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LUIGI CERLIENCO
MATEMATICA E ALTRE CURIOSITÀ
edizioni
edizioni
Editing e impaginazione
Leonardo Mureddu
Grafica di copertina
Enrica Massidda
enricamassidda.com
Questo volume è stato composto usando il sistema tipografico
Le immagini riprodotte, per le quali non sia dichiarata espressamente la provenienza
e non siano di proprietà dei singoli Autori, provengono dagli archivi Wikipedia
e sono state scelte tra quelle contrassegnate come di pubblico dominio.
L’Editore ha fatto il possibile per rintracciare i detentori dei diritti sul materiale
pubblicato e ottenere le rispettive liberatorie. È comunque disponibile ad assolvere
i propri impegni nei confronti dei titolari di eventuali diritti che dovessero
presentarsi a stampa eseguita.
Copyright ©2019 Xedizioni, Cagliari
xedizioni.it
ISBN 9788898556373
A Elisa e Tommaso,
Isabella e Luca
Briciola n. 0 15.6.2019
Prefazione
Il Signor Francesco Campus, titolare di una piccola impresa di costruzioni,
aveva da poco iniziato i lavori di ristrutturazione della mia casa
di campagna (in località Binu Mancu, agro di Magomadas; per me, e
non solo, il posto più bello del mondo). In breve tra noi si instaurò un
rapporto di reciproca stima e di pudica amicizia.
Un giorno, mentre lo osservavo lavorare, con una certa titubanza se
ne uscì dicendo: Ma lei ha scritto un libro? (Il sardo lo riservava per
un registro diverso, quello delle conversazioni con i suoi collaboratori.)
Era successo che, con Google, dal mio nome era risalito alle dispense che
avevo caricato sul sito del Dipartimento di Matematica dell’Università di
Cagliari, a disposizione degli studenti dei miei corsi di Algebra. Aggiunse
che aveva iniziato, con difficoltà, a leggerle e, tra una chiacchiera e l’altra,
mi chiese dei chiarimenti. Si trattava di questioni elementari ma niente
affatto sciocche, motivate da autentico interesse.
Una delle cose che non aveva capito era la faccenda delle costruzioni
con riga e compasso. Risposi che avrei rimandato ai giorni seguenti
il chiarimento ma che nel frattempo gli assegnavo un compito a casa:
trovare la bisettrice di un angolo assegnato. La mattina seguente mi
portò l’esercizio risolto. A questo punto non fu più necessaria alcuna
spiegazione sulla natura di quelle costruzioni. Omisi invece, giudicandoli
prematuri, i nessi tra quelle e gli assiomi euclidei (cfr. Briciola n. 32
ultimo capoverso del primo paragrafo, pag. 405).
A fine estate del 2016 rividi Francesco Campus perché doveva completare
alcuni piccoli lavori, rimasti in sospeso. E ricominciarono anche le
richieste di chiarimento. Proposi allora di inviargli tramite email, con periodicità
aleatoria, delle brevi lezioni. Poiché l’idea piacque, non tardai
ad inviare la prima delle “Briciole di Matematica per il Signor Campus”
cui seguirono presto diverse altre. Tratta(va)no di argomenti vari
1
di matematica, tesi sia a rinverdire nozioni scolastiche che a suggerire
approfondimenti e a indicare nuovi sviluppi.
Lo scriverle mi sembrò un modo equo per pareggiare i conti per quel
tanto in più di cura e intelligenza che evidentemente Campus metteva
nel lavoro; aggiungo inoltre che ciò mi aiutò a superare senza traumi un
periodo di forzata immobilità. Sono convinto di non aver detto niente di
nuovo in queste Briciole (se non, forse, nella n. 36), ma conservo l’illusione
di averlo detto bene.
Queste Briciole quasi subito si guadagnarono un uditorio più vasto.
Peraltro, come spiega la email di pag. 121, ciascuno dei destinatari era
autorizzato a trasmetterle a sua volta liberamente.
Non bisogna pensare che fosse un’offerta organica, né tantomeno completa,
di divulgazione matematica. Spiccano più gli argomenti assenti
che quelli cui si è dedicata una qualche attenzione. Solo qualche cenno
all’aritmetica, alla teoria degli insiemi, alla logica matematica, all’algebra,
alla combinatoria, all’analisi, alla geometria, alla topologia, alla fisicamatematica;
nessuno alla teoria della probabilità, all’algebra lineare,
alla geometria algebrica, alla geometria differenziale, all’analisi numerica,
all’informatica teorica, alla ricerca operativa etc. etc.
Dopo qualche mese l’apprezzamento e il conforto di diversi amici mi
hanno indotto ad allargare l’iniziativa coll’affiancare alla matematica anche
altre tematiche e col contributo di altre esperienze scientifiche, culturali
e professionali. La cosa era in armonia con la nostra radicata convinzione
— né potrebbe essere diversamente per gente cresciuta a pane e
dibattiti su Le due culture (Cfr. pag. 208) — che la pluralità di interessi
non possa che giovare ad una formazione culturale anche specialistica
(non siamo mica americani!).
Sebbene l’invito fosse stato rivolto a tutti i destinatari delle Briciole,
molti dei quali non conosco neppure di nome (ma ovviamente noti al mio
computer), hanno risposto all’appello solo alcuni cari amici. Uno sforzo
di fantasia mi ha suggerito di chiamare BricioleExtra i nuovi contributi,
che ho talvolta accompagnato con una mia email di presentazione del
proponente.
Inoltre, sono stati inseriti d’ufficio alcuni scritti di Primo Levi e di
Gian-Carlo Rota in rappresentanza dei tanti — dei contemporanei della
matematica, delle scienze, della letteratura, del rigore morale — che in
2
vario modo ci sono stati maestri di curiosità, di impegno, di tolleranza,
di dignità. Per rappresentare fatiche e fasti del lavoro manuale, non
meno importante di quello intellettuale, non posso che proporre il Signor
Campus.
Va anche detto — cosa che non ritengo affatto essere un limite (ma
semmai un quid in più) di questa proposta — che lo stile di tutte queste
Briciole, Extra o no, è tutt’altro che omogeneo, come peraltro ci si
deve aspettare vista la varietà di argomenti e di proponenti. Si passa
dall’assoluto valore letterario della prosa dei divertenti racconti di Primo
Levi e del toccante ricordo di Stan Ulam trafugato a Gian-Carlo Rota —
l’affetto che ancora suscita in me mi autorizza a sperare che non si stia
rivoltando nella tomba — all’appena accettabile chiacchiericcio di molte
delle mie Briciole.
Di recente il tutto è capitato nelle mani di una vecchia conoscenza,
Leonardo Mureddu. Già allievo di Guido Pegna all’epoca della preparazione
della sua tesi di laurea in Fisica, è stato poi associato all’INAF
(Istituto Nazionale di AstroFisica), Osservatorio Astronomico di Cagliari,
di cui è stato responsabile del Servizio del Tempo quando l’Osservatorio
era a Poggio dei Pini. Nonché in successione: figlio e padre di valenti
musicisti (la qual cosa, in questo contesto, non stona affatto); paziente
costruttore di velieri in miniatura; abile muratore; punto di riferimento
per collezionisti di radio d’epoca di mezzo mondo (pare che conosca vita
morte e miracoli di ogni singola valvola termoionica mai prodotta dall’epoca
di Marconi); grande esperto di TEX eL A TEX (Cfr. nota n. 131,
pag. 215 e anche Briciola n. 37), i sofisticatissimi programmi di scrittura
senza i quali i matematici dovrebbero ancora far ricorso ai tipografi d’antan
(e io non mi sarei di certo imbarcato in quest’impresa delle Briciole).
Infine col pensionamento si è dato all’editoria: nessuno è perfetto!
Ovviamente non poteva lasciarsi sfuggire questa chicca: ne è sortito
— ma gli è costato non poco lavoro editoriale — il libro che avete in
mano.
Lasciando da parte gli scherzi lo ringrazio di cuore per il suo competente
impegno nel dare dignità cartacea ai nostri parti digitali. Conservando
il titolo originale per questi ultimi, l’Editore ha preferito sceglierne
per il libro uno appena più sobrio. Mi è parso giusto lasciare a Cesare
quel che è di Cesare.
3
Parte 1
18 (+1) Briciole di pura matematica
Prologo
Nel dicembre ’91 insegnavo all’Università di Addis Abeba. Il maggior
tempo libero mi consentì allora di mettere in atto un proposito che avevo
in mente da tempo, quello di scrivere delle considerazioni che facessero
capire a figli e amici quali fossero i folletti che infestano la mente di
un matematico. Impresa decisamente disperata. Potevo però ricorrere
all’espediente di sfruttare delle suggestioni offerte da metafore letterarie.
Ne è sortito lo scritto — già diffuso allora tra gli amici, molti dei quali
destinatari anche di queste Briciole — che oggi, a quasi trenta anni di
distanza, ripropongo nelle prime pagine di questo libro.
Vedrete che alcuni degli argomenti trattati sono contenuti anche in
qualche Briciola, forse addirittura riportati col copia-incolla (irresistibile
tentazione dell’epoca dei personal computer). Spero che la cosa non vi
disturbi; d’altra parte si sa che repetita juvant.
G.C. 24.4.2019
6
Quattro chiacchiere a ruota libera su
un’affascinante signora
È un vezzo comune a molte persone, magari con una grande cultura umanistica,
il sostenere di non capire nulla di matematica. E se ne fanno un
vanto: tale dichiarazione è spesso accompagnata da un implicito compiacimento.
Quasi a voler dire che la matematica viene volentieri lasciata a
persone più aride, meno sensibili, dedite ad astrusi giochetti intellettuali,
incapaci di provare interesse per i reali problemi dell’uomo; e che questo,
fortunatamente, non è il loro caso. Insomma, la matematica come il regno
dei pedanti. Perché a quelle stesse persone non capita mai di fare
una simile dichiarazione relativamente alla fisica, o alla chimica, o magari
alla musica? E forse ne sanno altrettanto poco. Sentono però che la fisica
come la chimica o la musica producono qualcosa di utile e affascinante al
contempo (magari il fascino perverso di un fungo atomico) e che quindi
sono degne di rispetto e forse di ammirazione. Sono invece convinte che,
da questo punto di vista, la matematica si limiti, nel migliore dei casi, a
fornire qualche strumento di calcolo alle altre scienze 1 .
Questo è talvolta anche il punto di vista di molti altri scienziati, soprattutto
in relazione alla attuale ricerca. Ci si sente chiedere: ma cosa
ancora avete da scoprire in matematica? Ai matematici tutto ciò suona
così ingenuo che non vale neanche la pena di scandalizzarsi. Il rimettere
poi le cose nella loro giusta prospettiva non sempre è facile. Anche sem-
1 Può darsi che questo fosse anche l’atteggiamento di Nobel, quando non dedicò un
premio alla matematica. Ma i matematici (spregevoli pettegoli!) indicano un’altra
ragione: sostengono che la moglie di Nobel fosse l’amante di Mittag-Leffler, un grande
matematico norvegese di quel periodo! In effetti il povero Nobel era scapolo.
7
plicemente riuscire a far, non dico capire, ma almeno intuire alcuni dei
più semplici e generali elementi di interesse della matematica richiederebbe
da parte dell’interlocutore un enorme sforzo mentale ed una gran
quantità di tempo. Possiamo forse apprezzare le sfumature della poesia
cinese? Riusciamo al più, per analogia, ad immaginare che ci sono.
Purtroppo non esiste niente di analogo, in toto, alla matematica. Questo
vuol dire che rinuncerò al proposito di parlarne? Non rallegriamoci
troppo in fretta! È difficile trattenersi dal parlare di una signora con la
quale si è tanto civettato. Va bene se ci avviciniamo ad essa attraverso
la letteratura? Matematica e fantasia. Il tema è probabilmente troppo
ambizioso ma la direzione è allettante. Gli spunti che mi vengono in
mente ora sono tre: L. Carroll, R. Queneau e J. L. Borges.
Humpty Dumpty (Peter Newell 1902)
Non a tutti è noto che Lewis Carroll, alias il Rev. Charles Lutwidge
Dodgson, prima ancora di essere uno scrittore di libri (ritenuti dagli adulti)
per l’infanzia, è stato un professore di matematica al Christ Church
College di Oxford. Ha pubblicato diversi pregevoli lavori in vari settori
della matematica ma i suoi interessi vertevano soprattutto sulla logica
matematica. Sentiva anche una propensione che andava un tantino oltre
8
il lecito per le fanciulline; ma, si sa, non si può essere perfetti. E poi, è
riuscito a mascherarla bene, traducendola in meravigliosi racconti ed in
non meno splendide fotografie. Bene, da dove credete che gli provenisse
quella sua fantastica capacità di ribaltare le situazioni per osservarle da
un punto di vista inusuale ed evidenziarne gli elementi paradossali se non
dalla sua dimestichezza con la matematica? Giusto per darne un piccolo
saggio, vogliamo cercarli in una delle sue più note poesiole?
Humpty Dumpty sat on a wall:
Humpty Dumpty had a great fall.
All the King’s horses and all the King’s men
Couldn’t put Humpty Dumpty in his place again.
Che è deliziosa anche nella traduzione francese 2 :
Oppure in:
Petit-Bonhomme a fait un saut,
Petit-Bonhomme est en morceaux.
Et jamais ne pourra aucun homme
Raccommoder Petit-Bonhomme.
In winter, when the fields are white,
I sing this song for your delight.
In spring, when woods are getting green,
2 Ma nella versione trilingue di L.Carrol, Humpty Dumpty nella collana einaudiana
Scrittori tradotti da scrittori troviamo la versione francese di Antonin
Artaud:
Dodu Mafflu bien calé sur son mur
Dodu Mafflu prit un coup dur
Et tous les cavaliers de la Janisselle et de la Jêlle
N’auraient pas pu le remettre en selle
Même en s’y mettant tous avec toutes leurs armée.
come pure quella italiana di Guido Almansi e Giuliana Pozzo:
Bindolo Rondolo sedeva sul muretto
Bindolo Rondolo cascò con grande effetto.
Tutti i cavalieri e i soldati del reame
Non potevan rimettere Bindolo Rondolo insieme.
9
I’ll try and tell you what I mean.
In summer, when the days are long,
Perhaps you’ll understand the song:
In autumn, when the leaves are brown,
take pen and ink, and write it down. 3
Lasciamo Carroll alle sue capriole e andiamo incontro a Queneau.
Il mio primo contatto con lui è stato ai tempi della terza liceo. I suoi
Fiori blu tradotti da Calvino sono stati allora per me una piacevolissima
sorpresa. Non ero abituato a quella prosa così fresca, esilarante, capace di
ironizzare con grazia e senza farsene avvedere su tutta la nostra storia e la
nostra cultura. Com’era? quella divertentissima prima pagina, dove, se
ricordo bene, durante un assedio ...i Saracineschi chiudevano persiane, i
Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Galois fumavano
gitanes, gli Unni cucinavano bistecche alla tartara e i Normanni bevevan
calvados. Cito a memoria per cui forse sto pasticciando. Comunque
il pacioso Cidrolin e il suo inquieto alter ego onirico Duca d’Auge —
analoghi, in un contesto europeo più colto, del giovane Holden, altro
amico di quei tempi — mi hanno poi fatto compagnia per diverso tempo.
3 Artaud e Almansi/Pozzo traducono ora, rispettivamente:
En hiver quand le champs sont blancs
Je chante cette chanson pour votre amusement.
Au printemps quand les bois se parent de verdure
J’essaierai de vous dire ce que je signifie.
En été, quand le jours sont longs
Peut-être pourrez-vous miex comprendre ma chanson.
En automne, quand les feuilles sont rouges
Prenez la plume et l’encre, et écrivez-la toute.
D’inverno la neve forma un letto:
Canto questa canzone per tuo diletto.
Di primavera il creato è stupendo:
Cercherò di spiegar che cosa intendo.
D’estate, quando arde il solleone
Forse capirai la mia canzone.
D’autunno, quando brulle son le aiuole,
Prendi la penna, scrivi le parole.
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Era anche l’epoca di mille altre scoperte simili. Il cinema innanzi tutto,
con i suoi vecchi e nuovi maestri italiani, francesi, scandinavi, russi.
L’impegno politico, già presente, si tingeva di una luce estetizzante, che
anche oggi mi pare non avesse alcunché di decadente, perché si accompagnava
alla giovinezza, alla liberazione dei costumi, al piacere di fare
le cose insieme. Era l’epoca della prima diffusione delle vecchie canzoni
partigiane e politiche. Ve ne erano di bellissime. Chi ha vissuto quel
periodo ricorderà forse quella: “Oltre il ponte”, con parole di Calvino: O
ragazza dalle guance di pesca,/ o ragazza dalle guance d’aurora,/ io spero
che a narrar mi riesca/ la mia vita all’età che tu hai ora. [...]. Oppure
“Ay Manuela”, della Guerra Civile Spagnola: Si me chieres escribir, ya,
sabès mi paradero/ En el frente de Gandesa, primera linea de fuego (non
è detto che si scriva così). O anche un’altra molto, molto francese, che a
un certo punto faceva: Le vent souffle sur les tombes,/ la liberté reviendra,/
on nous oublira./ On rentrera dans l’ombre. Le canzoni di Tenco,
Paoli, etc. erano sicuramente altrettanto belle, ma quelle erano più rare
e creavano la giusta atmosfera per mille stimolanti discussioni. Non
rinnego, infatti, neanche il piacere, che allora sentivamo, di fare in fondo
parte di un’élite capace di idee, sensibilità, proposte originali. Il ’68, con
la sua forza ma anche con tutta la sua volgarità, era ancora lontano.
Il profumo dei Fiori blu si armonizzava perfettamente con tutto ciò.
Sono poi venute le altre cose di Queneau: Zazie nel metro; Pierrot,
mon ami; Exercices de style; On est toujours trop bon avec les femmes;
... e soprattutto Odile. Ma di questo racconto parlerò dopo. L’ho anche
ritrovato come autore di alcune pagine di un rigorosissimo trattato di
logica simbolica (il Kreisel-Krivine) e delle parole di una delle più belle
canzoni di Juliette Greco: Si tu t’imagines. Purtroppo Queneau è difficile
da tradurre, bisogna leggerlo in francese (a meno che non ci si metta
Calvino). I suoi giochi di parole, i suoi dialoghi tratti dall’argot delle
Halles (spesso, per capire il senso di una frase, bisogna leggerla a voce
alta ed ascoltarne il suono), apparentemente così immediati, sono anche
il prodotto di una enorme cultura e di una grande consapevolezza delle
potenzialità della lingua.
D’altra parte, questo è stato uno dei punti intorno a cui ha ruotato
tutta la sua attività. È stato a lungo direttore della Encyclopédie de la
Pléiade di Gallimard. Prima degli anni Cinquanta, ha cercato di promuo-
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vere una campagna in favore dell’adozione di nuove norme di scrittura
del francese che adeguassero la grafia alla pronuncia. Più tardi ha dovuto
riconoscere che una maggiore diffusione del francese colto, ad opera
della scolarizzazione e dei mezzi di comunicazione di massa, rendevano
ciò non più proponibile 4 . È stato, soprattutto, uno degli animatori del
Raymond Queneau (1903-1976)
gruppo “Oulipo” (acronimo per “Ouvroir de littérature potentielle”). Si
trattava di una strana accozzaglia di letterati e matematici 5 , tutti molto
vivaci intellettualmente e poco ortodossi (dei nostri c’era Calvino). Cosa
avevano a che fare gli uni con gli altri? Semplicemente volevano operare
insieme, come modesti e bravi artigiani, in un laboratorio (ouvroir)
letterario. Non disdegnavano di applicarsi col massimo impegno alla sperimentazione,
nella speranza che questa suggerisse nuove ed interessanti
indicazioni su come fare della buona letteratura.
Molti spunti per tale sperimentazione erano offerti dalla matematica
(principalmente dalla combinatoria). Queneau stesso era un matematico
4 Cfr. Bâtons, lettres, chiffres.
5 In primo luogo François Le Lionnais, da ricordare non solo come curatore di Les
grands courants de la pansée mathématique, edito da Blanchard nel 1962 — volume che
contiene, tra l’altro, l’articolo L’architecture des mathématiques di Nicolas Bourbaki,
un vero e proprio manifesto della concezione bourbakista — ma anche come autore
di vari manuali di scacchi.
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dilettante e in gioventù era stato combattuto tra la scelta di dedicarsi alla
letteratura e quella di fare ricerca in matematica. Italo Calvino dedica
uno dei saggi contenuti nella raccolta Una pietra sopra ad un confronto
tra Roland Barthes e il nostro, mettendo in evidenza questo apparente
paradosso: da un lato Barthes, così lontano dalla matematica, che propugna
una prosa dominata dal rigore strutturale e dall’altra Queneau, così
impastato di essa, che pratica una prosa apparentemente sgangherata.
Ma, appunto, la matematica è, oltreché struttura, anche e soprattutto
fantasia, gioco, invenzione, sorpresa, bellezza allo stato puro. Del concetto
di struttura in matematica come pure del ruolo che vi gioca il senso
estetico parlerò forse più avanti. Torniamo a Queneau.
Come esempio di quella attività sperimentale si prenda la sua opera
il cui titolo, se ben ricordo, è Centomila miliardi di sonetti. Si tratta
di alcuni (dieci) sonetti; dopo stampati, ciascun foglio è stato tagliato
in modo che ogni singolo verso sia contenuto in una striscia di carta. Il
lettore può divertirsi a combinare a piacere le singole strisce ottenendo
così un gran numero (10 14 , cioè quello indicato dal titolo) di sonetti.
È meno ozioso di quanto sembri. Dietro buona parte della sua prosa si
intuisce del gioco di questo tipo. Nei suoi famosi Exercices de style questo
è evidentissimo, anche se poi uno può dimenticarsene perché il valore
letterario del risultato è assoluto e non richiede altre giustificazioni. Si
tratta di un brevissimo, insignificante episodio avvenuto in un autobus.
Un tale, sballottato dai passeggeri, si fa fregare un posto resosi libero
da qualcuno più furbo e svelto di lui. Gli capita anche di osservare un
tizio il cui cappotto ha perso un bottone, e che rivedrà poco dopo per
caso nei pressi di una chiesa. Tutto qui. Ma la cosa è ripetuta secondo
interpretazioni e stili diversi: prolisso, conciso, giornalistico, telegrafico,
burocratico, meravigliato, sorpreso, enfatico, poliziesco, cancellieresco,
alla moda della ragazzina che si esprime masticando chewing-gum e cioè,
...e così di seguito per novantanove volte.
Ho, su Queneau, anche un episodio inedito, al quale una mia amica
ha assistito di persona. Nel corso di una Buchmesse di Francoforte di una
ventina d’anni fa, giornalisti e critici lo abbordavano per sapere che cosa
ne pensasse del tale o tal altro scrittore. Invariabilmente la sua risposta
era: “Du bien, du bien...”. Sarebbe difficile trovarne una al contempo più
raffinata e ironica.
13
E veniamo a Odile, che richiede però una lunga premessa sugli inizi
della mia attività di ricerca. Quindici giorni dopo la laurea ho avuto la
fortuna di ottenere un posto di assistente di Geometria, assegnato proprio
allora all’Università di Cagliari. In quart’anno avevo però seguito a
Lettere il corso di Logica di Ettore Casari, superandone brillantemente
l’esame, e restava mia intenzione di occuparmi di logica, e di algebra,
ad essa per molti versi strettamente collegata. Aggiungo che i docenti
di matematica di Cagliari — che peraltro ebbero la grande delicatezza
di non cercare di impormi l’impegno in filoni di ricerca estranei alle mie
curiosità, cosa allora rara e di cui sarò loro sempre grato — non potevano
essermi di guida in quel settore. Proprio allora però Casari fu chiamato
a Firenze, e l’unica occasione che ebbi per stare in contatto, invero assai
sporadico, con lui e con gli altri logici matematici italiani fu di far parte
del loro gruppo CNR. Per rompere l’isolamento e trovare dei compagni
di lavoro con cui discutere, convinsi anche uno o due altri colleghi più
giovani di me ad occuparsi degli stessi studi. Speravo così di superare
le difficoltà di fronte alle quali ci si trova quando, volendosi inserire in
un filone di ricerca molto sofisticato e già ampiamente sviluppato, non
si possa disporre dell’aiuto di qualcuno più esperto che ti indichi come
inquadrare certi problemi, come evitare dei fraintendimenti, quale fosse
il senso di alcuni sviluppi, etc. etc. Non è facile dover capire tutto da
soli! Per farla breve, dopo molti sforzi infruttuosi e frustranti, durati alcuni
anni, lasciammo perdere la logica e, insieme con Franco Piras, uno
dei colleghi che dicevo, decidemmo di sviluppare alcune idee che intanto,
quasi per caso, eravamo venuti elaborando su una questione di algebra.
L’argomento era elementare (in senso matematico: non richiedeva cioè
molti prerequisiti) e per alcuni versi anche vecchiotto, ma noi ottenevamo
dei risultati inaspettati e divertenti. In seguito avremmo scoperto che
alcuni di questi erano ben noti, ma allora la cosa non ci preoccupava più
di tanto; conducevamo le nostre ricerche per puro gusto personale, decisi
a fregarcene del mondo accademico e delle sue liturgie. I risultati ottenuti
non finivano in pubblicazioni ma in quaderni che si accumulavano
nei nostri cassetti. Dopo diversi anni di questo lavoro fatto in solitudine,
quando ormai i risultati erano numerosi e apparivano consistenti, decidemmo
che bisognava iniziare a pubblicarli ed a confrontarsi col mondo
matematico. Per tastare il terreno facemmo anche un giro tra alcuni dei
14
matematici che conoscevamo, per raccontare loro delle nostre ricerche e
raccoglierne le impressioni. Per lo più, ad un atteggiamento iniziale di
malcelata sufficienza seguiva, man mano che noi esponevamo le nostre
cose, una sorta di stupito imbarazzo: l’argomento era elementare, e soprattutto
estraneo alle tematiche di ricerca delle diverse scuole italiane,
ma i risultati evidentemente c’erano, anche se non sapevano inquadrarli.
Il nostro desiderio di avere un qualche utile riscontro, positivo o negativo
che fosse, continuava a rimanere tale! (Solo più tardi avremmo trovato
degli interlocutori interessati e competenti, per lo più stranieri.)
In quel periodo (si era alla fine degli anni Settanta) e con quello stato
d’animo, mi capitò di leggere Odile.
Fu per me come lo scoprire un ideale compagno di strada, insperato
quanto prestigioso, nel momento in cui camminavo contro corrente,
apparentemente in perfetta solitudine.
Si tratta di un racconto autobiografico. Non so dire se sia più interessante
o più bello. L’autore-protagonista, dopo aver trascorso il periodo
del servizio militare nell’Africa del nord, rientrato nella Francia metropolitana
si stabilisce a Parigi. Si sente sbandato e non ha affatto le idee
chiare sul suo futuro. Le sole vere propensioni che sente di avere: per la
matematica e per la letteratura, non sembrano offrire sbocchi di lavoro
soddisfacenti. Comunque, in attesa che gli eventi e il caso determinino il
suo futuro, è ben deciso a non abbandonare né l’una né l’altra. Gli capita
di entrare in contatto e di frequentare assiduamente il gruppo dei surrealisti
che fanno capo ad André Breton. I rapporti con questa accozzaglia
di bohémiens squinternati non sempre sono facili. Egli comunque cerca
di non lasciarsi coinvolgere completamente e impedisce che essi interferiscano
con, o addirittura siano a conoscenza di una parte più privata
della sua vita dedicata, nella solitudine della stanza di pensione, alle sue
ricerche matematiche. Un giorno però nell’ambiente equivoco in cui bazzicano
i surrealisti matura un delitto. La polizia, tra le altre, perquisisce
anche la sua stanza. Nel rientrarvi più tardi, egli viene colto da shock:
erano stati dispersi tutti i suoi calcoli sulle successioni ricorrenti.
Arrivato a questo passo, anch’io venni colto da shock: si trattava dello
stesso argomento che io ed il mio collega stavamo studiando da alcuni
anni!
Vorrei infine parlare di Borges, anche se, tutto sommato, lo conosco
15
molto poco, e del perché mi sembra un grande scrittore. Uno degli esempi
che ho in mente per giustificare le mie impressioni è una semplice frase
che ha a che fare con una famosa questione di matematica, l’Ultimo
Teorema di Fermat. Non è ancora arrivato il momento di allarmarsi:
è facilissima da capire. Come altro esempio vorrei considerare un suo
racconto intitolato La ricerca di Averroè. Ciò che mi convince in lui
è che, pur avendo e sfruttando una grande cultura accompagnata da
una pari erudizione, non le esibisce mai esplicitamente. Poiché riesce a
creare deliziose atmosfere, il lettore prova un enorme piacere nel leggere
la sua prosa, anche quando non è in grado di partecipare di tutte le
suggestioni che, con tocco a volte lievissimo, essa offre. Quando poi
si riesce a coglierle, ci si sente colti, raffinati, sensibili ed il piacere è
immenso. Io ho sempre l’impressione di riuscire ad afferrarne una parte
infinitesima. Mettiamo che vi sia un rimando, ad es., a Melville, o a
Milton, o a Eschilo, ...: sicuramente non me ne accorgo neppure, perché
non conosco quegli autori. Ma cosa mi convince che tali rimandi vi siano
effettivamente? (Il non coglierli potrebbe dipendere dal fatto che proprio
non ci sono.) Proprio quelli che invece riesco a cogliere ed il modo in cui
mi vengono offerti! La stessa impressione me la procura la Yourcenar.
In questo senso giustifico anche la mia poca stima di altri scrittori.
Di Eco, ad esempio, la cui prosa mi pare collocarsi all’estremo opposto.
Tutta la cultura che la genera — e spesso, si ha l’impressione, anche
l’erudizione che l’autore si è dovuto dare ad hoc, per produrre quell’opera
— viene sbattuta in faccia al lettore che ne resta frastornato. È quindi
giustificato il mio sospetto che sia un trucco di bassa lega per estorcerne
il consenso e l’ammirazione.
Non così invece in Borges. Ma veniamo all’esempio che dicevo. In
non so più quale racconto — se ricordo bene, qualcosa che ha a che fare
con un labirinto: altro elemento tipico del simbolismo borgesiano — si
parla di due giovani amici. Il primo aveva la vocazione del poeta; dell’altro
si dice soltanto che aveva pubblicato uno studio sul teorema che
Fermat non scrisse in margine a una pagina di Diofanto. La maggior
parte dei lettori registreranno che probabilmente si tratta di qualcosa di
matematica e tireranno avanti senza la minima emozione. Per il lettore
avvertito, invece, essa evoca tutto l’interesse, il travaglio, la magia
dell’Ultimo Teorema di Fermat e della sua lunga, non ancora conclusa,
16
storia. Cercherò di spiegare di che si tratta.
Pierre de Fermat era un matematico francese del Seicento, uno dei più
grandi in assoluto di tutta la storia della matematica. Questa, come spesso
allora accadeva, era solo il suo hobby; di mestiere faceva il magistrato.
Un hobby giudicato ad altissimo livello anche dai suoi contemporanei.
Corrispondeva infatti con personaggi della sua stessa statura culturale:
Pascal, Descartes, Mersenne. Come matematico però li batteva.
I trattati cui allora si faceva riferimento erano per lo più quelli classici
dei matematici greci ed alessandrini, e Diofanto era uno di questi ultimi.
(D’altronde, ancora nell’Ottocento, nelle scuole italiane erano adottati
gli Elementi di Euclide come manuale scolastico.) Fonte di riflessione
per Fermat era, ad un certo punto, l’Aritmetica, un trattato di Diofanto
di cui ci sono pervenuti sei dei tredici libri originali. Si trattava di una
raccolta di problemi. Uno di questi richiedeva di trovare tutte le terne
pitagoriche. Si tratta di questo. Sicuramente ricorderete il teorema di
Pitagora: se x ed y sono le misure dei cateti di un triangolo rettangolo
e z è quella dell’ipotenusa allora si ha la relazione x 2 + y 2 = z 2 ; ovvero,
se la si preferisce in termini geometrici: la somma dei quadrati costruiti
sui cateti è equivalente al (cioè ha la stessa area del) quadrato costruito
sull’ipotenusa. Di conseguenza, prese a caso le misure x e y dei cateti,
l’ipotenusa misurerà √ x 2 + y 2 ; ad esempio, per x = y =1, si ottiene
z = √ 1 2 +1 2 = √ 2=1, 4142 ... In questo caso le misure dei cateti sono
numeri interi ma quella dell’ipotenusa non lo è; quando invece tutte e
tre le misure x, y e z sono numeri interi si dice che la terna x, y, z è una
terna pitagorica. Ad esempio x =3, y =4e z =5, oppure x =5,
y =12e z =13, giacché 3 2 +4 2 =5 2 e 5 2 +12 2 =13 2 . Si può esprimere
questo fatto anche dicendo che le terne (x =3,y =4,z =5)e (x =
5,y =12,z = 13) sono soluzioni dell’equazione diofantea x 2 + y 2 = z 2 ;
l’aggettivo ‘diofantea’ sta proprio ad indicare che si cercano soluzioni
intere.
Si può dimostrare che esistono infinite terne pitagoriche e si sa anche
come fare a trovarle tutte. Il problema di Diofanto cui facciamo riferimento
verteva proprio sulla ricerca delle terne pitagoriche. Perché ci
interessano in particolare le terne pitagoriche tra tutte le altre possibili
soluzioni? Mah, per niente; o se si vuole solo per motivi estetici: in questo
caso i numeri interi ci piacciono più di quelli decimali. Se vi va, tuttavia,
17
anche all’estetica si può trovare una precisa giustificazione culturale, che
in questo caso ci riporterebbe indietro di nuovo fino a Pitagora. Cosa
precisamente intendo dire lo vedremo però un’altra volta; anzi facciamo
così, tanto per dividerci il lavoro: spiegatemelo voi, dopo magari essere
andati a rileggervi il capitolo sulla scuola pitagorica di un buon manuale
di filosofia.
Orbene, accanto al problema appena visto, Fermat appuntò sul testo
diofanteo quanto segue: “Non esistono invece soluzioni intere dell’equazione
x 3 +y 3 = z 3 né più in generale dell’equazione x n +y n = z n per ogni
n ≥ 3. Di questo fatto ho trovato una dimostrazione che però la ristrettezza
del margine [della pagina del trattato] mi impedisce di riportare.
Ci si riferisce, ovviamente, a soluzioni non banali, cioè con x e y entrambi
non nulli. Sfortunatamente Fermat non lasciò neanche altrove la sua
dimostrazione. Quell’affermazione è oggi nota come Ultimo Teorema di
Fermat. E siccome ai matematici, un po’ per motivi estetici e un po’ per
rispetto di se stessi, non piacciono i problemi insoluti, sono trecento anni
che si affannano in tutti i modi per trovarne una dimostrazione o per
riuscire a confutarlo. Non pochi ci hanno perso il sonno per molti anni
consecutivi. Altri hanno creduto di averla trovata, salvo poi scoprire che
essa conteneva un errore (è successo anche di recente, non più di due anni
fa, ad un matematico giapponese di prim’ordine). Altri ancora, proprio
nel cercarne una dimostrazione, hanno fatto delle scoperte che hanno
fatto compiere importanti passi avanti alla matematica 6 . Nel frattempo
molti risultati parziali sono stati ottenuti; un matematico brasiliano,
Ribenboim, ne ha riempito un paio di volumi. Eppure la dimostrazione
generale resiste ancora! Trovarla continua ad essere il sogno segreto di
ogni matematico 7 !
6 Non si deve pensare che la semplicità dell’enunciato del problema implichi quella
di una sua eventuale soluzione. Le tecniche con le quali si è cercato di trovarla — e
sicuramente anche quelle che un giorno porteranno al successo — sono estremamente
complesse e sofisticate.
7 Nel frattempo la situazione è cambiata: pare accertato che alcuni anni fa un
brillante matematico inglese, Andrew Wiles, abbia dimostrato un teorema (relativo
a tutt’altro settore della matematica) da cui consegua l’Ultimo Teorema di Fermat.
Dico “pare” perché, data la delicatezza della materia e data la complessità della
dimostrazione in oggetto, i matematici giudicano saggio andare con i piedi di piombo
e controllare attentamente ogni passaggio prima di pronunciarsi definitivamente sulla
correttezza dell’intera dimostrazione.
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Fra breve vorrò portare il discorso su matematica e filosofia. E allora,
per non arrivarci in modo troppo brutale, non mi sembra una cattiva
idea sfruttare Borges ancora per un po’.
La ricerca di Averroè 8 è forse il racconto di Borges che preferisco 9 .
Oltre che essere un grato omaggio alla cultura medievale islamica (fonte,
dopo quella greca, di gran parte dei punti di riferimento fondamentali
del nostro sapere), mi pare vi siano rese in modo mirabile alcune delle
emozioni che lo studio e la ricerca suscitano. Ed anche la beffa operata
dal caso, quando, ad un passo dalla corretta soluzione di un problema,
ti allontana poi da essa. La storia della scienza — come pure quella
personale di molti ricercatori — è piena di burle crudeli di questo tipo!
Nello studio della sua casa di Cordova 10 , Averroè è impegnato a riflettere
ad un problema che lo assilla da tempo. Sta lavorando a un
commento della Poetica di Aristotele. Ci sono due parole, però, il cui
senso continua a sfuggirgli: tragedia e commedia. Non riesce proprio ad
immaginare che cosa significhino: ha dovuto scartare ogni ipotesi fatta
in merito. Eppure il problema va risolto, perché è chiaro che non hanno
affatto un ruolo secondario. Sovrappensiero Averroè si accosta alla
finestra: nella pace del cortile sottostante zampilla allegra una fontana
ed alcuni bambini giocano serenamente 11 . La luce dorata del tramonto
contribuisce a creare un’atmosfera mollemente appagata: Averroè decide
che per quel giorno ha lavorato abbastanza e che è tempo di avviarsi
verso la casa di un amico da cui è stato invitato a cena.
Sembra ora (1998) che non debbano esservi più dubbi. Comunque si vedano in proposito
i due seguenti libri divulgativi: A. D. Aczel: L’enigma di Fermat, Il Saggiatore,
1998; S. Singh: L’Ultimo Teorema di Fermat, Rizzoli, 1997.
8 “... che voleva immaginare quel che è un dramma senza saper cos’è un teatro...’
9 Lo stesso senso di fascinazione ha evidentemente provato Dario del Corno, il
prefatore dei Tragici greci ne I MERIDIANI, Mondadori 1977, che prende spunto
da questo stesso racconto, sul quale poi si sofferma per più di una pagina, per iniziare
la sua ‘Prefazione’.
10 “... e intorno (anche questo sentiva Averroè) si ampliava fino alle frontiere la
terra di Spagna, nella quale sono poche cose, ma dove ciascuna sembra starvi in
modo sostanziale ed eterno.”
11 Dice Borges, che, a differenza di Averroè, sa bene cosa sia il teatro: “Uno, in
piedi sulle spalle di un altro, faceva evidentemente da muezzin; con gli occhi chiusi
salmodiava: “Non c’è altro dio che Allah.” Quello che lo sosteneva faceva da minareto;
un terzo, inginocchiato nella polvere, rappresentava i fedeli.”
19
Questa è in onore di un mercante che torna da un lungo viaggio che
l’ha portato fin nel Katai. Naturalmente sono tutti molto interessati ai
suoi racconti. Tra l’altro, il mercante descrive strani edifici dotati di finestre
e balconi in cui la gente si affolla per assistere al racconto di storie,
alcune volte gaie, altre volte tristi. Ciò che meraviglia è il fatto che non
vengano semplicemente narrate ma siano anche mimate e accompagnate
da musica, danze, canti, costumi, scenari, etc. Ci si interroga sulla necessità
di tutto ciò: tutti convengono che, evidentemente, se sono necessari
tanti artifici, la lingua di quel popolo deve essere molto povera. Vengono
rese grazie ad Allah per aver invece donato al popolo islamico una lingua
ricca e articolata, capace di esprimere non solo qualunque racconto ma
anche, nei suoi esatti termini, ogni possibile questione scientifica, tecnica,
teologica, filosofica.
Averroè ha trascorso una piacevole serata e torna a casa sereno. Il
pensiero, ora rilassato, ritorna al suo problema: si convince che i due
termini tragedia e commedia vadano tradotti con panegirico e anatema.
È ormai arrivato il momento di attuare la minaccia di dire qualcosa
su matematica e filosofia. Ma siccome rischiamo di andare sul pesante
e io non voglio apparire eccessivamente cattivo, rilassiamoci ancora un
istante con Queneau e Borges.
1. Da un dialogo in Zazie nel metró, p.10:
...
“Bene. Allora vi ritrovo qui dopodomani per il treno delle sei e
sessanta”
“Lato partenza” dice Gabriel.
“Natürlich” dice Jeanne Lalochère, che era stata invasa.
...
Un po’ tutto, ma in particolare quell’‘invasa’, mi pare un bell’esempio di
surrealismo e di presa in giro del medesimo.
2. Da J. L. Borges: Oral (1979), Editori Riuniti, p. 19
... Di Cristo sappiamo che scrisse una sola volta alcune parole che la
sabbia s’incaricò di cancellare. Che si sappia non scrisse altro ...
3. Da J. L. Borges: Oral (1979), Editori Riuniti, p. 27
... Io ho una poesia, che mia sorella non conosce, con un tema analogo.
Penso a Gesú, che ricorda la pioggia in Galilea, l’aroma della falegname-
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ria, e una cosa che non ha mai visto in cielo e di cui ha nostalgia: la volta
stellata.
Questo tema della nostalgia della terra in cielo è presente in una
poesia di Dante Gabriel Rossetti. Si tratta di una ragazza che è in cielo e
si sente addolorata perché il suo amante non è con lei; nutre la speranza
che un giorno arrivi, ma lui non arriverà mai perché ha peccato e lei
continuerà ad aspettarlo per sempre ...
4. Da J. L. Borges: Finzioni, Tutte le opere, Vol.I, Mondadori ,
p. 626
...Mio padre aveva stretto con lui (ma il verbo è eccessivo) una di quelle
amicizie inglesi che cominciano con l’escludere la confidenza e prestissimo
omettono la conversazione; solevano scambiarsi libri e periodici; solevano
affrontarsi, taciturnamente, agli scacchi ...
Ciò detto, bisogna che ci decidiamo ad affrontare il toro per le corna...
Conoscete l’antinomia del mentitore? Se non vi siete mai interessati
a cose di questo tipo, è forse opportuno chiarire innanzi tutto che cosa
si intenda per antinomia in un preciso contesto formale. Infatti nel
linguaggio comune tale termine viene spesso considerato un sinonimo di
paradosso, mentre tecnicamente si preferisce distinguerli. E precisamente
si indica col termine paradosso una qualunque affermazione che, pur
essendo vera, dà l’impressione di esser falsa, assurda. Tale impressione
può dipendere dalle nostre errate conoscenze (ad es. a chi non sappia di
astronomia, può apparire paradossale l’affermazione secondo cui la Terra
ruota intorno al Sole) come pure dalla stessa struttura logico-linguistica
della frase. Facciamo un esempio di questa seconda possibilità. Considerate
il ben noto quiz: “Se un mattone pesa un chilo più mezzo mattone,
quanti chili pesa un mattone?” La risposta corretta è: due chili. (Se
non riuscite a convincervene altrimenti, provate ad usare una bilancia
a due piatti.) Ma la maggior parte della gente, senza ragionarci sopra
o forse credendo che il fatto che una cosa suoni bene sia una forma di
ragionamento, vi risponderà: un chilo e mezzo. Naturalmente a costoro
l’affermazione “Se un mattone pesa un chilo più mezzo mattone, allora
un mattone pesa due chili” apparirà paradossale. L’esempio non è forse
il migliore possibile ma può andare.
Col termine antinomia invece ci si intende riferire ad una frase che
proprio per la sua struttura è vera se e solo se è falsa, una frase in sostanza
21
che afferma la propria falsità, e che nonostante ciò appaia sensata.
Ma allora cos’è questa antinomia del mentitore? È la frase “Tutti i
cretesi mentono”, che era stata detta da un signore vissuto qualche secolo
prima di Cristo e che era appunto un cretese. Poiché, posta così, la
formulazione dell’antinomia risulta essere un tantino ambigua, preferisco
considerare un’altra versione più moderna (ma il succo non cambia).
Considerate quindi la frase seguente:
“L’affermazione in grassetto di pagina 22 di questo sproloquio
di Gigi è falsa”.
(Osservate che la precedente è proprio l’affermazione in grassetto di
pagina 22.)
Per comodità chiamiamo A questa frase. Ci si chiede se A è vera o è
falsa. Saremo costretti a concludere che è vera se e solo se è falsa.
Infatti, supponiamo dapprima che A sia vera. Allora è vero ciò che
essa afferma, cioè che l’affermazione in grassetto di pagina 22 di questo
sproloquio di Gigi è falsa; ma tale affermazione è proprio A e quindi A è
falsa. Riassumendo: dall’ipotesi che A sia vera abbiamo dedotto che A
è falsa.
Fino a questo punto va ancora tutto bene, a patto che A sia falsa.
Tuttavia se A è falsa, allora non è vero che l’affermazione in grassetto di
pagina 22 è falsa, e quindi tale affermazione — che è proprio A — è vera.
Riassumendo: se A è falsa allora A è vera.
Resta così provato che A è vera se e solo se è falsa.
Tutto questo può apparire ozioso e si può cercare di liquidarlo con
un’alzata di spalle dicendo che non è molto più che un gioco di parole.
A questa posizione si può e si deve però replicare:
a) se si tratta di un gioco di parole, ci si indichi dove sta il trucco;
b) se poi non c’è trucco, e quindi non si tratta di un gioco di parole,
allora non è affatto ozioso giacché viene messa in crisi la nostra fiducia
nella razionalità. E vi sembra poco? Mi spiego meglio: l’analisi condotta
più sopra si serviva della logica che noi usiamo tutti i giorni nei nostri ragionamenti,
e se tale logica ci ha portato a concludere l’assurdità secondo
cui una frase (la frase A) è vera se e solo se è falsa, ciò sta ad indicare
che essa è inaffidabile e quindi è uno strumento che non va utilizzato.
E allora come la mettiamo? In effetti si è, da non molto, scoperto il
trucco! Ma ci sono voluti più di duemila anni per capirlo. E se nel frat-
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tempo quell’antinomia non ha fatto sconquassi nella nostra cultura, ciò è
dovuto esclusivamente al fatto che per i razionalisti alla fin fine conta più
la fede (la fede nella dea Ragione, in questo caso) che la ragione stessa.
Questa è ovviamente solo una facile battuta, che racchiude tuttavia un
non trascurabile elemento di distinzione dei razionalisti dai, ad es., più
ingenui positivisti: la ragione è sì l’unico serio strumento di conoscenza,
ma anche la razionalità in ogni momento storico ha i suoi limiti, che pure,
perché possano essere superati, vanno individuati con grande umiltà.
L’arroganza intellettuale è un segno distintivo del cattivo razionalista.
Se si ha presente tutto ciò non si fa fatica a capire che il carattere negativo
delle antinomie che si sono presentate nel corso della storia della
matematica 12 è in fondo solo apparente ed a cogliere invece l’elemento di
progresso insito in esse: sono in sostanza delle spie che indicano che da
qualche parte è stato utilizzato un concetto non sufficientemente precisato
oppure un assioma in apparenza evidente ma di fatto in contraddizione
con altri. Va quindi individuato e corretto l’anello debole, dopo di che la
catena è più salda e sicura di prima 13 .
Ma torniamo all’antinomia del mentitore. Come si potessero aggiustare
le cose l’ha capito negli anni Trenta un logico e matematico polacco,
Alfred Tarski. Si è reso conto che, per evitare pasticci in certi contesti
rigorosi, bisogna fare una netta distinzione tra il linguaggio oggetto ed il
metalinguaggio di una teoria. Ve lo spiego con un esempio. Supponiamo
che la teoria della quale ci si voglia occupare sia la grammatica della
lingua inglese e che uno ci scriva un libro sopra, destinato alle scuole
italiane. Gli capiterà magari di inserirci l’affermazione: La frase “People
is funny” non è corretta. Diciamola per comodità affermazione B. La
frase People is funny, per quanto scorretta, è chiaramente una frase della
lingua inglese, fa quindi parte del linguaggio di cui si occupa la nostra
teoria, cioè di quello che nel nostro caso si direbbe linguaggio oggetto.
Invece l’intera affermazione B è in italiano [si noti che, all’interno di essa,
la frase “People is funny” svolge semplicemente il ruolo di nome per
12 Da quelle classiche della filosofia greca, tra cui appunto quella del mentitore, a
quelle dell’inizio del secolo che sembravano minare alla base la teoria degli insiemi.
13 A proposito di tutto questo discorso, bisogna tener presente che in una rigorosa
teoria matematica la presenza di una contraddizione è inaccettabile non solo perché
costituisce un neo sgradevole e sconveniente in tale teoria, quanto piuttosto perché,
partendo da essa, si può allora dimostrare tutto ed il contrario di tutto!
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indicare se stessa ed in questo senso può essere assunta come una parte
dell’italiano, in modo non dissimile dall’uso che stiamo facendo delle
lettere A o B], e fa quindi parte del linguaggio utilizzato per scrivere il
nostro testo di grammatica, l’italiano, appunto, che quindi svolge il ruolo
di metalinguaggio. In questo esempio c’è pertanto una netta distinzione
tra il linguaggio oggetto (l’inglese) e il metalinguaggio (l’italiano). Supponiamo
invece di aver voluto destinare il testo di grammatica agli studenti
delle scuole inglesi. In questo caso si sarebbe scritto: The sentence “People
is funny” is wrong. Si sarebbe venuta così a creare una confusione
(invero mitigata dall’uso sapiente delle virgolette) tra linguaggio e metalinguaggio,
in entrambi i casi la lingua inglese. Naturalmente in questo
caso il buon senso consente di evitare che la confusione provochi danni.
In altri contesti però, quando si tratta di discutere di cose meno usuali
e più complesse, o più sottili, possiamo rischiare di non capire più nulla.
Ed è questo che succedeva con l’antinomia del mentitore: in quel caso
infatti l’affermazione A (riguardata come frase del metalinguaggio) affermava
qualcosa relativo alla stessa A (riguardata ora come appartenente
al linguaggio oggetto); da qui la confusione. Che però sparisce se ci si
impone di distinguere nettamente fra i due, nel non dare cioè diritto di
cittadinanza ad affermazioni (quali appunto la A) in cui tale distinzione
venga a mancare. Bisogna quindi concludere che la frase A è semplicemente
priva di senso (non diversamente da una frase del tipo “La infatti
rosa mangiare”) e non merita quindi chiedersi se è vera o falsa.
Esistono altre versioni dell’antinomia del mentitore. Si sarebbe potuto
ad esempio usare come A la frase più semplice “Questa frase è falsa”.
Oppure: prendete una striscia di carta e su una faccia, diciamola faccia
(a), scrivete “Ciò che sta scritto sul retro è vero”, e sull’altra, diciamola
faccia (b), “Ciò che sta scritto sul retro è falso”. Esercitatevi a ragionare
dimostrando che ciò che sta scritto sulla faccia (a) — o, se preferite, sulla
faccia (b)— è vero se e solo se è falso. Fatelo solo se avete abbastanza
tempo e, se posso darvi un consiglio, con calma, ordine e per iscritto.
Altrimenti rischiate di incavolarvi e di concludere affrettatamente che
queste cose non fanno per voi. Magari arriverete alla stessa conclusione,
ma almeno sarà ponderata. Spesso la differenza tra chi si trova a suo
agio con la matematica e chi invece è convinto di non capirci nulla, è
che il primo affronta le cose con maggiore umiltà. Cerca dapprima di
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rendersi ben conto degli esatti termini della questione e poi di fare un
passo alla volta avendo ben chiaro che cosa sta facendo. Questo modo
di procedere gli consente di avvedersi dei propri errori e di correggerli,
di capire perché eventualmente certi approcci sono sterili e di sostituirli
con altri più promettenti. E spesso non solo di arrivare per questa via
alla soluzione ma anche di acquisire una visione meno superficiale, di cogliere
aspetti più riposti dell’intera questione. Anche molti aspetti della
matematica quale essa si è andata definendo nel corso dei secoli (ad es.
la messa a punto di un adeguato formalismo notazionale) sono dovuti in
ultima analisi ad un atteggiamento di questo tipo. Ovviamente però lo
si può avere solo se si ha anche curiosità per le cose. Ciò mi porta a
ricordare che una volta, a lezione, disperato per le facce stranite dei miei
studenti che chiaramente non stavano capendo nulla (bisogna anche tener
conto del fatto che la materia che io insegno, l’algebra, è certamente,
almeno tra quelle del primo anno, la più astratta e più lontana dall’insegnamento
liceale) e volendo convincerli che avrebbero continuato a non
capir nulla se non avessero assunto quell’atteggiamento che dicevo, provai
a spiegar loro come si fa una ottima marmellata di arance 14 . Poiché non
si dimostrarono interessati neanche a questa conclusi che erano proprio
persi ad ogni ulteriore conoscenza. Credo di aver comunque fatto loro
del bene: ne ho invogliato sicuramente molti a cambiare precipitosamente
indirizzo di studi, e certamente alcuni oggi sono felicemente impegnati
in qualche laboratorio a fare analisi biologiche che richiedono meno cura
delle marmellate, intanto pazienti e medici non si accorgono di nulla.
Per concudere col mentitore, eccone una versione in forma di quiz: Il
barbiere del villaggio fa la barba a tutti gli abitanti che non si fanno la
barba da soli. Chi fa la barba al barbiere? Sarà sicuramente capitato in
passato che qualcuno ve lo abbia già proposto; ma sospettavate che ci
fosse dietro un pezzo di storia della matematica e della filosofia?
14 Non certo per prenderli in giro con un atteggiamento stravagante, ma proprio per
suggerir loro che i teoremi dell’algebra non richiedono più attenzione delle ricette di
cucina e la maggiore difficoltà risiede solo nel fatto che utilizzano nozioni meno usuali.
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Briciola n. 1 20.11.2016
Tanto per iniziare
La matematica si occupa di numeri e di figure 15 , oggetti peraltro strettamente
collegati: infatti la lunghezza dei segmenti, le aree delle figure,
le misure degli angoli, etc. sono espressi da numeri. Ne consegue che
disponiamo di due linguaggi: la geometria (cioè il linguaggio delle figure)
e l’aritmetica, l’analisi etc. (cioè quello dei numeri).
Chiariamo questa affermazione con un semplice esempio. In omaggio
al mio amico Aldo, partiamo da un problema che, come Aldo fa osservare,
sapevano già risolvere gli antichi Egizi. Darò subito anche la soluzione:
voi però provate prima a trovarla per conto vostro. Il problema è questo:
dato un quadrato, trovarne uno di area doppia.
Soluzione geometrica: Basta considerare un triangolo rettangolo
equilatero 16 i cui cateti misurino quanto il lato del quadrato dato. L’area
del quadrato costruita sull’ipotenusa è, per il Teorema di Pitagora, il
doppio di quella del quadrato costruito su un cateto, che è proprio il
quadrato assegnato.
Soluzione analitica: Indicata con l la lunghezza del lato del quadrato,
la sua area è l 2 ; quella del quadrato cercato sarà quindi 2l 2 ,per
cui il suo lato misurerà √ 2l.
Compito a casa: generalizzare il problema precedente.
Come questo esempio mette bene in evidenza, il Teorema di Pitagora
è un formidabile ponte tra il linguaggio delle figure e quello dei numeri
17 . A questo proposito va osservato che, nelle varie epoche storiche,
15 E di tante altre cose: di funzioni, ad esempio, o di insiemi, o di strutture, ma
queste sono cose molto più sofisticate per cui per il momento ci accontentiamo di
parlare di numeri e figure.
16 Si veda subito, per carità, la Briciola n.2!
17 Come ben sa il Sig. Campus, che se ne serve per costruire case.
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i matematici hanno preferito talvolta l’uno e talvolta l’altro linguaggio
(gli antichi greci, ad esempio, si servivano quasi esclusivamente del primo
anche per risolvere problemi aritmetici); in certi periodi poi, come
l’attuale, si usano entrambi nella stessa misura, senza togliere che alcuni
matematici preferiscano uno dei due.
Come sicuramente avrete già capito, inizialmente daremo per scontata
la conoscenza delle nozioni più elementari, sulle quali tuttavia torneremo
a varie riprese per approfondirla. A partire proprio dalla nozione di
numero, che, come suggerisce il riferimento a √ 2, non è affatto scontata.
Ma questo sarà argomento delle prossime puntate. Per oggi abbiamo
messa fin troppa carne al fuoco.
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