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Prologo Sei Giorni di Stefano Valente

Una guerra finita, o forse no. Iacopo, “l’Educatino”, torna a piedi attraverso un Paese sconfitto e devastato. Spalla a spalla con un compagno detto “il Gabro”, volgare e crudele quanto serve per farcela... per arrivare fino a casa. Una discesa negli inferi attraverso la follia dell’odio, della miseria, della morte, della pulizia etnica. Giù a capofitto dentro la guerra, guerra delle trincee, guerra casa per casa, guerra di fratelli contro fratelli. Fino all'ultima verità. www.graphofeel.it

Una guerra finita, o forse no. Iacopo, “l’Educatino”, torna a piedi attraverso un Paese sconfitto e devastato.

Spalla a spalla con un compagno detto “il Gabro”, volgare e crudele quanto serve per farcela... per arrivare fino a casa. Una discesa negli inferi attraverso la follia dell’odio, della miseria, della morte, della pulizia etnica. Giù a capofitto dentro la guerra, guerra delle trincee, guerra casa per casa, guerra di fratelli contro fratelli.
Fino all'ultima verità.
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<strong>Prologo</strong><br />

<strong>Sei</strong> <strong>Giorni</strong><br />

<strong>Stefano</strong> <strong>Valente</strong><br />

Graphofeel E<strong>di</strong>zioni<br />

Sto tornando a pie<strong>di</strong>. A pie<strong>di</strong>. Dicono che è una cosa<br />

impossibile – che uno non può, non ce la fa, non ce la fa<br />

proprio. Però io lo faccio. Ci riesco. Ce la sto facendo,<br />

adesso.<br />

Merito mio, tutto mio. Ma forse tutto tutto no. Forse c’è<br />

qualcun altro che devo ringraziare: il Gabro. Se non era per<br />

il Gabro, uh – lui. Uno neanche l’immagina. Tornare a casa,<br />

dalla guerra. Tornare a casa, dalla guerra, a pie<strong>di</strong>. A pie<strong>di</strong>. Il<br />

mondo – migliaia, milioni, miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> passi sotto le suole.<br />

Finché le suole non ce le hai più, un bel mattino ti svegli e<br />

senti il piede che morde il ruvido – terra sabbia fango<br />

ghiaccio cenere asfalto –, la pelle, sotto, che ti si comincia<br />

a graffiare, ferire, si apre, si spacca, «Ecco, Iacopo» (è il<br />

Gabro a parlare, Iacopo sono io), «ecco: il mondo è duro da<br />

far paura, no?…» Sì, Gabro, pensi, vorresti rispondergli –


vorrei rispondergli. Però poi non lo fai, non lo faccio: me ne<br />

resto zitto.<br />

Silenzio – ssst… Silenzio. Già è pesante così, trascinarsi coi<br />

calcagni neri <strong>di</strong> sangue, che pulsano, battono, ti martellano<br />

– ti arrivano fin dentro la testa, anzi no: sono dentro la<br />

testa, ficcati profon<strong>di</strong>, giù giù nel centro del cervello,<br />

hanno scavato e adesso non li puoi strappare più fuori,<br />

provaci, vedrai, col cazzo, stanno precisi precisi nella loro<br />

nicchia <strong>di</strong> nervi <strong>di</strong> vene <strong>di</strong> flui<strong>di</strong>, fossero dei bambini, quei<br />

miei calcagni da Gesù Cristo sceso dalla croce, fossero dei<br />

bambini allora sarebbero due creature nel loro lettuccio<br />

caldo, tutti coperti fin sopra il capo, e il loro respiro dolce,<br />

profumato, <strong>di</strong> bimbo, a fare su e giù dalle narici piccine,<br />

dentro e fuori (zitti, zitti, sennò li svegliate, sognano), il<br />

loro respiro uguale alla pulsazione dei miei pie<strong>di</strong><br />

scarnificati sopra la pelle rugosa del mondo, ecco Iacopo: il<br />

mondo, Certo, Gabro, ma è meglio non rispondere, no,<br />

tutto sommato il silenzio è <strong>di</strong> gran lunga la cosa con meno<br />

dolore all’interno, io scelgo il silenzio, col Gabro parlerò<br />

un’altra volta, quando ci fermeremo, esausti, o ad<strong>di</strong>rittura<br />

quando la strada sarà finita, quando arriveremo a casa,<br />

sull’uscio, Dio mio, se ce la farò a pronunciare anche una<br />

sola parola, ché il pianto mi soffocherà, o forse no, forse<br />

non proverò niente, forse avrò solo un ricordo e un<br />

pensiero, uno e basta. Il ricordo e il pensiero del mondo.


Duro. Il mondo. Tutto quel mondo – questo – da calpestare<br />

sotto le suole, sotto le piante sanguinolente dei pie<strong>di</strong>.<br />

«Se non fosse stato per te, Gabro» – chissà: mi verrà<br />

questo da <strong>di</strong>re? Oppure no, solo lacrime – fine. Io credo. E<br />

un abbraccio così, con un po’ <strong>di</strong> imbarazzo appena. Da<br />

fratelli che si sono appena ritrovati dopo una vita intera. O<br />

che stanno per lasciarsi per sempre.<br />

E dunque è per questo (dev’essere) che sono felice <strong>di</strong><br />

tornare in questa maniera qua e in nessun’altra. A pie<strong>di</strong>,<br />

Gabro. «A pie<strong>di</strong>, Iacopo.»<br />

È il modo giusto – non ce n’è altri. Non ce n’è altri per<br />

capire il mondo.

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