Gli anni incompiuti di Francesco Falconi - Estratto
Proposto al Premio Strega 2020 da Alessandro Perissinotto. Un romanzo su un’intera generazione che è anche uno spaccato della società italiana e degli eventi storico-politici che vanno dagli anni ’80 a oggi; la storia di due vite che a volte si intrecciano e a volte corrono parallele, nella cornice della Maremma Toscana, tra i vicoli di Siena e l’immortalità di Roma. È l’amicizia. Quel legame che esiste dal giorno in cui si sono visti. È l’amore mentale. Imprescindibile, perché la loro vita li ha resi troppo simili. È l’amore fisico. Irrealizzabile, perché la natura li ha resi inevitabilmente diversi. Marco e Aurora si incontrano per la prima volta il giorno del loro ottavo compleanno. Lei sfoggia un grande sorriso, in testa ha un cerchietto rosso con una farfalla argentata, mentre lui è timido e chiuso nel suo cappotto largo e marrone. I due si parlano appena e sono convinti di non avere nulla in comune se non quella scomoda data di nascita, un compleanno che deve essere festeggiato “più degli altri”, perché il 29 febbraio esiste solo ogni quattro anni. Sarà il giorno che segna l’inizio di un legame indissolubile. Aurora e Marco crescono insieme e, giorno dopo giorno, diventano inseparabili. Gli anni passano e mentre Aurora sente che il loro rapporto si sta trasformando in qualcosa di più profondo, Marco, pur ricambiando i sentimenti, nasconde un segreto che non riesce a rivelare: prova attrazione anche per il suo stesso sesso. Gli anni incompiuti è la storia di una grande amicizia e del confine, indefinibile, che c’è tra questa e l’amore. Un racconto che parla della conoscenza di se stessi, della difficoltà di crescere, della paura di diventare adulti, di invecchiare, di rimanere soli. Parla della sessualità troppo spesso chiusa in schemi rigidi che la società impone e che, inevitabilmente, si spezzano di fronte ai veri sentimenti. Narra dell’antitesi tra amore fisico e mentale.
Proposto al Premio Strega 2020 da Alessandro Perissinotto.
Un romanzo su un’intera generazione che è anche uno spaccato della società italiana e degli eventi storico-politici che vanno dagli anni ’80 a oggi; la storia di due vite che a volte si intrecciano e a volte corrono parallele, nella cornice della Maremma Toscana, tra i vicoli di Siena e l’immortalità di Roma.
È l’amicizia. Quel legame che esiste dal giorno in cui si sono visti.
È l’amore mentale. Imprescindibile, perché la loro vita li ha resi troppo simili.
È l’amore fisico. Irrealizzabile, perché la natura li ha resi inevitabilmente diversi.
Marco e Aurora si incontrano per la prima volta il giorno del loro ottavo compleanno. Lei sfoggia un grande sorriso, in testa ha un cerchietto rosso con una farfalla argentata, mentre lui è timido e chiuso nel suo cappotto largo e marrone. I due si parlano appena e sono convinti di non avere nulla in comune se non quella scomoda data di nascita, un compleanno che deve essere festeggiato “più degli altri”, perché il 29 febbraio esiste solo ogni quattro anni. Sarà il giorno che segna l’inizio di un legame indissolubile. Aurora e Marco crescono insieme e, giorno dopo giorno, diventano inseparabili. Gli anni passano e mentre Aurora sente che il loro rapporto si sta trasformando in qualcosa di più profondo, Marco, pur ricambiando i sentimenti, nasconde un segreto che non riesce a rivelare: prova attrazione anche per il suo stesso sesso. Gli anni incompiuti è la storia di una grande amicizia e del confine, indefinibile, che c’è tra questa e l’amore. Un racconto che parla della conoscenza di se stessi, della difficoltà di crescere, della paura di diventare adulti, di invecchiare, di rimanere soli. Parla della sessualità troppo spesso chiusa in schemi rigidi che la società impone e che, inevitabilmente, si spezzano di fronte ai veri sentimenti. Narra dell’antitesi tra amore fisico e mentale.
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FRANCESCO FALCONI
Gli anni
incompiuti
Pubblicato da
LA CORTE EDITORE
Via Giacomo Bove 16, Torino
Tutti i diritti riservati
Prima edizione italiana:
© 2020 La Corte Editore
Immagine di copertina: Arcangel
ISBN: 9788831209151
Finito di stampare nel mese di febbraio 2020 presso
Grafica Veneta
Questo libro è un’opera di fantasia.
I fatti, i luoghi, i nomi e i personaggi sono frutto dell’immaginazione dell’autore o usati in modo fittizio.
Ogni riferimento o somiglianza a vicende realmente accadute, organizzazioni, o a persone viventi o meno
è puramente casuale.
www.lacorteditore.it
A mia madre.
Grazie per avermi reso l'uomo che sono oggi.
COME SANGUE NEL CIELO
Come sangue nel cielo.
D’improvviso ti fermi.
Nel silenzio.
Distogli lo sguardo dalla finestra, mi stringi la mano. Lasci scivolare
l’anello dell’indice su quello dell’anulare. Lo fai sempre
quando ti emozioni. Dici poche cose perché è il tuo corpo a parlare
per te.
Ti lasci contemplare.
Come se fosse la prima volta, come se mi volessi dimostrare che
sei una meraviglia. Perché ami dipingere e il pennello è la tua
voce. Mi ripeti che vuoi creare dipinti stupendi, così come ti ha
insegnato il tuo scrittore preferito. La vita imita l’arte più di quanto
l’arte non imiti la vita, mi dici.
Ma sei tu il mio capolavoro. Così stupenda nelle tue mille contraddizioni.
Come Venezia, questa città dove siamo arrivati oggi,
così piccola eppure così fredda, che d’inverno regala tristezza e
non amore.
Alzi la testa, guardi il panorama che si apre sulla Basilica di San
Marco. Mi chiedi se cominceremo da qui. Hai un’espressione de-
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lusa, non ti aspettavi che questo viaggio iniziasse in un ristorante
anonimo e buio.
«Sì, proprio da qui» ti dico con un sorriso.
Peccato, mi rispondi, ero convinta che tutto fosse iniziato in piazza
San Marco.
Hai ragione, non ti ho mai portato a vedere la Basilica. Se ci penso,
non so neppure il motivo. Forse non c’è mai stata occasione.
Forse non era mai il momento giusto. O forse prima avremmo dovuto
fuggire via da questa città e intraprendere un viaggio diverso.
Un sentiero lastricato di frasi cementate a emozioni.
Fissi la mia mano mentre la nascondo dentro la tasca del cappotto.
È vero, trema. L’hai notato stamani, quando mi hai chiesto di
fotografarti sopra il ponte dei Sospiri. Anni fa me la cavavo bene.
Aiutavo mio padre a catalogare centinaia di fotografie con attenzione
meticolosa. Riempivamo album e album di foto, scrivevamo
sotto ognuna di esse luogo e data. Pile di raccoglitori, dimenticati
nelle cantine, nelle soffitte e nei sottoscala. Dentro qualche scatola
anonima. A Castiglione della Pescaia. A Siena. E poi a Roma. In
tutti quegli angoli dove sono fuggito nella mia vita.
Ma adesso, ha importanza? Il tempo cancella tutto e sbiadisce i
ricordi. Eppure, i miei sono ancora vividi nella mente. Fotogrammi
di un passato impressi nelle retine. Marchiati a fuoco nel cuore.
Ho una fame tremenda, mi dici riportandomi al presente. Mi
guardo attorno, un senso di vertigine. Lo stomaco si chiude in un
pugno.
«Salve, possiamo sederci?» chiedo alla cameriera. «Ho prenotato
un tavolo per l’una e mezza.»
«A quale nome?»
«Marco Neri.»
È una ragazza giovane, dimostra poco più di venti anni. Volto
delicato, labbra fini. Occhi piccoli, ma vivaci e attenti. Mani svelte
aprono un registro. Il dito scorre su una lista. Non riesco a dire
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nulla. Mi sento confuso, il cuore è un pugno che fa male. I miei
occhi spiano ogni angolo. Il bancone all’ingresso, di legno scuro
con sopra un menù aperto e due calici di vino bianco. I ricordi
galleggiano nella memoria, affogano nel passato. Mi domando se
quel ristorante sia sempre stato così. Se i giorni, gli anni e i decenni
l’abbiano cambiato oppure i ricordi si siano accavallati gli uni
sugli altri e io stesso, con il tempo, abbia alterato i particolari.
Il nostro tavolo è pronto, mi dici.
Mi giro e ti guardo. Vedo il tuo viso, dentro una pozza di luce
che è ombra in confronto alla tua bellezza. Trattengo il respiro.
Quei tuoi occhi così chiari. Abbaglianti come schegge di ghiaccio.
L’opposto dei miei, neri come petrolio. E allora m’infilo nelle tue
iridi. Vorrei scavare dentro i tuoi pensieri, sfiorare la tua anima.
Vivere anche solo per un istante il riflesso di ciò che il destino mi
ha strappato per sempre.
Mi indichi il tavolo che ci hanno riservato, domandandomi se mi
va bene. È in disparte, all’angolo della sala, proprio come avevo
richiesto. Mi tolgo il cappotto e mi siedo. D’improvviso i colori si
spengono. Le tovaglie diventano di un cotone celeste, le posate
d’argento. Al centro appare una composizione di rose gialle. Sulle
sedie, aloni scuri. Sono i profili di due uomini e di due donne. In
fondo, ci sono due ragazzini. Uno ha le braccia conserte, la testa
rivolta verso la finestra. L’altra lo guarda, gesticola per attirare la
sua attenzione.
Mi piace, dici infine. E aspetti. Mi guardi negli occhi in trepidante
attesa.
«Ed eccoci qui» rispondo.
Un sorriso si affaccia sul tuo volto. Sai che è giunto il momento.
Il viaggio sta per iniziare.
Così pieghi il tovagliolo sulle gambe. L’indice struscia sull’anulare.
Muovi le forchette, l’agitazione non ti dà tregua. Infine
alzi lo sguardo, verso la finestra. Osservi il tramonto. E ogni an-
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sia evapora, di fronte a quel grigio che si fonde nel rosso. Ne sei
consapevole. Dopo così tanti anni il mio muro di silenzio sta per
diventare polvere.
E nel silenzio.
D’improvviso ti fermi.
Come sangue nel cielo.
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1
1980
29 febbraio
«Guarda che meraviglia, Marco. Sembra la tavolozza di quel
pittore che abbiamo conosciuto proprio ieri.»
Alzo la testa, la pioggia sulle ciglia. Osservo il cielo, strangolato
tra i tetti dei palazzi. Una lingua d’argento che si riflette tra i canali
e illumina i vicoli stretti di Venezia. Non ci trovo nulla di affascinante.
È solo una lamina plumbea e compatta, una lastra grigia
venata di crepe rosse. Non assomiglia affatto alla tavolozza di un
pittore. Mi ricorda di più la ferita sul gomito, dopo la caduta dalla
bicicletta dell’estate scorsa.
«Vieni qui, vicino a me. Fatti abbracciare. Dobbiamo farci una
bella foto. Ernesto, sei pronto?»
Mia madre si piega e mi dà un bacio sulla nuca. Mio padre solleva
il sopracciglio sinistro. Un gesto quasi impercettibile, che non
mi sfugge. So bene quanto lo mettano a disagio questi momenti di
affetto. Ma è la giornata in cui deve compiacere la mamma e scansare
qualsiasi discussione. Va bene così, siamo giunti all’armistizio
e le litigate sono finite.
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Almeno per oggi. Almeno per un’ora. Come questo temporale,
che sta per scomparire, e questo cielo, simile a un cencio grigio
con al centro uno spacco color porpora.
«Aspetta, ti sistemo il cappotto» mi dice la mamma, stringendomi
la sciarpa al collo. Mi squadra orgogliosa. «Ti sta proprio bene
addosso. Il marrone ti dona. Sono felice che ti sia piaciuto.»
La contemplo. Quanto è bella la mamma. Lei è davvero un’opera
d’arte. Le sue labbra, lucide e carnose. I suoi occhi celesti,
venati di giallo. I suoi capelli biondi, così soffici e profumati. E il
suo sorriso contagioso, al quale è impossibile resistere. Mi basta
guardarla, e ogni ansia scompare.
«Ehi, smettila di tenere quel broncio, ok? Ti fidi di me?»
Abbasso il capo.
«Andrà tutto bene. Ti troverai benissimo a Grosseto. E poi, su,
adesso non ci pensiamo.»
Abbozzo un sorriso.
«Sta iniziando a piovere. Ci muoviamo, Sara?» la richiama mio
padre.
Lei mi abbraccia, poi indietreggia di un passo contro la balaustra
del ponte. Mio padre ci inquadra, ci chiede di sorridere. Spero
con tutto me stesso che questa foto sia bellissima e che si legga
solo gioia nei nostri occhi. Una madre che abbraccia il figlio. Così
semplice e meraviglioso.
Mi adombro. E se non fosse in questo modo? E se quando mio
padre svilupperà il rullino si percepisse solo la bugia di questi
attimi? E se la luce di Venezia si trasformasse in un buio soffocante?
No, oggi è la mia giornata speciale. Il mio vero compleanno.
Quello diverso dagli altri e che capita solo ogni quattro anni. Mia
madre mi prende sempre in giro, dicendo che sono un bambino
particolare, anche se un po’ pigro e svogliato. Proprio come otto
anni fa, quando ho atteso troppo nella sua pancia e sono nato due
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minuti dopo la mezzanotte. In quel giorno strano che compare
una volta e diventa un fantasma per altre tre.
«Andiamo, facciamo tardi. Il ristorante è proprio qua dietro»
dice mio padre.
La mamma mi accompagna lungo il ponte. Il suo sguardo s’incupisce
mentre la pelle del viso splende come polvere di diamanti.
Forse è qualche goccia di pioggia o il segno di quelle lacrime che
per troppi anni le hanno solcato le guance. È la nostalgia. È l’amarezza.
È quella vita che non l’ha mai resa felice, e che d’un tratto
la soffoca come una stretta alla gola.
Ma è proprio in questi momenti che la mamma mi cerca. Mi
stringe a sé, come se fossi capace di cancellare la tristezza. Come
se fossimo destinati per sempre a consolarci l’uno con l’altra.
E se non ci riuscissi? Come potrei fare per aiutarla e restituirle
la felicità che merita?
Ogni volta che noto questa espressione ricordo le parole che mi
disse una volta in cucina, mentre ero seduto di fronte al tavolo a
fare i compiti di matematica. Mi ero accorto d’improvviso che la
mamma aveva smesso di mescolare il sugo e stava singhiozzando
davanti ai fornelli. Allora mi ero alzato e l’avevo abbracciata da
dietro. Le avevo chiesto perché piangesse. Lei si era voltata e mi
aveva baciato sulla nuca. Mi aveva detto che era solo un momento
passeggero, da grandi capitava di essere giù di morale. Le avevo
chiesto spiegazioni, non avevo capito perché fosse infelice. Cosa
le mancava? Stava bene di salute e aveva me. Lei ci aveva pensato
un po’, quindi mi aveva indicato il quaderno di matematica. Mi
aveva detto che crescere era una sottrazione. Si nasceva pieni di
sogni, d’amore e di speranze. Poi, con il passare degli anni, la vita
ci toglieva qualcosa. Un bacio, un abbraccio, una promessa, una
parola gentile. E d’improvviso un giorno ci si rendeva conto che ci
era stato tolto troppo e che l’equazione era ormai conclusa. Non
avevo capito del tutto cosa volesse dire. Ero rimasto a osservarla
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mentre si allontanava lungo il corridoio e spegneva la luce. L’avevo
guardata mentre camminava verso la sua camera e il buio, pian
piano, aveva sottratto i suoi lineamenti lasciandoli scomparire in
un nero compatto.
«Eccoci, tesoro» dice mia madre, di fronte all’ingresso del ristorante.
Mio padre apre la porta, ci invita a entrare.
«Un po’ di tepore» sussurra lei sfregandosi le mani. «Si gelava
là fuori.»
Il locale è nella penombra, un chiacchiericcio confuso fa eco tra
le pareti. Dietro al bancone c’è una sala piccola, che può contenere
al massimo una decina di tavolini. In fondo un pianoforte a
coda nero e uno sgabello rivestito di velluto rosso. Due lampadari
a tre bracci pendono dal soffitto, a malapena rischiarano l’ambiente.
C’è odore di stantio e puzzo di fumo.
Non è proprio quello che mi aspettavo. Speravo in un posto più
accogliente, più grande. Con tanti colori alle pareti, disegni, palloncini,
e musica divertente. Avrei voluto qualcosa di diverso, una
vera festa di compleanno. Come quella dei miei compagni di classe.
Mio padre si toglie la giacca, prende la mantella della mamma e
il mio cappotto. Rimango esterrefatto. Porta l’uniforme dell’aeronautica.
È la stessa divisa in gabardine che aveva indossato per la
cerimonia di nomina a maresciallo: pantaloni senza risvolto e giacca
a quattro tasche e bottoni dorati, distintivo con la stella dorata.
E allora mi chiedo il motivo. È solo uno dei tanti ristoranti di Venezia.
Uno dei più anonimi. Non ha invitato nessun collega. Siamo
solo noi tre. Per un solo giorno, per questa serata che per me deve
essere speciale a ogni costo, non poteva vestirsi come tutti i papà?
Nel frattempo il cameriere ci fa strada verso la sala.
«Il tavolo è proprio quello laggiù, all’angolo sinistro.»
Aguzzo la vista. Qualcosa non torna. In fondo alla stanza ci sono
due tavolini. Su entrambi, al centro, campeggia un segnaposto
con disegnato un otto argentato.
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«Mi sa che non sei il solo, stasera» sorride la mamma. «Sarà una
serata bellissima, vedrai che bella torta abbiamo scelto.»
La seguo fino al tavolo. Sulla parete di fronte è appeso uno specchio
rettangolare, lungo più di tre metri e alto la metà. Osservo la
mia immagine riflessa. Capelli castani arruffati, occhi così neri che
le iridi si confondono con le pupille. Qualche efelide sulle guance,
labbra sottili quasi inesistenti. I pantaloni di lana grigia, forse di
una taglia in più, mi fanno sembrare troppo magro. E il maglione
di cashmere nero, la stupenda sorpresa di papà, che non ha voluto
regalarmi una bicicletta nuova o qualche giocattolo.
Mi siedo, mia madre legge il menù. Appena l’ascolto. Mi guardo
attorno incuriosito. Tante facce sconosciute. Due ragazzi, sulla
trentina, parlano animatamente. Lui gesticola imbronciato, lei
scuote la testa, a braccia conserte e sopracciglia inarcate. Dietro di
loro c’è una coppia sulla cinquantina. Lei è una donna magra con i
capelli rossi, ride e alza un calice di vino. Lui un uomo brizzolato,
giacca troppo stretta sulle spalle, camicia troppo stretta sul collo.
Anche il sorriso è troppo stretto. Non sembra felice ma è sicuramente
più bravo di me a mentire.
Ma perché, in effetti, dovrei fingere di essere felice? Dovrei essere
eccitato, oggi è la vigilia di un nuovo cambiamento. È già successo
in passato e dovrei esserci abituato. Da La Spezia a Parma, e
da Parma a Venezia. Ormai sono grande, così mi dice mio padre, e
quest’ansia che provo non è giustificabile. Non perché dovrò dire
addio a Venezia e Mestre. Non mi sono mai piaciute. Sono così
grigie e tristi. Qui regnano solo il freddo e il silenzio. Perché i miei
genitori non capiscono quanto sia difficile dover iniziare tutto da
capo? Conoscere un’altra città, fare nuove amicizie. Dimostrarmi
simpatico e socievole. Diventare più bravo a mentire. Fingere di
essere forte e farmi rispettare. Poi ci saranno una nuova scuola e
nuovi compagni di classe. Tanti occhi addosso che mi scruteranno
e mi giudicheranno. E troppe labbra, maledette bocche, che
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bisbiglieranno, commenteranno, rideranno di nascosto. Prenderanno
in giro le mie gambe secche, le mie spalle strette e le mani
piccole, e quest’orribile maglione.
«Tua madre ti ha fatto una domanda.»
La voce di papà mi scuote dai pensieri. Incrocio il suo sguardo,
ha un’espressione severa.
«Sì.»
«Sì, cosa?»
«Va bene.»
Deglutisco, la voce esce come un sibilo.
«Non ti sento. Eppure non sono sordo.»
Mi chiudo nel silenzio.
«Cazzo, Marco.»
Sussulto. La mamma si volta di scatto, lui scuote la testa sostenendo
il suo sguardo.
«Vedi, Sara? Tu lo difendi sempre. Ecco cosa cazzo hai ottenuto.»
«Non ricominciare. Almeno per stasera. E modera il linguaggio.»
«Ah, no, per carità. Tanto per te va sempre tutto bene. Come dici?
Dobbiamo lasciar correre… è solo un bambino… deve crescere,
deve fare le sue esperienze. Povero, sbattuto qua e là. Ecco perché
vive nel mondo dei sogni, perché ogni tanto ha quello sguardo da
ebete. E cosa gli manca? Gli faccio mancare qualcosa io, per caso?
Niente, cazzo. Anzi, te lo dico io cosa gli manca, le palle.»
«Basta così» lo blocca la mamma. Il viso rosso, la rabbia le infiamma
gli occhi. Deglutisce, sta facendo una fatica immane per
non saltargli addosso. Inspira, ritrova la tranquillità.
«Non ha sentito quello che gli ho chiesto, tutto qui. Nessun
dramma.»
«Il dramma è che non voglio un figlio viziato e mammone. È da
stamattina che il signorino tiene il muso, perché non ha gradito il
mio regalo. Il cappotto di mamma era bello, ma da papà voleva
altro, vero? Dovevo forse comprargli un giocattolo idiota, come
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se avesse ancora quattro anni? E quando in caserma mi chiedono
di mio figlio, cosa cazzo gli racconto? Lo sai cosa faccio, invece?
Evito di parlare di lui.»
Le lacrime mi salgono agli occhi. Il volto di mio padre è sbiadito,
i contorni distorti. La sua voce, i suoi insulti, le parolacce.
Tutto è diventato un suono confuso.
«La bicicletta gli serviva» lo interrompe la mamma.
«Ah, la bicicletta, certo. Poteva starci attento, invece di romperla.
Questo deficiente.»
Mia madre si trattiene ancora una volta, alza la mano per dirgli
che la discussione è conclusa. Mi guarda con la coda dell’occhio,
preoccupata. Sta facendo di tutto per scansare il litigio e non rovinarmi
il compleanno.
Chino la testa, respiro lentamente. Mio padre mi vuole troppo
grande, mia mamma pensa che sia troppo piccolo. Mi chiedo
chi sono veramente, adesso che ho otto anni. Adesso che inizio
a vedere e capire più cose. Adesso che i giocattoli non bastano
più a divertirmi. Adesso che in testa mi ronzano troppe domande
senza risposta. Come il motivo per cui mio padre ami così tanto
indossare la divisa militare, quasi volesse portare la guerra in casa.
Oppure perché cerchi sempre un nemico da combattere, un motivo
per cui arrabbiarsi, un gesto da scambiare con un insulto o
una parolaccia.
Alzo la testa. Lo guardo. Non sono piccolo e non sono grande.
Oggi che compio otto anni sono ancora più confuso di ieri ma,
dentro di me, sono sicuro che non vorrò mai diventare come lui.
«È un periodo un po’ complicato, troppo stress, ma passerà tutto.
Ordiniamo da bere, tesoro, che dici?»
«Cazzo dici, troppo stress? Porca troia, Sara, stai facendo di tutto
per farmi incazzare allora. E basta con questo tesoro, amore,
caro. Non è una femminuccia. Stiamo cambiando città, mica partiamo
per il Vietnam.»
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«Ernesto, è comunque un cambiamento. E le parole. Non voglio
queste parole davanti a Marco, lo sai.»
Silenzio. Mio padre chiude la mano in un pugno e si volta di
scatto. Non si sta rivolgendo più alla mamma.
«Quella cazzo di gamba» mi dice perentorio.
La sua voce taglia l’aria come una lama. Io ci provo con tutto
me stesso, ma il ginocchio non smette di ballare sotto il tavolo. La
tovaglia ondeggia, le posate tintinnano.
«Marco, va tutto bene, sta’ calmo. Controllati e respira, come ti
ho detto ieri» mi rassicura la mamma.
«Non va bene per niente» obietta papà. «Come vedi le tue maniere
docili non servono a nulla se non a farlo diventare un rammollito.
Un mezzo uomo. Le mie sì. Quindi, Marco, che ti ho
detto? Ti ricordi, vero? Conto fino a cinque.»
Alza la mano. Questa maledetta gamba continua a muoversi
da sola.
«Cinque. Quattro.»
Le dita si chiudono. Una a una in un pugno. Quel pugno che poi,
dall’alto, si abbasserà su di me. Mi mordo le labbra, resisto al dolore.
Mi guardo attorno, nessuno si accorge di noi. È tornato il gelo e
il silenzio di Venezia, che mi chiude dentro una bolla senza rumori.
«Tre. Due.»
«Azzardati a muovere solo un muscolo, Ernesto. Prova solo a
sfiorarlo. E stavolta te ne pentirai. Te lo giuro, te ne pentirai.»
Mio padre la ignora. Gli occhi scintillano di rabbia. Una rabbia
che ha un nome, anzi più di uno. La delusione. La vergogna.
L’imbarazzo. E il disagio. Perché è meglio fingere di non avere un
figlio smidollato che tiene la voce bassa e ha un tic alla gamba.
«Ciao.»
Una voce alla mia destra e la visuale cambia. Mi trovo davanti a
una ragazzina sorridente. Ha i capelli castani, con una sfumatura
rossa, stretti da un cerchietto con al centro una farfalla d’argento.
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Gli occhi sono verdi come il muschio, vivaci e brillanti. Indossa
un abito rosso, a scacchi, lungo fino al ginocchio. Sotto delle calze
di lana bianche e mocassini lucidi neri. C’è qualcosa in quel sorriso
che attrae la mia attenzione. Non è come quelli che ho visto
finora. Non so abbinargli il giusto aggettivo. È solo diverso.
«Perché anche tu hai il mio stesso otto? Mi hai copiato?» mi
chiede indicando il centrotavola.
«Salve, scusate nostra figlia. A volte si dimentica le buone maniere.»
A parlare è un uomo corpulento alle spalle della ragazzina. Sarà
alto un metro e novanta, grosso quanto un armadio a due ante. Sul
viso rubicondo si affaccia un largo sorriso che addolcisce quella
stazza imponente. Al suo fianco si nota appena una donna esile
come un giunco che indossa una maglia lilla a balze e un paio di
pantaloni bianchi a zampa di elefante.
L’omone squadra mio padre e accenna il saluto militare.
«Luigi Badin.»
«Ernesto Neri.»
«Anche lei nell’aeronautica?»
«Maresciallo di terza classe, comando logistico» gli risponde
mio padre, alzandosi in piedi.
«Comandante 23° Gruppo Caccia Intercettori.»
Mio padre annuisce lentamente stringendo gli occhi. «Non mi
sembra di averla mai vista al comando.»
«Sono a Venezia di passaggio, solo per pochi giorni.»
«Piacere, io sono Monica, sua moglie.» La donna magra si avvicina
e porge la mano alla mamma.
«Piacere, mi chiamo Sara. E lui è nostro figlio Marco.»
Monica alza gli occhi al cielo. «Mia figlia, invece, quella bambina
maleducata e dispettosa, si chiama Aurora.»
Sospiro sollevato quando mi accorgo che mio padre ha un’espressione
distesa. Mi asciugo gli occhi.
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«Quindi mi sa che non mi copi. Anche tu compi otto anni oggi?»
mi chiede Aurora, la ragazzina con il cerchietto e la farfalla d’argento.
«Già.»
«Pensavo di essere l’unica, meno male.»
«È il nostro secondo compleanno bisesto, lo sai? Io avrei preferito
un due invece di un otto, perché gli altri sei sono stati compleanni
finti, sono gli anni incompiuti. Ma la mamma non è stata
d’accordo. Dice che sono una gran rompiscatole, a volte.»
Ci penso un po’. Aurora lo definisce il compleanno bisesto, io il
vero compleanno speciale. Gli altri tre per me sono bugiardi, per
lei incompiuti. Solo in quel momento mi rendo conto che la mia
gamba ha smesso di tremare.
«Ma è davvero una notizia fantastica» dice la mamma. «Vedi,
Marco, che non è così strano essere nati il 29 febbraio?»
Aurora non mi stacca gli occhi di dosso. Scruta il mio orribile
maglione di cashmere, poi le mani, che infilo subito nelle tasche,
infine i pantaloni, che in quell’istante mi sembrano ancora più
larghi.
«Che ti hanno regalato per il compleanno?»
Tiro un lembo del maglione. Lei lo sfiora, sgrana gli occhi.
«È morbido. Mi piace. È bello.»
Sembra sincera. Allora questo maglione non è così orribile.
Chissà cosa penserà del mio cappotto.
«A me tre libri. Sono bellissimi. Uno è nella borsa di mamma, ci
sono delle storie e poi delle pagine bianche. Ci si può disegnare o
scrivere. Devo ancora decidere cosa. Ti piace leggere?»
«Ogni tanto.»
Aurora rimane in silenzio e continua a fissarmi.
«E dove abiti?»
Faccio spallucce. Quante domande.
«Dove capita.»
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Lei drizza le spalle, s’illumina, come se avessi detto la cosa più
intelligente del mondo.
«Hai ragione. Anch’io vorrei abitare dove capita. Anzi, dopo
disegnerò la casa che sta a Dovecapita.»
Aurora si zittisce e mi guarda. Aspetta che le chieda qualcosa,
ma non so cosa. Allora lei aggrotta un po’ la fronte, storce le labbra.
Ci sta rimanendo male.
«Mamma, come si chiama quel posto dove andiamo?» domanda
d’un tratto.
«Grosseto» le risponde Monica. «Adesso vieni, siediti a tavola.»
«Senti questa, Sara! Anche i Badin si trasferiscono a Grosseto!»
esclama mio padre.
La mamma scuote le spalle, Monica prende la borsa e tira fuori
una rivista. Le mostra delle case in affitto, non ha intenzione
di alloggiare negli appartamenti dell’aeronautica che a suo avviso
sono piccoli, poco luminosi e in zone lontane dal centro. Sta anche
valutando l’opportunità di abitare in qualche paese vicino alla
città, magari sulla costa. La mamma è d’accordo, anche lei aveva
discusso della medesima questione con mio padre e alla fine l’aveva
spuntata. Monica le mostra alcuni appartamenti, in particolare
una villetta bifamiliare ancora sfitta a Castiglione della Pescaia.
«Guarda, se vuoi posso lasciarti questa rivista di annunci immobiliari»
le dice Monica. «Così potete valutare anche voi. Castiglione
si trova a meno di mezzora dal centro di Grosseto e a
venti minuti scarsi dalla base dell’aeronautica. Avete già in mente
qualche zona in particolare?»
«Non ancora. L’idea era di ambientarsi per un po’ e poi cercare
una sistemazione definitiva» risponde la mamma.
Guardo allora papà, che continua a parlare con Luigi. L’arrivo
dei Badin è stato davvero propizio. Almeno per stasera non ci
sarà più nessuna discussione inutile. Carpisco poche frasi, qualcosa
sull’Unione Sovietica che sta invadendo l’Afghanistan. Mo-
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nica invece spiega alla mamma tutti i suoi progetti per quella che
definisce una bellissima avventura. Grosseto è una città piccola
e accogliente, ben collegata, vicino al mare e alla montagna. La
Maremma è un posto meraviglioso, ci sono il Parco dell’Uccellina,
il Monte Argentario e tantissimi paesini da visitare nell’entroterra.
Vigneti, piccoli borghi medioevali, musei etruschi. E poi Grosseto
dista due ore scarse da Roma e Firenze, potranno pianificare stupende
gite durante il week end. Bellissimo, stupendo e meraviglioso
sono infatti i tre aggettivi che ripete in ogni frase, enfatizzandoli
quasi fossero parole magiche. Mia madre, però, non sembra così
entusiasta. Ogni tanto annuisce, socchiude gli occhi, si sforza di
sembrare interessata. L’ho vista tante volte farlo con papà, forse
non è così convinta che trasferirsi a Grosseto sarà un’esperienza
pari agli epiteti di Monica.
La mia gamba inizia a ballare sotto il tavolo.
«Ci pensi? Marco e Aurora potrebbero andare anche nella stessa
scuola» conclude Monica.
Alzo subito la testa. Adesso siamo diventati noi due i protagonisti
del suo monologo. Aurora non aspettava altro. Balza giù dalla
sedia e si avvicina.
«Quindi partiamo insieme. È fantastico.»
Faccio spallucce. Sta succedendo tutto troppo in fretta. Ci siamo
conosciuti da venti minuti, perché questo entusiasmo di mandarci
nella stessa scuola? Scruto Aurora, che sembra un po’ disorientata.
Forse Monica è apprensiva, o forse Aurora ha difficoltà a
stringere amicizie. Più o meno come me, in effetti.
«Magari diventiamo amici, a Grosseto» dice Aurora ritrovando
un mezzo sorriso. «Magari finiamo nella stessa classe, perché no.»
«Può essere.»
Aurora china la testa, i capelli scivolano sopra il cerchietto con
la farfalla e le coprono il viso.
«Mi sembra una buona idea, mi piace. Almeno stavolta non sa-
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remo soli. Ci divertiremo. E se poi Grosseto non ci piace le cambieremo
nome.»
«Nome?»
«Sì, la faremo diventare la nostra Dovecapita. Semplice e facile.»
La osservo in silenzio e provo un pizzico di invidia. Vorrei essere
come questa ragazzina che d’improvviso è piombata al mio tavolo,
spezzando quella bolla di freddo e di silenzio che mi stava soffocando.
Vorrei pensare con leggerezza che andrà tutto bene, che
conoscerò delle persone simpatiche, che Grosseto sarà un luogo
incantevole. Che non ci saranno più urla, discussioni, silenzi gelidi.
Vorrei un sorriso senza bugie, come il suo.
E vorrei vedere la vita dagli occhi di Aurora.
Cancellare tutti gli anni incompiuti.
Esultare in quelli bisesti.
In un qualsiasi Dovecapita.
In un modo più semplice e facile.
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