PORTAVOCE DI SAN LEOPOLDO MANDIC - giugno 2019

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ATTUALITÀ ECCLESIALE Tra le corsie del reparto di Oncologia Pediatrica del Policlinico Gemelli di Roma abbiamo incontrato Carla Capuano e Carmela Di Lauro, due brave infermiere. La loro esperienza e sensibilità emerge anche dalle risposte alle domande che abbiamo loro posto. La prima che incontriamo è Carla Capuano, laureatasi in Scienze infermieristiche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sempre a Roma. Dopo il mese di tirocinio presso l’Oncologia Pediatrica, si rese disponibile per lo stesso reparto, nel quale venne inserita per la sostituzione di una maternità. Lavora in questo reparto dal 2007 Empatia, positività e affidarsi a qualcuno di più grande Intervista a due infermiere che operano tra i piccoli ricoverati nel reparto di Oncologia pediatrica del Policlinico Gemelli di Roma d i G i a n f r a n c o Ti n e l l o Carla, hai maturato tanti anni di esperienza. Come reagisce il paziente alla malattia? «Dipende dall’età. Il bambino è più o meno consapevole di ciò che sta vivendo. Quando si tratta di adolescenti, cerchiamo di comunicare loro lo stato di salute, salvaguardando la fiducia verso di noi e verso i genitori. Il problema è che spesso vanno a informarsi su Internet e là trovano di tutto: notizie e ricerche vere, ma pure altre, false e tendenziose. Ho notato in tutti un meccanismo di protezione che nasce nei confronti dei genitori: non vogliono farli preoccupare». Quale importanza hanno le persone che stanno attorno ai malati? Cosa consiglieresti loro? «Sono di vitale importanza, contribuiscono in massima parte a come il ragazzo reagisce alla malattia. Di fronte a un genitore che si fa vedere sofferente e non reagisce, il bambino ammalato è sempre nervoso, insicuro, depresso. Mentre un genitore positivo fa tanto. Per questo, consiglierei positività, senza esagerare o sminuire le cose. Intendo “positività” verso la vita e nei confronti della terapia». Quanto incide l’esperienza di fede nei pazienti e nei genitori? «La comunicazione della malattia è sempre un momento di crisi. Ci sono due reazioni opposte: chi si aggrap- 14 | PORTAVOCE | GIUGNO 2019
Carla Capuano e Carmela Di Lauro, ogni giorno tra i bambini ammalati pa totalmente alla fede e chi, invece, la rifiuta. Ci sono famiglie che credono fino in fondo. È tenero vedere genitori che fanno dire la preghiera della sera al bambino e cercano di mantenere le abitudini quotidiane». Carla, quanto è importante la fede nel tuo lavoro? «La fede mi aiuta tanto. Certo, in determinati momenti mi pongo delle domande. Alcuni giorni dico a Dio: “Io sono arrivata fin qui, adesso io non so più che fare”. Nei momenti brutti la fede è una consolazione, perché posso affidarmi a Qualcuno di più grande. A volte vedi sofferenze grandissime, genitori sollevati dall’arrivo della morte. La perdita c’è, il dolore non è descrivibile, ma è anche un sollievo la fine di certe atroci sofferenze. La fede mi fa continuare a stare nel reparto, perché tutto non finisce con la morte». Incontriamo anche una donna che da un maggior numero di anni si trova qui. Carmela Di Lauro, anch’essa laureata in Scienze infermieristiche presso Università Cattolica, lavora nel reparto di Oncologia Pediatrica dal 1997. Carmela, come sei approdata a questo reparto? «Sono stata “chiamata”. Mi voleva la suora responsabile: forse aveva colto in me alcune caratteristiche...». E quali caratteristiche servono per lavorare qui? «Devi essere disponibile con gli altri, saper cogliere… Una cosa importante è l’empatia. Io mi chiedo sempre: “Se ci fossi io lì?”». C’è qualcuno che suggerisce di essere distaccati... «No, non siamo macchine. Sono infermiera e persona. Non posso andare a casa e dimenticarmi assolutamente dei bambini che ci sono in corsia». Hai mai pensato di cambiare reparto? «Ricordo che durante il periodo della gravidanza avevo pensato di non ritornare. Poi, però, prima che scadesse il termine, mi richiamò la suora perché era andata via una collega. Così sono rientrata. La stessa suora mi disse: “Tu non devi essere qui per i bambini: loro hanno già la mamma. Tu devi stare qui per le mamme”». Qual è l’atteggiamento che occorre assumere nei confronti dei genitori? «È importante saperli ascoltare, senza essere pietosi. Non vogliono pietà. Quando si può, qualche deroga alle regole la devi concedere, perché non è una situazione normale avere figli malati. Se si potesse, io metterei stanze singole con tutti e due i genitori, perché alla sera vedere andare via un genitore è brutto. Una delle cose che mi riempie il cuore è vedere che le mamme, quando arrivo per la notte, sono contente che ci sei». Mi hai raccontato di provenire da una famiglia con principi religiosi. Che evoluzione ha avuto la tua fede nel corso di questi anni? «Devo ammettere che la mia fede è stata messa molto in crisi. Vedo le preghiere di tante mamme e mi chiedo perché non vengano esaudite. Se esiste un mondo superiore, chi potrà superare questi bambini che hanno sofferto così tanto? Questi bambini sono delle creature meravigliose… Un’altra cosa che mette in crisi sono le preghiere mnemoniche, quelle che ci hanno insegnato a recitare. Mi chiedo a cosa servano? Io non riesco più a pregare così. Mi pare vano pregare, per me è più significativa la vicinanza o un gesto di affetto. Non voglio annullare tutto quello che mi hanno insegnato, ma questa esperienza ha sbaragliato le idee religiose tradizionali. A volte senti tante “parolone” anche nelle prediche. Bisogna essere semplici, veri. In ogni caso, io credo che ci deve essere Qualcuno di superiore a darci supporto per fare le manovre giuste e a darci le parole giuste». E cosa hai potuto intuire della fede dei genitori? «Prima vedevo molti che moltiplicavano le preghiere. Ora, in chi è credente, vedo una fede più consapevole e matura». Ricordi un’esperienza che ti ha segnato particolarmente? «Uno dei primi anni, morì una bambina alla quale ero molto affezionata. Proprio non accettavo quella morte. Da lì ho iniziato a prendere un po’ le distanze. Quando vedo che le cose si mettono male, cerco di non ripetere quel dolore». Cosa pensi del dibattito sul come affrontare la malattia quando non ci sono quasi più speranze? Come porsi tra accanimento terapeutico ed eutanasia? «Oggi abbiamo dei sistemi molto avanzati per la “terapia del dolore”. Sono d’accordo di accompagnare i malati (terminali, ndr), ma senza portarli avanti con terapie inutili che hanno solo il risultato di prolungare la sofferenza. Questo sarebbe davvero un accanimento terapeutico. Non so come facciano quelli che praticano l’eutanasia. Per noi, anche quando sono morti, staccare le macchine è una sensazione brutta. Credo che accompagnarli fino alla fine sia l’ideale. E per quanto possiamo, cerchiamo di farli sorridere e stare sereni». P GIUGNO 2019 | PORTAVOCE | 15
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