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DOLCEVITA<br />
IL VENERDÌ SPORTIVO<br />
suo personaggio, irascibile, rissoso, strafottente,<br />
provocatore. Di questo dualismo<br />
tanto si sa e tanto s’è detto. Solo che adesso<br />
il cinema lo porta fuori dalla platea<br />
sportiva e lo <strong>di</strong>lata.<br />
Borg e McEnroe erano <strong>di</strong>vergenti,<br />
ognuno la risposta all’altro. <strong>Il</strong> primo, svedese,<br />
senza una vera cultura né tra<strong>di</strong>zione<br />
tennistica alle spalle nel suo Paese, era<br />
sbucato da un piano <strong>di</strong>dattico <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffusione<br />
dello sport nelle scuole, voluto dalla<br />
socialdemocrazia andata al governo.<br />
Giunse tra noi, più o meno insieme allo<br />
sciatore Stenmark e alle canzoni degli<br />
Abba, a prometterci che la Svezia non sarebbe<br />
stata più un argomento a cena nelle<br />
case della upper class, non era più soltanto<br />
Ingmar Bergman e Olof Palme. La Svezia<br />
con Borg <strong>di</strong>ventava pop. L’altro, newyorchese,<br />
era invece l’ultimo frutto della stessa<br />
terra <strong>di</strong> Tilden, Budge e Kramer. Un<br />
patrimonio genetico nazionale da campione.<br />
Un regolarista da una parte, con la<br />
sua ripetitività ossessiva da fondo campo,<br />
quasi robotica, alla ricerca dell’errore altrui;<br />
un fantasista dall’altra, una mano<br />
sinistra baciata dagli dei, un interprete<br />
sontuoso del più classico fra gli stili <strong>di</strong><br />
gioco, la battuta e<br />
la <strong>di</strong>scesa a rete.<br />
Eppure – bisognerà<br />
saperlo prima<br />
<strong>di</strong> andare a sederci<br />
al buio in sala<br />
– ciascuno a modo<br />
suo un eretico.<br />
McEnroe stava accompagnando<br />
il<br />
gioco <strong>di</strong> volo<br />
dall’età della leggerezza<br />
a quella<br />
dell’energia. <strong>Il</strong> tocco<br />
sotto rete non<br />
sarebbe stato più<br />
BORG PORTÒ<br />
LE TEENAGER<br />
SUI CAMPI.<br />
ERA L’ELEGANZA<br />
CONTRO LA<br />
CONCRETEZZA<br />
una carezza possibile solo con un piumino<br />
per cipria. McEnroe, le sue volée, iniziava<br />
a spingerle. Si era assunto il compito<br />
<strong>di</strong> iniettare l’energia del futuro dentro<br />
i gesti del passato, rivoluzionando pure<br />
condotte e atteggiamenti in campo. Insultava<br />
arbitri e avversari, sfasciava racchette,<br />
avrebbe gridato sul muso <strong>di</strong> un<br />
giu<strong>di</strong>ce la frase «You cannot be serious»,<br />
non puoi <strong>di</strong>re sul serio. Viveva ogni chiamata<br />
dubbia come una bestemmia contro<br />
Lo sponsor:<br />
«Avevo 14 anni,<br />
quel giorno<br />
non mi staccai<br />
dalla tv»<br />
WIMBLEDON (LONDRA). COME CAPITA<br />
PER QUEGLI EVENTI CHE LASCIANO IL SEGNO<br />
NELLA MEMORIA, GIUSEPPE LAVAZZA<br />
RICORDA PERFETTAMENTE DOVE SI TROVAVA<br />
IL 5 LUGLIO 1980. «AVEVO 14 ANNI ED ERO<br />
IN VACANZA AD ALASSIO CON I MIEI<br />
GENITORI. QUEL GIORNO NIENTE SPIAGGIA,<br />
NON MI STACCAI DALLA TV FINCHÉ BORG<br />
NON VINSE LA FINALE». TRENTASETTE ANNI<br />
DOPO L’IMPRENDITORE PIEMONTESE<br />
È A WIMBLEDON: LAVAZZA È SPONSOR<br />
DAL 2011 DEL TORNEO (E DI TUTTI QUELLI<br />
DEL GRANDE SLAM). «TIFAVO PER BORG<br />
E PER IL SUO STILE» DICE LAVAZZA. «PENSAVA<br />
SOLO A GIOCARE E QUANDO FINIVA TORNAVA<br />
AD ALLENARSI. NON LO VEDEVI GIOIRE<br />
PER IL PUNTO PRESO NÉ PER QUELLO<br />
PERDUTO. NON MOLLAVA MAI, GLACIALE».<br />
MCENROE, COME CONFESSÒ ALCUNI ANNI<br />
DOPO, PENSAVA DI AVERE LA PARTITA<br />
IN MANO, MA «BORG, CON IL PASSARE<br />
DELLE ORE, ERA FISICAMENTE SEMPRE<br />
PIÙ FORTE, INSTANCABILE». MA CHI SONO<br />
I BORG E I MCENROE DI OGGI? «FEDERER<br />
E NADAL» DICE LAVAZZA «RICORDANO<br />
LO SVEDESE. COME L’AMERICANO<br />
INVECE NON C’È NESSUNO. PER IL SUO<br />
PESSIMO CARATTERE LA PRIMA VOLTA<br />
CHE VINSE WIMBLEDON NON LO FECERO<br />
NEMMENO SOCIO ONORARIO. QUANDO<br />
LO VINSE PER LA SECONDA VOLTA<br />
GLI INGLESI FURONO PERÒ COSTRETTI<br />
A CEDERE». (MARCO ROMANI)<br />
<strong>di</strong>o, e non c’era altro <strong>di</strong>o al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> lui.<br />
Era per tutti «il monello», per gli in<strong>di</strong>gnati<br />
tabloid inglesi «un moccioso».<br />
Borg era persino più innovatore, ma<br />
per altri versi. In campo era <strong>di</strong>ventato un<br />
riferimento assoluto imponendo al mondo<br />
l’uso del top spin (la palla colpita dal<br />
basso verso l’alto con un movimento <strong>di</strong><br />
polso) e il rovescio a due mani. Borg era il<br />
Concilio Vaticano II nella immutabile<br />
chiesa del tennis. Come se non bastasse<br />
la rivoluzione tecnica, ne fece anche lui<br />
una seconda estetica. Fu il primo a intuire<br />
che sull’erba servivano scarpe <strong>di</strong>fferenti<br />
da quelle da sempre indossate, impose<br />
una suola <strong>di</strong>fforme, facendo la fortuna<br />
<strong>di</strong> un’azienda trevigiana fino a quel<br />
momento specializzata in scarponi da<br />
montagna, la Diadora. Aveva capelli lunghi<br />
legati da una fascia, una magliettina<br />
attillata, all’epoca made in Italy pure<br />
quella: Fila oggi è <strong>di</strong> proprietà coreana.<br />
Diventò il primo a portare le teenager sui<br />
campi da tennis, a farle urlare, a mettere<br />
sul fuoco una pentola in cui bolliva eccitazione,<br />
si presentò come una scossa sexy<br />
in una gita della parrocchia. <strong>Il</strong> tennis in<br />
televisione è arrivato perché tutti potessero<br />
vedere Borg. E le palline gialle, nel<br />
tennis, sono arrivate perché quella partita<br />
del 5 luglio 1980 fece capire a quel<br />
mondo <strong>di</strong> conservatori che, se volevano<br />
stare in tv, ecco, allora in tv le palline<br />
bianche non si riuscivano a vedere.<br />
L’eleganza contro la concretezza. Un<br />
conflitto esemplare, più <strong>di</strong> Coppi-Bartali,<br />
<strong>di</strong> Ali-Frazier e dell’Hunt-Lauda visto in<br />
Rush. Borg generò un mucchio <strong>di</strong> imitatori,<br />
<strong>di</strong> McEnroe si è sempre riconosciuta<br />
l’unicità. Unico pure nell’accogliere la<br />
notizia che un film avrebbe indagato<br />
dentro le loro vite, circostanza che deve<br />
averlo inquietato non poco alla vigilia<br />
dell’uscita della sua seconda autobiografia.<br />
Andrew Anthony, nel recensirla l’altra<br />
settimana per The Observer, si è chiesto<br />
perché dovrebbe interessarci qualcosa<br />
delle sue partite tra vecchie glorie: «Quante<br />
vite meritano due libri?». McEnroe risponderebbe:<br />
la mia. Con Vanity Fair s’è<br />
sfogato all’inizio delle riprese: «Non so se<br />
hanno intenzione <strong>di</strong> girare tutto il film<br />
senza venire a parlarmi, forse non gli interessa,<br />
non credo che sia possibile. La-<br />
Beouf mi pare una buona scelta: molti gli<br />
danno del matto, allora dovrebbe funzionare.<br />
Anche se non ricordo un solo film <strong>di</strong><br />
tennis ben riuscito. Sono tutti orribili». La<br />
comme<strong>di</strong>a romantica Wimbledon, con<br />
Paul Bettany e Kirsten Dunst, ebbe Pat<br />
Cash come controfigura perché non è<br />
semplice insegnare a un attore come<br />
stare in campo e colpire la palla, mentre<br />
in Match point <strong>di</strong> Woody Allen il tennis<br />
era lo sfondo non l’argomento.<br />
Questo Borg/McEnroe, come <strong>di</strong>ce il suo<br />
76 . IL VENERDÌ . 14 LUGLIO <strong>2017</strong>