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TRAKS MAGAZINE 032

Un numero tutto da leggere stando a casa: ecco TRAKS MAGAZINE di marzo 2020, il numero #32. Con in copertina gli Unibrido e con le interviste a Ottodix, Giacomo Deiana, Nicola Denti, Rogoredo FS, I Problemi di Gibbo, Veronica, PGTGS, InO, Nebbioso, The Lansbury

Un numero tutto da leggere stando a casa: ecco TRAKS MAGAZINE di marzo 2020, il numero #32. Con in copertina gli Unibrido e con le interviste a Ottodix, Giacomo Deiana, Nicola Denti, Rogoredo FS, I Problemi di Gibbo, Veronica, PGTGS, InO, Nebbioso, The Lansbury

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MAGAZINE

Numero 32 - marzo 2020

UNIBRIDO

un progetto fatto di grande

baccano

OTTODIX

GIACOMO DEIANA

NICOLA DENTI

ROGOREDO FS

I PROBLEMI DI GIBBO

VERONICA


sommario

4

8

12

16

20

24

28

32

36

40

44

Unibrido

Ottodix

Giacomo Deiana

Nicola Denti

Rogoredo FS

I problemi di Gibbo

Veronica

TGTS

InO

Nebbioso

The Lansbury

Questa non è una testata giornalistica poiché viene aggiornata

senza alcuna periodicità. Non può pertanto

considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge

n. 62/2001. Qualora l’uso di un’immagine violasse

diritti d’autore, lo si comunichi a info@musictraks.com

e provvederemo alla rimozione immediata

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UNIBRIDO: un progetto fatto di

grande baccano

“P.I.G.S.” è il nuovo lavoro del duo abruzzese, “nato per caso” ma con idee

molto chiare e anche con un po’ di buon umore, nonostante tutto

Ci raccontate come nasce e cresce

il vostro progetto?

Gli Unibrido nascono per caso

e necessità nel 2018 dalle menti

alienate di Carlo e Marvin, due

ragazzi abruzzesi che cercano il

loro senso nella musica. Dal materiale

sonoro dei primi mesi hanno

cercato di prendere il meglio e infilarlo

in P.I.G.S., il primo album

pubblicato a settembre dello scorso

anno. In mezzo a tutto questo,

molte esperienze dal vivo in regione

hanno permesso loro di portare

in giro un progetto fatto di

grande baccano, messaggi sociali,

filosofia e traumi infantili. Ma con

buon umore. Quello che succederà

quando sarà di nuovo possibile

vivere insieme ad altri esseri

umani è ancora da scrivere.

Quali sono state le idee attorno

alle quali avete costruito il vostro

disco?

Sinceramente all’inizio non avevamo

le idee molto chiare su come

avrebbe dovuto suonare l’album

e in questo ci ha dato una grossa

mano il nostro produttore nonché

amico Luigi Caprara. Per quanto

riguarda i “contenuti” c’è tutto

quello che abbiamo vissuto, respirato,

letto e ascoltato negli ultimi

anni condensato in poche ma essenziali

liriche. Alienazione sociale,

nichilismo intrinseco, svolte

antropologiche e fine della metafisica.

La presentazione del vostro disco

chiude, dopo alcune con-

4

5



siderazioni sulla realtà di crisi

circostante, con una domanda di

bruciante attualità: ne usciremo

vivi? Come si esce dalla crisi imperante

in cui siamo cresciuti?

Quel passaggio della presentazione

di cui parli sembra descrivere,

anche se indirettamente, la situazione

straordinariamente paradossale

di questi giorni su cui non

vogliamo soffermarci troppo. Siamo

infatti di fronte a una crisi storica

su cui è impossibile formarsi

un’opinione lucida, almeno per il

momento. Sarebbe più opportuno

viversela interiormente come l’opportunità

per riconsiderare la scala

di valori e priorità che ognuno

di noi ha costruito mentalmente

nella propria vita. Non possiamo

fare altro. E alla fine dell’emergenza

saremo costretti a fare i conti

con tutte le scelte politiche ed economiche

totalmente sbagliate che

hanno portato l’Occidente fin qui.

Benché qui e là nel disco ci siano

idee alternative, mi sembra che

quello che vi piace suonare sia

un rock attento alle radici. Quali

sono i vostri capisaldi?

Il rock degli anni settanta, con venature

blues psichedeliche è piuttosto

presente. Coesistono anche

influenze stoner e alternative rock

degli anni Novanta nostrani. Ovviamente

a tutto questo proviamo

a dare un’impronta originale, o almeno

ci proviamo. Non abbiamo

paletti da questo punto di vista,

sentiamo di poter stravolgere i nostri

“capisaldi” in futuro.

Come spiegate il fatto che, mentre

ovunque in Italia si punta sul

pop, in Abruzzo fiorisca il rock

(Management fino a poco fa,

Voina, voi e altri gruppi)?

Non ce lo spieghiamo. Semplicemente

ci godiamo le cose buone

che riescono a nascere dalle nostre

parti, senza fare paragoni.

L’Abruzzo è un posto strano dove,

già prima dei decreti ministeriali,

noia e immobilità gironzolavano

a braccetto per i paeselli silenziosi

e le piccole cittadine. Coltivare

una qualsiasi forma d’arte viene

ancora visto da fette enormi di

vecchie e nuove generazioni come

un’inutile perdita di tempo. Capisci

bene quanto siano preziose le

realtà musicali nate qui. Valgono

doppio.

7



OTTODIX

“Entanglement è il nuovo disco

del poliedrico musicista, un

album riflessione sulla connessione

globale

Prima di parlare del disco nello

specifico, credo che sia giusto

chiedere un parere, a un musicista

dalle vedute ampie come le

tue, un parere sul periodo, paradossale

e singolare, che stiamo

vivendo, sotto lo schiaffo del virus.

Sono come tutti scombussolato

dalla martellata in testa che a

ognuno di noi è arrivata in testa,

sulle abitudini, sui progetti, sulle

sicurezze, ma ho per indole personale

e professionale la fortuna

di essere abituato a immaginare

scenari capovolti, clamorosi. Ora

sono reali. Certi esercizi di immaginazione

artistica ti portano a

essere più preparato a scenari destabilizzanti

come quello di oggi,

li hai già in qualche modo ipotizzati,

hai un po’ più di confidenza

con le situazioni estreme. Non

sono preoccupato per me, insomma,

ma per le persone che avevano

basato le loro certezze sulla

routine, sulla stabilità del sistema,

dell’economia. Mi preoccupa l’italiano

medio e l’individualismo

cieco che fa del nostro sacro trantran

la cosa più importante del

mondo a discapito del senso civico,

che è la stessa cosa che ci porta

a smantellare la sanità pubblica in

favore di quella privata, a evadere

il fisco, ad avere le casse pubbliche

vuote in emergenza o che fa trasgredire

le regole di quarantena,

perché quest’ultima viene scambiata

da alcuni, per una vacanza,

da usare per andare tutti al mare.

Questo mi preoccupa. E che per

contrasto dall’altra parte in ospedale

ci siano supereroi che non

possono resistere a oltranza. E’ un

gigantesco esperimento sociale

che trasformerà in modo drammatico

il mondo definitivamente,

credo, ma è interessantissimo. Cadranno

molte maschere, rimarrà

l’essenza di chi siamo nel bene

e nel male e saremo costretti a

guardarci in faccia nudi allo specchio.

Abbiamo un’occasione senza

pari per ripensare ai fondamentali

dell’esistenza, al fatto che c’è

ancora la morte dietro l’angolo a

far rivalutare la vita. Sono scenari,

questi, apocalittici, intuiti o intravisti

da scienziati, artisti e filosofi,

e gridati invano, da coloro che insomma,

per attitudine e mestiere

hanno il dovere di presagire l’aria

in lontananza. Entanglement, il

mio nuovo album, è in tal senso di

un profetico quasi imbarazzante,

ora. Un album-riflessione sull’iper

connessione globale, geografica,

economica, ambientale e web, in

cui causa-effetto si propagano in

modo immediato da una parte

all’altra del globo, come nel fenomeno,

appunto dell’entanglement

in fisica quantistica.

Veniamo proprio al disco: da

quali presupposti nasce?

Dal concetto di fisica che ti accennavo

poco fa. Due particelle

unite in precedenza e poste anche

a milioni di chilometri di distanza,

interagiscono tra loro a livello

istantaneo, annullando il concetto

di spazio-tempo. Questa cosa mi

ha appunto fatto pensare in chiave

poetica (e non scientifica) alla

similitudine con la globalizzazione

alla quale siamo giunti come

società umana. dalle fake news,

all’odio, ai crolli di borsa, alla vita

web, ai collegamenti aerei e navali

internazionali, alle migrazioni

umane e animali, dall’esplorazione

al colonialismo, ai disastri ambientali

e umani. Tutto si propaga

all’istante da una parte all’altra

del mondo. Tutti siamo causa di

tutto e non possiamo credere di

farla più franca, usando il Pacifico

come discarica o sfruttando i

bambini nelle miniere di cobalto

8 9



in Congo per i nostri microchip,

che poi riempiono le barche e

vengono qui il giorno dopo. Non

la facciamo più franca pensando

che l’epidemia in Cina sia una rogna

lontana, o che la radioattività

di Fukushima non ci tocchi, perché

ce l’abbiamo nel banco del pesce

a Milano. Ho dedicato un album

alla storia dell’intreccio delle

connessioni umane, dalla storia

della navigazione antica fino alla

navigazione web. Entanglement

immagina un viaggio geografico

attraverso gli oceani e i continenti,

per capire la follia umana

e la necessità che ha la natura di

muoversi e spostarsi ovunque.

Ma riflette anche sul bisogno di

disconnessione, di intercapedini

di silenzio, di isole remote. La

bellezza infantile della geografia,

di aprire un atlante e immaginare

isole lontane, mari sconosciuti e

spaventosi o le terre polari disabitate.

La bellezza anche di sapere

esattamente dove siamo noi-rispetto-a-cosa.

Coordinate per ridarci

un senso della posizione, del

limite e della misura.

Pacific Trash Vortex è dedicata

all’isola di rifiuti che circola per

il Pacifico. Ci vuoi spiegare motivazioni

di questo brano?

Tra tutti i continenti toccati dal

sommergibile Entanglement

(uscirà un mio racconto a puntate

nel web, a breve, per accompagnare

la promozione in quarantena

di questi giorni), c’è anche il

non-continente del Pacific Trash

Vortex, l’immensa chiazza di rifiuti

e micro plastiche galleggianti

che sta uccidendo il pacifico. Ha

una doppia lettura, perché in realtà

parlo dell’inquinamento dell’informazione,

La manipolazione

della realtà nel web, il trash (appunto)

che impera in rete e i veleni

e l’odio che propaga, creando

una impalpabile , ma pericolosissima

discarica in cui far scaricare

alla gente tutte le loro peggiori

pulsioni intestinali, lontane dal

cervello. E’ il brano più trasversale

e poi per contrasto secondo

me ha un mood travolgente, ballabile,

grintoso, in pieno Ottodix

electro-style.

Su quali aspetti sonori hai concentrato

la tua attenzione?

Ho ulteriormente consolidato

il mio sound tra pop sinfonico

orchestrale e elettronica. Flavio

Ferri che ha messo mano ai miei

elaboratissimi provini, già molto

prodotti, ha aiutato tanto a valorizzare

e ripulire queste idee aggiungendone

di nuovissime. Ho

inserito per necessità di “suggestione”

geografica, alcuni elementi

dal sapore più etnico, ambient. Il

brano che forse più mi soddisfa

in tal senso è Africa By Night, in

cui ho evitato di cadere in uno dei

tanti cliche musicali africani, dal

percussionismo ai cori tribali, agli

strumenti etnici che danno quel

colore new age un po’ abusato. E’

una marcia migratoria di elefanti,

cadenzata, marziale, che attraversa

un’Africa moderna in rovina,

che sogna che venga sera, quando

soffia un filo d’aria fresca. Oltre a

questi interventi c’è la grossa novità

delle 5 tracce strumentali dedicate

ai luoghi disabitati del pianeta:

3 oceani e le due zone polari, in

cui a Barcellona io Flavio e Loris

(Sovernigo, il pianista) abbiamo

creato un tessuto drone-ambient

minimal davvero molto inedito

per Ottodix, ma che serviva a differenziare

le canzoni continente

da quelle dei mari e dei poli, come

camere di decompressione sonora.

Anche da questo disco trarrai

uno show dal vivo. Ci puoi anticipare

qualcosa in merito?

Il tour di 13 date era appena stato

pubblicato e ora verrà quasi

cancellato e posticipato chissà a

quando. Un dolore che non sai,

anche per la qualità e l’importanza

di molti eventi, da Milano a

Roma a splendidi teatri e festival

o biennali importanti. Lo spettacolo

prevede la grande sfera gonfiabile

che abbiamo usato anche

per Micromega, che si accenderà e

diventerà come un mappamondo

con proiezioni e visuals in cui a

tappe percorreremo questo viaggio

che unirà letteralmente il globo,

canzone per canzone seguendo

la tracklist precisa, con band e

quartetto d’archi in palco. Tra una

canzone e l’altra anche contributi

e letture di attori su riflessioni,

statistiche e dati riguardanti l’iper

connessione globale e i suoi paradossi.

Seguiteci per posticipi e

conferme eventuali, si vive come

tutti, ora, alla giornata.

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GIACOMO DEIANA

Si chiama “Single” il nuovo album del chitarrista e cantautore. Non vedente

dall’età di 12 anni, l’artista sardo unisce le trame strumentali di

una chitarra solista alle canzoni che incontrano anche la partecipazione

di Andrea Andrillo, Max Manfredi, Pierpaolo Liori e Giuliana Lulli Lostia

“Single” è il tuo secondo album.

Vorrei sapere che elementi di novità

hai introdotto e percepito

rispetto al tuo esordio, e anche la

ragione del titolo.

Single è la continuazione del mio

primo disco. Più che elementi

di novità prosegue un discorso.

Mentre il primo disco è suonato

con una sezione ritmica sempre

presente e con tanti strumenti,

questo disco è suonato solo con la

chitarra. Quindi è un disco completamente

diverso, mentre quello

è un disco corale, questo è un

disco unico con un’unica voce.

Magari è più difficile estrimere i

concetti ma proprio per questo è

stato più affascinante. Single, intanto

perché è un disco che suona

con un unico strumento, con degli

ospiti che vengono a fare visita

però la voce è unica e anche perché

al momento della scrittura di

questo disco era la mia situazione

sia sentimentale sia musicale.

Come sono andate le lavorazioni

del disco?

Le lavorazioni del disco sono state

rapide e molto rilassate. Forse

rapide perché moto rilassate. In

realtà la maggior parte dei brani

sono stati registrati in un solo pomeriggio,

in uno studio piccolo,

quindi in un ambiente molto intimo.

Eravamo io, i microfoni ed

Emanuele Pugeddu che è il fonico.

E così è venuto molto naturale

anche l’inserimento degli ospiti.

E’ stato proprio un disco “rilassato”,

è la cosa che mi sento di sottolineare:

nessuna fretta, nessuna

scadenza, e proprio per questo in

realtà è stato molto veloce.

Vuoi raccontare qualcosa rispetto

agli ospiti di questo album?

Per quanto riguarda gli ospiti: sì

c’è qualcosa da dire. Andrea Andrillo

canta “Tutto tramonta”: desideravo

sentire una mia canzone

cantata da un artista che non

fossi io. Il giorno stesso che presi

questa decisione andai a teatro a

sentire un concerto di Andrea e lì

fui folgorato e mi dissi “Questo è

un brano per la sua voce”. Non mi

sbagliavo perché la sua interpretazione

io la trovo assolutamente

adorabile, lui è un artista di prima

categoria che meriterebbe dei palchi

direi internazionali, ma questi

sono i tempi e quindi anche i



grandi performer e i grandi artisti

hanno spesso dei piccoli pubblici.

Però sono felicissimo del lavoro

che ha fatto. Max Manfredi non

ha bisogno di presentazioni, ci

siamo conosciuti sul palco nell’agosto

del 2018, durante un concerto

che prevedeva la presenza di

molti artisti e c’era anche lui. Tra

l’altro un aneddoto simpatico: mi

venne presentato come “Massimo”,

e continuammo a chiacchierare

e a farci una birra insieme.

Sul palco, quando ha iniziato a

cantare ho riconosciuto questa

voce, poi ho riconosciuto le canzoni

e solo allora mi sono reso

conto che si trattava di un cantautore

che io seguivo. Poi andammo

a cena insieme e più tardi mi venne

l’idea che “Il valzer della domenica”,

che non avevo ancora scritto,

fosse adatta a lui e non mi sono

assolutamente pentito, anzi. Pierpaolo

Liori, fisarmonicista che ha

già collaborato con me nel primo

disco e mi segue dal vivo, è un artista

dalla sensibilità e dalle competenze

molteplici perché lui è

anche un bravissimo arrangiatore

e compositore, e quindi ogni volta

che metto un mio brano in mano

sua dice sempre: “Mah, non so,

ho provato a metterci lì una cosa,

vediamo se ti piace...” ed è sempre

una gran figata! Giuliana Lulli Lostia

ha nel suo repertorio un mio

brano, tratto dal mio primo disco

e quindi è stato praticamente automatico

nel momento in cui ho

deciso di inserire una voce femminile

in Serena rivolgermi a lei.

Anche perché nell’ultimo anno lei

si è presa cura della mia “vociaccia”

che se non viene tenuta sotto

controllo inizia a fare i fatti suoi.

Quindi fa anche un gran lavoro

con me come insegnante.

Tre nomi di chitarristi che ti

hanno cambiato la vita?

Desidero dare due risposte a questa

domanda. Inizio come Giacomo

come persona: il primo nome

è Alessandro Cocco, mio cugino,

anche se lui non fa il chitarrista

di mestiere è quello che mi ha insegnato

il giro di do. Il secondo

è Pero Alfonsi, il mio maestro,

che mi ha mostrato cosa si può

fare con una chitarra classica,

mi ha portato fino al diploma. A

lui devo tanto, anche della mu-

sica che poi ho ascoltato, la mia

apertura a generi diversi dal rock

e dall’hard rock, dal jazz al jazz

acustico, a tutta la musica che si

muove tra il classico e l’improvvisazione.

Il terzo nome è Flavio

Sala, che secondo me attualmente

il chitarrista classico vivente più in

gamba e più bravo e più completo

che c’è. L’ho conosciuto a Siena

all’Accademia Chigiana e mi ha

aiutato a capire quello che volevo

e quello che non volevo fare. Ho

capito per esempio che la carriera

del concertista classico non era la

mia strada e grazie a lui ho preso

il coraggio di portare la tecnica e

la voce della chitarra classica nella

canzone. Parlando di grandi maestri

ti faccio tre nomi a bruciapelo:

Alirio Diaz, Andrea Braido, Dean

Murray, uno dei due solisti degli

Iron Maiden.

In questi giorni si è citato spesso

Cecità di Saramago. Tu che

conosci davvero la sensazione

come stai vivendo questi giorni e

che giudizio hai delle reazioni?

Sì, si è citato spesso e onestamente

devo dire a sproposito: chi ha letto

il libro sa che la cecità di cui parla

Saramago è metaforica. Sarebbe

stato bene citare già da una decina

d’anni questo libro perché la cecità

del mondo in cui viviamo non è

epidemica e fisica quanto morale.

Non sono trascinato dall’ansia di

apparire sui social, per far vedere

che esisto anche se nessuno mi

vede, sto approfittando per stare

tranquillo, riprendermi e riflettere

su alcune cose importanti. Per

esempio sto cercando di ricordarmi

e far ricordare alle persone

i nomi dei politici che non hanno

mai parlato di ricerca, cultura

e istruzione. E questo sarà bene

ricordarcelo in un futuro perché

non si può parlare di ricerca

in campo medico solo quando è

troppo tardi. Le epidemie erano

già previste, non c’era un se ma un

quando. Sto tappandomi le orecchie

il più possibile e sto cercando

di prendere il meglio, riflettendo

anche sulla condizione dei lavoratori

dello spettacolo che non sono

tutelati, vengono chiamati a tenere

compagnia al popolo alle ore 18,

però poi quando si fa il decreto i

lavoratori dello spettacolo non ci

sono...

14

15



NICOLA DENTI

“Egosfera” è il nuovo disco del musicista, un viaggio

strumentale attraverso le allucinazioni di Ekow, personaggio

alla ricerca della propria dimensione

Hai un percorso musicale estremamente

ricco e prestigioso.

Come sei arrivato all’idea di un

disco a tuo nome?

Ho sempre lavorato con band sia

live che in studio e devo dire che

la dimensione “band” è molto

coinvolgente per la condivisione

delle idee, ma avevo bisogno

di dare una mia personale visione

della musica e la voglia di fare

sentire la mia “voce”. Fare tutto da

soli è molto impegnativo, ma entusiasmante

allo stesso tempo e ho

pensato che il modo migliore fosse

fare un Crowdfunding; un mio

caro amico è uno dei fondatori di

BeCrowdy e ho così ho fatto una

campagna di raccolta fondi che mi

ha permesso di raggiungere buona

parte della cifra che mi è servita

per realizzare il disco. E’ stata

un’esperienza fantastica, che mi ha

dato una carica pazzesca per procedere

nel migliore dei modi alla

registrazione di Egosfera.

Egosfera è un concept album

strumentale. Ci spieghi come sei

arrivato all’idea del disco e alla

sua realizzazione?

Ho sempre amato i concept album

per il loro potere di trasportarti

per la totalità del disco in un’altra

realtà, e ho sempre desiderato

scrivere un concept come primo

album. Il disco parla di Ekow,

una persona che soffre di allucinazioni

e deliri che parte per un

viaggio alla ricerca della propria

dimensione simboleggiata da Egosfera.

L’idea è partita da un periodo

molto negativo della mia vita

vissuto parecchi anni fa e avevo

bisogno di un modo per parlarne,

è stato più forte di me, era una

storia che dovevo raccontare, non

con le parole ma con la musica.

Il progetto è stato congelato per

parecchi anni, per i tanti impegni

musicali e di insegnamento ed è



sempre stato rimandato, poi un

bel giorno di tre anni sono partito

con le idee chiare e mi sono posto

l’obiettivo di portare a termine

l’album, il primo brano che ho

ultimato è stato The Project e da lì

non mi sono più fermato. Le idee

arrivavano in ogni momento della

giornata, anche senza lo strumento

in mano. E’ stato un anno pieno

di creatività che ho sintetizzato in

Egosfera, penso di avere scartato

altrettanto materiale per scrivere

un altro album intero.

Forzando un po’ il concerto di

Egosfera, non trovi curioso che

oggi per cause di forza maggiore

siamo tutti un po’ chiusi nella

nostra Egosfera, eppure sembra

starci così stretta che stiamo riscoprendo

l’esigenza di socialità

“vera”?

Ho sempre visto Egosfera come un

concetto più ampio, la dimensione

dove trovare il proprio equilibrio,

ma non necessariamente

un luogo dove siamo da soli con

noi stessi. Mi piace pensare che

in questo momento siamo tutti in

viaggio verso Egosfera, in un qualche

modo penso che queste restrizioni

ci stiano facendo riscoprire

noi stessi, iniziano a mancarci i

contatti umani, quelli veri, stiamo

ricominciando a dare un po’ più

valore alle piccole cose, abbiamo il

bisogno di sentirci più comunità.

Il mondo non si ferma mai e non

abbiamo mai il tempo di pensare,

prendiamo questo periodo negativo

almeno come una occasione di

risveglio collettivo.

Nel disco collabori con molti

nomi eccellenti. Ti va di parlarci

di loro?

Prima di tutto ho avuto la fortuna

di lavorare con Fausto Tinello e

Mirko Nosari che hanno mixato

il disco, hanno saputo dare perfettamente

carattere e forma a

quello che avevo in testa. Il primo

musicista che ho coinvolto è stato

Federico Paulovich, batterista dei

Destrage davvero incredibile, abbiamo

registrato le batterie in un

solo giorno e devo dire che ha saputo

interpretare fantasticamente

ogni brano e soprattutto zero editing,

era già tutto perfetto.

Ho avuto l’enorme piacere di avere

anche Bryan Beller, un mostro

vivente del basso che suona con

Aristocrats e Joe Satriani, che ha

suonato su Awakening, è stato

molto emozionante appena ho

sentito la linea di basso sul brano,

l’ha davvero impreziosito. Mi

sono affiancato poi di colleghi

bassisti che stimo molto musicalmente

con cui ho avuto l’opportunità

già di suonare in diverse

situazioni sia live che in studio:

Anna Portalupi, Emiliano Bozzi

Fausto Tinello, Lucio Piccoli e

Pier Bernardi. L’ultimo tassello è

stato Sbibu, percussionista straordinario

che con i suoi interventi

mai banali ha reso magici alcuni

momenti del disco. Superato il

100% del crowdfunding ho voluto

fare un ulteriore regalo a tutti i sostenitori

e ho chiesto a John Cuniberti

di fare il mastering, il tocco

finale della produzione dell’album.

Lavorare con lui è stato fantastico,

John ha prodotto i più famosi album

di Joe Satriani, tra cui Surfing

with the Alien, una vera leggenda.

E non potevo fare mancare nell’album

mio figlio Tobias, l’ho registrato

tutte le mattine quando aveva

pochi mesi e la sua voce apre e

chiude il brano All Good Things.

Tre nomi di musicisti contemporanei

che stimi particolarmente?

Ti cito i primi tre che mi vengono

in mente, perché ne avrei davvero

troppi da menzionare. Il primo è

Steven Wilson, musicista e compositore

che apprezzo davvero

tantissimo, una discografia pazzesca,

non smette mai di stupirmi.

Ultimamente ho iniziato ad

apprezzare Tosin Abasi, che con

i suoi Animal as Leaders sta confezionando

dei dischi strumentali

davvero molto interessanti e con

sonorità innovative. Come non

citarti poi uno dei miei idoli, che è

Joe Satriani, che per me è rimasto

una continua ispirazione fin da

quando mio padre mi regalò a 13

anni il suo disco Time Machine.

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ROGOREDO FS

Sono in cinque e si vogliono bene: la band lombarda pubblica il singolo

d’esordio “Psicosociale” e prepara tutte le “bombe” successive

Partiamo dal (vostro) inizio:

come hanno avuto inizio i Rogoredo

FS?

I Rogoredo FS (o rogoredi, se vogliamo

umanizzare il nome) nascono

nel novembre 2017, oggi



sono in cinque e si vogliono bene.

Esistono due versioni sull’origine

del nome, ma la sintesi è che l’abbiamo

scelto in metro, di fronte

all’insegna dell’omonima stazione,

perché in fondo era coerente con

quello che volevamo raccontare.

In stazione ogni giorno transitano

studenti, imprenditori, scippatori,

artisti; ci sembrava interessante

parlare di ognuno di loro nelle

canzoni.

Come nasce il vostro singolo d’esordio,

Psicosociale?

Psicosociale nasce dall’immediato

bisogno che avevamo di raccontare,

di chiarire da subito che il

nostro obiettivo non era quello di

intrattenere gli amici durante gli

aperitivi, bensì di spiegare il disagio

che un ventenne qualsiasi può

ritrovarsi a vivere in un mondo

così complesso. E’ curioso pensare

che io e Jacopo (il tastierista) scrivemmo

la prima bozza del brano

tre anni fa. Abbiamo atteso due

anni prima di portarlo a maturazione,

questo grazie a una line-up

completa e affiatata, oltre all’incontro

con il produttore Max Palmirotta.

E’ stato lui a incoraggiarci,

a insistere sul progetto, e noi

l’abbiamo ascoltato: Psicosociale è

solo l’inizio, abbiamo già un arsenale

di bombe pronte al lancio.

Vi chiamate come una stazione,

il vostro primo singolo parla di

andare “via da qui”, sembra che

la fuga sia proprio nel vostro

DNA...

In effetti può sembrare un paradosso

cantare “via da qui” in questo

momento di clausura forzata.

In realtà fa capire meglio il messaggio

della canzone: le prigioni

non sono sempre dei luoghi fisici,

molto spesso l’incomprensione e

il bigottismo sono il materiale migliore

per costruire una gabbia.

D’altronde non esistono persone

dall’anima sedentaria; chiunque su

questo pianeta, dal Pleistocene a

oggi, è in fuga da qualcosa.

Quali sono i vostri punti di riferimento

musicali?

Domanda difficile! Siamo tutti

molto diversi in realtà, Jacopo è

un discepolo dei Radiohead, Nicholas

adora Justin Vernon, Riccardo

ha un tatuaggio dei RHCP e

Armando ha venduto l’anima agli

Afterhours. Andrea (il batterista)

ascolta di tutto, adora i Dream

Theater ma sa apprezzare anche la

semplicità. Ad ogni modo, la nostra

fase creativa origina dalle jam

session, in due o in cinque, per

poi lasciare spazio alla scrittura.

L’unico mantra che siamo tenuti a

osservare è: solo testi in italiano!

Momento difficile per l’Italia ma

per la Lombardia in particolare.

Che cosa vi sentite di dire oggi ai

vostri concittadini?

Per 3/5 della band siamo bioingegneri,

crediamo tutti fermamente

nella logica e nella statistica: al

momento la soluzione più logica è

attenersi rigidamente alle disposizioni

del governo. I rockers sono

noti per la loro lotta alle convenzioni

e alle regole, ma di sicuro

non è questo il momento giusto

per farlo. Invitiamo chiunque abbia

una penna, uno strumento

musicale o una fotocamera a rispolverare

la propria creatività,

in modo da recuperare quella “libertà

espressiva” che è spesso soppressa

dagli impegni lavorativi.

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I PROBLEMI DI GIBBO

“Sai dirmi perché?” è il nuovo album della band che nasce sulla spinta

di Stefano e Daniele, membri fondatori, e di un personaggio, Gibbo, che

non ha paura di mostrarsi fragile

Ci raccontate la band? E chi è

Gibbo?

La band nasce da un’idea di Stefano

e Daniele, un paio di anni

fa. Stefano aveva iniziato a scrivere

qualche canzone e Daniele

era da un po’ che aveva voglia di



realizzare una produzione originale.

Abbiamo iniziato a lavorare

in studio e a produrre delle demo

tape, alle quali hanno collaborato

fin da subito anche Alessandro e

Carlotta. Sì è creata una bella sinergia

e tutto è stato molto spontaneo.

A quel punto ci voleva un

nome... Ci siamo quindi inventati

questo personaggio, Gibbo, come

una sorta di nostro alter ego, che a

differenza di noi,

non ha nessun

timore di mostrarsi

fragile e

interrogarsi sulle

contraddizioni

del nostro tempo.

I suo “problemi”

rappresentano

questo

nostro disagio,

nel vedere come

in un mondo

sempre più connesso,

in realtà

sembriamo tutti

più distanti.

Quali sono state

le ispirazioni

alla base del vostro

disco d’esordio?

Tutto è nato in primis da un esigenza

personale, cercare di capire

quello che ci portiamo dentro

ogni giorno e osservare il mondo

che ci circonda. È difficile mettersi

in discussione e ascoltarsi, ma

tanto è difficile quanto è necessario

per riuscire a evolvere. Questi

interrogativi lì ritroviamo nei cantautori

italiani, moderni e non al

quale cerchiamo di ispirarci e di

imparare molto.

Mi sembra che Lei ballava sia

una traccia cardine del disco.

Come nasce?

In effetti è la canzone a cui teniamo

di più, perché è quella che

rappresenta meglio il nostro mondo

sonoro. È stata anche la prima

canzone che abbiamo scritto e

quella che ci ha dato la possibilità

di poter collaborare con Luca Serio

Bertolini (Modena City Ramblers).

Diciamo che dopo aver

realizzato Lei ballava, abbiamo capito

che tutto poteva avere inizio.

Quali sono i vostri punti di riferimento

musicali?

A livello sonoro una parte di noi

è ben radicata alle sonorità folk

americane, a quel suono che resiste

al tempo nelle sua totalità

e semplicità, ma nel nostro percorso

non abbiamo potuto fare a

meno di sperimentare grazie alla

tecnologia, sonorità più moderne,

elettroniche, e tuttora stiamo cercando

di trovare un giusto connubio

tra le due cose. Non scordarsi

quello che è stato e che ha dato

inizio a tutto senza guardare però

con pregiudizio le possibilità che

il “nuovo” ci mette a disposizione.

Citiamo Niccolò Fabi, il quale ha

saputo unire le due cose in modo

magistrale nel suo ultimo album,

e un cantautore statunitense di

nome Gregory Alan Isokov, che

mantiene viva quella semplicità e

naturalezza nel fare musica.

Quali saranno le prossime tappe

della band?

Negli ultimi mesi ci siamo concentrati

sulla produzione dell’album

e dei video dei primi due singoli.

Il prossimo passo era quello

di mettere in programmazione

diverse esibizioni live... Diciamo

“era” perché vista la situazione attuale,

non sappiamo quando potremo

finalmente suonare dal vivo

le nostre canzoni. Tutto quello che

abbiamo realizzato fino a oggi, ha

come obiettivo ultimo quello di

poter presentare dal vivo il nostro

lavoro. Adesso, come sappiamo,

ci sono altre priorità, ed è giusto

dare la precedenza all’emergenza

sanitaria che stiamo vivendo,

ma non vediamo l’ora che tutto si

sistemi, sarà ancora più bello ed

emozionante...

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VERONICA

“Kaleidoscopio” è il primo singolo della giovane cantautrice di Aversa,

dedicata alle vittime di bullismo, con un brano che fa perno sulla sua

esperienza personale

Cominciamo dalle presentazioni:

chi è Veronica?

Sono Veronica, ho 24 anni e sono

cresciuta ad Aversa, una piccola

città in provincia di Caserta. Ho

iniziato ad appassionarmi alla

musica alle elementari, quando

durante l’ora di musica suonavo

le percussioni e la diamonica senza

saper leggere le note. Oltre alla

passione per gli strumenti musicali,

il mio primo amore indiscusso

è stato il canto. Sin da bambina ho

da sempre provato una sensazione

di totale libertà cantando al karaoke

le canzoni dei miei artisti pre-

feriti, in particolare, il mio cavallo

di battaglia era La solitudine di

Laura Pausini. Durante il periodo

delle medie mi resi conto che

il canto era diventato una sorta di

rifugio dai tormenti che subivo

quotidianamente a scuola. Così,

decisi di prendere lezioni e al contempo

iniziai a suonare la chitarra

da autodidatta guardando video

su YouTube. Durante il liceo decisi

di affrontare l’ansia da palcoscenico

suonando in numerose

band della mia città e partecipando

a concorsi di canto regionali.

Dopo essermi laureata, dai banchi

di scuola di periferia, sono stata

selezionata per studiare alla Luiss

Business School, dove lo scorso

anno mi sono diplomata al Master

of Music: l’obiettivo più importante

che ho conseguito fino ad ora.

Oggi posso dire che Veronica vive

di musica in tutti i sensi.

“Kaleidoscopio”, il tuo primo

singolo, è dedicato alle vittime di

bullismo. Come nasce? Lo spunto

è una tua vicenda personale?

“Kaleidoscopio” è nata in un periodo

molto buio della mia vita,

periodo in cui ho sentito la necessità

di dare voce a tutte quelle

esperienze negative che mi portavo

dentro da troppo tempo. Questo

brano parla di me e del mio

acerrimo nemico, il bullismo. Da

bambina e anche in adolescenza

ho subito diversi atti di bullismo

sia di natura psicologica sia fisica.

Il bullismo è stato un capitolo difficile,

di cui non ho mai avuto il

coraggio di parlare per non essere

ulteriormente “presa in giro” dalle

persone che per anni hanno gioito

nel vedermi cadere in un baratro

sempre più profondo. Ho impiegato

diversi anni a chiedere aiuto

ed è stata questa agonia prolungata

a farmi rifugiare nella musica.

La musica mi ha salvata, mi ha

dato la chiave per sopprimere tutte

quelle sensazioni negative che

mi rendevano vulnerabile e insicura.

Kaleidoscopio rappresenta il

ritrovo di una voce che avevo perso

e che avevo finito per dimenticare

a causa del giudizio altrui, ma

da quando l’ho ritrovata ho deciso

di metterla a disposizione di chi

ancora stenta a trovare la propria

e che ha bisogno di essere rappresentato

con coraggio. Non ho

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voluto soffermarmi soltanto sulla

mia personale esperienza, ma ho

voluto dare una visione più ampia

rispetto alle difficoltà che ognuno

di noi si ritrova ad affrontare

ogni giorno. I veri protagonisti di

questa canzone sono tutti coloro

che inspiegabilmente e quotidianamente

vengono spinti giù nel

baratro dell’isolamento da una

società conformista, dove tutto si

dissolve in un silenzio – assenso

assordante che non lascia spazio

alla diversità. Nel mio brano ci

sono influenze non eterogenee ma

anche di artisti precisi quali Billie

Eilish e Lorde che ritengo abbiano

rappresentato e rappresentino una

generazione vulnerabile che, persa

tra i meandri di internet, non

sappia distinguere più dei punti di

riferimento reali a cui appellarsi o

confrontarsi.

Anche il video mi sembra piuttosto

carico di simboli e molto

d’impatto. Come sono andate le

riprese?

Il testo di Kaleidoscopio è ricco di

metafore così come il video e queste

ultime hanno l’arduo compito

di descrivere al meglio il concetto

di diversità, termine che molto

spesso viene utilizzato in modo

dispregiativo. Ho immaginato il

bullismo come un film in bianco

e nero, dove non si riesce a

individuare alcun tipo di colore.

All’inizio del video mi ritrovo in

questo limbo dal quale non riesco

a evadere perché queste mani

ricoperte di vernice mi trattengono

senza alcun valido motivo

e sono la metafora di una società

che ancora zoppicante non riesce

ad accettare a pieno la diversità.

Il caleidoscopio, rappresentato

dai miei occhiali, è lo strumento

chiave che mi permette di guardare

oltre questa nube grigiastra

e di vedere finalmente la vita dal

mio punto di vista, ricca di colori

e di forme che prima non riuscivo

a percepire in alcun modo poiché

offuscati dal giudizio altrui. Nel

video, girato dal regista Valerio

Matteu, è presente anche una ballerina

(Anna Massaro) che simboleggia

tutto ciò che fin da bambina

ho sempre sognato di essere e che

sono riuscita a diventare dopo

aver trovato il coraggio di affrontare

le mie paure. Nelle scene finali

riesco ad accettare me stessa e

a trasformarmi in una rosa rossa,

simbolo di rinascita.

So che hai altri piani, altri progetti

in arrivo...

Sto lavorando con Key Music e

Cantieri Sonori alla realizzazione

di un ep, dove affronterò tematiche

sociali che mi stanno a cuore.

Prossimamente duetterò con un

rapper napoletano per raccontare

della riqualificazione di zone

come Scampia e Secondigliano

che si stanno rialzando a testa alta

da un periodo di sofferenza durato

fin troppo a lungo.

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PALMER GENERATOR

THE GREAT SAUNITES

Uno split album tra due band “parenti” che condividono anche sonorità e

gusto per la sperimentazione. Il risultato è “PGTGS”

Come nasce e che cosa vi ha

spinto a condividere questo progetto?

PG: Il progetto è nato nel 2010 e

la spinta è sicuramente stata quella

di suonare in famiglia.Tommaso

e suo fratello Michele suonavano

già insieme in una precedente

band. Nel 2010 Mattia, figlio di

Michele, era quattordicenne e aveva

da poco cominciato a suonare

la batteria cosi, inizialmente per

gioco, iniziammo a sfruttare la

sala prove per farci delle suonate



in compagnia. Col tempo il progetto

è diventato sempre più concreto

per noi fino al 2014 quando,

usciti col primo album ufficiale,

abbiamo veramente cominciato il

nostro percorso come band. Cosa

che ci ha poi unito molto sono gli

ascolti musicali, dato che tutti e

tre si è sempre ascoltato molto e

ricercato molto, andandosi a procacciare

la nostra propria musica

e puntualmente condividendola

parlandone con gli altri. Anche

questo un meccanismo fondamentale

per la crescita.

TGS: Il progetto “PGTGS” ha origine

dal primo

incontro

tra le due

band, in occasione

del

“Field Fest”

di Jesi, un

festival estivo

al quale

i Palmer

collaborano

in veste di

organizzatori

e a cui ci

invitarono

qualche anno fa. Mantenendo nel

tempo i contatti, ci siamo ritrovati

abbastanza a livello di gusti e

approccio. L’idea di dare vita allo

split è quindi nata così, tra uno

scambio di vedute sulla scena underground

e un confronto sui rispettivi

progetti futuri. La collaborazione

si è sviluppata a distanza,

ispirata dalla passione comune e

da un’idea di album non necessariamente

immediato, ma che potesse

conciliare nei limiti del possibile

lo stile e il momento attuale

dei gruppi.

Che cosa vi piace di più dell’ “al-

tra” band?

PG: The Great Saunites sono dei

grandi amici e una grande band.

Una delle prime cose che sicuramente

ci ha colpito della loro

musica sono gli andamenti ipnotici

circolari. Prima di collaborare

insieme li abbiamo visti live tante

volte, ci siamo conosciuti bene e ci

è sempre piaciuto lasciarci incantare

dai loro vortici psichedelici.

Una sorta di seduta ipnotica dove

basta chiudere gli occhi e lasciarsi

andare. Una band poi molto longeva,

dato che suonano dal 2008,

e ciò non può che aver giovato, li

consideriamo infatti estremamente

maturi come musicisti e consci

del proprio io. Poi anche qui, continuando

a sottolineare l’importanza

che per noi hanno i rapporti

di amicizia in musica, condividere

gli ascolti e le discussioni musicali

con loro è sempre stato molto

bello, una band preparata e che

conosce davvero molto ed approfonditamente

ciò che tratta, senza

superficialismi e soprattutto senza

ego-mania, che oggi purtroppo

porta molte band a suonare solo

per mettersi in vetrina, per piacere

agli altri. Da questo punto di vista

i Saunites sono una band “vera” e

che si vive, come non moltissime

ce ne sono oggi in giro, visto anche

il dilagare del mood da band

a progetto che straripa in Italia:

dove quel che conta è il singolo e

dove ogni tot si abbandona una

band per passare ad un altro progetto

e poi riprenderla in mano

solo per la successiva pubblicazione,

senza “viversi” veramente nel

tempo.

TGS: Be’, dei Palmer non poteva

non incuriosirci il legame familiare

anzitutto, non ci sono molte

band che possono vantare una tale

particolarità. A livello musicale

invece condividiamo lo spirito

psichedelico, le atmosfere dilatate,

anche se poi loro riescono a conciliarle

con strutture più quadrate

e spigolose, riconducibili allo stile

di certe band post-rock che hanno

fatto scuola sul finire degli anni

90 e di cui noi stessi al tempo ci

siamo un po’ nutriti da ascoltatori.

La coesistenza di queste due

“anime” costituisce una forma di

originalità che apprezziamo molto

nei nostri compagni di split!

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InO

“Casa Anastasia” è il primo disco da solista di Andrea Sella, cantautore

veneto con forti legami con la famiglia e con il rock

Chi è InO? E in cosa si distingue

da Andrea Sella?

InO è un diminutivo, InO è uno e

tanti, InO è un sogno. Diminutivo

perché è nato dalla mia nonna

materna Anastasia che vedeva in

Andreino un nome troppo lungo,

uno e tanti perché è un progetto

solista che vive grazie all’aiuto e

alla fiducia di tanti amici musicisti,

un sogno perché suonare,

cantare e magari donare qualche

emozione non può che essere un

mestiere per sognatori. Ecco InO

è il sognatore che canta, suona e si

emoziona dentro ad Andrea.



Casa Anastasia” è il tuo nuovo

disco, ricco anche di sensazioni e

ispirazioni famigliari. Ci racconti

come nasce?

“Casa Anastasia” è nato piano piano

ma anche un po’ per caso perché

mai avrei pensato, fino a tre

o quattro anni fa, di realizzare un

album completo di canzoni in italiano.

È un album come punto di

arrivo e nello stesso tempo come

punto di partenza e il titolo parla

di una casa a me cara, dove sto

bene anche da dove vorrei partire

in cerca di cose nuove.

Qual è la canzone alla quale sei

più legato nel disco? E

perché?

Credo Andiamo a Venezia,

la traccia numero

3, perché l’ho scritta di

getto e perché è la prima

canzone della consapevolezza

di InO.

Come si affronta una

situazione così difficile

come quella che stiamo

vivendo dal punto di

vista dei musicisti?

Ognuno affronta le vicende

della vita nel

modo che sente più consono

alla propria natura,

non credo ci sia una via

giusta o una via sbagliata

da seguire, c’è chi canta

in continuazione ovunque,

dai balconi alle varie

pagine social, c’è chi

vive in sacro silenzio il

tutto. Ecco io sto cercando

un equilibrio non

facile, ho fatto un paio

di dirette, le prime in assoluto

della mia vita, ma

non credo ne farò altre,

lascerò spazio a un po’ di

silenzio, però cercherò

anche di far sapere, in

punta di piedi, che c’è un

nuovo album da ascoltare.

Il Qoelet diceva, ma

ci dice ancora oggi, che

c’è un tempo per ogni

cosa sotto il sole e quindi

tornerà il tempo di far

“baccano”, magari con

una consapevolezza diversa

e con più rispetto

verso chi, con la propria

arte, cerca di colorare la

vita delle persone.

Parliamo di futuro (bisogna

sempre parlare di futuro): che

cosa vedi davanti a te e al tuo

progetto musicale?

Suonare, suonare e ancora suonare

dal vivo, non conosco molte altre

strade per far sentire la propria

musica e magari tornare in studio

al più presto per dar vita ad altri

brani. In molti mi hanno detto

che il periodo per fare uscire un

album forse non è dei migliori, lo

posso anche capire, ma il 25 marzo

per me è una data importante e

forse qualcuno in questo periodo

avrà più tempo per ascoltare, io ci

spero.

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NEBBIOSO

In occasione del trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino,

il bassista Davide Sciacchitano ha pubblicato “Nebbiosa”, suite distopica

che ha per tema l’obsolescenza programmata dell’uomo

Ci vuoi spiegare chi è Davide

Schiacchitano?

Cosa non facile... lo scopro ogni

giorno: sono stato un bambino attratto

dal mondo del giornalismo

e da come i media influenzano i

comportamenti e la cultura. Mi

sono occupato di cronaca per anni

e ne sono uscito deluso, ho mollato

tutto. Scrivendo volevo per

primo affinare il mio sguardo sul

mondo che mi circonda e contribuire

alla causa della consapevolezza.

Oggi mi occupo felicemente

di educazione ai media e ho la

possibilità di incontrare migliaia

di ragazzi. Avevo la loro età, 13

anni, quando sentii il richiamo del

basso elettrico, altro strumento di

verità, dopo la penna: mi chiudevo

in camera e ascoltavo soltanto

certe frequenze. Dopo aver suonato

con diverse formazioni in Friuli

e conosciuto amici musicisti con

sensibilità particolari e tante cose

da dire, ho deciso che volevo realizzare

un’opera con un’ambientazione

sonora ben precisa, cupa

e di confine. E il confine doveva

essere l’uomo. Mi sono sempre

chiesto cosa c’è prima e dopo l’uomo?

Cosa succede quando finisce

l’umanità? La risposta è ogni giorno

sotto gli occhi di chiunque abbia

voglia di guardare oltre il proprio

piccolo orizzonte. È nata così

Nebbiosa. Migliaia di ore notturne

passate a dare un senso a tutto.

Un album che nasce da un film

abortito di Pasolini. Su quali

basi concettuali poggia Nebbiosa?

Per le ambientazioni, in particolare,

mi sono ispirato a Pasolini

e alla sua sceneggiatura La Nebbiosa,

una Milano cyberpunk che

ha molto in comune con la Los

Angeles di Blade Runner. Non

ebbe fortuna quel manoscritto del

poeta, che appunto non divenne

mai film. E Nebbiosa nasce certamente

da una mancanza: ho sognato

di aver lasciato mio figlio in

un freddo contenitore d’ospedale.

Preso carta e penna, imbracciato il

basso, ho voluto mettere al mondo

(ma un mondo parallelo) una

ragazza, una trovatella di nome

Nebbiosa, che si muove in una

dimensione distopica, vivendo

nella città circolare di Tr3SeiZer0,

chiusa da mura-schermi che im-

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pediscono a chiunque di entrare e

uscire. In questa città-laboratorio

si sta per sperimentare l’utopia:

l’introduzione dell’intelligenza artificiale.

E cittadini intorpiditi da

una vita senza orizzonte a causa

del video-wall, in

seguito all’emanazione

dell’ordinanza

del Profondosonno,

vengono convinti ad

assumere dosi letali

di cianuro. Ricordate

Berlino? Ricordate

il massacro di

Jonestown? Sembra

fantascienza, ma in

realtà è già accaduto.

L’idea è quella

della presa di coscienza:

una ragazza

di sedici anni deve

capire se stessa e conoscere

la propria

storia per potersi

salvare da questo

incubo.

In che modo si collegano

la storia del

disco e quella della

caduta del Muro di

Berlino?

Anche in Nebbiosa c’è una popolazione

che vive una limitazione

della propria libertà perché qualcuno

vuole “proteggerla” da ciò

che c’è fuori. E’ un disegno folle

che oggi attrae più che mai: il presidente

del Friuli Venezia Giulia

ha annunciato di voler bloccare i

migranti della rotta balcanica con

un muro al confine con la Slovenia.

Non è cambiato nulla, è psicopolitica.

Allo stesso tempo non

sappiamo più cosa significhi “libertà”:

viviamo costretti dai social

alla completa nudità, obbligati a

essere liberi in una dittatura che

non si vede ma c’è. Come topi da

laboratorio, gli abitanti di Tr3Sei-

Zer0 vivono nudi e circondati da

schermi. Da bambino seguivo in

diretta tv la caduta del Muro, fu

emozionante. Quelle immagini

così potenti mi hanno sempre

accompagnato, dunque è venuto

spontaneo rielaborare quel ricordo

e trasformarlo in paesaggio sonoro.

Vuoi spendere qualche parola a

proposito dei numerosi musicisti

che hai coinvolto nel progetto?

Grazie per darmene la possibilità:

Nebbiosa non esisterebbe senza il

cuore e la competenza di chi mi

è stato vicino e ha dato forma e

voce a questo lavoro. La terra in

cui vivo, il Friuli, è ricca di talenti

musicali, che con fortuna sono riuscito

a raccogliere attorno a questo

progetto, amici musicisti, anche

professionisti, che mi hanno

dato fiducia. E chissà poi perché...

In fondo io non so suonare, lo

ammetto, ho soltanto cercato l’inconsueto.

Non citerò nessuno perché

dovrei citarli tutti, dico solo

che la musica è stata un pretesto

per costruire un sentimento di

amicizia. Ognuno di loro è impegnato

in super progetti dal dub al

jazz, dal cantautorato all’elettronica,

che consiglio a tutti di seguire.

Nebbiosa è anche l’immagine di

copertina, grazie a chi ha saputo

dare un volto a questa ragazza delicata

e combattiva.

Quali saranno i tuoi passi successivi?

Sto cercando di organizzare una

presentazione live, mi immagino

uno spettacolo di musica, luci

e danza in cui il pubblico è parte

della storia narrata. E’ una sfida

molto grossa, sarà bello poter trasformare

questo disco in qualcosa

di ulteriore, liberare la musica

dai confini posti dall’immutabilità

della registrazione.

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THE LANSBURY

Un singolo e un video, “Alba”, molto forte e attuale, dedicato alla violenza

sulle donne. E tutta la voglia di suonare di un trio torinese emergente

e promettente

Intanto, le presentazioni: chi

sono The Lansbury e perché si

chiamano così?

Ciao a tutti e tutte! L’annoso problema

della scelta del nome attanaglia

tutte le band nascenti, ma

abbiamo avuto la brillante idea di

trovare un punto comune nelle

tre nostre infanzie che si è rivelato

essere nientepopodimeno che:

La Signora In Giallo (Murder She

Wrote). Lansbury è il cognome

dell’attrice che interpreta la famigerata

Jessica Fletcher. Ed è abbastanza

fico. The Lansbury sono:

Davide Mura, chitarra sarda e

voce… sarda pure quella. Andrea

Carenzi in arte Oscarito, bassista

lombardo, fumettista e Luigi De

Rosa, batterista e scrittore campanoromagnolo

( o romagnompano

se preferite ). Ci siamo incontrati

nell’inverno 2016 tra piogge torrenziali

e cartelloni pubblicitari

che invitavano alle vacanze in

Mongolia. Al posto di prenotarci

una bella Yurta abbiamo dato vita

al progetto. Inizialmente eravamo

orientati su un genere più radicato

nell’alternative rock, come potete

sentire nell’ep Studio Session

che abbiamo registrato nel 2017.

Avendo tutti e tre gusti e formazione

musicali abbastanza diverse,

ci siamo contaminati a vicenda

virando le sonorità verso un postrock

sporcato da noise, shoegaze

e altra robaccia che ascoltiamo.

Alba, nella sua versione ufficiale, è

un buon esempio di questa maturazione.

Alba è un pezzo molto forte, con

una tematica molto attuale e di

grande impatto. Ci raccontate

l’ispirazione di questo brano?

Alba è stato il primissimo testo

che Davide ha scritto. Nasce

dall’incontro con una ragazza, di

cui non faremo il nome per ovvie

ragioni, che confidò a Davide

quello che stava vivendo. Dalle

sue parole traspariva una soffe-



renza forse ancora informe e non

comprensibile per lei, che la portava

a giustificare gli atti di violenza

subiti. Conosciamo i meccanismi

complessi e radicati che

si mettono in moto nelle relazioni

umane e non giudichiamo negativamente

una donna che, pur consapevole

di ciò che ha di fronte,

cerca di trovare un senso e una

ragione per salvare una relazione,

sia pure deleteria.

In molti e molte confinano queste

situazioni con l’uso di termini

come “vittima, relazione malata”

non lasciando spazio al dialogo

e al confronto che porti invece a

una maggiore consapevolezza da

entrambe le parti senza relegare

chi subisce violenze all’isolamento.

Per noi una nuova Alba è

possibile, necessaria e la vediamo

spogliata di vittimismo imposto,

piena di forza, di lotta. Il nostro è

un invito a cambiare rotta per demolire

una cultura patriarcale che

da troppo tempo ci portiamo addosso.

Anche il video mi ha colpito

molto, e so che l’avete confezionato

da soli o quasi. Ci spiegate

anche come?

L’idea è nata, ovviamente, dalla

necessità di tradurre in immagini

i contenuti trattati in Alba e dalla

nostra passione per il cinema.

Non ci piace essere super espliciti

e quindi abbiamo preferito una

messa in scena meno didascalica,

ma che fosse comunque chiara negli

intenti e nel messaggio. Comprensibile

ed esteticamente valida,

ecco. Non come il bassista (ridono).

Edith Ben, un’amica attrice e

danzatrice, ha subito reagito con

entusiasmo alla nostra proposta

di collaborazione perché anche lei

affrontava, nel suo laboratorio artistico,

delle tematiche simili.

Quali saranno i passi successivi

per The Lansbury, quando sarà

possibile tornare a fare live?

Suonare suonare suonare e poi, se

capita, suonare. Ci piacerebbe far

conoscere il progetto a più persone

possibili, anche in vista della

pubblicazione dell’ep che sarà anticipata

dall’uscita di altri singoli

a cui stiamo lavorando con lo studio

Brutus Vox Music che ha già

seguito registrazioni, mix e mastering

di Alba. Abbiamo anche

aperto un progetto con il laboratorio

di stampa serigrafica Zanna

Dura per realizzare una fanzine

illustrata che contenga i testi dei

pezzi e degli scritti di Luigi che

portiamo in concerto in forma di

reading. Crediamo fortemente nel

messaggio dei contenuti che produciamo

e ci piacerebbe che arrivassero

il più lontano possibile.

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