, a cura di C. Sisi,<br />
Cinisello Balsamo 2007<br />
Fattoria di Celle, Collezione Gori, <strong>Un</strong> percorso<br />
nell’Arte Ambientale, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />
Anselm Kiefer. Die Grosse Fracht, <strong>Pistoia</strong> 2007<br />
Hidetoshi Nagasawa. Il giardino rovesciato,<br />
La Magia, <strong>Pistoia</strong> 2008<br />
Arte ambientale. La Fattoria di Celle.<br />
Collezione Gori, <strong>Pistoia</strong> 2008-2009<br />
Anselm Kiefer. Cette obscure clarté qui tombe<br />
des étoiles, <strong>Pistoia</strong> 2009<br />
Maurizio Nannucci Something happened, La<br />
Magia, <strong>Pistoia</strong> 2009<br />
INDICE DEI NOMI<br />
A<br />
Abakanowicz, Magdalena 279<br />
Adam, Henri-Georges 388<br />
Agostini, Renzo 6, 14, 44, 45, 61, 66, 84, 85,<br />
86, 88, 90, 92, 110, 190, 269, 394, 396<br />
Albers, Josef 21, 284<br />
Alberti, Raphael 265<br />
Alechinsky, Pierre 388<br />
Alighieri, Dante 13, 14, 24, 25, 93<br />
Amati Cellesi, famiglia 360<br />
Amati Cellesi, Marcella 360<br />
Amati, Giuseppe 360<br />
Andreotti, Libero 66<br />
Appel, Karel 16, 143<br />
Argan, Giulio Carlo 144, 284<br />
Attamanti, famiglia 360<br />
B<br />
Bachmann, Ingeborg 344<br />
Bacon, Francis 275<br />
Bagnoli, Marco 7, 291, 359, 372, 374<br />
Baj, Enrico 16, 143<br />
Balla, Giacomo 8, 12, 21, 32, 283, 284, 285<br />
Barilli, Renato 45, 234, 235, 244, 245<br />
Barni, Roberto 6, 19, 223, 224, 225, 226, 228,<br />
230, 232, 234, 244, 245, 255, 260<br />
Baroni, Nello 57<br />
Barovier, Angelo 8<br />
Bartolini, Luigi Bruno 17<br />
Bartolini, Sigfrido 4, 6, 7, 9, 14, 17, 33, 74, 75,<br />
84, 85, 167, 169, 170, 190, 291, 293,<br />
294, 296, 396<br />
Baudelaire, Charles 13, 14, 24<br />
Beato Angelico 92<br />
Beatrice di Pian degli Ontani 169<br />
Beckett, Samuel 265<br />
Bellasi, Pietro 93<br />
Berardi, Pier Niccolò 57<br />
Bernard, Emile 85<br />
Berti, Vinicio 17, 160<br />
Beuys, Joseph 19, 198, 340<br />
Biagi, Massimo 259, 265, 266<br />
Bistolfi, Leonardo 24, 30<br />
Boccioni, Umberto 12, 32, 284<br />
Boetti, Alighiero 20, 244<br />
Boldini, Giovanni 169<br />
Borges, Jorge Luis 366<br />
Bosch, Hieronymus 275<br />
Bovani, Franco 7, 259, 260, 261, 262<br />
Bragaglia, fratelli 284<br />
Brahe, Tycho 362<br />
Branca, Mirella 53, 224<br />
Brancusi, Costantin 190<br />
Braque, Georges 32, 130<br />
Brunelleschi, Gino 44<br />
Brunetti, Bruno 17, 160<br />
Bruno, Giordano 330, 366<br />
Buchanan, Peter 384<br />
Bugiani, Pietro 4, 6, 15, 44, 56, 61, 66, 84, 92,<br />
93, 94, 96, 98, 100, 102, 104, 105, 110,<br />
111, 173, 182, 190, 195, 269, 396<br />
Buonarroti, Michelangelo 25, 30, 67<br />
Buontalenti, Bernardo 360<br />
Buren, Daniel 17, 290, 291, 309, 334, 336<br />
Burri, Alberto 244, 275, 279, 280<br />
Bury, Pol 291, 383, 388, 389<br />
Buscioni, Umberto 6, 9, 19, 20, 57, 223, 224,<br />
234, 235, 236, 238, 240, 242, 244, 245,<br />
255, 260, 299, 300<br />
Butler, Reg 143, 144<br />
C<br />
Calabrese, Omar 344<br />
Calandra, Davide 24, 25<br />
Calder, Alexander 362, 388<br />
Caligiani, Alberto 6, 14, 21, 32, 44, 56, 61, 66,<br />
67, 68, 70, 72, 74, 82, 110, 195<br />
Calvesi, Maurizio 330<br />
Campana, Dino 12, 14, 24, 45, 48<br />
Campana, Rossella 44<br />
Cantagalli, Ulisse e Romeo 53<br />
Cappellini, Alfiero 6, 15, 44, 56, 61, 66, 84,<br />
92, 104, 105, 106, 108, 110, 111, 112,<br />
143, 182, 186, 188, 195, 269, 396<br />
Cappugi, Luana 114<br />
Carandente, Giovanni 350<br />
Caravaggio, Michelangelo Merisi 275<br />
Cardini, Franco 294, 296<br />
Carena, Felice 15, 110<br />
Carlesi, Dino 187<br />
Carrà, Carlo 104, 169, 284<br />
Casanova, Fabio 14, 15, 53, 84, 92, 110, 195<br />
Casorati, Felice 15, 66, 92, 93, 110, 396<br />
Castellini, Luisa 274<br />
Cattabianchi, Lino 169<br />
Cecchi, Emilio 48<br />
Celant, Germano 17, 151, 326<br />
Celestini, Celestino 14, 63<br />
396 397
Céline, Louis-Ferdinand 362<br />
Cellesi, famiglia 360<br />
Cesarini, Paolo 362<br />
Cézanne, Paul 11, 12, 15, 44, 63, 85, 92, 94,<br />
102, 110, 397<br />
Chadwick, Lynn 143, 144<br />
Chagall, Marc 85<br />
Chauvé, Achille 388<br />
Chiappelli, Francesco 6, 53, 61, 63, 64<br />
Chigi Saracini, famiglia 364<br />
Chini, Galileo 8, 12, 13, 16, 43, 52, 53, 54, 56,<br />
92, 130<br />
Ciattini, Mario 15, 104<br />
Cimabue 250<br />
Clairvaux, Bernardo di 169<br />
Conti, Primo 12, 32, 33, 34, 105, 173, 190<br />
Coppedè, Gino 14, 24<br />
Corneille, Guillaume 16, 143<br />
Corneli, Fabrizio 7, 291, 359, 362, 363, 364<br />
Corra, Bruno 284<br />
Corsini, Vittorio 291, 353, 354, 356<br />
Costetti, Giovanni 14, 24, 43, 44, 45, 46, 48,<br />
49, 50, 56, 63, 64, 66, 84, 85, 86, 92,<br />
93, 100, 102, 104, 130, 160, 394<br />
Cremona, Tranquillo 169<br />
D<br />
d’Afflitto, Chiara 92<br />
Dami, Andrea 20, 259, 269, 270<br />
Dangelo, Sergio 143<br />
D’Annunzio, Gabriele 13, 44<br />
Daumier, Honoré 63<br />
De Carolis, Adolfo 13, 14, 24<br />
De Chirico, Giorgio 19, 130, 173, 224, 366<br />
della Robbia, Luca 53<br />
Del Serra, Alfio 190<br />
Depero, Fortunato 14<br />
De Pisis, Filippo 130, 173<br />
de’ Ricci, Giulio 53<br />
De Robertis, Giuseppe 48<br />
de Silva, Vieira 169<br />
De Stael, Anne-Louise Germaine Necke 186<br />
De Witt, Anthony 66<br />
Diaghilev, Sergej 284<br />
Di Corato, Luigi 354<br />
Dorazio, Piero 21, 284<br />
Dorfles, Gillo 151<br />
Dotremont, Christian 388<br />
Dubuffet, Jean 114<br />
Duchamp, Marcel 20, 244, 388<br />
Dufy, Raoul 186<br />
E<br />
Eccher, Danilo 130<br />
Ejzenstejn, Sergej Michajlovič 344<br />
El Greco, Dominikos Theotokopoulos 45<br />
Ensor, James 18, 182<br />
Ernst, Max 18<br />
Exter, Alexandra 33, 34<br />
F<br />
Fabbri, Agenore 16, 129, 143, 144, 146, 148,<br />
291, 356<br />
Fabbri, Alfredo 17<br />
Fabro, Luciano 198<br />
Faggi, Alfeo 24<br />
Farulli, Fernando 173<br />
Fattori, Giovanni 56, 92, 114<br />
Federico II di Danimarca 362<br />
Finlay, Ian Hamilton 20, 244<br />
Fiumi, Cesare 173<br />
Fludd, Robert 330, 366<br />
Fondi, Renato 12, 13, 24, 44, 56, 64<br />
Fontana, Lucio 143<br />
Francesco de’ Medici 360<br />
Franchi, Raffaello 169<br />
Francolini Giachi, Anna 265<br />
Frosini, Aldo 6, 17, 18, 167, 173, 186, 188,<br />
190, 195, 196<br />
Fusi, Lorenzo 356<br />
G<br />
Gallizio, “Pinot” Giuseppe 16, 143<br />
Gallo, Oscar 190<br />
Gamberini, Italo 57<br />
Gauguin, Paul 85<br />
Gelli, Valerio 6, 17, 18, 167, 190, 191, 192<br />
Giacometti, Alberto 130<br />
Ginna, Arnaldo 284<br />
Giotto 15, 92, 93, 102, 173, 195, 250<br />
Giuntoli, Donatella 187<br />
Gohr, Sigfried 340<br />
Gordigiani, Remo 6, 17, 19, 167, 173, 182,<br />
190, 214, 215, 216, 218, 220, 269, 397<br />
Gori, Federico 2, 20, 273, 274, 275, 276<br />
Gori, Giuliano 3, 17<br />
Goya, Francisco José de Goya y Lucientes<br />
63<br />
Grossi, Pietro 378<br />
Grosz, George 182<br />
Gruni, Zoè 20, 273, 279, 280<br />
Guarnieri, Sarre 57<br />
Guasti, Marcello 173<br />
Guazzino, Lorenzo 53<br />
Guerrini, Carlo 195<br />
Guggenheim, Peggy 151<br />
Guttuso, Renato 186<br />
H<br />
Hemingway, Ernest 345<br />
Hobbs, Robert 312<br />
Hopper, Edward 275<br />
I<br />
Iacomelli, Mirando 6, 17, 18, 167, 182, 183,<br />
184, 190, 195<br />
Iacuzzi, Annamaria 3, 16, 67, 68, 72, 105, 111,<br />
121, 124, 173, 174, 182, 198, 215<br />
Iacuzzi, Paolo Fabrizio 16, 110, 121, 124,<br />
182, 191<br />
Innocenti, Giulio 6, 14, 19, 32, 33, 56, 61, 66,<br />
74, 75, 76, 78, 80, 82, 169, 224<br />
J<br />
Jacobsen, Robert 388<br />
Johns, Jasper 312<br />
Jorn, Asger 16, 143<br />
K<br />
Kandinskij, Vassilij 44, 85, 130, 173<br />
Karavan, Dani 17, 290, 309, 316, 318<br />
Kenzo Tange 314<br />
Kiefer, Anselm 17, 290, 339, 340, 341, 344,<br />
345<br />
King, Martin Luther 356<br />
Kirkeby, Per 340<br />
Klein, Yves 320<br />
Klimt, Gustav 52<br />
Koenig, Théodor 143<br />
L<br />
La Murrina, vetreria 8<br />
Landini, Lando 6, 17, 18, 167, 186, 187, 188<br />
Lanza del Vasto, Giuseppe 12, 13, 44, 56, 84,<br />
86, 90, 92<br />
Lapi, Cleto 182<br />
Lega, Silvestro 24, 32, 33, 44, 66, 169<br />
Levasti, Arrigo 32<br />
Levi Montalcini, Rita 318<br />
Lewitt, Sol 17, 290, 303, 304, 309, 324, 326,<br />
328<br />
Lippi, Andrea 11, 24, 25, 26, 28, 30, 33, 56,<br />
66<br />
Longhi, Roberto 186<br />
Lonzi, Carla 199<br />
Lucarelli, Marcello 6, 17, 18, 167, 173, 174,<br />
195<br />
Lunari, Giuseppe 195<br />
Luparini, Luigi 24<br />
Lusanna, Leonardo 57<br />
M<br />
Magnelli, Alberto 130, 161<br />
Magni, Riccardo 110<br />
Magritte, René 388<br />
Malevič, Kazimir Severinovič 21, 151, 284<br />
Manzini, Gianna 74<br />
Manzoni, Piero 244, 312<br />
Maraini, Fosco 25<br />
Marey, Etienne Jules 21, 284<br />
Margheri, Rodolfo 190<br />
Marinetti, Filippo Tommaso 13, 284<br />
Marini, Egle 6, 15, 61, 110, 114, 115, 116,<br />
118, 130, 173, 190, 195<br />
Marini, Marino 3, 4, 6, 7, 12, 15, 16, 45, 50,<br />
66, 114, 115, 116, 118, 129, 130, 131,<br />
132, 134, 136, 138, 140, 190, 191, 347,<br />
350<br />
Mariotti, Umberto 6, 15, 44, 56, 61, 66, 84,<br />
92, 110, 111, 112, 182, 186, 190, 192,<br />
195, 269, 398<br />
Marrocco, Armando 269<br />
Martini, Arturo 130<br />
Martini, Quinto 190<br />
Masaccio 92, 93, 116<br />
Matisse, Henri 14, 15, 75, 93, 100, 182, 186,<br />
190, 195, 244<br />
Matta, Roberto Sebastian 16, 143<br />
Mazzoni, Angiolo 14<br />
Mc Luhan, Marshall 9<br />
Melani, Fernando 6, 9, 14, 18, 74, 75, 80,<br />
167, 182, 198, 199, 200, 202, 204, 206,<br />
208, 210, 212, 269, 304<br />
Melani, Francesco 17, 188<br />
Melani, Vasco 111<br />
Melis, Gino 44<br />
Michelazzi, Giovanni 52<br />
Michelucci, Giovanni 6, 8, 12, 13, 14, 15, 18,<br />
24, 32, 43, 44, 56, 57, 58, 64, 66, 84,<br />
92, 110, 124, 177, 190, 191, 398<br />
Migliorati, Fabio 274<br />
Migliorini, Ermanno 160<br />
398 399
Miró, Joan 84, 388<br />
Mollek Burmeisterm, Katalin 291, 370<br />
Mondrian, Piet 151, 330, 388<br />
Monet, Claude 114, 186, 398<br />
Monnini, Alvaro 17, 160<br />
Moore, Henry 190<br />
Morandi, Giorgio 173<br />
Morlotti, Ennio 143, 218<br />
Morozzi, Rosanna 24, 25, 32, 33, 34<br />
Morris, Robert 17, 290, 309, 312, 314, 330<br />
Moser, Kolo 53<br />
Munari, Bruno 151<br />
Muybridge, Eadweard 21, 284<br />
N<br />
Nagasawa, Hidetoshi 7, 17, 291, 309, 320,<br />
322, 324, 328, 359, 376<br />
Nannini, Mario 11, 25, 32, 33, 34, 36, 38, 40,<br />
56, 66<br />
Nannucci, Maurizio 7, 291, 359, 378, 380<br />
Narni 169<br />
Natalini, Adolfo 6, 19, 20, 223, 224, 234, 244,<br />
255, 256<br />
Nativi, Giuseppe 160<br />
Nativi, Gualtiero 16, 17, 129, 160, 161, 162,<br />
164<br />
Nigro, Mario 16, 129, 151, 152, 154, 156, 158,<br />
265<br />
Noland, Kenneth 21, 284<br />
Notte, Emilio 14<br />
Nuti, Mario 17, 160<br />
O<br />
Occhini, Barna 169<br />
Oldenburg, Claes 244<br />
P<br />
Pacini Michelucci, Eloisa 110<br />
Pacini, Piero 12<br />
Papini, Giovanni 44, 48, 56<br />
Parmiggiani, Claudio 17, 290, 309, 330, 332<br />
Parronchi, Alessandro 14, 21, 25, 121<br />
Pascali, Pino 244<br />
Pascoli, Giovanni 14, 24, 74, 84<br />
Pasolini, Pier Paolo 10<br />
Pellizza da Volpedo, Giuseppe 284<br />
Pericoli, Angela 160<br />
Petrarca, Francesco 14<br />
Petrocchi, Policarpo 169, 265, 269<br />
Piano, Renzo 384<br />
Picasso, Pablo 114, 130, 186, 399<br />
Piero della Francesca 15, 93, 100, 160, 162,<br />
186, 224, 330, 399<br />
Pistoletto, Michelangelo 363<br />
Pizzorusso, Claudio 53<br />
Plensa, Jaume 269<br />
Poe, Edgard Allan 13, 24, 25<br />
Poirier, Anne e Patrick 7, 291, 359, 366, 367,<br />
370<br />
Polke, Sigmar 340<br />
Pollock, Jackson 186<br />
Pontormo, Jacopo Carucci 25, 275<br />
Prampolini, Enrico 66, 284<br />
Prezzolini, Giuseppe 24<br />
R<br />
Ranaldi, Renato 198<br />
Rauschenberg, Robert 187, 312<br />
Recchi, Mario 66<br />
Reinhardt, Ad 21, 284<br />
Renée, Denise 388<br />
Restany, Paul 265, 266<br />
Richter, Gerhard 340<br />
Rigotti, Annibale 52<br />
Rivalta, Augusto 24<br />
Rodin, Odile 130<br />
Romanelli, Carlo 24<br />
Ronte, Dieter 143<br />
Rosai, Ottone 14, 15, 44, 56, 63, 66, 82, 93,<br />
104, 169, 190, 399<br />
Rosatelli, Renato 110<br />
Rosso, Medardo 130<br />
Roter, Dieter 16<br />
Rothko, Marc 21, 186, 284, 399<br />
Rothko, Mark 21<br />
Rubino, Edoardo 24<br />
Rublëv, Andrej 275<br />
Ruffi, Gianni 4, 5, 6, 7, 9, 19, 20, 223, 224,<br />
225, 234, 244, 245, 246, 248, 250, 252,<br />
255, 260, 290, 309, 324, 328, 399<br />
S<br />
Salviati, vetreria 8<br />
Santi, Piero 93<br />
Sarfatti, Margherita 11, 84, 104, 130<br />
Savinio, Alberto 19, 169, 224<br />
Savino, Giancarlo 104<br />
Scanavino, Emilio 16, 143<br />
Scarpa, Carlo 8<br />
Segantini, Segantini 284<br />
Seguso, vetreria 8<br />
Sensani, Gian Carlo 66<br />
Serpieri, Arrigo 169<br />
Settimelli, Emilio 284<br />
Severini, Gino 161, 284<br />
Sewell Costetti, Mai 46<br />
Simoncini, Siliano 169, 173, 195, 199, 261,<br />
262, 265, 294, 395<br />
Sironi, Mario 169<br />
Sisi, Carlo 8, 45, 394<br />
Soffici, Ardengo 12, 15, 32, 33, 34, 44, 48, 92,<br />
93, 104, 169<br />
Soldati, Atanasio 151<br />
Solinas, Stelio 169<br />
Soto, Jesús Rafael 388<br />
Spadini, Armando 110<br />
Stanghellini, Arturo 25, 74<br />
Steingräber, Erich 131<br />
Stonorov, Oskar Gregory 18, 177<br />
Strawinsky, Igor 284<br />
Susumu Shingu 291, 383, 384<br />
T<br />
Thun, Matteo 8<br />
Tommasi 63<br />
Toso, vetreria 8<br />
Toti, Chiara 76, 105<br />
Treves editori, fratelli 13<br />
Trombadori, Francesco 186<br />
Tuci, Cristina 19<br />
Twombly, Cy 275<br />
U<br />
<strong>Un</strong>garetti, Giuseppe 48<br />
Utens, Giusto 360<br />
V<br />
Valiani, Arrigo 111<br />
van Doesburg, Theo 151<br />
van Eych, Jan 93<br />
Van Gogh, Vincent 182<br />
Vannetti, Gianni 310<br />
Vasarely, Victor 388<br />
Vedova, Emilio 265, 275<br />
Venini, vetreria 8<br />
Vergine, Lea 362<br />
Viani, Alberto 14<br />
Viani, Lorenzo 14, 25, 44, 66, 74, 182<br />
Villon, François 186<br />
Vittorini, Elio 14, 67, 68, 72<br />
Vivaldi, Cesare 19, 224, 235, 394<br />
Vivarelli, Jorio 4, 6, 17, 18, 167, 173, 177, 178,<br />
180, 190, 195, 269<br />
Volpi, Marisa 151, 156<br />
W<br />
Warhol, Andy 255, 256<br />
Weiermair, Peter 330<br />
West, Franz 279<br />
Wirkkala, Tapio 8<br />
Y<br />
Yourcenar, Marguerite 366<br />
Z<br />
Zanini, Gigiotti 14<br />
Zanzotto, Corrado 6, 15, 16, 21, 44, 56, 61,<br />
84, 92, 110, 111, 121, 122, 124, 126,<br />
182, 190, 191, 400<br />
Zecchin, Vittorio 8<br />
Zeti, Giuliano 173<br />
Zurbaran, Francisco de 114<br />
400<br />
401
Finito di stampare nel mese di maggio 2010 da Grafica Lito, Calenzano, per conto de Gli Ori, <strong>Pistoia</strong><br />
403