Gente di Fotografia n°61

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vincenzo marzocchini
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❑ Sila (Autori Vari)
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Editore:
Polyorama Edizioni s.r.l.
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41124 Modena
Periodico. Anno XXI
Aprile 2015
Autorizzazione del Tribunale di Palermo
n° 8 del 11/ 16-3-94
Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento
Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 1, CN/MO
Direttore
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Vice Direttore
Giusy Randazzo
Coordinatore Editoriale
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Editor
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Redazione:
Gente di Fotografia
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Periodico iscritto al ROC
© Tutti i diritti riservati
ISSN: 1593 - 1765
Foto di copertina
© Kerry Skarbakka
Comitato Editoriale
Dario Carere, Annarita Curcio, Antonella Monzoni,
Pippo Pappalardo, Simona Venezia
Comitato scientifico
Salvatore Bartolotta (UNED de Madrid)
Saverio Ciarcia (Università degli Studi di Napoli Federico II)
Milagro Martín Clavijo (Universidad de Salamanca)
Vittorio Iervese (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)
Sergio Labate (Università degli Studi di Macerata)
Oscar Meo (Università degli Studi di Genova)
Ines Testoni (Università degli Studi di Padova)
Simona Venezia (Università degli Studi di Napoli)
Tutti i testi sono sottoposti a Peer Review
Seguendo l’impaginato, immagini di:
Annalisa Natali Murri, Susanna Majuri, Sian Davey,
Andrei Pungovschi, Linda Dorigo, Salvi Danés, Raed
Bawayah, Mario Daniele, Jacob Gils, Kerry Skarbakka,
Philippe Assalit, Giorgio Bianchi, Lynsey Addario,
Antonella Monzoni, Enrico Nicolò, Robin Schwartz,
Giuliano Ferrari, Wim Wenders, Fulvio Roiter,
Giacomo Costa, Chan Hyo Bae, Yang Yongliang,
Jacob Aue Sobol, Jacob Aue Sobol,
Roberto Kusterle, Kate Fichard, Ralph Crane,
Joe Rosenthal, Mauro Davoli, Massimo Sestini,
Nicolas Feldmeyer, Claudio Isgrò, Carsten Ingemann,
Gian Paolo Barbieri, Stephane Gripari, Bjørn Sterri,
Dominique Laugé, Fabrizio Carraro
Hanno collaborato a questo numero:
Loredana Sferrazza, Vittorio Iervese,
Andrea Milluzzi, Oscar Meo, Gigliola Foschi,
Leonardo V. Distaso, Sergio Labate, Alessandra Ciarcia,
Antonia Arslan, Diego Mormorio, Carmelo Rampello,
Angela Maria Piga, Mirko Orlando
Traduzioni: Monica Negri

61
CONTENUTI/contents
Rivista scientifica di cultura fotografica e immagini
portfolio
close up
libri
06 Editoriale
Franco Carlisi
08
Annalisa Natali Murri Then the Sky Crashed Down Upon Us
Giusy Randazzo
16
22
28
32
38
44
52
56
60
66
72
80
88
92
96
100
104
Susanna Majuri Surreali abbandoni
Dario Carere
Sian Davey Armonie e disarmonie di un microcosmo familiare
Loredana Sferrazza
Andrei Pungovschi L’ apostrofe muta del dolore
Vittorio Iervese
Linda Dorigo Rifugio
Andrea Milluzzi
Salvi Danés Transmontanus
Oscar Meo
Raed Bawayah Bellezza e identità.
Simona Venezia
Mario Daniele Metafore del silenzio
Gigliola Foschi
Jacob Gils Movement
Leonardo V. Distaso
Kerry Skarbakka Dissociate dissonanti gravità
Sergio Labate
Philippe Assalit Il volto e il colore dei soldi: tatuaggi di potere
Saverio Ciarcia
Giorgio Bianchi Behind Kiev's barricades
Alessandra Ciarcia
Franco Carlisi Intervista l’autore
Lynsey Addario
Antonella Monzoni Ferita armena
Antonia Arslan
Enrico Nicolò Photoblurrygraph
Saverio Ciarcia
Robin Schwartz Amelia e gli animali
Carmelo Rampello
Giuliano Ferrari Grand Tour
Pippo Pappalardo
Vincenzo Marzocchini Ritratti al plurale
Diego Mormorio
mostre 108
Wim Wenders 4 Real & True 2
Angela Maria Piga
rassegne 110
Düsseldorf Photo Week-End 2015
Angela Maria Piga
incontri 112
Claudio Composti Direttore Artistico MC2Gallery
Giusy Randazzo
punctum 118
Ralph Crane July 4th 1950, Santa Monica, California
Salvatrice Graci
120
Joe Rosenthal Raising the Flag on Iwo Jima
Annarita Curcio
photo fair 122
MIA Milan Image Art Fair
Salvatrice Graci
riflessioni 129
Henri Cartier Bresson
Mirko Orlando
Translations 130
Versione inglese dei contenuti

Editoriale
Su questa storia delle minacce all’Italia e al
concreto pericolo che può derivarne non
ho opinioni solide. I miei pensieri al riguardo
cambiano continuamente, fluttuano nel
magma degli stereotipi di una liturgia politica
ipocrita, spericolata e sempre più affaristica.
Guardo la televisione e leggo i giornali con
diffidente curiosità: dichiarazioni baldanzose
di banditori di apocalissi accrescono dentro di
me un moto di civile risentimento e la sensazione
di essere manipolato..
“Siamo pronti a invadere la Libia”. E a quando
l’invasione della Somalia e dell’Eritrea? E,
giusto per rinverdire i fasti infausti del fascismo,
da paese creditore, potremmo dichiarare:
“Spezzeremo le reni alla Grecia”. Ma
ciò sarebbe inconciliabile almeno con la mia
sicilianitudine, dato che mi sento anche un po’
greco, romano, arabo, normanno, catalano.
In Sicilia li abbiamo accolti tutti, e sono stati
talvolta inquilini scomodi ma, più spesso,
portatori di benessere. Già duemila e quattrocento
anni fa, Alcibiade diceva della Sicilia:
«Colà le città brulicano di uomini, ma si tratta
di miscugli di varie razze; ed è facile per loro
cambiare cittadini e riceverne di estranei» 1 .
La storia del progresso dell’umanità è il frutto
di incroci e di ricambi fra popoli. Tutto sta nel
rispetto e nella gradualità con cui il processo
si compie.
Dalla mia finestra, oltre l’orizzonte c’è la Libia.
Devo confessare di provare un grande
disagio di fronte alla possibilità di ritrovarmi
nella condizione di inviato speciale nella guerra
“in difesa della nostra civiltà”. Al di là degli
odierni lanzichenecchi, tagliatori di teste, non
riesco a riconoscere in senso assoluto lo specifico
del nemico. Da bambino era tutto più
semplice. Si guerreggiava tra le stradine polverose
del quartiere arabo della mia città al
grido di allarme: “Mamma li turchi!”. Espressione
di panico disperato, residuo di una cultura
popolare pregressa che riusciva a identificare
idealmente il topos della non reciprocità.
6

Infatti, nell’immaginario xenofobo popolare
la Turchia si trasformava in una terra remota
e sterminata sede di orde islamiche fuori dalla
grazia di Dio, con le quali non era ovviamente
possibile stabilire alcun dialogo per loro difetto,
smodatezza e iniquità. Il “turco” era per
antonomasia lo straniero, l’altro da temere.
L’anti-me. Tanto più fossi riuscito a riconoscere
lo stigma della mia identità, tanto più il
“turco” lo avrebbe negato e contraddetto con
la sua stessa natura.
Col passare del tempo, affrancato da questa
eredità di pregiudizi e di paure, cominciavo
a ridefinire il concetto di identità. La forma
dell’affiliazione etnica o religiosa mi sembrava
grossolana e cominciavo a chiedermi con
stupore, quanto io siciliano potessi riconoscermi
tale secondo l’accezione comune. La mia
identità si configurava sempre di più come il
risultato della sedimentazione di identità diverse,
di origine differente e tra di loro non
conflittuali; non aliene all’influsso omologante
dei media e del Web.
Durante gli anni vissuti a Palermo, la città
povera era un laboratorio naturale di multiculturalità
–mai come adesso-; un incrocio di
lingue straniere e confuse, innestate al palermitano.
Una mescolanza di odori e di colori
della pelle e degli occhi incontrati per strada.
Era quella la città che volevo vivere e pensavo
che gli studi, le letture, il cinema, i viaggi
avessero fatto crescere in me il valore della
tolleranza e del rispetto della diversità. Eppure,
ogni tanto, la mia mentalità multietnica e
multiculturale mi franava addosso. Non riuscivo
a integrare il mio vissuto con movenze,
abitudini, pratiche di vita totalmente altre, di
cui facevo esperienza. Il mio comportamento
tendeva a mistificare una verità incontrovertibile:
l’altro esiste come un altro.
L’accelerazione attuale della storia ci fa assistere
a una contaminazione dei popoli a cui
non siamo preparati. Non riusciamo ad amare
un prossimo che è diverso da noi e non cerca di
somigliarci. Un’errata cultura dell’integrazione
inneggia inconsapevolmente all’omologazione.
Tutti occidentali, insomma. Siamo portatori
della stessa cultura estremista che condanniamo
e che ci vorrebbe migliori dell’altro,
chiunque esso sia. La legittima rivendicazione
di identità è diventata una coperta corta tirata
da tutte le parti e cessa di essere sacrosanta
quando s’arroga il diritto di discriminare le
altre identità e in maniera assolutamente strumentale.
Si può stare fuori dalla storia, rivendicando
una malcelata supremazia della nostra civiltà
in preda a un furore di potenza che autorizza
a dispiegare gli eventi come se fossero meri
calcoli matematici, oppure si accetta il suo
corso, con le sue gravità e i suoi insegnamenti,
sapendo che ogni crescita è difficile ma pur
sempre liberatoria.
La nostra rivista non può influenzare le scelte
della politica, e so bene che il succedersi degli
eventi può obbligarmi a inciampare sulle parole.
Tuttavia possiamo contribuire, attraverso
i portfolio che presentiamo, a sottrarci da questo
diluvio di immagini che ci raccontano di
un mondo straniero barbaro il cui palcoscenico
pare popolato soltanto da tagliatori di teste.
La fotografia ci permette di conoscere gli altri
in maniera meno mediata di qualunque altro
linguaggio. I fotografi accorciano le distanze,
non soltanto con le macchine fotografiche ma
anche con la loro presenza fisica, si relazionano
alle persone che fotografano, frequentano
il loro spazio e il loro tempo, conoscono
la loro cultura e i loro modi quotidiani e ci
aiutano a capire realtà tanto lontane. Quando
la parola è incomprensibile e il dialogo si interrompe,
sono le immagini a produrre paure,
sofferenze, legami, speranze. E sono i reporter
l’avamposto di un esercito di miliardi di persone
pacifiche, che non vogliono esportare democrazia
e libertà a un altro, contro ogni suo
desiderio e volontà.
Franco Carlisi
1. Citato in G. Bufalino, Opere, Vol. I, a cura di M. Corti
e F. Caputo, Bompiani, Milano 2006, p. 1145
7

PORTFOLIO
Annalisa Natali Murri
Then the Sky Crashed
Down Upon Us
© Annalisa Natali Murri dalla serie Then the sky crashed down upon us
8

Giusy Randazzo - «Dammi un po’ d’acqua.
Ti scongiuro… dammi un po’ d’acqua.
Ho sentito una ragazza vicina a me
implorare per un sorso d’acqua. Qualcuno
di noi è morto, io l’ho visto morire.
Erano già passati tre giorni dal crollo, noi
eravamo ancora intrappolati lì dentro.
Non sapevamo se saremmo morti lì sotto.
Poi ho visto una ragazza mordere il
collo di un corpo accanto a lei, con le sue
ultime forze, per succhiare e bere il suo
di sangue. Non ho parole per descrivere
che cosa ho visto. Quando io fui salvato,
dopo quattro giorni, lei era morta»
(Imran Hossain, 48 anni) 1 .
Ci sono eventi che non possono essere raccontati
limitandosi all’informazione, perché
la loro intensità è tale da risultare per
certi versi ineffabile. È come se essi producessero
uno spaesamento, uno smarrimento
nel linguaggio verbale: l’impossibilità di
restituire la rappresentazione potente delle
emozioni, cogliendola dal fondo in cui le
emozioni hanno avuto origine e in cui si
sono sedimentate incancrenendosi. Dovrebbe
essere un linguaggio spettrale, che
dica e non dica, che lasci al lettore il tempo
della decrittazione nel tempo dell’immaginazione.
Non può circoscriversi al
denotativo, deve andare oltre facendosi
mezzo di un senso originario che consenta
a chi legge di scavarsi dentro per liberare
e far straripare la propria sensibilità dagli
argini della ragionevolezza e finalmente
comprehendĕre, abbracciare l’evento con il
sesto senso. Ci vorrebbe un poeta, un pastore
dell’Essere, un filosofo che faccia uso
di un linguaggio originario, ma si correrebbe
un ulteriore rischio: soltanto un’élite
li ascolterebbe. E invece quell’evento deve
fare il giro del mondo, deve giungere in
tutte le case, deve squartare tutti gli animi,
sfondare ogni finestra, sconvolgere
i più insensibili, deve scuotere come uno
tsunami, inorridire come un genocidio,
deve sovvertire come un colpo di Stato,
deve immobilizzare come un’apparizione
infernale. Deve farci ripiegare, deve farci
avanzare, deve farci avvicinare. E infine
imporci l’urlo.
Questo potere ce l’ha soltanto la fotografia,
perché soltanto l’universalità del suo linguaggio
può superare la torre di Babele e
ridurre lo spazio e farci frequentare il tempo,
travestendolo di reversibilità; soltanto
la sua democraticità può consentire di arrivare
a tutti e tutti impegnare in un’interpretazione
il cui pre-dato fondamentale e
necessario, prima che quello culturale, sia
la “disposizione emotiva” di ognuno, quella
che in filosofia si chiama Stimmung.
Parlano in tal modo le foto di Annalisa
Natali Murri. Esposizioni multiple, riflessi,
mosso, bianco e nero per raccontare
quegli occhi che irrompono nella nostra
mente, squassando gli sbarramenti della
nostra imperturbabile occidentalità. Occhi
che ti guardano e che si guardano dentro,
che non resistono al banale presente e si
perdono nella grave memoria, che dicono
rimanendo muti e urlano ascoltando l’orrore
che hanno visto, che piangono senza
lacrime e ti spingono alle lacrime. Non c’è
più lucidità in quegli occhi e così l’immagine
si fa volutamente complicata, perché
la nostra vista non può limitarsi a una semplice
occhiata ma deve cogliere il trauma
nella sua complessità. Perché quell’evento
non può risolversi in una semplice informazione,
non si è concluso quando ha
avuto inizio, ma lacera ancora, e ancora
miete vittime e ancora distrugge perché
ancora si scava e scava, perché è l’emblema
di una povertà reale: quella loro, di
mezzi e di sostanze, e quella nostra, di verità
e di giustizia.
«“La tragedia del Rana Plaza ha cambiato
il corso della mia vita”, afferma anche
Sajal Das di 26 anni. Le sue condizioni
sono comuni a centinaia di vittime, ai
loro parenti e ai lavoratori sopravvissuti
che non si sono ancora ripresi fisicamente
e, specialmente, psicologicamente
dal trauma. La tragedia e il dolore sono
tutt’altro che finiti» 2 .
Il Bangladesh rientra nel Quarto mondo,
con cui si è soliti indicare l’insieme dei paesi
più poveri tra quelli già poveri.
Quanti sanno che uno dei più terribili incidenti
in un opificio che la storia del Novecento
ricordi è avvenuto meno di due anni
fa? E che a collassare, per un cedimento
strutturale, è stato un edificio che ospitava
più di una fabbrica tessile? E che il crollo
ha ucciso più di mille persone? Con molta
probabilità, pochissimi. Forse perché nel
mondo occidentale fanno poco clamore
le notizie che arrivano dai paesi poveri.
Eppure quando il Rana Plaza, di ben
otto piani, il 24 di aprile del 2013, crollò
a Savar, un distretto di Dacca, si scavò per
quasi un mese, sino al 13 maggio, nel tentativo
disperato di salvare ancora qualche
altra vita strappandola alle macerie che
odoravano di morte e di povertà. Alla fine,
si contarono ben 1129 vittime ufficiali e
più di 2500 feriti. Il Rana Plaza ospitava
diversi esercizi commerciali e una banca
che però quel giorno erano chiusi. Erano
comparse infatti delle crepe profonde che
avevano spinto gli ispettori a imporre l’immediata
evacuazione dell’edificio. I proprietari
delle fabbriche tessili presenti nel
Rana Plaza, che facevano parte delle filiere
produttive dell’Occidente per marchi
ben noti, imposero invece ai dipendenti di
andare a lavorare, anzi li minacciarono di
trattenere un mese di stipendio se si fossero
rifiutati. Definire “lavoro” ciò che è simile
a uno stato di schiavitù, per la verità, è del
tutto inappropriato e per di più esso è ricompensato
- si fa per dire - con una retribuzione
che a noi occidentali suona come
una battuta di spirito: corrisponde infatti a
circa 38 euro al mese.
Il portfolio della Murri non racconta dei
morti del crollo dell’edificio, ma della spettrale
esistenza dei vivi, di coloro che sono
sopravvissuti alla fattualità dell’evento
rimanendo per sempre imprigionati nel
trauma. Le immagini aprono un varco
nell’osservatore, una ferita, da cui guardare
oltre per scorgere l’interezza della drammaticità
lacerante che il crollo ha prodotto.
Il vero collasso infatti è stato quello
temporale che ha costretto e costringe chi
l’ha vissuto ad abitare l’orrore dell’istante
fatale ad infinitum. E la povertà non aiuta.
Neanche quella nostra, in verità, che
cresce a ogni tragedia spettacolarizzata,
che ci allontana dagli eventi, che ci rende
passivi spettatori e che ci fa disimparare la
sensibilità, annegata in un profluvio di immagini
inutili. Fotografie come quelle della
Murri rompono la dissacrante banalità del
quotidiano e ci strappano dalla Versailles
del XXI secolo, che ignari abitiamo, per
farci frequentare il Mondo nella sua concretezza
reale, anche il Terzo e il Quarto
Mondo, che esistono e sono molto più veri
della famiglia Barilla.
Note
1. Disponibile all’indirizzo web (ultima visita il 24
febbraio 2015): http://annalisanatalimurri.com/
portfolio/documentary/album/695958/b6a9b5f3
4a81d5?p=1&s=UA-49874612-1. La traduzione
in italiano è mia.
2. Ibidem
9

10
© Annalisa Natali Murri dalla serie Then the sky crashed down upon us

© Annalisa Natali Murri dalla serie Then the sky crashed down upon us
11

12
© Annalisa Natali Murri dalla serie Then the sky crashed down upon us

© Annalisa Natali Murri dalla serie Then the sky crashed down upon us
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© Annalisa Natali Murri dalla serie Then the sky crashed down upon us

© Annalisa Natali Murri dalla serie Then the sky crashed down upon us
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PORTFOLIO
Susanna Majuri
Surreali abbandoni
© Susanna Majuri, Mirror_2010. Courtesy mc2gallery/Susanna Majuri
16

Dario Carere - L’immagine del paesaggio
naturale, quale rappresentazione
immediata di una realtà ormai estranea,
ci viene spesso somministrata, se
non come distaccata nozione da documentario,
come irraggiungibile oggetto
esotico o osannata bellezza turistica. Ci
giunge notizia, talvolta, che da qualche
parte sul pianeta terra esistono antilopi,
lupi e orsi polari, residui non antropizzati
di un mondo in via di estinzione;
con il consueto meccanismo occidentale
dell’auto-menzogna, ci viene istintivo
pensare ai panda come a una specie
da salvare, mentre assai più vicino alle
nostre case la civiltà inghiotte (per necessità,
ci dicono) tutto ciò che ci piace
chiamare genuino.
È perciò un tentativo ardito, quello di
Susanna Majuri: i suoi scatti vogliono
avvicinare l’uomo e la natura secondo
una prospettiva felicemente ambigua,
né solo romantica né solo scientifica,
che lascia l’osservatore rapito ma, si
spera, anche perplesso. Figure umane
immerse nell’acqua, in posizioni che
suggeriscono raccoglimento o abbandono,
si fondono inaspettatamente con
immagini di natura vergine, di animali
selvatici, e talvolta anche di paesaggi da
cartolina nei quali casette dal tetto spiovente
ricordano con patetismo scene di
un immacolato mondo trascorso, ancor
più che semplici cascami favolosi.
Questa giovane fotografa di Helsinki,
complice, forse, quel sentimento di cupio
dissolvi naturale che è assai più noto
ai nordici che a noi mediterranei, abbandona
le sue modelle bianche e flessuose,
dal viso pudicamente nascosto,
a volte così simili a languide ninfe pittoriche
(penso a Böcklin), in acque di
sogno e forse di battesimo, ma anche,
a giudicare dalle pose morbide e plastiche,
di dolore (Gravity) o di passione
(Mirror). Mentre i paesaggi distesi sul
fondo della piscina avrebbero di per
sé ben poca forza estetica, attraverso
l’effetto distorcente dell’acqua questi
“quadri di genere” assumono toni surreali
e inquietanti, nei quali la figura
umana non sembra trovarsi davvero a
suo agio, rimanendo a metà tra servile
e smarrita.
È un sentimento di nostalgia o di comunione
quello che spinge le due ragazze
in apnea ad accarezzare con delicatezza
il grande orso delle foreste? La
modella in posizione seduta in mezzo
a un paesaggio boschivo innevato non
suggerisce solo un vertiginoso abbandono,
ma anche, forse, un soffocante
sprofondamento. Che queste fate accartocciate
e dimesse, in contrasto con
la grazia e la magnificenza della natura
in cui nuotano, vogliano suggerirci,
come fa il bello e terribile film belga
La quinta stagione (2012), la prospettiva
così crudamente poetica di una natura
senza l’uomo, di una poesia finalmente
svuotata dal prepotente linguaggio dei
poeti?...
L’aspetto più notevole, infatti, senza
il quale probabilmente queste foto si
dimezzerebbero in felicità, è che non
compaiono volti; la qual cosa, unita
al carattere marcatamente pittorico
dell’insieme, conferisce all’obiettivo
della Majuri qualcosa di friedrichiano;
solo che, se nel romanticismo di Friedrich
1 l’uomo si dissolve sino a scomparire,
qui vi si immerge annegando, percependolo
comunque, inevitabilmente,
come corpo estraneo, poiché egli si
è reso estraneo ad esso. Ed è proprio
questo ciò che la parola natura, ancor
più che la natura in sé, rappresenta
nella società moderna, e la Majuri ce
lo mostra magnificamente: uno sfondo,
un desktop, uno schermo, qualcosa
insomma di bidimensionale, piatto
e riproducibile, che non va incontro
al bisogno umano di bellezza se non
saltuariamente e tramite il distaccato
pregiudizio dell’unico progresso inteso
come tale – quello capitalista.
Note
1. Caspar David Friedrich, (1774-1840) è tra
i maggiori esponenti del romanticismo pittorico
tedesco. Nei suoi quadri il rapporto tra uomo e
natura assume caratteri del tutto nuovi, in quanto
il primo appare in un incantato subordine rispetto
alla seconda.
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© Susanna Majuri, Waterfall_2009. Courtesy mc2gallery/Susanna Majuri
© Susanna Majuri, Polar bear_2009. Courtesy mc2gallery/Susanna Majuri
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© Susanna Majuri, Tulva (Flood)_2009. Courtesy mc2gallery/Susanna Majuri
© Susanna Majuri, Hyperballad_2010. Courtesy mc2gallery/Susanna Majuri
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© Susanna Majuri, Frosty_2011. Courtesy mc2gallery/Susanna Majuri
© Susanna Majuri, Genesaret_2010. Courtesy mc2gallery/Susanna Majuri
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© Susanna Majuri, Gravity_2011. Courtesy mc2gallery/Susanna Majuri
© Susanna Majuri, Tuhka_2010. Courtesy mc2gallery/Susanna Majuri
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PORTFOLIO
Sian Davey
Armonie e disarmonie
di un microcosmo familiare
@ Sian Davey, dalla serie Looking for Alice
Loredana Sferrazza - Looking for Alice,
ovvero, “Alla ricerca di Alice”, è l’intenso
progetto fotografico di Sian Davey, emergente
fotografa del West Country inglese.
Attraverso i suoi scatti, Davey - donna,
madre, psicoterapeuta e studiosa di fotografia
- racconta il suo personale percorso
di esplorazione e di ri-costruzione
di un’identità individuale e familiare. In
particolare, attraverso la composizione
di una sorta di album di famiglia, Davey
ricerca e ricrea un dialogo “funzionale”,
intimo ed emozionale con la figlia Alice,
affetta da sindrome di Down.
Locus privilegiato del lavoro di Davey é
il microcosmo familiare, un complesso
“spazio umano”, culturale e relazionale
che ognuno di noi conosce e condivide,
uno spazio “noto” che ogni osservatore è
spinto a rileggere e a rivedere con occhi
nuovi. Il progetto fotografico di Sian è
carico di un’ampia gamma di emozioni e
intenzioni. Esso nasce primariamente dalla
necessità personale dell’artista, come
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@ Sian Davey, dalla serie Looking for Alice
donna e madre, di condividere e rielaborare
il turbinio di emozioni e stati d’animo
indotti dalla nascita della quarta
figlia, Alice. Paura, ansia, dolore, rifiuto
lasciano gradualmente il posto all’accettazione,
alla tenerezza, ad una relazione
inclusiva ed amorevole che irrompe in
tutta la sua colorata “normalità” ed allontana
lo “spettro della disarmonia”.
Attorniata da familiari ed amici, Alice
cresce in un modo unico e speciale; la
sua presenza innocente ed il suo sguardo
curioso e fiero ci rimandano al complesso
processo di costruzione dell’identità che
si configura nel segno della contingenza
e della relazione e che, costantemente, ci
induce a confrontarci con l’alterità, la differenza,
la molteplicità.
I riflessi brillanti e le intense sfumature
degli scatti di Sian Davey veicolano
l’intenzione di lavorare sul pregiudizio
personale e sociale che spesso induce a
sottovalutare e a marginalizzare la differenza,
a rendere “invisibile” e “silente”
chi non aderisce ai canoni di un’apparente
“armonia”.
Nel celebre saggio critico La camera chiara.
Nota sulla fotografia, Roland Barthes
così sottolinea l’interazione delle tre
componenti fondamentali dell’arte fotografica:
«[…] una foto può essere l’oggetto
di tre pratiche (o tre emozioni, o
tre intenzioni): fare, subire, guardare.
L’Operator è il Fotografo. Lo Spectator, siamo
tutti noi […], e colui o ciò che è fotografato,
è il bersaglio, il referente […] lo
Spectrum della Fotografia […]» 1 . Inoltre,
a designare la peculiare attrattiva esercitata
dalla foto o da un suo particolare
sull’osservatore, quel qualcosa che «fa
fare tilt dentro di me», Barthes utilizza la
parola “avventura” 2 e definisce “punctum” 3
quel particolare che ci colpisce, che ci
“punge” e che conferisce all’immagine o
ad un suo dettaglio un valore superiore.
Ebbene, le immagini di Davey, per usare
una terminologia barthesiana, “animano”
l’osservatore, lo “sorprendono”
e lo “ghermiscono” con la luce nuova e
“pensosa” che illumina situazioni, gesti,
spazi e sguardi ordinari. A sua volta, l’osservatore
“anima” quelle stesse immagini
o quei dettagli che gli consentono di
«non dire niente, chiudere gli occhi, [e]
lasciare che il particolare risalga da solo
alla coscienza affettiva» 4 .
Le personali aspettative di Sian - madre
ed operator - si intrecciano e si confrontano
con quelle di Alice - spectrum e
soggetto fotografato 5 . Alice, ritratta nella
sua realtà familiare, è attrice primaria
di un processo esperienziale attraverso
il quale attua la sua scoperta del mondo
e costruisce la propria immagine di
sé e la propria relazione con l’altro. Gli
scatti di Davey richiedono all’osservatore
- spectator - di liberarsi del filtro opacizzante
esercitato dall’etichetta della “sindrome
di Down” e di guardare la luce, i
colori, le ombre del mondo di Alice; di
lasciarsi travolgere dalla sua avventura,
di ricevere e fare una carezza, di sentire
con la mano il volto rugoso dei nonni, di
lasciarsi cogliere dallo stupore della scoperta,
dalla frustrazione dell’esclusione.
In Davey, la fotografia si rivela efficace
mezzo espressivo dall’indubbia valenza
terapeutica. Sospesa nella dicotomia
soggettivo-oggettivo, la fotografia diviene
strumento privilegiato per l’esplorazione
e la narrazione del sé. Dispositivo assai
simile ad uno specchio, la macchina fotografica
permette al soggetto – sia esso
operator, spectator o spectrum – di ri-cercarsi,
ri-vedersi, ri-trovarsi.
Dedicato ad Alice, il progetto fotografico
di Davey, riflette le armonie e le disarmonie
di ogni microcosmo familiare,
narra il difficile confronto con il pregiudizio
e con il bagaglio delle aspettative
personali e sociali. Esso implica l’imprescindibile
bisogno di ri-membrare il nostro
universo identitario: di rimetterne insieme
i frammenti, di validarne l’esistenza
e di fissarne il ricordo.
Note
1. Barthes R., La camera chiara. Nota sulla fotografia,
trad. it. Renzo Guideri, Einaudi, Torino
1980 e 2003, p. 11.
2. Ivi, p. 21.
3. Ivi, p. 43.
4. Ivi, p. 56.
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@ Sian Davey, dalla serie Looking for Alice

@ Sian Davey, dalla serie Looking for Alice
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@ Sian Davey, dalla serie Looking for Alice

@ Sian Davey, dalla serie Looking for Alice
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PORTFOLIO
Andrei Pungovschi
L’ apostrofe muta del dolore
@ Andrei Pungovschi, dalla serie Shared Loss
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@ Andrei Pungovschi, dalla serie Shared Loss
Vittorio Iervese - Le parole, è risaputo,
sono il tentativo di rendere la comunicazione
più precisa e inequivocabile, sottraendola
al dominio esclusivo dei sensi e
del corpo. Ci sono momenti e situazioni
in cui possiamo constatare come questo
programma evolutivo sia, se non proprio
fallito, perlomeno compiuto soltanto parzialmente.
L’espressione del dolore è una
di queste occasioni. Se da una parte il dolore
può trasfigurare il volto o spingere al
delirio, dall’altra può produrre il collasso
della parola. “Non ho parole” si sostiene
per decenza e come ammissione di impotenza
nei confronti di certi drammi che ci
coinvolgono personalmente. E quando si
vuole sottolineare il rispetto per il dolore
altrui si lascia spazio al silenzio (come
d’altronde accade nei momenti in cui si
manifesta un amore folgorante).
Davanti alle emozioni vere e profonde,
così come di fronte allo stupore e all’inspiegabile,
le parole a nostra disposizione
mostrano la loro fallacia e inefficienza. A
rompere e forzare questo carattere funzionale
della lingua ci pensano i poeti, ma
questa è un’altra storia.
Lì dove cede la parola, ci sono gesti che
risalgono la corrente del tempo e dai primordi
riemergono nel nostro corpo. Lo
sguardo è un elemento essenziale per
comprendere questa archeologia emozionale.
Per dirla con Lacan, lo sguardo
è: “l’oggetto da cui dipende il fantasma a
cui il soggetto è appeso in un vacillamento
essenziale” [Lacan, 1979] 1 . Si distoglie
lo sguardo per sottrarlo alla relazione
con l’altro e per raccogliersi. Chi alza
lo sguardo cerca di affidare ad una dimensione
alt(r)a l’evento che sconvolge,
ma chi l’abbassa afferma tutta l’irreversibilità
e l’ineluttabilità di quell’evento. Si
abbassa lo sguardo in segno di resa e nel
tentativo di raccogliere qualche frammento
di quel mondo precedente andato
ormai in frantumi.
Si abbassa lo sguardo o lo si rende vacuo,
e in questi sguardi annullati sta tutto il
paradosso delle fotografie che compongono
il progetto Shared Loss di Andrei Pungovschi:
momenti di ritiro dalla dimensione
sociale riportati al centro di immagini
da mostrare in una galleria, in un sito o in
una rivista. L’incommensurabile dramma
personale ridotto a pattern da includere
in una serie fotografica. Roland Barthes
sosteneva che la fotografia ci condanna
ad avere un’espressione, a diventare tuttoimmagine,
nostro malgrado. Quello che
gli scatti di Andrei Pungovschi fanno è
proprio forzare il principio barthesiano,
fornendo un volto alla trasfigurazione del
dolore. Si tratta di paradossi che appartengono
alla fotografia dalla sua fondazione
ma che in Shared Loss emergono in
maniera prepotente. In queste fotografie
vediamo qualcuno che guarda qualcosa
che non possiamo vedere: persone-medium
che alludono agli scontri in piazza
Tahrir, a ideali addomesticati a colpi di
mitraglia, a canaglie dal volto amico, a
famiglie dilaniate al loro interno. Samir
Assem ha perso il fratello durante il periodo
delle rivolte in Egitto, Amal Ahmad il
figlio. I due militavano in fazioni opposte
ma la sorte li ha riportati nello stesso fronte:
quello dei martiri senza gloria. Così
per gli amici e i parenti di Samir, Amal,
Hussein, Mohammad, Mary, Fatima e di
altre migliaia di egiziani caduti sotto i fendenti
di una lotta fratricida.
Sono tante Pietà senza corpi da abbracciare
quelle che ci presenta Shared Loss,
perdite che vengono condivise con i propri
nemici e poste davanti agli sguardi di
sconosciuti, spettatori “davanti al dolore
degli altri” [Sontag 2003] 2 . Apostrofi
mute [Bailly 1998] 3 che ci lasciano privi
di parole e di mondi altri da immaginare.
Note
1. J. Lacan (1979) I quattro concetti fondamentali
della psicoanalisi. Einaudi, Torino, pag. 82 .
2. S. Sontag (2003) Davanti al dolore degli altri.
Mondadori, Milano.
3. C. Bailly (1998) L’apostrofe muta. Saggio
sui ritratti del Fayum. Quodlibet, Macerata.
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@ Andrei Pungovschi, dalla serie Shared Loss
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Foto pagina seguente
@ Andrei Pungovschi, dalla serie Shared Loss

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PORTFOLIO
Linda Dorigo
Rifugio
@ Linda Dorigo, Smakieh, Jordan. April 2013 The Saint Mary statue in the age's cemetery.
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Il portfolio che qui proponiamo è il risultato di un viaggio
tra le comunità cristiane del Medio Oriente compiuto dalla
fotografa Linda Dorigo e dal giornalista Andrea Milluzzi
Andrea Milluzzi - Era la notte di Capodanno
2011 quando un'autobomba devastò
la chiesa dei Santi di Alessandria
d'Egitto. L'ennesimo atto di violenza
contro i cristiani in Medio Oriente ci ha
fatto decidere di partire per raccontare
comunità millenarie e vite quotidiane
nascoste all’attenzione mediatica. “Rifugio”
è il racconto di tre anni di ricerca
tra le comunità cristiane del Medio
Oriente. Il testo che segue è un estratto
delle esperienze vissute e delle storie incontrate
durante il viaggio che ha toccato
nove Paesi: Iran, Egitto, Siria, Iraq,
Libano, Turchia, Israele, Palestina, e
Giordania.
“Noi cristiani siamo stati i primi a vivere
su queste terre. Molti se ne stanno
andando, ma io credo che sia importante
rimanere per conservare la nostra
identità e le radici della nostra religione”.
Jan vive a Tehran, in Iran. È uno
dei 200.000 cristiani rimasti a condividere
spazi, leggi e usanze con gli oltre
76 milioni di iraniani musulmani. Jan è
sposato con Clara. Sono una coppia di
cristiani assiri, una minoranza di circa
10.000 persone in tutto il Paese. La loro
unica figlia vive in California: "Per i cristiani
iraniani sarebbe più semplice emigrare,
ma io non saprei come vivere in
un Paese occidentale dove l'identità e la
religione non contano nulla" riflette Jan.
I cristiani d'Oriente sono i discendenti
dei primi evangelizzatori che pochi anni
dopo la morte di Gesù Cristo attraversarono
l'attuale Medio Oriente. Nel corso
dei secoli fondamentalismi e politiche
dittatoriali volte a dividere i popoli per
controllarli meglio hanno lacerato i rapporti
fra cristiani, musulmani ed ebrei.
Arriviamo in Egitto nel giorno in cui
Mohammed Morsi, leader dei Fratelli
Musulmani, diventa Presidente. Prima
di lui c'era Mubarak e il nuovo vento politico
spaventa i cristiani che temono la
deriva estremista: “Non lasciamo uscire
di casa le nostre donne da sole perché i
fondamentalisti cercano di sposarle per
convertirle. Le rapiscono o le violentano,
e noi abbiamo paura di non vederle
mai più” raccontano gli uomini di Assuan,
nel Sud dell'Egitto.
Guerre e rivoluzioni stanno cambiano
faccia al Medio Oriente. Nel marzo
2011 in Siria è scoppiata una rivoluzione
che dopo pochi mesi si è trasformata
in guerra. “Scriverai di me? Allora devi
scrivere che amo il mio Paese e amo il
mio Presidente Bachar al-Asad. Lui rispetta
i diritti di tutti, compresi i cristiani”
dice Shamo, una ragazza di 25 anni
del Kurdistan siriano. Shamo sta stendendo
i panni sulla collina dove vive con
suo fratello, la madre e il papà, il custode
della piccolissima chiesa del villaggio,
vecchia di mille anni. Prima che scoppiasse
la guerra Shamo lavorava come
parrucchiera ma adesso nessuno pensa
più al taglio di capelli. “Non vorrei andarmene,
ma se la guerra continua non
avrò altra scelta” sospira.
“Io non ho alcun problema con mio
marito Joseph, anche se lui è cristiano.
Nostro figlio festeggia il Natale e sa cosa
è l'Islam. Non ditemi che siamo un'eccezione
in Medio Oriente” ride Leila
mentre ci mostra l'appartamento dove
abbiamo vissuto per quasi tre anni a
Beirut. Esempi di matrimoni misti e di
convivenza religiosa sono numerosi in
Libano, un Paese dove 4 milioni e mezzo
di abitanti pregano 18 confessioni
diverse. No, Leila e Joseph non sono
un'eccezione. Sono uno degli esempi a
cui aggrapparsi per sperare nel dialogo
e in un futuro di pace.
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@ Linda Dorigo, West Bank, Bethlem. December 2012

@ Linda Dorigo, Salmas, Iran. August 2011 Cemetery.
@ Linda Dorigo, Tabriz, Iran July 2011.
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@ Linda Dorigo, Tabriz, Iran.2011
@ Linda Dorigo, Egypt, Cairo, July 2012
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@ Linda Dorigo, Iraq, Baghdad November 2012.
@ Linda Dorigo, Damascus, Bab Touma, January 2014
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PORTFOLIO
Salvi Danés
Transmontanus
Oscar Meo – In un’intervista rilasciata
nel 2011 alla rivista Axiom, Danés
afferma – con un certo understatement
– che la sua intenzione autoriale non è
dare giudizi di valore sui soggetti delle
foto, ma suggerire il proprio «modesto
punto di vista» (www.axiommagazine.
jp/2011/12/19/salvi-Danés). Fotografia,
dunque, come interpretazione
o, come scrive lo stesso Danés nell’autopresentazione
che compare nel suo
sito ufficiale (salviDanés.com), «(re)creation»
del mondo, donazione di un significato
nuovo alle cose. Non è difficile
scorgere quale sia il rapporto fra queste
dichiarazioni sul piano della “poetica”
e il viaggio nella memoria come “ri-costruzione”
cognitiva e affettiva che egli
compie nel portfolio Transmontanus, un
titolo che allude al vento proveniente
dai Pirenei e dunque, indirettamente,
alla collocazione geografica delle foto:
la natia Catalogna.
L’inquadratura è soggettiva e parziale.
Nei paesaggi naturalistici, nelle foto
di animali, manufatti, eventi, Danés si
sforza di trasporre nel medium immaginale
il proprio vissuto di fronte alla
scena, di cogliere nell’insieme di essa
quel particolare, quel frammento (o
addirittura scarto) che la fa risaltare semanticamente
per il soggetto autoriale.
Divenuto elemento centrale della foto,
questo particolare si trasforma, anche
grazie all’ausilio del bianco e nero (i
colori della memoria, del nostos spaziotemporale),
in protagonista, lasciando
però un residuo di non rappresentato (di
“non detto” immaginale), di equivoco, a
tratti perfino di inquietante, che invita
l’osservatore a integrare autonomamente
il contenuto “narrativo” del lavoro, a
conferire a sua volta significato all’oggetto
dello sguardo collocandolo in una
“storia”, ad avvertire la presenza del
vento nei capelli scompigliati. Agevolato
anche dalla rigorosa assenza di titolo
delle singole foto, il movimento di ricreazione
si trasmette dunque dall’autore
al destinatario, che è chiamato a cooperare
alla costruzione del significato
del messaggio, a riattualizzare il vissuto
autoriale.
Un altro elemento essenziale della produzione
fotografica di Danés è l’apparente
casualità dei soggetti. Cosa
accomuna il panorama di un braccio
di mare con isola sullo sfondo, un modellino
di casa che lascia trasparire (in
modo un tantino perturbante) le dita
che lo sorreggono, una rudimentale
scatola forata a mo’ di arnia, un insetto
posato su una spalla quasi fosse un
tatuaggio, una vecchia porta ridotta a
simulacro inutilmente troneggiante su
un prato, un braccio proteso con sospetta
postura (forse aggressiva) verso
una nuca femminile, e così via? La risposta
sta nell’impressione di objet trouvé
offerta da tutti questi elementi, nel loro
fungere da indizi, da tracce che evocano
un mondo nascosto, che rinviano ellitticamente
a un significato ulteriore. La
“signoria del particolare”, che guida
l’occhio dell’osservatore, fa sì che l’oggetto
fotografato divenga un assoluto e
attesta la portata “ri-costruttiva” dell’obiettivo
del fotografo al contatto con i
luoghi della memoria: una volta trasposti
nel medium, tutti i soggetti delle foto,
compresi i modesti ready-made prediletti
da Danés, si trasfigurano e acquistano
un’aura di unicità e di mistero, facendo
venir meno ogni illusione di definitività
e di comprensione globale. Compiendo
il suo viaggio spazio-temporale, Danés
ha piena consapevolezza del continuo
rinnovarsi delle cose e degli uomini, del
loro divenire e trapassare, dell’indicibile
e dell’invisibile che li circonda.
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Foto pagina seguente © Salvi Danés, dalla serie Transmontanus

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© Salvi Danés, dalla serie Transmontanus

© Salvi Danés, dalla serie Transmontanus
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© Salvi Danés, dalla serie Transmontanus

© Salvi Danés, dalla serie Transmontanus
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PORTFOLIO
Raed Bawayah
Bellezza e identità
Simona Venezia - Per tradizione si è
abituati a pensare che la bellezza sia essenzialmente
una dimensione capace di
provocare appagamento e ammirazione,
in ogni caso «qualcosa di relativo al
piacere, quale suo semplice oggetto» 1 .
Eppure la sensibilità contemporanea ha
scardinato questo paradigma che proprio
nell’elevare la bellezza a una realtà
suprema giocoforza soggettivistica
l’ha in realtà rinchiusa in un ambito alla
fine estraneo a ogni discorso di verità.
Quando un grande poeta come René
Char scrive in uno dei suoi Fogli d’Ipnos:
«Nelle nostre tenebre non c’è un posto
per la Bellezza. Tutto il posto è per la
Bellezza» 2 , si comprende che un nuovo
modo di intendere la verità si impone nel
momento in cui si decide di abbandonare
ogni velleità emozionale, ogni deriva
sentimentalistica. La bellezza viene pensata
nella sua totalizzante primarietà, nel
suo essere una prospettiva che trascende
ogni vincolo personalistico o intellettualistico.
Rilevanti esperienze di pensiero
novecentesche si sono sempre più orientate
verso una considerazione della bellezza
come qualcosa che «appartiene al
farsi evento della verità» 3 in una prospettiva
disvelativa, poiché la bellezza stessa
sarebbe in realtà «un modo in cui la verità in
quanto disvelamento dispiega la sua presenza» 4 .
Questo significa che bello non è ciò che
piace e che seduce, ma ciò che fa vedere,
ciò che è capace di mostrarci, senza
infingimenti né incantamenti, un frammento
di verità in mezzo al mondo.
È una bellezza di siffatto genere quella
a cui rimanda il portfolio del fotografo
palestinese Raed Bawayah, che nell’intensità
di uno sguardo denso e curato
disvela qualcosa che è bello non perché
piace, ma perché mostra quello che è
nella sua verità. Il portfolio ritrae infatti
per la maggior parte scene di esistenza
quotidiana di palestinesi durante momenti
della vita di tutti i giorni. I ritratti
sono potentemente espressivi e questo
anche grazie alla scelta del bianco e nero
che fa emergere in maniera nitida e allo
stesso tempo poetica la necessità di guardare
con nettezza e senza sovrastrutture
le cose e il mondo. Non c’è ansia di valutazione
in queste foto, perché a imporsi
è l’urgenza del vedere rispetto a quella
del giudicare. A imporsi è la verità del
ritmo dell’esistenza, che è primaria anche
rispetto a condizioni esterne che
sono sempre individuali oltre che sociali
e allo stesso tempo contingenti. E allora
è possibile concentrarsi sugli sguardi
e sulle pose e non necessariamente sulle
condizioni storiche e sui contesti sociali,
senza depotenziare in alcun modo
tutta la gravità e l’importanza di queste
condizioni che sappiamo essere di
per sé drammatiche se non disperate.
La bellezza che efficacemente si evince
da queste foto è quella dell’identità: lo
sguardo di Bawayah raccoglie nei gesti
e negli indugi della vita decorosa e
operosa dei suoi connazionali un senso
di appartenenza che riempie l’immenso
vuoto della mancanza di riconoscimento
politico. E lo fa non esaltando la miseria,
caricando gli stenti e le ingiustizie che il
suo popolo pure subisce proprio perché
alla propria identità non viene riconosciuta
la necessaria accoglienza di una
terra. Perché il popolo palestinese non
può e non deve essere ridotto a questo: la
sua identità non si limita soltanto a una
lotta per la libertà, che è giusta quanto
necessaria, ma cresce nella vita dignitosa
e piena di speranza dei singoli, dei
quali non vengono raccontate soltanto le
reali difficoltà ma vengono corroborate
le potenziali aspettative. La bellezza di
questi ritratti ci disvela dunque qualcosa
che trascende un gradimento o un mero
compiacimento: l’identità di un popolo
che è tale perché si riconosce nel decoro
con cui conduce una vita che di certo a
occhi esigenti quanto freddi potrà apparire
anche limitata e modesta, ma che
è piena della propria irrinunciabile dignità.
La bellezza come l’identità non è
qualcosa che può piacere o meno, ma un
sentiero che ci indica ciò che è essenziale.
Secondo l’epocale tesi de L’idiota di Dostoevskij
la bellezza salverà il mondo 5 .
Eppure ogni giorno possiamo constatare,
facilmente quanto amaramente,
come questa rischi di essere sempre di
più un’utopia irrealizzabile. La bellezza,
neanche quella potentemente icastica
della fotografia, sta salvando il mondo,
eppure di fronte a una foto che ci spalanca
l’intensità dell’identità possiamo
comprendere che, se è vero che la bellezza
non riesce a salvare il mondo, almeno
dimostra che di sicuro esso meriterebbe
di essere salvato.
Note
1. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte (Der
Ursprung des Kunstwerkes), in Sentieri interrotti
(Holzwege), presentazione e traduzione di P.
Chiodi, La Nuova Italia, Firenze, p. 64.
2. R. Char, Fogli d’Ipnos (Feuillets d’Hypnos),
prefazione e traduzione di V. Sereni, Einaudi,
Torino 1968, p. 117.
3. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit.,
p. 41 (traduzione modificata).
4. Ivi, p. 64.
5. F. Dostoevskij, L’idiota, traduzione di A.
Poliedro, Einaudi, Torino 1994, p. 378.
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© Raed Bawayah
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PORTFOLIO
Mario Daniele
Metafore del silenzio
© Mario Daniele, Inverno #8_2010
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© Mario Daniele, Inverno #4_2011
Gigliola Foschi - Candore, delicatezza
e silenzio. Vastità di spazi indeterminati
e lievi, immersi in un tempo interiore,
come sospeso… Le immagini di Mario
Daniele incantano per la loro capacità di
coniugare la dimensione dell’indefinito
e quella della lievità. In ogni sua opera
dilaga una luce candida, un chiarore che
non irrompe mai violento, ma si trattiene
nell’amabile vaghezza dell’indistinto.
E, in questa serie dedicata al paesaggio
innevato, nuovamente si avverte la sua
capacità di accogliere il silenzio e il mistero
della natura senza svelarlo, bensì
porgendolo delicatamente alla nostra
immaginazione avvolto in una luce soffusa,
morbida, ovattata. Le presenze degli
alberi e le geometrie dei filari delle viti
non si stagliano infatti in modo grafico
o invadente, ma affiorano e sfumano,
compaiono lievi e intense nella nebbia,
tra le brume, nel biancore della neve. Le
sue sono immagini sospese in un tempo
senza tempo, quasi fiabesche, delicate
come un disegno a matita su un foglio
bianco con pochi tratti leggeri che non
vogliono imporsi, ma suggerire l’incanto
della terra e del non-svelato. Sono fotografie
quasi evanescenti, evocative e mai
puramente descrittive, che si nutrono di
quel vuoto e di quel silenzio nei quali è
possibile far emergere la voce della terra
senza dissiparne il segreto, senza tradirne
il linguaggio.
D’altra parte è lo stesso autore a scrivere:
“Penso che lo stupore e la capacità
di provare ancora meraviglia di fronte
all’irriducibilità della natura siano condizioni
essenziali per poter preservare
e concepire atteggiamenti che rendano
possibile una rinnovata connessione con
la terra”. Mario Daniele è infatti consapevole
che la terra non solo vada salvata
e difesa, ma anche ascoltata con affetto
e riconoscenza, per ritrovare quel legame
che la società contemporanea rende
ogni giorno più incerto e al contempo
urgente. Egli pratica quindi le arti del silenzio,
del passo lento e della sosta, fino
a offrirci i suoi paesaggi poetici e affabili
come un dono nato da uno sguardo
amorevole e paziente che sa farsi accoglimento
e trasformarsi in un’esperienza
affettiva, mentale ed emotiva, di fronte
alla natura. Un dono capace di allontanare
il rumore del mondo e l’ansia del
tempo che incalza, per farci di nuovo
udire la voce silenziosa della terra. Egli
si trasforma in un custode della terra che
usa l’arte della fotografia per ridarle dignità
e mistero, per salvarla dal rumore,
dall’oblio, dall’incuria dell’uomo che la
devasta. Simili a metafore del silenzio, le
sue immagini sanno fermarsi sulla soglia
piuttosto che inoltrarsi verso fittizi svelamenti.
Daniele si pone davanti agli alberi
come se dovesse ritrarli, ma al contempo
compie anche una sorta di passo indietro,
in segno di rispetto. Oppure usa un
punto di vista che sembra fiabescamente
aleggiare a mezz’aria, così da aggiungere
un tocco di amabilità ai suoi paesaggi
dalle fattezze delicate come piume. Le
sue immagini – simili “a tappe di ‘un
atlante delle emozioni’” (come scrive
Veronica Caciolli, curatrice del MART)
– ci invitano dunque a un tacere rasserenante,
a pensieri fluttuanti simili ai sogni
ad occhi aperti, a fantasticherie dolci e
profonde. Un invito che pare raccolto
e rilanciato dai minuscoli ritratti che,
come lievi contrappunti, accompagnano
le immagini di alcuni suoi paesaggi innevati.
Evanescenti e leggeri, questi ritratti
di volti spesso celati suggeriscono sguardi
amorevoli, protesi verso un altrove o
verso un’interiorità pensosa e serena.
Come guide gentili, tali immagini di visi
nascosti ci sospingono verso un possibile
percorso nel silenzio, quale spazio dell’ascolto
di sé e dell’incontro con un paesaggio
che non è più inerte davanti a noi,
ma ci ri-guarda e ci attraversa.
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© Mario Daniele, Inverno #21_2013
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PORTFOLIO
Jacob Gils
MOVEMENT
© Jacob Gils, LISBON #2, 2012
Leonardo V. Distaso - L'apparente mancanza
di fuoco nell'immagine di Jacob
Gils, nella serie Movement, ci consegna la
percezione di un oggetto, comunque. La
deformazione del fuoco sottolinea la presenza
dell'oggetto riprodotto, lo colloca
al centro della scena in una dimensione
percettiva che ne mette in evidenza i dettagli.
L'oggetto sfocato mostra le sue fattezze
all'occhio predisposto allo sforzo: il
suo handicap si rovescia in una promessa
che esso mantiene attraverso la luce e il
colore restituiti dall'immagine stessa. Si
tratta di un procedimento a prima vista
impressionistico, se non fosse che nell'occhio
percepiente esso si capovolge nella
dinamica espressiva dell'informe.
Se nell'impressionismo il confine del
visivo circonda l'oggetto rappresentato
senza perdere di vista la sua collocazione
mimetica, all'interno di una stabilita
relazione tra significante e significato,
allora l'immagine che ci lascia Gils appare
impressionistica là dove vuole intendere
la mera referenza ostensiva di
ciò che riproduce: “Questo è un albero!”
Ma se lo sguardo si perde nel dettaglio
e nell'impressione di movimento che la
mancanza di fuoco ci propone, allora
l'attenzione alla parte, come al tutto, rinuncia
all'incantamento del significato
ostensivo per penetrare l'oggetto in vista
di ciò che di esso non si vede. In questo
caso più che al Ninfeo di Monet, la fotografia
di Gils rimanda al Nudo che discende
le scale (1911) o al Giovane triste in treno
(1912) di Duchamp.
Quello che appare, nell'illusione del
movimento dell'immagine di Gils, deve
andare oltre i confini dell'immagine fotografica
concentrandosi sul significante
che essa presenta. La latente potenzialità
dell'immagine in movimento di Gils
si dirige verso il non retinico: la figura
evapora nei dettagli dinamici e potrebbe
andare nella direzione neoplastica
del Mondrian successivo a L'albero grigio
(1911), se non fosse che la figura in Gils
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© Jacob Gils, LONDON #8, 2012
non è soltanto sfocata, ma deliberatamente
scomposta e ricomposta oltre la
visione retinica. Non si può guardare
un'immagine di Gils senza pensare che
essa è una costruzione. Una costruzione
di ciò che è oltre il visibile. La cabina
telefonica di Londra, ma anche il cab
londinese, permane nello sguardo in
quanto persiste nella situazione, restando
quella presenza che è in un lampo
che trasforma continuamente la sua apparenza.
Così sono anche gli alberi di
Lisbona che chiudono l'apparente movimento
che eseguono in una scansione
temporale più che spaziale.
E qui è il punto: le immagini in movimento
di Gils segnano un tempo più che
uno spazio. L'illusione vorrebbe invitarci
a perseguire nel tempo lo sguardo che
abbiamo gettato sull'oggetto, come a
dire: continua a guardare mentre l'oggetto
persiste nel tempo. Così l'oggetto
immobile e sempiterno (l'albero, vivente
immoto per eccellenza), chiuso nella
cornice dell'immagine fotografica, traspare
ricomposto nel tempo, come se ne
potessimo seguire la vita, cosa che non
potremmo mai fare attraverso un'immagine
del suo significato. Nel sogno vitalistico
di Gils possiamo riconoscere l'attitudine
ad andare oltre la mera chiarezza:
questa ci farebbe vedere la cosa, mentre
la fotografia risulta l'immagine di un lasso
di tempo che solo la lunghezza di un
film potrebbe consegnarci. Gli alberi di
Gils sono fermo-immagini più un'immaginaria
sequenza: immagine-tempo.
Un limite della sua fotografia? Non sappiamo
se questo costituisce un limite, ma
le sue fotografie di movimento sono circondate
da un silenzio irreale. Come se
lo scorrere della situazione fosse compiuto
senza la complicità degli elementi naturali
che avvolgono i suoi soggetti. Se la
vita non può essere senza il movimento,
così il movimento non può darsi senza
il rumore, anche quello ottuso del click
della macchina fotografica.
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© Jacob Gils, Tranekaer #3, 2013
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© Jacob Gils, Frederiksdal #2, 2013
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PORTFOLIO
Kerry Skarbakka
Dissociate dissonanti gravità
© Kerry Skarbakka, Stairs © 2002
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© Kerry Skarbakka, Green Tree © 2002
Sergio Labate - Gli umanismi hanno
delle pretese sul mondo. Queste pretese
prendono perlopiù le forme dei colonialismi.
Il loro compito – esplicito o meno
– è sempre quello di umanizzare la natura.
L’immagine dell’umanismo finisce
per fotografare la forma di un ordine (o di
un disordine ormai superato o, al limite,
rimosso). Come si fotografa l’ordine
preteso dagli umanismi? Attraverso una
mutua addomesticazione. L’uomo sta
dentro il mondo, sta al suo posto dentro
il mondo. Poco importa che cosa sia
davvero il mondo, se esso sia il mondo
come natura o il mondo come insieme
sociale. In queste foto, per esempio, il
mondo si rappresenta nei suoi estremi.
Esso è il mondo “elementale”: è il fuoco
o l’albero. Ma è anche il mondo più
articolato possibile: un’architettura, una
città, un interno di casa. In tutti i casi il
mondo è quello che è: qualcosa che sta
lì tutto, insieme all’uomo. Ma, è questo
il punto, in queste foto viene descritta la
fine dell’umanesimo. Sta lì tutto l’uomo
insieme al mondo, ma l’uomo non sta a
casa dentro il suo mondo.
Ma non anticipiamo i tempi. Se la
prima addomesticazione è il sentirsi
a casa nel mondo da parte dell’uomo,
la seconda addomesticazione è quella
attraverso cui l’uomo elegge il mondo
come sua proprietà. L’uomo signore
del mondo. L’impeto colonialista degli
umanisti. Non so voi, ma io sono sempre
in difficoltà quando devo definire il
rapporto che mi lega con il “mio” animale
domestico. Che funzione svolgo
in questo strano rapporto? Io sono il
“proprietario” del mio gatto? Eppure
l’animale domestico è proprio quello
che “appartiene” a qualche umano. Io
sono costretto a esserne il proprietario.
La nostra addomesticazione forzata del
mondo si manifesta anche in questa piccola
complicazione del controllo: se io
prendo un aereo con il mio gatto, per
lui sono previsti più controlli che per
me. Il mondo, lo portiamo in giro a condizione
che sia in nostro controllo. Per
poterlo scambiare, deve prima essere del
tutto nostro.
Non posso spiegare al mio gatto che il
mio rapporto con lui è il segno evidente
dell’ipertrofia del progetto umanista.
Ma posso osservare queste foto e pensare
che esse decostruiscono questa ipertrofia
umanista e la mutua addomesticazione.
Il soggetto ricorrente di queste
foto è la dismisura tra l’uomo e il mondo.
Non che esso non abbia forma. La
descrizione delle sue forme è del tutto
naturalistica, anche quando concerne il
mondo sociale. Ma questo naturalismo
non è uno sfondo abitato dall’uomo. Il
mondo e l’uomo seguono una gravità
del tutto schizofrenica. Il corpo pesa ma
il suo peso va in senso contrario al peso
del mondo. Così il naturalismo fotografico
non diviene surrealismo ma cosmologia:
il corpo dell’uomo è un’antimateria
rispetto alla materia solida del mondo.
Non solo non c’è mutua addomesticazione,
ma c’è un’irriducibile estraneità
che si manifesta nelle dimensioni stesse
della materia: se il mondo va su, l’uomo
cade, se il mondo va giù, l’uomo risale.
Così la mia sensibilità interpreta queste
foto come un vero e proprio manifesto
anti-umanista. Chissà se questa dissonanza
permanente non sia poi la forma
più realistica del nostro modo di stare al
mondo. Chissà se questa rinuncia ad addomesticare
il mondo possa permetterci
un equilibrio artistico. La dissonanza,
nelle foto, appare come una danza.
L’arte dello stare al mondo, rinunciando
a dargli la nostra forma. Se l’uomo
è perduto, il compito della fotografia
sarà di fissare la forma di un disordine.
Di tale forma, non si dà alcuna etica né
alcuna ontologia. Solo una ragione estetica
potrà salvarci.
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© Kerry Skarbakka, Winter Roof © 2004

© Kerry Skarbakka, Engulfed © 2008
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© Kerry Skarbakka, Building 50 © 2003

© Kerry Skarbakka, Clint © 2002
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PORTFOLIO
Philippe Assalit
Il volto e il colore dei soldi:
tatuaggi di potere
© Philippe Assalit, 10-000$-USA
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Saverio Ciarcia - Un tatuaggio è per
sempre. E come tutte le cose destinate
a durare per sempre -il sempre umano
legato al breve corso di una vita-,
che ci attraggono e tuttavia, nell’intimo,
inevitabilmente ci spaventano, i
tatuaggi catturano l’attenzione e colpiscono
la fantasia con formidabile carica
emotiva. I disegni sulla pelle hanno
accompagnato sin dalle origini la storia
dell’uomo; era così forte e innato il
suo bisogno di comunicare che egli ha
innanzitutto utilizzato le posture generali
e gli atteggiamenti del volto, come
del resto fanno assai bene non solo i
primati: una fisiognomica dei cani e
dei gatti accumulerebbe una massa
sterminata di osservazioni, affettive
prima che scientifiche. Ma l’ansia di
comunicare era tale da spingere i nostri
lontani progenitori a usare l’ intera
superficie cutanea del loro stesso corpo
come testo, e pretesto, per inviare
ulteriori segnali a se stessi e ai propri
simili: persino l’uomo del Similaun
aveva sulla pelle un tatuaggio probabilmente
«terapeutico». Il corpo dunque
come «macchina» da personalizzare:
l’unicità della carrozzeria come esigenza
(e fissazione) tipicamente umana,
non semplice moda contemporanea.
Ma anche bandiera da brandire come
arma impropria volta a intimidire
prima e più che a colpire. Difficile, in
questo senso, non pensare alle splendide
«movenze» che aprono gli incontri
di rugby degli All Blacks, la nazionale
neozelandese: gesti e cadenze tratte da
una tipica danza rituale Maori, popolazione
che vive principalmente nel
nord della Nuova Zelanda e che ha
proprio nella nazionale di quel paese
una massiccia presenza. È la famosissima
haka, danza di guerra, ma in origine
canto mimato di invocazione del
dio sole. Di fronte alle foto della recente
raccolta Monnaies, viene da chiedersi:
di tutte queste implicazioni l’autore
Philippe Assalit, fotografo francese
cinquantenne diviso tra Parigi e Gers,
ha coscienza effettiva mentre riprende
i suoi modelli d’ambo i sessi? Ogni
dubbio svanisce di fronte all’efficacia e
potenza descrittiva dei suoi «tatuaggi
fotografici». Sfila dinanzi ai nostri occhi
una galleria di strani ritratti: non
di re, imperatori, granduchi o principi
della chiesa, inespressivi e consunti
sotto la polvere che il tempo deposita
sul potere, come nel lungo corridoio
vasariano degli Uffizi; ma di uomini e
donne, completamente «tatuati» con
disegni a prima vista stravaganti. Volti
che squarciano, come veli colorati, trasparenti
riproduzioni di monete cartacee
di singoli paesi. La tecnica utilizzata
non richiede di scarificare la pelle
o eseguire punture oblique, ritardando
la cicatrizzazione e inserendo sostanze
coloranti nelle ferite, ma una semplice
sovrapposizione digitale. Eppure i colori
si fissano ancor più nel profondo:
questi sguardi ammantati di ghirigori
a prima vista bizzarri ci interrogano
in realtà sulla vita che le diverse etnie
conducono negli oltre quaranta distinti
paesi segnalati dall’esuberante filigrana
delle banconote antiche o correnti. Il
risultato è dirompente: le «divise» cartacee
nazionali (come con tecnicismo
involontariamente ironico si definiscono
le monete) ricoprono con effetto
soffocante le figure, schiacciandone lo
spessore umano ridotto a singolare tappezzeria.
Le immagini, mentre a gran
voce proclamano l’appartenenza di
gruppo, negano nella sostanza ogni individualità,
nascosta dietro una trama
ossessiva e mercificante. Proprio l’allusione
al tatuaggio e alla sua perennità,
toglie ogni flebile speranza di modifica
o di riscatto, rispetto a una condizione
destinata a protrarsi indefinitamente.
I volti in sequenza, bloccati e frontali
come in una foto segnaletica, appaiono
più o meno malinconici, depressi,
sperduti o aggressivi, a seconda del potere
d’acquisto delle diverse valute sovraimpresse:
il pil prevale su tutto, sulle
attese, le nostalgie, le necessità e la disperazione
di interi popoli. Il programma
figurativo dei ritratti burleschi di
Arcimboldo, aristocratico pittore milanese
al servizio di Massimiliano II d'Asburgo,
è simmetricamente capovolto:
lì sono oggetti, ortaggi, frutti, pesci, uccelli
o libri a comporre in metaforiche
combinazioni soggetti «quasi» umani;
qui sono volti umani ad essere stravolti
da lussureggianti arabeschi tatuati, fino
a trasformarsi in oggetti, che conservano
appena tracce di primitiva e quasi
animale vitalità. Questo cinquantenne
dall’apparenza tranquilla lancia un
messaggio che tocca profondamente
l’osservatore. Ciascun ritratto, a metà
tra pittura e scultura, disegno e fotografia,
richiede non meno di tre mesi,
vissuti lungo quella linea sottile che divide
e nello stesso tempo accomuna le
diverse manifestazioni artistiche. Assalit,
che si definisce neo-pittorialista, ha
tratto certamente spunto dai pionieri
del collage, del grattage, del montage e
dell’hand colouring. Ma una tecnica, per
quanto sofisticata, se rimane senz’anima
non è mai arte: dall’invadente
cappa monetaria che avvolge come
mummie le sue figure emerge lo spirito
inquieto di questo fotografo, che
sentiamo in qualche modo fuori posto
sullo sfondo del sofisticato ambiente
parigino, con l’abbigliamento un po’
casual e l’orecchino appena esibito al
lobo dell’orecchio sinistro: unici discreti
simboli di contestazione di un ferreo
ordine sociale, che sempre più spesso
reclama privazioni e sacrifici. Le attonite
«dame velate» 1 di Philippe Assalit,
persino le più aggressive e luciferine,
sembrano chiedere a noi spiegazione
di un mondo dominato dal denaro,
dalla mercificazione dei valori e dal
consumismo sfrenato di beni non necessari:
una domanda a cui, dentro una
crisi mai così lunga e profonda, appare
sempre più difficile rispondere.
Note
1. A partire dalla famosa Dama velata di Raffaello,
innumerevoli sono le figure femminili
presenti in pose più o meno enigmatiche nella
grande storia dell’arte, da Leonardo a Botticelli,
da Dürer a Modigliani, solo per citare alcuni
degli artisti più noti.
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© Philippe Assalit, Ariary-Madagascar

© Philippe Assalit, Peso-Argentine
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© Philippe Assalit, Lire-Italie

© Philippe Assalit, Yen-Japon
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PORTFOLIO
Giorgio Bianchi
Behind Kiev's barricades
© Giorgio Bianchi, Behind Kiev's barricades
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Alessandra Ciarcia - L’incidenza della
Storia con la «S» maiuscola sulla nostra
piccola storia è uno dei problemi che
siamo chiamati a risolvere quotidianamente,
senza accorgercene. Quanto
il mondo, il corso degli eventi riesca a
segnare la nostra idea di cosa fare, di
come essere i nostri piani è un aspetto che
varia da individuo a individuo. C’è senza
dubbio una misura nella disponibilità
a farsi invadere dalla storia e nel diritto
a resistere a questo; così come esiste, in
modo più o meno urgente e drammatico,
il dovere di parteciparvi in qualità
di esseri sociali, che si assumono delle
responsabilità. Nella personale vicenda
di Giorgio Bianchi, la fotografia rappresenta
il punto di connessione di un
singolo uomo con la storia, condiziona e
trasforma il suo modo di stare al mondo.
Da passione, diventa lavoro a tempo pieno
e si compatta ulteriormente quando
assume i tratti definitivi della documentaristica.
“Behind Kiev’s barricades” è il
reportage fotografico che offre una testimonianza
degli scontri violenti tra manifestanti
ucraini e forze dell’ordine del
presidente filorusso Viktor Yanukovych,
dal 16 febbraio ai primi di marzo del
2014. Di lì a poco sarebbe seguita la
vera e propria guerra civile dell’Ucraina
orientale. Piazza Maidan, l’interno dei
palazzi governativi o di rappresentanza
e le strade intorno sono il teatro esterno
e interno di un brutale conflitto la cui
spettacolarità viene messa in evidenza
nelle immagini a inquadratura più ampia,
in cui l’azione e la reazione avvengono
sul momento. Si è nel cuore della
sommossa mentre un rivoltoso in primo
piano prende la mira prima di sparare.
Un gruppo di uomini in prossimità della
barricata si nasconde strategicamente
alla vista del nemico, rievocando le
trincee della Prima guerra mondiale. In
questo caso però il paesaggio non è una
crosta vuota che vede sprofondare gli
uomini, come animali, nel terreno, che
copre città sotterranee. Il combattimento
avviene alla luce (seppure torbida per
via dei fumi generati dai copertoni dati
alle fiamme), ha bisogno di “armature”
che proteggano corpi e volti, e sull’asfalto
o sul pavimento degli edifici si costruiscono
gli accampamenti e si accumulano
i detriti. L’unica eccezione a tale
ambientazione è rappresentata dall’avanzata
delle “testuggini” antisommossa:
spuntano in fila continua dal profilo
morbido del terreno, tra gli alberi e la
nebbia, circondate tutt’intorno da qualcosa
di molto simile a quello che videro
le legioni romane nella foresta di Teutoburgo.
Non si va né avanti né indietro,
in una sorta di immobilità febbrile,
nei punti in cui si raccolgono le masse
disperate, che hanno perso tutto, che si
coprono gli occhi o la bocca. Anche i
caschi dei guerriglieri cozzano tra loro
come carapaci ammassati in uno spazio
troppo angusto, quando non galleggiano
più comodi sui copertoni; un concerto
di solitudini. Non hanno nulla in
comune le persone immortalate da sole,
tranne l’isolamento che le ritaglia quasi
dal contesto. O forse tutto le accomuna.
I primi piani dei due uomini mostrano
l’impenetrabilità di una “barriera” che,
in un caso (casco, occhiali e passamontagna),
non lascia che pochissimi centimetri
di pelle scoperta. Nell’altro, la
vera barriera non è lo scudo avvicinato
al volto, ma la lastra di ghiaccio degli
occhi chiari. Il fucile giocattolo e il ghigno
indecifrabile del bambino rendono
inaccessibile al bambino stesso, oltre che
all’osservatore, la tenerezza della sua infanzia.
La donna in abito tradizionale,
nel gesto immobile delle mani congiunte,
tiene lontano il male. Anche il tempo
si ferma di fronte alla grazia dei ricami
da cui riaffiorano tracce della nativa
fede slava. Il capo chino e la sofferenza
rassegnata di quest’altra Madonna,
più in là negli anni, con gli abiti poveri
del presente, la rendono più umana. Il
cartellone tra le sue braccia ha il peso
del corpo del figlio morto. Quando si
ha fede, la vista non si limita al semplice
organo corporeo: un occhio ferito attraversa
lo spazio e la materia della benda
che lo copre e arriva dritto al punto
in cui vuole arrivare. Momenti intimi,
come un’estrema unzione o una processione
per commemorare le vittime
del massacro, stringono l’inquadratura
su ogni singola vita umana e recuperano
dentro alle acrobazie della Storia la
storia minuscola di tutti i giorni, il racconto
in soggettiva. L’istinto e la forza
che appartengono a ciascuno di noi di
continuare a disegnare la propria figura,
combattere le proprie battaglie e soffrire
per dolori che ci riguardano in prima
persona rendono le nostre esistenze parzialmente
impermeabili a tutto ciò che
accade intorno, concorrono a definire la
nostra statura di uomini.
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© Giorgio Bianchi, Behind Kiev's barricades

© Giorgio Bianchi, Behind Kiev's barricades
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© Giorgio Bianchi, Behind Kiev's barricades

© Giorgio Bianchi, Behind Kiev's barricades
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© Giorgio Bianchi, Behind Kiev's barricades

© Giorgio Bianchi, Behind Kiev's barricades
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close up
Franco Carlisi intervista l’autore
Lynsey Addario
© Lynsey Addario, Soldiers with the SuDanése Liberation Army. August 21, 2004.
Lynsey Addario/Getty Images Reportage
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© Lynsey Addario, SuDanése Liberation Army soldier. August 27, 2004.
Lynsey Addario/Getty Images Reportage
Franco Carlisi - Come definiresti il tuo lavoro?
Lynsey Addario - Fotogiornalismo che
riporta o comunica tematiche quali violazioni
dei diritti umani e crisi umanitarie,
in primo luogo nei paesi che sono
stati o sono tuttora teatro di conflitti.
Il tuo lavoro di reporter ha sicuramente condizionato
la tua vita. C’è qualcosa che avresti voluto
fare e che il tuo lavoro ti ha impedito?
Direi avere una vita privata! Per molti
anni ho anteposto la carriera alla vita
privata. Fortunatamente ho conosciuto
mio marito prima dei quarant’anni,
quindi sono riuscita a farmi una carriera,
sposarmi e avere un figlio, ma per
parecchi anni ho avuto la convinzione
che non avrei mai incontrato nessuno in
grado di rispettare e di sostenere i vincoli
imposti dal mio lavoro.
Utilizzi la macchina fotografica nel tuo privato?
Non proprio. Di solito quando torno a
casa al termine di un incarico non voglio
nemmeno vedere le mie macchine
fotografiche. Però scatto foto alle mie
nonne, 101 e 97 anni. Una è nata a Bari,
mentre l’altra è nata negli Stati Uniti da
genitori italiani.
A febbraio è uscita una tua biografia It’s What
I Do, vorresti raccontare un evento che ha determinato
le tue scelte future?
La mia infanzia: sono stata cresciuta
da una coppia di parrucchieri del Connecticut
in una famiglia molto aperta e
bohémienne. La nostra porta era sempre
aperta a tutti e i miei genitori hanno
insegnato a me e a mia sorella a non giudicare
mai le persone, soprattutto coloro
che la società considera “diversi”.
Con quale criterio hai selezionato le foto del
libro?
Non ho scelto quelli che consideravo i
miei scatti migliori, bensì le immagini
che servono a illustrare le situazioni
che racconto. Il libro è una raccolta di
memorie, piuttosto che un semplice libro
fotografico. Volevo quindi quelle
fotografie che meglio si adattavano a
una raccolta di memorie, piuttosto che
a rappresentare una selezione delle mie
immagini più belle.
Esiste sempre un nesso tra la foto singola e l’insieme
del racconto fotografico. In che misura si
modifica la fruizione di una singola fotografia
quando viene isolata dal contesto del reportage?
Dipende: se sto lavorando a una storia,
cerco sempre di completarne il racconto,
di dare più informazioni, di educare
e di coinvolgere maggiormente lo
spettatore, operando una selezione di
immagini intime e coinvolgenti. A volte
gli scatti funzionano come immagini individuali,
ma a volte funzionano ancora
meglio come parte di una raccolta.
Fotografi sia a colori sia in b/n. In molti fotografi
il colore viene messo al servizio della “interpretazione”
più che della “rappresentazione”
della realtà. Può sembrare un paradosso visto
che la nostra percezione della realtà è a colori.
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© Lynsey Addario, Basra, Iraq. May 26, 2003. Lynsey Addario/Getty Images Reportage
Eppure c’è chi pensa che l’uso del colore aggiunga
un elemento di arbitrio nella rappresentazione
della realtà. C’è infatti sempre una differenza
tra il cromatismo percepito al momento dello
scatto e quello restituito dall’immagine finale.
Tu che cosa ne pensi? Con quale criterio scegli
di fotografare a colori o in b/n? Oppure lo fai
solo dopo aver visto gli scatti?
Quando ho cominciato a scattare, all’età
di 12-13 anni, lo facevo in bianco e
nero. Quando uscivo con la mia macchina
fotografica, visualizzavo le scene
in b/n piuttosto che a colori, sviluppavo
ed elaboravo le foto nella camera oscura
e credevo veramente che il b/n fosse
il mio strumento preferito e la forma di
espressione più precisa. E quando ho
cominciato a fare la fotografa di professione,
all’età di circa 21 anni, sono
passata a un uso quasi esclusivo del colore.
Sono una fotoreporter, non un’artista
raffinata e quindi credo di dover
innanzitutto cercare di catturare una
scena nel modo più preciso e veritiero
possibile. Non faccio un’elaborazione
eccessiva delle immagini in fase di postproduzione,
vedo veramente a colori e
concettualizzo le storie a colori. Mi è
accaduto di rado nella mia esperienza
professionale di cominciare una storia
e di sapere che la volevo in b/n: il Talibanistan
per esempio. Fin dall’inizio
di quella storia, ho pensato che avrebbe
avuto un maggiore impatto con l’uso
del b/n, per la sua crudezza e semplicità.
L’ho proposto a Kathy Ryan, photo
editor del New York Times Magazine,
e ha accettato. Ma vedo, scatto e pubblico
quasi sempre a colori.
Spesso le foto che accompagnano un articolo su
una zona di crisi sono state scattate da persone
che si trovano lì e non da fotoreporter. Queste
fotografie non essendo autoriali possono essere
“piegate” facilmente alle esigenze dell’articolo e
mutare il loro significato. Tu che cosa ne pensi?
È estremamente importante che gli
editor sappiano fare il loro lavoro nel
momento in cui acquistano immagini
da fotografi con i quali non hanno
mai collaborato. I conflitti diventano
sempre più pericolosi e quasi inaccessibili
ai giornalisti occidentali, a causa
del numero crescente di rapimenti e di
azioni mirate contro i giornalisti. Sempre
più spesso quindi, gli editor si basano
sull’acquisto di immagini scattate
da chiunque si trovi in loco. Si tratta di
una pratica molto rischiosa, perché in
questo modo non abbiamo informazioni
sul soggetto che ci fornisce l’immagine:
si tratta di una messinscena? Sono
combattenti loro stessi? I giornalisti
apprendono l’importanza dell’integrità
e dell’imparzialità nel riportare le informazioni.
Abbiamo imparato come
reperire e fornire informazioni didascaliche
precise per raccontare la storia in
un modo che rappresenti la realtà in diverse
sfaccettature, piuttosto che solo un
lato di essa. E non creiamo ad arte né
le scene, né le fotografie che scattiamo.
82

© Lynsey Addario, Afghanistan. November 2009. Lynsey Addario/Getty Images Reportage
Il fotoreporter rappresenta ma interpreta anche
la realtà. In questo “secondo grado” della struttura
di una foto intervengono i codici culturali
e morali e tutto ciò che concorre a definire il
linguaggio del fotografo. In che misura questo
“secondo grado” agisce sul primo? Cosa rimane
della realtà nella fotografia?
Vedi sopra. Naturalmente ciascuno di
noi ha le proprie convizioni dal punto
di vista morale e ha vissuto particolari
esperienze, ma in qualità di giornalisti
abbiamo la responsabilità di riportare
una scena nel modo più preciso e imparziale
possibile. E dovremmo sempre
cercare (qualora le condizioni di accessibilità
e di sicurezza lo permettano) di
riportare diversi lati e punti di vista di
una stessa storia.
Il reportage fotografico è sempre accompagnato
da un testo scritto. Come vivi questo rapporto
delle fotografie con un altro linguaggio, che poi
è quasi sempre anche il linguaggio di un altro?
Non temi distorsioni di senso?
Cerco di lavorare esclusivamente con
giornali e riviste di cui riconosco l’integrità,
il modo di scrivere e di riportare
le informazioni. E so anche di potermi
fidare dei miei editor, nel senso di avere
la certezza che il mio lavoro non venga
distorto dal contesto in cui viene pubblicato.
Se non ho mai lavorato prima
con un reporter e si tratta di una storia
particolarmente delicata, a volte chiedo
di parlare con il redattore dei testi
prima di accettare un incarico.
Chi decide oggi cosa far vedere e cosa non far
vedere attraverso le fotografie? Qual è il potere di
un fotoreporter in queste decisioni?
Dipende: alcuni editor sono più collaborativi
rispetto ad altri, coinvolgono il
fotografo, chiedono maggiori informazioni
sul contesto originario delle foto,
per capire come meglio raccontare la
storia. Altri editor sono meno collaborativi.
Ormai lavoro da un po’ (!) e fortunatamente
ho dei bellissimi rapporti con
i miei editor, con i quali ho avuto la fortuna
di lavorare negli anni e che generalmente
mi coinvolgono nel processo.
Che cosa pensi dei Premi fotografici? Molti fotografi
anziché impegnarsi in lavori a lungo termine
preferiscono puntare su una singola immagine
che possa fargli vincere un Premio e fargli
acquisire la conseguente popolarità.
Credo che un premio sia sempre una
conferma del proprio lavoro, ma l’obiettivo
di questa professione dovrebbe essere
quello di raccontare storie importanti
e di creare immagini di grande impatto
che possano parlare al pubblico. Non
dovrebbe essere finalizzata alla vincita
di premi o al riconoscimento personale.
Facciamo questo lavoro per portare beneficio
agli altri, non a noi stessi. Non
vinco quasi mai premi nei maggiori concorsi
di fotografia a livello internazionale,
ma non mi lascio scoraggiare. Voglio
che il mio lavoro parli alle persone di
tutto il mondo. Con o senza un premio!
83

84
© Lynsey Addario, U.S. troops Afghanistan. October 2007.
Lynsey Addario/Getty Images Reportage

© Lynsey Addario, Turkana County, Kenya. August 2011.
Lynsey Addario/Getty Images Reportage
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© Lynsey Addario, Kabul. May 2000 Lynsey Addario/Getty Images Reportage
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©Lynsey Addario, Syrian refugee. Baalbek, Lebanon. January 22, 2013.
Lynsey Addario/Getty Images Reportage
© Lynsey Addario, U.S. Marine, Southern Marja, Afghanistan, September 15, 2010.
Lynsey Addario/Getty Images Reportage
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LIbrI
Antonella Monzoni
FerITa armena
Antonella Monzoni
Ferita armena
Testi di: antonia arslan,
daniele de Luigi, aldo Ferrari
pagine: 176
Formato: mm 285x240
Confezione: Brossura fi lo refe,
copertina in tessuto
euro 38
Gente di Fotografi a Edizioni
Antonia Arslan - Malinconia, pioggia,
neve, paesaggi battuti dal vento, miserevoli
costruzioni sovietiche in disfacimento,
cani che si azzuffano; e tanti,
tristi fiori per terra, davanti alle aguzze
lame del monumento del genocidio a
Dzidzernagapert, la collina delle rondini;
ma sullo stesso sfondo vedi anche
pugni alzati, come un simbolo dell’eterna
lotta degli armeni perché si sappia,
perché gli eventi terribili del 1915 non
rimangano sepolti nell’oblio.
E poi gli sguardi, tanti sguardi: fieri, non
sconfitti, ma sui quali pesa un’infinita,
antica tristezza.
Eccola, la “ferita armena”. Un titolo
che richiama, suggestiona, convince.
Perché Antonella Monzoni c’è andata,
in questa Armenia notturna, e ha camminato
lungo le strade e nei cimiteri, i
troppi cimiteri d’Armenia. Ha fotografato
le millenarie pietre di questo paese,
i pavimenti lapidei incisi con le lettere
meravigliose dell’antico alfabeto, le
massicce lastre tombali da cui freschi
visi giovanili guardano rifl essivamente,
come da un altare, i superstiti piegati
dalla fatica di vivere.
Un’altra lastra, nera e recente, è coperta
di fiori che stanno appassendo: siamo
nella quiete di uno spazio erboso, con
cespugli di varie tonalità di colore sullo
sfondo, e una donna accovacciata che
guarda la tomba: non piange, aspetta,
chissà. È goffa e malinconica, e i lunghi
capelli neri le spiovono intorno al viso.
Un sentiero bianco di pietre quadrate,
in primo piano, porta non si sa dove.
In un’altra immagine, quattro campanelle
sono appese in fila su una lunga
asse di legno sollevata da terra, che inquadra,
come in una cornice di inesprimibile
solitudine, le rovine di una chiesa
antica, coi muri slabbrati che gridano al
88

© Antonella Monzoni, dalla serie Ferita Armena
cielo. Ma la vita è più forte, la resistenza
degli armeni indomabile: c’è un uomo di
spalle, in primo piano, che sta suonando
la campanella più grande, come a evocare
un campanile che non c’è più, le voci
dei monaci e il suono dei canti liturgici.
I visi sono forti, squadrati, antichi. Riflettono
la struttura potente di chi si
raccoglie in se stesso per sopravvivere,
e attinge forza dalla nebbia e dall’oscurità
in cui si cela. Nevica, e sotto un
albero una donna aspetta il suo uomo
che, carico di un enorme fagotto, sta
camminando verso di lei. Sullo sfondo,
l’inconfondibile profilo di una chiesa
armena, con la sua cupola ottagonale
e l’esile croce in cima. Fa freddo, tanto
freddo, ma i due sono là, e stanno per
ricongiungersi: è la forza della vita che
vince, e li trascina uno verso l’altro.
Ci sono croci dovunque, nel panorama
armeno.
Ma quelli che veramente definiscono
il paesaggio sono i khatchkar, le croci di
pietra, lastre rettangolari incise che si
trovano dappertutto, vicino alle antiche
chiese, sulle strade e nei campi, e stanno
a significare una volontà di testimonianza,
a marcare il territorio, a renderlo
tipico. Croci che simboleggiano la morte,
ma anche la vita che risorge: e sulle
quali a volte una croce più grande ne
copre e protegge molte di più piccole,
come la Croce di Cristo con quelle dei
poveri esseri umani. Spesso sono decorate
con l’albero della vita, che sorgendo
dal basso percorre e innerva le superfici
di granito.
Stupisce, nelle fotografie di Antonella,
la sensazione sempre presente dell’infinita
varietà degli spazi, aperti su orizzonti
infiniti. Un gregge va verso il
nulla, e le miti schiene lanose si stagliano
su un lontano chiarore nevoso; ma
dallo stesso lontano orizzonte nevoso si
avvicina a noi un pastore che sembra
un antico eroe, Nestore di Pilo dalla
bianca barba, ieratico e solenne, rivestito
dei suoi stracci come di un mantello
regale.
Ed è una “ferita armena” anche il catastrofico
terremoto del 1988. Altre immagini
rispecchiano il desolato esito di
tanta distruzione: case malamente rabberciate,
scheletri di automobili, una
corriera abbandonata in un campo,
fra l’erba; altre case dalle pareti sottili,
fragili come castelli di carta, in mezzo
a un pianoro sparso di pietre antichissime.
A contrappunto, un cielo livido e
nuvoloso.
Ma le forti donne d’Armenia stendono
poveri panni e logori tappeti fra gli alberi
e i fili della luce, spavaldamente: e coi
loro occhi intensi continuano ad amare
e a sorridere, sfidando il destino.
89

90
© Antonella Monzoni, dalla serie Ferita Armena

© Antonella Monzoni, dalla serie Ferita Armena
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libri
Enrico Nicolò
Photoblurrygraph
ENRICO NICOLÒ
PHOTOBLURRYGRAPH
Enrico Nicolò
Photoblurrygraph
Testi di Andrea Attardi, Annarita Curcio,
Manuela De Leonardis
Carlo Gallerati, Barbara Martusciello
Augusto Pieroni
Collana I quaderni di Gente di Fotografia
Formato: mm 220x220
Confezione brossura filo refe
Pagine: 112
Euro 24,00
Saverio Ciarcia - Recensire un libro di
fotografie non è mai semplice: perché
non è semplice esprimere con parole il
racconto che hanno già autonomamente
sviluppato le immagini. Una gara asimmetrica
e perdente, se si cerca di sviluppare
il confronto sul piano della comunicazione
visiva: con il colore, il gioco di
luci e di ombre, le forme, i materiali, i tagli
e le inquadrature non c’è e non ci può
essere partita. Ma se invece si vuole tentare
il difficile esercizio di far emergere
da quelle immagini, senza minimamente
competere con esse, le intenzioni “seconde”
del nostro autore, a volte palesi
e a volte recondite e nascoste, insomma
quel misto di pressanti esigenze espressive
e idiosincrasie più o meno congenite
e acquisite che caratterizza la sua opera,
allora l’analisi, lungi dal ridursi a uno
sterile esercizio di stile (più si scrive e più
ci si allontana dal soggetto e dall’oggetto
dei nostri desideri), può diventare non
soltanto legittima e opportuna, ma addirittura
feconda di risultati. Da questo
punto di vista il libro di Enrico Nicolò
non solo non fa eccezione alla regola, ma
si conferma da manuale.
Lo strano termine di suo conio, Photoblurrygraph,
con cui le foto sono identificate,
è uno di quei prodotti mentali che
legano «a catena» entità, idee o azioni
distinte, che, una volta integrate, assumono
un significato ben più ampio e
profondo dei singoli componenti originari:
e non è un caso che si è affidato,
per questa difficile operazione, ad una
lingua come l’inglese (ma poteva allo
stesso modo essere il tedesco), che ha per
questi tipici assemblaggi sorprendenti
potenzialità.
Si sente in questa parola composta l’eco
di suoni suggestivi e lontani: è una «grafia»
che graffia la superficie del supporto,
92

© Enrico Nicolò, Photoblurrygraph - 4, 2011
la carta come un tempo la tavoletta
ricoperta di cera, per incidere e imprimere
in maniera duratura segni
significanti; è un disegno che però
nel nostro caso si esprime -come
semplice mezzo e mai come fine- attraverso
il «mosso fotografico».
Sfogliare le immagini raccolte nel libro
è come assistere in diretta a un
processo di maturazione artistica, a
un passaggio lento ma inarrestabile
dall’impressionismo al post-impressionismo
fino a giungere, negli scatti
più recenti, a una forma di vero e
proprio espressionismo astratto, al
completo disfacimento delle forme e
dei materiali in accostamenti nebulosi
di colori e di luci brillanti e vivaci.
Se nei primi esperimenti d’uso
di questa tecnica, che si gioca praticamente
tutta nella fase di ripresa
analogica su pellicola senza interventi
speciali di post-produzione, si tende
a salvare un qualche riferimento
fisico e mimetico alla realtà rappresentata
(e l’occhio inevitabilmente si
attarda nella decodifica di oggetti,
paesaggi e figure ancora in qualche
modo distinguibili), nella fase avanzata
del processo nessuna decifrazione
è possibile: lo sguardo, finalmente
liberato dall’obbligo soffocante e
quasi meccanico di ricostruire una
realtà materica identificabile, spazia
leggero tra complessi equilibri di
pieni e vuoti puramente virtuali, tra
colori leggeri o pesanti in perenne e
reciproco contrasto, tra lampi di luce
e macchie tenebrose, che possono
comunicare all’osservatore soltanto
una tempesta di pulsanti emozioni
interiori: stelle lontane di senso, che
danzano vorticosamente nello spazio
infinito, insondabile, della nostra memoria
e della nostra identità, come
scintille evocate dal fuoco di inarrestabili
richiami.
C’è naturalmente in tutto ciò un
qualche ricordo della sensibilità
esasperata e tipicamente romantica
pervasa di spiritualità e senso
del divino, che schiaccia le misere
creature umane, attonite e smarrite
dinanzi all’immenso e possente spettacolo
della natura. Nei testi critici
che accompagnano le immagini, è
stata ampiamente citata la pittura
di Caspar David Friedrich, uno dei
più alti interpreti del Romanticismo
tedesco. Nelle indefinite figure
che guardano di schiena l’orizzonte
lontano, dove si incontrano e si confondono
il cielo e il mare, c’è una
traccia evidente del Monaco in riva al
mare – 1808/10, del Viandante sul mare
di nebbia - 1818: un senso inquieto di
93

© Enrico Nicolò, Photoblurrygraph - 14, 2011 © Enrico Nicolò, Photoblurrygraph - 131, 2013
attesa impregna il racconto fotografico,
che nelle immagini più intense si riduce
a lingue sinuose di fiamma che infaticabilmente
si compongono e ricompongono
sullo sfondo nebbioso di un’alba o di
un tramonto o si protendono verso l’alto
contro il buio assoluto della notte. C’è
insomma lo stesso senso del divino, ma
c’è nello stesso tempo anche quel carattere
di dubbiosa e provvisoria frammentarietà
che costituisce un segno tipico
della nostra epoca di crisi.
Così si avverte, nella scelta dello «sfocamento»,
un inevitabile richiamo alle
prime ricerche di Balla (Dinamismo di un
cane al guinzaglio - 1912) e di Marcel Duchamp
(Nudo che scende le scale – 1912/16):
un collegamento che non stupisce in un
ingegnere elettronico, che non disdegna
di abbinare la ricerca scientifica a quella
fotografica. Ma questa volta non si tratta
di rendere in qualche modo percepibile
il movimento attraverso una dissolvenza
controllata che appartiene forse più alla
televisione che al cinema, ma di sintetizzare
la realtà, eliminando le scorie
dovute alla riconoscibilità dei dettagli,
per attingere una migliore comprensione
delle sensazioni che affollano il cuore più
che dei meccanismi che presiedono alla
visione cerebrale.
Se, all’inizio, la pittura ha preso in prestito
dalla nascente fotografia il risultato delle
lunghe pose necessarie per imprimere le
immagini sul negativo, trasformandolo
in qualità estetica della rappresentazione,
è oggi la fotografia a far tesoro della
visione deformante e suggestiva della
pittura, per proporre una nuova ipotesi
di lettura non superficiale del reale. Nella
nebbia che sfuma i contorni, l’immagine
si decanta e diventa paradossalmente più
nitida proprio nella sua essenza: la stessa
energia che destruttura la rappresentazione
ricompone un’immagine nuova
che si presenta questa volta come pura
qualità. In questo senso, alle immagini
di Nicolò sarebbe forse più giusto associare
non tanto la pittura tedesca o le
avanguardie novecentesche quanto le affascinanti
brume pittoriche di Turner, la
luce intensa che nei suoi quadri squarcia
la nebbia mentre confonde in turbinanti
nebulose cielo, terra e mare.
È singolare che una procedura per molti
aspetti simile a quella sperimentata
da Enrico Nicolò sia alla base del lavoro
progettuale di uno dei più affermati
architetti newyorchesi, Peter Eisenman,
per anni impegnato a tentare di traslare
il movimento nella più stabile delle arti,
l’architettura, non solo come ispirazione
concettuale ma come tecnica per organizzare
e percepire lo spazio e le sue
forme: se lo spazio è tempo, si misura attraverso
il tempo (anni-luce), vive, si consuma
e rinasce nel tempo, grazie ad un
divenire senza fine che distrugge la vita
per poterla ricreare in forme nuove, la
sua essenza può essere colta soltanto nel
movimento e attraverso il movimento.
Il costante «respiro» dell’universo che
ci circonda si materializza nel continuo
slittamento dell’immagine impressa per
strati successivi sulla pellicola. È un terremoto
silenzioso, che a sua volta produce
uno sfocamento più o meno diffuso,
che non pregiudica le nostre possibilità
di comprensione, ma finisce anzi per
esaltare le umane capacità di percezione
istintiva, empatica della natura: un
universo color pastello, fatto di continue
esplosioni di luci e colori, ci avvolge e ci
lascia come abbagliati e sbigottiti dinanzi
a forme evanescenti di una bellezza
assoluta, dove l’uomo è scomparso -con
gli ulivi, le barche alla fonda e le povere
case-, per lasciarci da soli dinanzi a una
distesa indistinta di dune sabbiose battute
dal vento furioso del deserto. È in
questa sensazione di solitudine e di perdita
o svuotamento di valori e di certezze
– a partire da quelle che si ostinano a
propinarci i nostri sensi, la vista in primo
luogo –, che Enrico Nicolò si rivela fino
in fondo figlio sensibile del nostro tempo:
un tempo che se da un lato ci spinge
a non vedere particolari sempre più
agghiaccianti, ci induce dall’altro, forse
come unica possibile compensazione, a
ricercare nel profondo di noi stessi la risposta
a mille promesse tradite.
94

© Enrico Nicolò, Photoblurrygraph - 48, 2013
© Enrico Nicolò, Photoblurrygraph - 76, 2013
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libri
Robin Schwartz
Amelia e gli animali
Robin Schwartz
Amelia & The Animals
Testi di Amelia Paul Forman
e Donna Gustafson
Edizioni Aperture
Pagine 136
Euro 33,96
Carmelo Rampello - «Esplorando le relazioni
interspecifiche. Le mie foto sono
tratte dai viaggi fatti insieme a mia figlia
Amelia negli ultimi 12 anni, nel mondo
interspecifico e privato nel quale abitiamo
con animali di tutti i tipi. Cerco di
immortalare le nostre relazioni con gli
animali nella speranza che questi momenti
abbiano un'eco e voglio mostrare
il grande coraggio e l’ingenuità di Amelia,
quando si relaziona con animali di
ogni tipo in modo gentile e rispettoso.
Mia figlia è più di una dolce e bella modella.
Amelia è scaltra, dura e coraggiosa
abbastanza per blandire delicatamente
gli animali. Le foto non sono documenti
ma testimonianze di un mondo inventato
che mettiamo in scena e del quale
seguiamo il flusso creativo. Questo progetto
fotografico ci ha dato la possibilità
di accedere ai nostri sogni e scoprirne il
lato straordinario. Gli animali e le relazioni
tra le specie sono sempre stati una
parte importante del mio lavoro. Nelle
mie foto, gli animali non sono mai rappresentati
in modo crudele o soltanto
funzionale a descrivere la vita dell'uomo,
ma come parte della nostra quotidianità
... Quello che mia figlia ed io esploriamo
è un mondo in cui la linea di confine tra
l'uomo e l'animale appare sfumata, dove
gli animali sono parte del nostro mondo
e gli esseri umani sono parte del loro. Io
e mia figlia condividiamo l'affinità con il
regno animale, ci divertiamo con le nostre
fantasie ed esploriamo le nostre eccentricità
creando una dimensione dove
gli animali non solo coesistono con gli
esseri umani ma interagiscono con essi
come partner veri e propri. La complicità
di Amelia con me e con gli animali
arricchisce le fotografie. Questi quindici
anni di maternità sono stati spesso incalzati
da un ritmo vorticoso di lavoro e di
scadenze. Guardando indietro, questa
serie rappresenta il periodo più significativo
della mia vita, uno strumento di
comunicazione vitale con mia figlia».
È con queste parole che Robin Schwartz,
Associate Professor in Photography alla
William Paterson University in New Jersey,
introduce il suo ultimo lavoro.
Se si da' credito all'intento dichiarato di
voler esplorare le relazioni interspecifiche,
“Amelia e gli animali” disorienta.
A mio avviso sarebbe un errore leggere
queste immagini guidati dall'idea di uno
studio sulle effettive relazioni che si instaurano
tra una bambina e gli animali;
va invece tenuta presente l’affermazione:
«Le foto non sono documenti ma
testimonianze di un mondo inventato».
La sensazione che si riceve già a una
prima lettura è che l'autrice abbia usato
la piccola modella e gli animali come
meri strumenti per comporre -attraverso
i fotogrammi- un qualche puzzle
riaffiorante dal proprio immaginario
infantile: una dimensione onirica che
appare proiezione di lontane suggestioni
favolistiche.
Guardando le foto del libro, si rimane
colpiti da due grandi occhi azzurri in un
viso mai atteggiato al sorriso: Amelia è
96

© Robin Schwartz, Robin Schwartz, Ricky and Amelia, 2002,
from Amelia and the Animals (Aperture, 2014)
mostrata, nell'approccio con gli animali,
rilassata e avvezza al contatto, e tuttavia
accigliata e seriosa, come distaccata
e lontana da quelle ludiche e gioiose
emozioni che ci aspetteremmo di trovare
nell'interazione tra bambini e animali.
Spesso acconciati in modo antropomorfo
e fotografati in pose statiche, gli animali
domestici sembrano essere soltanto giocattoli
inanimati, fino a confondersi, in
alcuni scatti, con le bambole di Amelia.
Quelli selvatici sono invece fotografati in
ambienti molto lontani dal loro habitat
naturale, in set artificiali dominati dalla
prepotente presenza della fotografa.
Forse per deformazione professionale
-sono veterinario e refere in zooantropologia
didattica- ho subito pensato al
racconto stantio di un rapporto con il
mondo animale inficiato da una visione
antropocentrica, che tende a reificare
l'animale e certamente non consente di
varcare la soglia dell'alterità: una visione
amorevole ma priva di empatia, unico
sentimento che consente di sentire veramente
il diverso da sé e di percepire le
emozioni altrui.
Ma solo amore e empatia non sono sufficienti:
per una vera comunicazione tra
l’uomo e le altre specie è necessario che
l’uomo decida di scendere dal piedistallo
dell’autoreferenzialità e cominci con
umiltà a studiare il linguaggio, per lo
più non verbale, dei nostri compagni di
viaggio. Sono purtroppo ancora in tanti,
negli Stati Uniti, a respingere l'evoluzionismo
a favore del creazionismo, che
rappresenta forse la maggiore difficoltà
ideologica a un’armonica convivenza
con le altre specie.
Per la verità, anche altri precedenti lavori
di Robin Schwartz, come Arabbers
stables del 2006 e Mexico del 1992-93, affrontano
il tema del rapporto con gli animali
domestici: in queste raccolte, però,
le immagini rigorosamente in bianco e
nero raccontano una dimensione reale,
dove le relazioni interspecifiche sono basate
sull’antica cultura rurale. Uomini,
donne e bambini interagiscono secondo
le regole arcaiche della civiltà contadina,
non ancora sopraffatta da quella urbana,
in cui l'animale è, semplicemente, parte
integrante della vita. In quelle foto non
si corre il rischio di sostituire l'animale
con un’icona infantilizzata e banalizzata,
come invece purtroppo profusamente
accade in Primate Portraits del 1992.
Pur con i limiti che abbiamo indicato,
vale sicuramente la pena di soffermarsi
sulle foto del libro, per gustare la sincera
intensità del rapporto madre-figlia,
che comunque si coglie nella criptica
fissità delle pose: una segreta sintonia
corre sul filo di fascinosi e ovattati fermi
di scena, quasi sempre sapientemente
illuminati, con cui Robin Schwartz riesce,
per istinto, a catturare e colpire
l’attenzione dell’osservatore.
97

© Robin Schwartz, Robin Schwartz, Tower, Jacob, 2006,
from Amelia and the Animals (Aperture, 2014)
© Robin Schwartz, Robin Schwartz, Lorenzo, 2011,
from Amelia and the Animals (Aperture, 2014)
98

© Robin Schwartz, Robin Schwartz, Tower, Jacob, 2006,
from Amelia and the Animals (Aperture, 2014)
© Robin Schwartz, Robin Schwartz, Violet Cockatoo, 2013,
from Amelia and the Animals (Aperture, 2014)
99

GRAND_TOUR_giuliano_ferrari.indd 1 03/03/15 14:29
libri
Giuliano Ferrari
Grand Tour
Grand Tour
GIULIANO FERRARI
Giuliano Ferrari
Grand Tour
Collana I Quaderni
di Gente di Fotografia
Pagine: 164
Formato: mm 165x205
Confezione: Brossura filo refe
con capitello
Euro 24,00
Pippo Pappalardo - Mai come negli
ultimi decenni l’esperienza del viaggio
si è nutrita d’immagini e d’immaginario:
è il “viaggiare” che lo impone, con
il suo procedere, con il suo attraversare
e penetrare con lo sguardo; e poi, con
il ricordare, trattenere e, man mano
o successivamente, riflettere; e, infine,
condividere.
Subentra, allora, una diversa esigenza
e, forse, una differente necessità: il
viaggiare non impegna soltanto il tempo
e lo spazio realmente trascorso - e,
in particolar modo, quello sezionato e
racchiuso nell’immagine e nell’istante
-, quanto l’atteggiamento affabulatorio
di chi l’ha vissuto come esperienza di
un incontro, di un confronto, di una
scoperta; e, come tale, vuole trasmetterlo.
Giuliano Ferrari, richiamando
l’esperienza, esistenziale più che avventurosa,
dei protagonisti del Grand Tour
non dimentica, infatti, che quei signori,
ancor quando abili nell’appunto disegnato
o acquarellato, erano tutti degli
egregi narratori e, pertanto, in questo
suo lavoro, costruisce una sequenza
laddove sono i ritmi del racconto, tra
un incipit e un the end, a racchiudere la
meditazione sul carattere “italiano” del
suo raccontare, pur lasciando trasparire
una personale e italianissima proposta
iconografica.
Mi piace, pertanto, accostare questo lavoro
al “Bel Paese” dell’abate Stoppani,
un classico libro della nostra infanzia,
nel quale l’autore si propone, fingendo
di raccontare ai nipoti, di spiegare che
il reperto naturale, botanico, architetttonico
o paesaggistico è tutt’uno con la
tradizione, il costume e la cultura del
Paese.
Siamo lontani, invero, dai tempi di
Stoppani e, tra il viaggio di Goethe e
il presente, è passato tanto tempo; soprattutto
son passati tanti viaggiatori
che hanno formulato le loro rappresentazioni
accumulando immagini sopra
immagini tanto da confondere la realtà
e, talvolta, nasconderla.
Il nostro fotografo è, per nostra fortuna,
culturalmente agguerrito. Ha cono-
100

© Giuliano Ferrari, Reggio Emilia
sciuto e maturato l’iconografia storica
degli Alinari, la complessa proposta del
T.C.I., e ovviamente tutta la vicenda
culturale scaturita dopo il “Viaggio in
Italia” guidato da Luigi Ghirri.
Oggi si tratta di proporre un racconto
capace di confrontarsi con quelle
esperienze e, contemporaneamente,
muovere autonomamente verso una
rappresentazione che non guardi più
al monumentale e al paesaggistico con
sospettto e, soprattutto, non si rivolga
al banale e al kitch con sussiego o snobismo:
i due aspetti, nella sua proposta,
non si contrappongono, anzi, hanno
la stessa natura perché rimandano allo
sguardo del fotografo, e alla sua peculiare
volontà di rappresentarli, la ragione
della loro esistenza come immagini
nuove.
La tematica privilegiata, insomma,
ci sta davanti come nei nostri atlanti,
come nelle guide turistiche; ma la poetica
adottata è nuova, decisamente fresca,
con punte di originalità contaminate
dall’ironia irriverente di un Martin
Parr o dai classici quanto teneri richiami
a Herbert List o Leonard Freed.
Tenerezza e ironia sono, peraltro, le
sensazioni costanti che accompagnano
ogni sua rappresentazione, ogni prelievo
fotografico, spesso raccolto con
grammatiche strumentali ed estetiche
che alludono ad acquarellature o a ingenue
polaroid; costanti, quindi, di un
gusto e di uno stile che confluiscono
in una coerente poetica di sentimento
sperimentato verso un referente che
riconosciamo sempre con chiarezza e
con simpatia.
E forse non è tanto la riconoscibilità
quanto la rivisitazione del luogo prima,
e del gesto fotografico poi, a catturare il
nostro interesse: qui si tratta, evidentemente,
di tornare a vedere e formulare
una differente e qualificata visione; qui
si tratta di risolversi per una diversa
proposta di comprendere e capire per
immagini.
Recupero quindi dell’ingenuità dello
sguardo senza scadere nel concettuale
criptico e affannato, e ricerca dell’altro
e dell’altrove che non è mai lo sforzo di
individuare un nuovo referente nell’affollatissimo
immaginario del nostro
Paese e neppure il rinvenire un nuovo
punto di vista, ma l’individuazione di
un raccontare e ragionare per immagini,
provocando l’attenzione, suscitando
la curiosità, invitando il lettore a collaborare
nel mettere a fuoco un racconto
e un'esperienza che non può definirsi e
risolversi in un'istantanea
Il fotografo considera, allora, la prospettiva
dei suoi lettori ed è consapevole
della loro capacità di riconoscere e
capire ciò che ha fotografato: si tratta
quindi di individuare un tono e un ritmo
adeguato ad una ricezione quanto
più efficace. Raccogliamo, quindi, il
rifiuto a concepire la “solita” cartolina
come ingresso gratuito ad uno spazio
erroneamente considetrato eternamente
accessibile.
C’è, infatti e ancora, un altrove che attende
la nostra scoperta, la nostra invenzione.
Basta volerlo come in un racconto,
come un altrove anche temporale.
101

© Giuliano Ferrari, Caserta
© Giuliano Ferrari, Moena, Trento
102

© Giuliano Ferrari, Etna, Catania
© Giuliano Ferrari, Pavia
103

libri
Vincenzo Marzocchini
Ritratti al plurale
Vincenzo Marzocchini
Ritratti al plurale
Fotografi anconetani
tra '800 e'900
Testi di Diego Mormorio
Polyorama Edizioni
Pagine: 146
Formato: mm220x220
Confezione: brossura filo refe
Euro 18,00
Diego Mormorio - Da tempo ormai, nel
campo della fotografia italiana, Vincenzo
Marzocchini è un sicuro punto di riferimento.
Egli ci ha abituato ad approfondite
ricerche che riguardano l’ambito
storiografico, le questioni estetiche
e la letteratura. Come studioso e come
“fotografo per diletto”, Marzocchini è
stato attratto in modo particolare dal
tema del ritratto e, parallelamente, da
quello del territorio. Due argomenti che
quasi si fondono, e che comunque restano
inscindibili. È nel “territorio” infatti
che la “figura” – intesa come volto e
come portamento – prende la sua forma
[…] nei nostri volti e nei nostri cuori,
veniamo segnati, soprattutto negli anni
dell’infanzia e della fanciullezza, dal
luogo in cui cresciamo. È soprattutto in
quegli anni che diventiamo quello che
104

A. Vidau & F., stampa al collodio su cartoncino f.to Boudoir, ritratto di famiglia sul retro datato 1901.
siamo. Diventiamo cioè islandesi, sardi,
romani, piemontesi, siciliani, marchigiani…
E in qualche modo rimarremo
sempre questo, anche se viaggeremo e
vivremo all’altro capo del pianeta. […]
Detto con una punta d’invidia, Marzocchini
ha avuto la fortuna di operare in
un luogo che la storia e la natura hanno
plasmato in modo da generare quel
paesaggio mezzadrile di cui molto, giustamente,
si è scritto, anche se questa mole
di scrittura sembra ora poco toccare la
“classe” dirigente e le nuove generazioni.
Ha avuto la fortuna di vivere quella
bellezza collinare da cui discende l’incanto
de L’infinito di Leopardi, che possiamo
– dobbiamo, meglio – avere come
punto di partenza per qualunque ragionamento
intorno al paesaggio. […]
Il finito e l’infinito si compenetrano e,
in questa compenetrazione, danno autentico
significato alla parola paesaggio.
È bello qui dirlo ancora con le parole
di Rosario Assunto: “Tra i due estremi,
della finitezza chiusa e della infinità illimitata,
lo spazio che si costituisce come paesaggio
è uno spazio in cui l’infinità e la
finitezza si congiungono, passano l’una
nell’altra: sicché la finitezza, aprendosi,
diventa infinita per la continuità, che
in essa viene a instaurarsi, del limite e
dell’illimitato (il limite definisce l’illimitato,
e lo mostra come infinito proprio
perché, nel suo essere limitato non è più
indefinito; e l’illimitato, a sua volta, si appropria
del limite, facendo di questo non
la negazione dell’infinità, ma il modo in
cui questa si autopresenta nella finitezza);
mentre l’infinità, come infinità limitata,
scende, per così dire, nella finitezza
e di essa fa come il proprio specchio”.
Con queste parole il filosofo […] fonde
il suo pensiero con i versi di Leopardi
e mostra come il poeta (appena ventunenne)
aveva già chiarissima l’unità (“e
quasi identità”) di infinità e finitezza
dello spazio, intorno a cui deve svilupparsi
ogni ragionamento sul vedere che
voglia essere seriamente analitico.
A partire dai versi di Leopardi e dal ragionamento
di Rosario Assunto costruito
intorno ad essi, possiamo dunque
dire che il paesaggio è lo spazio limitato
che si apre all’infinito, ragione per cui
esso è nel territorio ma non è tout-court il
territorio, che invece diventa paesaggio
quando prende l’aspetto di una vastità
chiusa che “Dell’ultimo orizzonte il
guardo esclude”. In quanto spazio illimitato,
il cielo non può essere considerato
un paesaggio, così come il mare, il
quale però può fare parte di un paesaggio,
così come il cielo resta un elemento
fondamentale di ogni veduta paesaggistica.
[…]Ma, visto che ci troviamo a parlare
del paesaggio, resterei su una questione
toccata anch’essa da Leopardi e che è
ora attualissima. Quella della wildeness,
che riguarda il territorio delle Marche
come ogni altro.
Quello della selvatichezza è un mito che
cominciò ad affacciarsi in Occidente
nell’Ottocento, con quelli che vengono
considerati i padri del cosiddetto “ambientalismo
moderno”, gli americani
Henry David Thoreau (1817-1862) e
John Muir (1838-1914), i quali favoleggiarono
di una natura incontaminata
e, dunque, non toccata dalla mano
dell’uomo.
In realtà, come scrisse all’inizio del
Novecento il filosofo e teologo tedesco
Romano Guardini, “questa nostalgia di
una natura allo stato puro, assolutamente
intatta” era “già in sé una manifestazione
di cultura”, “il risultato di una
esistenza viziata da un eccesso di artificio”.
In una simile natura, aggiungeva
Guardini, l’uomo non potrebbe esistere.
“L’esistenza umana – aggiungeva – è
permeata di spirito, ma lo spirito non
può operare se non dopo aver portato
105

L. Goldstein, albumina visite,
viraggio al cloruro d’oro, 1855-60.
U. Scarponi, albumina f.to Margherita virata oro, 1870 ca.,
(ritocco occhi bimba sx).
via alla natura un po’ della sua realtà”.
Ed è proprio da questo “portar via alla
natura un po’ della sua realtà” che sono
nati i paesaggi dell’uomo, le sue città e i
suoi giardini.
[…] Ogni tentativo d’ordine nasce da
una specifica necessità, che si sviluppa
sempre dentro una precisa cornice sociale,
coi suoi valori e con le sue priorità.
Queste priorità possono generare
– come è avvenuto col paesaggio mezzadrile
marchigiano – bellezza, ma anche
devastazione, come è avvenuto nelle
coste di tutto il Paese, che a partire dagli
anni sessanta del secolo scorso, sono state,
per dirla con Antonio Cederna, prese
d’assalto da “una banda di mestieranti”
del tutto negati ad ogni ragionamento
urbanistico.
Per quello che è stato fatto e disfatto
lungo le coste del nostro Paese non può
esserci rimedio, se non quello che la
pochezza delle nostre risorse economiche
non ci consente: la demolizione. La
bellezza collinare marchigiana è invece
in buona parte ancora salvabile. Ma è
necessariamente legata a una nuova e
diversa politica agricola della nazione.
Nessuno può negare che una buona
parte delle risorse turistiche del nostro
Paese si fondano sulla bellezza paesaggistica.
Anche chi non è interessato alla
coltivazione del bello dovrebbe, almeno
per amore del soldo, avere a cuore
la varietà del paesaggi italiani e la loro
tutela. Una tutela che richiede costante
attenzione.
All’interno dell’esercizio di questa tutela
dovrebbero naturalmente operare dei
fotografi specialisti in grado di documentare
ogni specificità locale. […]La
conservazione delle qualità paesaggistiche
del territorio si accompagna necessariamente
alla conservazione della memoria
storica, che, per quanto riguarda
l’ultimo secolo, ha nella fotografia una
forza portante, che ha bisogno però di
un vasto lavoro di valorizzazione. Bisognerà
cioè – come fa la bella ricerca di
Vincenzo Marzocchini qui presentata
– trasformare il materiale fotografico
conservato alla rinfusa in patrimonio: in
ricchezza documentativa e culturale.
Gli enti locali dovrebbero favorire questo
impegno di ricerca e fare in modo
che le immagini oggi disperse in molti
cassetti (pubblici e privati) non vadano
perdute. A tale sforzo dovrebbe naturalmente
accompagnarsi la realizzazione
di una “banca visiva” nazionale in cui
raccogliere tutto il nostro patrimonio
documentativo.
Spero tanto che, di fronte alla ricerca
realizzata da Vincenzo Marzocchini e
qui presentata, molti comprendano la
necessità di attuare questo sogno.
106

Stampa autovirante al platino primi ‘900. F.to ovale cm
12,6x8,9 su cartoncino 19,7x14,8 (Rudolf)
A. Ciabò, albumina virata oro f.to Margherita
su supporto Album, immagine a rilievo, 1870 .
Fotografie formato cartolina portate dai clienti per gli ingrandimenti.
A. Diotallevi, albumina visite colorata a mano, 1870 ca.
107

mostre
Wim Wenders
4 Real & True 2
“Wim Wenders
Landscapes. Photographs
4 Real & True 2.”
18 April 2015 – 16 august 2015
Stiftung Museum Kunstpalast Düsseldorf
www.smkp.de
Angela Maria Piga - È la vastità, il genius
loci di Wim Wenders, la campitura di colore
la sua meta. Tre decenni di fotografie,
oltre sessanta di grandi dimensioni scattate
in tutto il mondo dal grande regista
tedesco a cui la sua città natale, Düsseldorf,
dove Wenders è nato nel 1945, ha
inteso rendere omaggio con una mostra
al Museum Kunstpalast, curata dal direttore
del museo, Beat Wismer e da Wenders
stesso. È la luce la protagonista di
questi scatti, l'orizzonte è il punto di fuga
prospettico. Un orizzonte mai concluso
dalla macchina fotografica e dallo scatto;
nel movimento Wenders riesce a cogliere
lo spazio, a venire nella sua ampiezza
sempre a portata umana. L'orizzonte
di Wenders è quello del pittore sulla
tela, quella pittura che da giovane provò
ad intraprendere provando a iscriversi
all'Accademia d'Arte di Düsseldorf, per
poi invece iscriversi nel 1967 all'Accademia
di Cinema e Televisione di Monaco.
La pittura torna su queste immense distese
di luce e colore, luce arida, secca,
brillante e vivida, cristallina e distillata,
evocatrice di quella pittura olandese, da
Vermeer a Rembrandt, che tanto influì
sulla creatività di Wenders, che dichiarò
nel 2005 in un'intervista a Daniel Bickermann:
“Da regista, quale divenni dopo
alcune deviazioni di percorso, e anche da
fotografo, devo infinitamente di più alla
storia della pittura del cinema o della fotografia”.
Eppure, a differenza dei tanti
deserti, archeologie urbane e orizzonti
ripresi da tanta fotografia contemporanea,
non è l'assenza dell'uomo, né il
relitto ad attirare l'occhio di Wenders,
ma la potenzialità del colore di vivificare
l'inanimato. Lo scatto non congela la
realtà, la rilancia in avanti: ogni scatto è
un magnificat, un'epifania verso un orizzonte
tangibile, di cui il paesaggio urbano
abbandonato è solo punto, appunto,
asse di fuga. Così Wenders al curatore
e direttore del museo Beat Wismer:
“Guarda questo, questo esiste, l'ho visto,
e voglio mostrartelo”. Questa realtà,
senza volersi realistica, viene espressa dal
movimento dell'occhio e dalla contingenza
luminosa: la prospettiva aerea degli
scatti analogici di Wenders restituisce
alla luce (mai artificiale) la sua velocità
e la sua natura di percorribilità, nulla è
statico, lo scatto procede con l'avanzare
dello sguardo. La mancanza di treppiedi
consente all'artista di mantenersi sempre
ad altezza umana: l'orizzonte di Wenders
non è utopico né ideale, né psichico,
ma vero. Dagli scatti iniziali in bianco e
nero alle fotografie panoramiche di paesaggi
monumentali – tanto che oltre alla
pittura olandese andrebbe evocata quella
italiana del Veronese – alle fotografie
su Ground Zero raramente esposte prima,
fino alle fotografie di appena un anno fa,
l'occhio di Wenders resta eminentemente
narrativo, mai nostalgico, perché nel
colore non sta l'assenza dell'uomo, ma la
sua testimonianza. Una narrativa, come
afferma Beat Wismer, in contrasto con
quella spesso malinconica dei suoi film:
“nelle sue fotografie (Wenders, ndr) si
astiene dal raccontarci una qualsiasi storia.
Le fotografie di Wenders si distinguono
e differiscono ampiamente dai fermo
immagine estratti dai suoi film: gli scatti,
tranquilli, e solitamente privi di persone,
ci offrono una potenzialità, quella di sedurci
evocando le nostre proprie storie”.
108

© Wim Wenders, Dog on the Road to Ayers Rock, #2, Uluru, 1977
© Wim Wenders, Lounge Painting #1, Gila Bend, Arizona, 1983
109

Rassegne
Düsseldorf
Photo Week-End 2015
© Fulvio Roiter, Fulvio Roiter Solfatara, 1953 Sicilia 1953
110

© Giacomo Costa, "Consistenza 5", stampa Lambda sotto plexiglass, 2008, 100x240 cm,
courtesy l'artista e Galerie Voss
Angela Maria Piga - Alla sua quarta
edizione, anche quest'anno il “Düsseldorf
Photo Week-End 2015” ha aperto
le porte della città alla fotografia nei tre
giorni inaugurali, dal 30 gennaio al 1°
febbraio (ma per la maggior parte dei
partecipanti fino a marzo e aprile): 13
istituzioni pubbliche e private e oltre 20
gallerie d'arte hanno presentato mostre
di fotografia contemporanea e storica.
Un evento che tenta di offrire un'immagine
nuova della relazione fra la capitale
della Nord Westfalia e la fotografia, relazione
ancora legata alla filiazione con
la Scuola di Fotografia che diede inatali
a Bernd e Hilla Becher, consacrata da
artisti come Thomas Struth, Andreas
Gursky, Candida Höfer e Thomas
Ruff, a cui la Kunsthalle Düsseldorf ha
dedicato una grande mostra chiusa l'11
gennaio scorso. Le mostre espongono
per lo più, parti di collezioni istituzionali.
Fra le esposizioni più di rilievo: al
NRW Forum, curata da Anne-Marie
Beckmann, una selezione dalla collezione
della Deutsche Boerse, "Human Nature",
sul tema dell'impatto umano sulla
natura, con fotografie di Paul Almasy,
Mike Brodie, John Davies, Axel Hütte,
Vivian Maier, Simon Norfolk, Sebastião
Salgado e Gunnar Smoliansky. Sempre
al NRW Forum Enrica Viganò presenta
la mostra da lei curata, la più importante
forse di tutta la rassegna, “Neorealismo:
la nuova immagine in Italia.1932-1960”.
La mostra introduce alla matrice culturale
specifica della fotografia neorealista,
e cioè come questa sia stata parte
attiva, insieme al cinema e alla letteratura,
dell'intera esperienza storica del
Neorealismo – una prospettiva sull'arte
più che un movimento artistico – che liberò
i fotografi dalla leggendaria “Bella
Italia”. Una presentazione che irrompe
nel contesto fotografico, visivo e culturale
della città, con scatti aridi e raramente
lirici dell'obiettivo, fra gli altri, di Gianni
Berengo Gardin, Mario Cattaneo, Nino
Migliori, Mario De Biasi, Giancolombo,
Pablo Volta o Piergiorgio Branzi. Parte
dell' AFORK (Archiv künstlerischer Fotografie
der rheinischen Kunstszene) è eposto al
Museum Kunstpalast, con i ritratti della
fotografa Maren Heyne (Munich, 1941)
e le fotografie con la “Camera Obscura”
di Vera Lutter, realizzate appositamente
per il museo. Video e fotografie di Elizabeth
Price, l'artista inglese vincitrice
del Turner Prize nel 2012, costituiscono
la mostra “Number Nine” alla Julia
Stoschek Collection. All'Istituto Polacco
vengono esposte in “Radiation” fotografie
di varie epoche (come quelle del botanico
ottocentesco Wilhelm Beermann)
e metodologie. Fra le gallerie private,
spiccano la Galleria Clara Sels con gli
scatti di Gabriele Croppi (1974) e Peter
Marifoglou (Salonicco, 1954), e la Galleria
Voss. Quest'ultima ha presentato
la mostra “Lost Scapes” con fotografie,
fra gli altri, dell'israeliano Uri Gershuni
e Giacomo Costa (Firenze, 1970). I
paesaggi artefatti di Costa rispondono
indirettamente al fenomeno estetico
sviluppatosi negli scorsi decenni, in cui
l'arte si è appropriata della fotografia
introducendola nel gotha disciplinare
dell'universo contemporaneo. Costa resta
invece fotografo, anche quando utilizza
tecniche tese all'elaborazione della
fotografia, in modo che sia la fotografia
ad appropriarsi dell'arte, e non viceversa.
Senza complicità pittoriche, Costa manifesta
la prerogativa connaturata alla
fotografia, quella di attingere all'artificio
attraverso la tecnica, oggi sostituita dalla
tecnologia.
111

incontri
Claudio Composti
Direttore artistico
mc2gallery
© Chan Hyo Bae, Existing in Costume, PrinceFrog 230x180Cm CPrint 2010
courtesy mc2gallery/Chan Hyo Bae
Giusy Randazzo. Ci racconti di lei, innanzitutto.
Perché ha deciso di aprire una galleria
di fotografia?
Claudio Composti. Be’, la fotografia è
una passione da sempre, avrei voluto fare
il fotografo. Poi ho sublimato lavorando
con i fotografi. Invece mc2gallery nasce
nel 2009 insieme al mio amico e socio
Vincenzo Maccarone, giovane collezionista
che ho incontrato a Berlino un paio
di anni prima dell’apertura della galleria.
Vista la passione comune per l’Arte, in
lui sempre più crescente, a un certo punto,
dopo aver girato un paio di anni per
fiere e mostre insieme, abbiamo deciso
di iniziare questa avventura. Io arrivavo
da tredici anni di esperienza con la galleria
Ca’ di Fra’, aperta con mio padre,
Gianfranco Composti, Franco Toselli e le
mie sorelle Manuela e Maxeda. Lì, dal
1997 ho fatto gavetta con due galleristi
“vecchia scuola” (la migliore) da cui ho
imparato questo mestiere. Aver respirato
fin da piccolo Arte, grazie a mio padre,
ha fatto sì che si trasformasse per me prima
in una passione e poi nel lavoro della
mia vita. Fino a quando ho avuto l’esigenza
di vivere la mia contemporaneità
e di fare la mia strada e le mie scelte, seguendo
il mio amore per la fotografia. Ed
eccoci qui oggi.
Che tipo di fotografia propone nella sua galleria?
La nostra è una galleria di ricerca. Fin da
subito abbiamo deciso di sostenere e promuovere
sia giovani artisti, finanziando a
volte la loro prima mostra o presentandoli
per la loro prima mostra italiana, come
Nicolas Feldmeyer, sia artisti già affermati
o cosi detti mid-career, soprattutto stranieri
come Julia Fullerton-Batten, Simon
Roberts o il cinese Yang Yongliang. O
fotografi già conosciuti e affermati all'estero
come Michael Ackerman, Jacob
Aue Sobol, Vanessa Winship. A volte in
collaborazione con le loro gallerie o con
loro direttamente. In ogni caso, la discriminante
delle nostre scelte è sempre dettata
dalla ricerca di artisti che uniscano
un’estetica (soggettiva) a un contenuto
narrativo o a una ricerca rigorosa, che
secondo noi devono coincidere, come in
Renato D’Agostin, Lamberto Teotino o
Roberto Kusterle.
Che cosa pensa della fotografia di reportage/documentaria?
Secondo lei ha una sua vendibilità?
Il reportage è difficilissimo da vendere.
La vendita non è la sua "naturale" conseguenza.
Sono foto più adatte a mostre in
112

© Yang Yongliang, Awolfandlandmines, cm 66x132_Ed_8
courtesy mc2gallery/ Yang Yongliang
spazi pubblici e a carattere sociale. Se per
reportage invece intende una fotografia
più intimista, da “diario” personale, in
cui l’autore fotografa quel che vive e le
situazioni poi diventano il suo soggetto
narrativo, come in Michael Ackerman
o Jacob Aue Sobol o Pierre Gonnord
e Antoine D’Agata allora sì, il mercato
esiste, per quanto non facile. Perché subentra
una poesia, oltre a quell’estetica
di cui parlavamo prima, che invece nel
reportage passa in secondo piano, essendo
cruda narrazione di un evento e non
l'interpretazione di una situazione personale
e realistica.
Quali sono le qualità di una buona fotografia,
a parer suo?
Visione e determinazione. Per visione
intendo la capacità (degli artisti in generale)
di vedere l'invisibile e riuscire a
raccontarlo anticipando un “sentire” che
parte dalla visione personale per parlare
dell'universale, che appartiene a tutti noi,
in questo caso attraverso uno scatto. Per
determinazione intendo il coraggio di illustrare
senza “pudore” ciò che si ha e si
è dentro. Se non è frutto di compromessi,
uno scatto ti colpisce, anche per la determinazione
di chi lo realizza. Che sia estetico
o meno. Che sia una bella foto o una
foto “dura”, questo traspare. Il punctum,
per citare Barthes, ti colpisce al cuore.
“Una bella foto o una foto dura”. Un’alternativa
che mi spinge a chiederle se con tale affermazione
lei intenda sostenere che la buona
fotografia non debba necessariamente rientrare
nella categoria della bellezza.
Come dicevo il concetto di bellezza è
assolutamente soggettivo, tolto ogni riferimento
tecnico e oggettivo. La discriminante
è sempre il coincidere tra forma e
contenuto, bellezza e significato: a volte
in modo più estetizzante, come in Julia
Fullerton-Batten o in Yang Yongliang; a
volte in modo più “duro” appunto, come
in Araki, Joel Peter Witkin, Michael
Ackerman o Pierre Gonnord.
Le linee guida delle scelte sono comunque
sempre cuore e istinto, che hanno
l’ultima parola.
Se dovesse descrivere il lavoro del gallerista, che
cosa sottolineerebbe?
L’approccio intellettuale e la pancia verso
un’opera o un artista, prima dell’aspetto
economico (che resta comunque una variabile
fondamentale).
Una domanda provocatoria. Molti fotografi ritengono
che la maggior parte dei galleristi non
capisca nulla di fotografia ed esponga autori che
- per oscure logiche che nulla hanno a che fare con
la fotografia - sono più accreditati di altri presso
i collezionisti. Altri sostengono che in realtà siano
i critici che non capiscono nulla di fotografia e
che influenzano la scelta dei galleristi che a loro
volta influenzano i collezionisti. Come stanno le
cose? Come sceglie un gallerista? E comunque
sia, un gallerista ha il “potere” di influenzare
il mercato?
In parte è così. Il mercato è ormai talmente
ampio e disgregato da lasciare troppo
spazio all'improvvisazione di molti.
Quindi è vero, molti sé-dicenti galleristi,
critici e fotografi non conoscono la
fotografia. È anche vero - e ovvio - che
se una galleria importante promuove la
mostra di un artista giovane, ciò ha un
peso sul mercato che è inevitabilmente
maggiore rispetto a una giovane galleria
che presenta lo stesso artista. In questo
caso sì, le gallerie (importanti) influenzano
i collezionisti. A quel punto, in certe
mani, comprare un artista diventa anche
un investimento. Ma sono solo le gallerie
storiche, in Italia o all’estero, che hanno
questo peso. Bisogna anche dire che
questo accade perché hanno acquisito
una credibilità sul campo, dopo anni di
investimento, esperienza e qualità espositiva.
Quando si parla di denaro, trovo
un po' ingenuo negare che ci siano strategie
espositive e di vendita, che del resto
sono una variabile legittima del gallerista
che investe, con gli artisti, tempo e denaro
per realizzare le loro mostre. Fa parte
del gioco, ovunque ci sia una richiesta e
un’offerta, quindi un mercato. Credo invece
che questo potere influente non lo
abbiano né i critici né i collezionisti. Non
qui, non oggi. Tuttavia molte delle "accuse",
spesso, sono specchio di frustrazioni
di chi resta fuori da questo “mondo
dell’Arte” e dal cosiddetto “sistema” (se
mai ce ne fosse ancora uno). Sembra più
la favola della volpe e dell’uva…
Mi ritorna in mente un’affermazione di un noto
fotografo. In un’intervista dell’anno scorso, ho
chiesto a Gianni Berengo Gardin se i fotografi
studiano la fotografia dei colleghi e lui mi ha
risposto così: «Purtroppo la maggioranza dei
113

© Jacob Aue Sobol, Arrivals_and_departures
courtesy mc2gallery/ Jacob Aue Sobol
fotografi –e soprattutto i professionisti, e questo
è grave- si guardano molto addosso e non gliene
frega niente degli altri. In realtà, non amano la
fotografia, amano la “loro” fotografia. Invece è
importantissimo amare le fotografie degli altri».
Concordo perfettamente. Se sostituisce
la parola fotografi con galleristi, vale lo
stesso. Quasi mai si va alle mostre dei colleghi,
se non in pochi.
Ma che cosa significa secondo lei “capirne di
fotografia”? Quale sensibilità bisogna avere per
riconoscere la “buona e bella” fotografia?
Bisogna studiare, leggere e guardarsi attorno.
Essere curiosi. Da qui parte tutto.
Poi l’istinto è fondamentale, ma questo o
si ha o non si ha.
Perché ha deciso di aderire al MIA? Com’è andata
a Singapore?
MIA (Milan Image Art) è una fiera che
stiamo facendo da qualche anno. Fabio
Castelli ha il merito di essere stato il primo
-e unico, a oggi- ad aver creato una
fiera italiana dedicata alla Fotografia
d’Autore, spingendo -finalmente!- il valore
della Fotografia come opera d’arte,
andando oltre un approccio amatoriale/tecnico
che ha un Photoshow. Per la
prima volta, l’anno scorso ha provato a
proporre un’edizione MIA a Singapore.
Per noi la scelta era legata anche alla volontà
di sviluppare il nostro rapporto con
l'Asia, che da anni portiamo avanti lavorando
con artisti che gravitano in quell’area
geografica: cinesi (Yang Yongliang e
Liu Xiaofang), coreani (Chan Hyo Bae) e
vietnamiti (Tiffany Chung). Era una buona
occasione per sviluppare contatti con
gallerie locali e potenziali collezionisti internazionali.
Purtroppo la risposta non è
stata pari alle aspettative.
Perché? Che cosa è accaduto a Singapore?
La location era ottima (Marina Bay Sands)
e anche il target -ipotetico- di collezionismo
era perfetto. Partendo dal presupposto
che tutte le prime edizioni di una
fiera, specie all'estero, sono un'incognita
-soprattutto in un paese così lontano anche
culturalmente - e considerato che per
poter dire se una fiera funziona o meno
bisogna tener conto di diverse sfumature,
al di là delle vendite immediate, a
Singapore purtroppo non sono arrivati i
collezionisti quindi sospendo il giudizio
perché non abbiamo avuto riscontro sui
gusti del pubblico. È stato un tentativo
nel quale tutti abbiamo creduto compreso
Castelli. Lui è la persona che può
risponderle meglio su che cosa non abbia
funzionato.
Stiamo parlando, dando per scontato che esista
un collezionismo di fotografia: ma esiste sul serio?
Certo che esiste. Ma è un collezionismo
giovane e deve ancora crescere. Forse le
generazioni più giovani e quelle future
saranno certamente più avvezze a vivere
e a comprare fotografia.
Abbiamo intervistato e incontrato diversi galleristi
e alcuni sostengono che la fotografia non si venda
bene in Italia. Ci piacerebbe conoscere la sua opinione
al riguardo.
È vero. La fotografia in Italia sta trovando
riconoscimento negli ultimi anni ma
i collezionisti che la considerano una
forma d'arte sono ancora pochi se confrontati
ad altri paesi come l’America o
la Francia o l’Inghilterra, in cui è nata, ed
è diventata subito per quei paesi un mezzo
di documentazione e di affermazione
storico politico culturale.
Perché un collezionista dovrebbe comprare una
fotografia?
114

© Yang Yongliang, TheMoonlight_FullMoon, cm90x90_Ed8
courtesy mc2gallery/Yang Yongliang
Per la stessa ragione per cui si compra un
quadro? Emozione. Un vero lusso.
E come la mettiamo con l’unicità dell’opera
d’arte, comunemente intesa, rispetto alla riproducibilità
della fotografia? C’è un modo per restituirle
l’aura dell’autenticità?
Questa domanda tocca un problema
molto italiano al riguardo. Partendo dal
presupposto che la fotografia nasce come
mezzo rivoluzionario perché riproducibile
all’infinito, è l’edizione dichiarata
dall’artista che è “contro natura” nella
fotografia, funzionale alle regole di un
mercato (domanda e offerta) per cui edizioni
meno disponibili hanno un prezzo
maggiore. Mercato che in Italia è cresciuto
negli ultimi quindici anni. Ma prima,
fino agli anni Ottanta, nessuno dei grandi
fotografi italiani pensava alla fotografia
in edizione limitata, da Berengo Gardin
a Giacomelli, da Ghirri a Fontana o
a Nino Migliori -caro amico con cui mi
sono confrontato sul tema e che mi ha
confermato che era così-, semplicemente
perché non c’era un mercato che chiedesse
fotografia. Quindi non aveva senso
l’edizione limitata, e tuttora ad esempio
non ne ha per Migliori che invece dietro
le fotografie indica i dati tecnici della fotografia
stampata (data, quantità di copie
stampate in un dato giorno, chi è lo stampatore,
il tipo di carta etc). Non vorrei poi
complicare il problema parlando dei cosiddetti
vintage o modern print o printed later.
Questa riproducibilità, in Italia diventa
un problema sia in un senso (tiratura dichiarata)
sia in un altro (tiratura aperta).
In America invece si fanno meno problemi.
Renato D’Agostin (classe 1983), nostro
giovane artista che lavora ancora
con la pellicola, per riuscire a vivere di
fotografia è dovuto andare in America
a vent’anni (diventando, là, subito assistente
di Ralph Gibson!). E stampa in
camera oscura venticinque copie dello
stesso soggetto - con i costi oggi di carte e
prodotti chimici, il tempo e la maestria di
un artigiano – che qui in Italia sembrano
tantissime, specie in un’era digitale in cui
la riproducibilità tecnologica sembra banalizzare
un processo invece tecnico molto
preciso, ma in America nessuno fa mai
questioni sul numero dell’edizione.
Mi chiede poi dell’aura: secondo me è insita
(se c’è) nell’artista stesso. L’unica autenticità
che serve al di là della riproducibilità.
Ma non posso non citare Walter
Benjamin: «Ciò che vien meno nell’epoca
della riproducibilità tecnica è l’“aura”
dell’opera d’arte»; «L’hic et nunc dell’opera
d’arte – la sua esistenza unica è irripetibile
nel luogo in cui si trova. […] L’hic et
nunc dell’originale costituisce il concetto
della sua originalità» 1 . Ipse dixit.
Ma ovviamente io mi riferivo proprio a Benjamin
e citandolo lei conferma che la riproducibilità
tecnica sottrae l’aura all’opera d’arte. Peraltro
Benjamin sostiene testualmente che per la fotografia
«la questione della stampa autentica non ha
senso» 2 . Piuttosto trovo interessante la sua affermazione
che essa, più che trovarsi nell’opera, sia
insita nell’artista stesso, il che mi fa pensare che
abbia a che fare con l’autorevolezza della firma
piuttosto che con l’unicità dell’opera stessa. D’altronde
anche altre forme d’arte sono riproducibili,
la scultura ad esempio, ma questo non incide né
sulla loro artisticità né tantomeno sulla loro vendibilità.
Pensa che questo sia uno dei problemi
per cui si venda meno rispetto alla pittura? E soprattutto
sia questo il motivo dei differenti costi?
Ha ragione, ho citato Benjamin per "dovere",
perché parliamo di aura. Lei fa l’esempio
della scultura riguardo alla riproducibilità
e al valore dell’unicità. Io allora
115

© Roberto Kusterle, labbracciodellamemoria
courtesy mc2gallery/ Roberto Kusterle
le domando provocatoriamente questo:
la Pietà di Michelangelo, vale per se stessa
in quanto opera -nel momento stesso
in cui prende forma nel marmo (forma
che secondo lo scultore era già insita
nel blocco dal quale lui, l’artista, doveva
"solo" togliere il superfluo)- o vale (più
o meno nel mercato) perché ce ne sono
x copie? Quello che dico è che l’aura, il
quid che rende unico e indescrivibile uno
scatto fotografico, una scultura, un dipinto,
un disegno, appartiene alla mano e a
quella "visione" di cui accennavo prima
propria del vero artista che vede l’invisibile
e lo mette nella sua creazione andando
oltre l’opera stessa, per farne icona o
simbolo. Questo rende unica un'opera,
anche se viene riprodotta. Certo, l'unicità
rende qualunque oggetto appetibile per
il collezionista in quanto tale, assumendo
un valore economico e feticista che spinge
da sempre il collezionismo. Ma l'aura
ha valore in sé; nella fotografia più che
in ogni altra arte forse, proprio in onore
della sua natura intrinseca di riproducibilità
tecnica.
Michelangelo ha firmato soltanto una Pietà,
quella vaticana, per rimanere sull’importanza
della firma, eppure anche le altre versioni hanno
un valore indubbiamente intrinseco, ha ragione,
anche perché sono tutte uniche e dunque legate
all’hic et nunc, per dirla ancora con Benjamin,
come lei stesso ricordava. In realtà, con la mia
domanda mi riferivo allo scultore che fa uso del
calco, ovviamente, altrimenti il mio esempio si potrebbe
estendere a Monet e ai suoi trentuno dipinti
della Cattedrale di Rouen o alla ricerca quasi
ossessiva di molti altri artisti nel vano –per loro,
non per noi che ne fruiamo- tentativo di cogliere
l’essenza degli enti. Penso alle ninfee dello stesso
Monet o alle bottiglie di Morandi o alle mele di
Cézanne o alle danzatrici di Degas o al mare di
Turner. Ma mettiamo da parte il discorso sulla
riproducibilità e sull’unicità e torniamo alla realtà
della vendibilità della fotografia. Come vede
il futuro del mercato della fotografia in Italia e
all’estero?
Inevitabilmente in espansione
Rispetto agli altri paesi, il nostro in che cosa si
differenzia relativamente alla cultura e alla sensibilità
fotografica?
Ancora una volta bisogna guardare alla
storia. L’Italia è nata (sulla carta) solo 150
anni fa, ben quasi quarant’anni dopo la
nascita della fotografia! Noi arriviamo da
116

© Kate Fichard, dalla serie Iris Rideaux 2010, cm 75x100 01-12
courtesy mc2gallery/ Kate Fichard
Giotto. La nostra storia della fotografia
poi è da sempre alimentata e scritta dai
circoli di fotoamatori senza il supporto
invece delle istituzioni, dei musei specializzati,
come invece è avvenuto in altri
paesi che l’hanno usata, da colonizzatori,
come mezzo di documentazione
e diffusione politico-culturale della
loro storia. Noi siamo una nazione da
sempre colonizzata, quindi indifesa. Le
istituzioni non hanno mai documentato
e esportato un’italianità (fotografica)
come sistema, perché non esisteva e
non esiste ufficialmente. Tutto è frammentato
esattamente come ai tempi
dei comuni e delle signorie, che sono
il nostro DNA storico, ognuno chiuso
nella propria realtà culturale e territoriale
che non sente l’Italia come nazione
appunto ma come insieme di tante
realtà (anche fotografiche) diverse.
Che cosa ha provocato l’eccessiva democraticità
del mezzo fotografico? Intendo riferirmi a questa
disponibilità dello strumento che consente a
tutti di fotografare. Ha influito sull’incapacità
di molti di riconoscere il valore della fotografia?
Decisamente. Ma è soprattutto l’incapacità
di non saper riconoscere il
proprio “non” valore come fotografi.
Scattiamo tutti migliaia di fotografie
ogni giorno. Molte foto anche belle.
Ma non basta per dirsi fotografi. Men
che mai in senso artistico. Il malinteso
nasce dalla facilità con cui oggi i mezzi
tecnologici ci permettono di scattare
fotografie, che è ben lontano dal significato
di saper scattare fotografie. Oggi
viviamo in una bulimia di immagini.
Tutto passa e trova un senso attraverso
le immagini. Un evento non è tale se
non è registrato da uno scatto o subito
“postato”. L’assurdo è che anche davanti
a uno spettacolo dal vivo, il fatto
stesso sembra avere senso di esistere
solo se filtrato attraverso uno schermo.
Per non parlare del fenomeno ingestibile
del narcisismo digitale dei selfie.
Fotografo ergo sum.
Note
1 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca
della sua riproducibilità tecnica. Arte e società
di massa (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner
technischen Reproduzierbarkeit), trad.
di. E. Filippini, Einaudi, Torino 2000, p. 23 e
p. 22.
2 Ivi, p. 27
117

PUNCTUM
Ralph Crane
July 4th 1950,
Santa Monica, California
La rubrica Punctum, propone su ogni
numero di Gente di Fotografia la lettura
di una singola foto della produzione
di un fotografo come particolarmente
significativa e utile a suggerire e
approfondire con il lettore differenti
possibili decodifiche. A tale scopo i
commenti sono curati da studiosi di
estrazione culturale diversa.
Salvatrice Graci - Ci sono foto che si
fissano nella memoria collettiva e divengono
un simbolo universalmente riconosciuto
perché decodificato. Esistono
vari esempi nella storia della fotografia
che ci dimostrano come un semplice
istante può divenire summa, emblema,
simbolo di un sentimento comune, di un
medesimo concetto. Chi, rivedendo la
foto del marinaio che in una New York
festante bacia un’infermiera sulla bocca,
non la assocerebbe alla fine della guerra?
E quanti possono dire di non avere
mai visto uno dei fotogrammi più tristi,
terribili e strazianti della storia che ritrae
una bambina disperata che corre nuda
per strada, cercando di sfuggire alle
fiamme? Pochi. Immagini speculari che
vivono oramai di vita propria, tanto che
la maggioranza delle persone non sa che
la prima foto appartiene a Alfred Eisen-
118

staedt e che divenne una delle copertine
più famose mai pubblicate da “Life” nel
1945; e che l’altra foto rappresenta il
dramma del Vietnam, scattata nel 1972
da Nick Ut.
In altri casi invece, una foto si lega ad
un’esperienza personale, all’impressione
del momento, a qualcosa di assolutamente
irripetibile. Del resto, anche
se decodificate da molti, le foto offrono
sempre la possibilità a chi le guarda, di
aggiungere qualcosa, sottrarre, o semplicemente
adeguare al proprio vissuto,
al sentire intimo. È il caso della foto che
presentiamo oggi, uno scatto di Ralph
Crane, “Fine settimana del 4 luglio”
(1950), la festa dell’Indipendenza degli
Stati Uniti d’America. Lo scatto ritrae
dei ragazzi sulla spiaggia di Santa Monica,
in California; un’immagine suggestiva
che suggerisce una lettura a tre
livelli. Nel primo troviamo due ragazzi
teneramente stretti in una buca di sabbia,
nel secondo altri giovani distesi al
sole a creare un semi cerchio, nel terzo,
infine, ovvero sullo sfondo, altri bagnanti
fuori fuoco, sovrastati dall’insegna di
un locale tipico americano, su cui campeggiano
scritte che invitano all’assaggio
dell’altrettanto tipico gelato. Ed è proprio
quest’ultimo elemento che cattura
l’attenzione e che offre l’interpretazione
di una foto che altrimenti sarebbe totalmente
decontestualizzata, che avrebbe
potuto illustrare una domenica d’agosto
a Riccione o a Ostia negli anni del boom
economico. Crane immortala una situazione
nel 1950, la Seconda guerra mondiale
era finita da poco e tutto era cambiato
rapidamente. Gli USA erano i veri
grandi vincitori della guerra e il nuovo
ruolo di potenza trainante nel mondo
Occidentale, da un punto di vista politico
ed economico, favorì un’egemonia
anche culturale. Le circostanze permisero
il diffondersi del mito dell’America
ricca, ambiziosa, spregiudicata, liberale,
sfacciatamente opulenta, diffondendo,
attraverso il cinema e i suoi protagonisti
patinati, musica, cartoni animati, jeans,
capi in pelle, hamburger, la nota bevanda
con le bollicine; elementi iconografici
che contribuirono a radicare nell’immaginario
collettivo il sogno americano.
Ma sotto l’effige dei grandi cartelloni
pubblicitari che celebravano ricchezza e
felicità si celavano demoni come il razzismo,
le tendenze imperialistiche con
conseguente affermarsi di nazionalismi
esasperati, le nuove guerre in Corea e
Vietnam, il falso e becero puritanesimo,
il bigottismo religioso, il perbenismo di
facciata. Di fronte alle tendenze omologanti
proposte da una società chiusa nel
suo sogno dorato e arroccata nel proprio
nazionalismo gli ambienti culturali e
gli intellettuali reagirono con un atteggiamento
dissacratorio e di denuncia,
quasi sempre in totale contrapposizione.
Sono gli anni di Hemingway e William
Faulkner, Norman Mailer, Tom Wolfe,
William Styron. Ma anche, Jerome D.
Salinger che con il suo The catcher in the
rye (nella traduzione italiana, Il giovane
Holden) del 1951 (pubblicato solo un
anno dopo rispetto alla foto di Crane),
vivifica argomenti della tradizione del
romanzo statunitense, primo fra tutti il
viaggio, l’innocenza, il rifiuto, l'adolescenza,
la fuga e la conseguente ricerca
di identità. E ancora Jack Kerouac, con
il capolavoro On the road (1957), manifesto
della Beat Generation – figlia, tra gli
altri, di John Steinbeck e del suo Tortilla
flat (Pian della Tortilla, ed. it. 1939) - bandiera
di una generazione disincantata,
incapace di portare il peso del sogno
americano, dedita al viaggio, alle peregrinazioni
sconclusionate, alla ricerca di
una fantomatica libertà a colpi di autostop
e droghe.
Come dicevamo all’inizio della nostra
dissertazione, uno scatto, quando si tratta
di un buon scatto, non è mai fine a
se stesso, né, tantomeno, si esaurisce nel
momento stesso in cui viene decodificato.
In tal senso, concludiamo con una
disamina di Doris C. O’Neil, Direttore
per le fotografie d’epoca della rivista
“Life”, che regala un interessante scritto
nella raccolta da cui la nostra foto è stata
estrapolata: «Guardando una fotografia,
si ricevono stimoli a livelli molto diversi
e […] la stessa immagine può provocare
reazioni opposte, entrambe valide, in due
diverse persone. Ho spesso avuto occasione
di ricordare la massima giapponese
secondo cui una stampa non viene mai
completata da chi la esegue, perché l’immagine
sarà integrata da quanto ciascun
osservatore vi aggiungerà attingendo alla
propria esperienza. Ciò è vero per una
fotografia, così come lo è per un’incisione,
una litografia, o un dipinto».
Bibliografia
Life. 1946-1955, traduzione dall'inglese di Enrico
Juliani, Londra, Balding-Mansell, 1984, p. 7.
Cunliffe M., Storia della letteratura americana,
Einaudi, Torino, 1990.
119

PUNCTUM
Joe Rosenthal
Raising the Flag
on Iwo Jima
© Joe Rosenthal, Raising the Flag on Iwo Jima
120

Annarita Curcio - Raising the Flag on Iwo
Jima rappresenta cinque marines e un marinaio
mentre issano la bandiera degli
Stati Uniti sulla vetta del Monte Suribachi
a Iwo Jima, una piccola isola vulcanica
dove tra il febbraio e il marzo del 1945
ebbe luogo una delle battaglie più cruente
combattute dagli americani contro il
fanatismo militare nipponico. Scattata
dal fotografo dell'Ap Joe Rosenthal, essa
può a buon ragione definirsi un'immagine-icona,
in quanto capace di assurgere a
simbolo di un complesso di idee e concetti
astratti, ovvero è simbolo della vittoria
militare statunitense, del trionfo sul nemico,
nonché incarnazione dell'ammirevole
eroismo dei soldati americani al servizio
della loro nazione. La foto, che valse a
Rosenthal il Premio Pulitzer, è, com'è ormai
noto, frutto di un'accurata messinscena:
essa fu realizzata solo il quarto giorno
dopo lo sbarco dei marines sull'isola,
il 23 febbraio piuttosto che il 16 marzo
dello stesso anno, giorno in cui Iwo Jima
fu ufficialmente dichiarata sotto scacco
dalle forze militari americane. Una data,
quest'ultima, che avrebbe assunto un significato
affatto diverso nella affabulazione
degli eventi. L'immagine divenne subito
il perno di una massiccia campagna di
propaganda volta a raccogliere fondi per
risanare i disastrosi bilanci della guerra.
Il 25 febbraio la foto comparve sulle prime
pagine di tutti i quotidiani, il photoeditor
dell'AP, John Bodkin, appena la vide
affermò: “È un'immagine eterna”; il New
York Times riportò la frase esultante di un
commentatore anonimo: “È la più bella
immagine della guerra”. La reazione dei
lettori rasentò il fanatismo. Le redazioni
dei giornali furono invase da lettere che
chiedevano la ristampa dell'immagine,
vennero prodotti qualcosa come tre milioni
di poster e non finì mica qui, tre
degli uomini ritratti nella foto, Ira Hayes,
René Gagnon e l'infermiere della marina
John “Doc” Bradley – gli altri erano già
morti – vennero richiamati in patria per
dar vita a un tour negli stadi di tutto il
paese dove, davanti a migliaia di spettatori,
dovettero scalare decine e decine di
volte una montagna posticcia e ripetere il
glorioso gesto.
Come è stato detto, i vertici militari usarono
questa fotografia per promuovere
i valori del patriottismo e per rafforzare
l'idea della giustezza della guerra; in questo
programma di fabbricazione del consenso
attinsero al repertorio dei simboli
che per definizione sono di universale
comprensione: tra questi c'è ovviamente
la bandiera. Essa è un tòpos capace di
veicolare messaggi precisi e inequivocabili
nell'ambito di quella retorica visiva di
cui la propaganda politica è, soprattutto
nei periodi bellici, abile manipolatrice. E
qui tocca aprire una necessaria parentesi
aneddotica, l'istantanea di Rosenthal è
preceduta da una prima foto di Louis R.
Lowery che immortala il primo alzabandiera;
accadde infatti che il Segretario alla
Marina James Vincent Forrestal osservò
la scena dalla spiaggia e subito ordinò di
rimpiazzare la bandiera con una seconda
più grande e di issarla nuovamente, questa
volta però ad assistere c'erano Rosenthal
e il cineoperatore Bill Genaust. Ciò
detto, è del tutto naturale ed inevitabile
concludere che la bandiera rappresenta
nell'immagine di Rosenthal il punctum, ovvero
la “concrezione” visiva attorno alla
quale si aggruma il senso dell'immagine,
tanto che dubito che chiunque di fronte a
questa foto non posi il suo sguardo proprio
sulla bandiera: essa svetta al centro
dell'inquadratura a indicare che ha prevalso
la vittoria sul nemico.
Dunque, in estrema sintesi, potremmo
ragionevolmente affermare che la vittoria
militare americana coincide con il successo
mediatico di Raising the Flag on Iwo Jima.
A distanza di molti anni il gesto compiuto
dai marines nel 1945 si ripete ancora
una volta davanti l'obiettivo fotografico,
d'altronde nei momenti di crisi, gli appelli
all'unità nazionale hanno sempre bisogno
delle proprie icone. All'indomani degli attentati
dell'11 settembre del 2001, alcuni
vigili del fuoco piantano la bandiera
degli Stati Uniti sulle macerie del World
Trade Center, poi ribattezzato “Ground
Zero”. Il fotografo Thomas E. Franklin
immortala il momento con un'istantanea
le cui analogie con l'immagine di Iwo
Jima vengono colte immediatamente da
alcuni organi di stampa che riproducono
accanto all'immagine dei pompieri quella
storica di Joe Rosenthal. Dunque, il mito
che avvolge la genesi e la successiva propagazione
di Raising the Flag on Iwo Jima
può aiutare a comprendere il destino
cui va incontro un'immagine-simbolo
nel momento in cui fa la sua apparizione
nell'arena pubblica: viene sottoposta
a un processo di massiccia e ubiqua riproduzione,
viene fagocitata dall'immaginario
collettivo, fino a diventarne parte
integrante, questo perché la fotografia
costituisce uno strumento assai efficace
per ricordare e memorizzare un avvenimento
e di questo, che ci appare come un
assioma difficilmente contestabile, sono
da sempre consapevoli le élite politiche
che della fotografia, come della TV, del
cinema e della radio si servono per plasmare
le opinioni dei cittadini, l'identità
della società tout-court. Si sa infatti come
il linguaggio visivo permetta al pubblico
un'identificazione immediata e come la
retorica visiva sia in grado di insinuarsi
in ciascuno di noi sollecitando un pensiero
“cardiaco”, emotivo e irrazionale, che
nulla ha a che vedere con la retorica verbale
che coinvolge viceversa un pensare
logico, discorsivo, eminentemente cerebrale.
La diffusione di immagini in larga
scala, per mezzo della Rete, di quotidiani,
settimanali e periodici è un aspetto essenziale
della vita pubblica, nonché uno strumento
nelle mani delle élite politiche – in
democrazia, come nelle dittature, in pace
come in guerra – per mobilitare quel consenso
che è necessario a legittimare programmi
e processi decisionali.
Per ritornare alla nostra immagine, essa
stimola un'ultima riflessione, il significato
di una foto è storico e contingente
in quanto ogni spettatore proietta su di
essa valori che sono storici e culturali
appunto. La significazione è quindi, salvo
rare eccezioni, frutto di una costante
e movimentata negoziazione col sapere
del lettore. Ciononostante, esistono delle
eccezioni e questo è il caso di Raising
the Flag on Iwo Jima, che ha dimostrato
di sapere “resistere” nel tempo alle
deformazioni enunciazionali dei vari
contesti in cui è stata e continua a esser
citata, mantenendo intatto il suo nocciolo
di significazione: essere icona di
una guerra finita in trionfo e per questo
strumento della propaganda bellica
americana che se ne servì per rafforzare
la fede nelle “magnifiche sorti e progressive”
della nazione.
121

phoTo FaIr
mIa
mILan Image arT FaIr
© Antoine Rose, N.Y.P.D., 2015, stampa fotografica diasec, cm 150x150, ed. 10,
courtesy Antoine Rose
122

© Mauro Davoli, De Bloemen 11, 2013, stampa Lambda su Dibond, cm 60x60, ed. 3/5,
courtesy Mauro Davoli
Salvatrice Graci - Si rinnova, nell’anno
di Expo Milano 2015, l’appuntamento
con MIA Fair, il più autorevole
evento mercato d’arte dedicato alla fotografia
in Italia.
Nata dall’intuizione di Fabio Castelli,
industriale, ideatore e direttore di MIA
Fair, collezionista raffinato e sensibile
che da decenni, fuori dalle logiche legate
alle congiunture sfavorevoli dell’economia
internazionale, ha saputo
guardare alla fotografia, non solo straniera
ma anche italiana, come bene
prezioso e ricco di potenzialità, sia da
un punto di vista culturale che economico,
caldeggiando, in particolare, il
lavoro delle giovani leve, attraverso,
per esempio, la presenza di categorie
speciali come la sezione “Proposta
MIA”, che offre la possibilità ad artisti
indipendenti di farsi conoscere ed apprezzare.
L’attenzione però non è solo
rivolta al futuro, per mezzo dei giovani
talenti, ma grande rilevanza verrà data
anche al passato attraverso la valorizzazione
delle fotografie storiche con
la terza edizione del premio “Tempo
Ritrovato – Fotografie da non perdere”
e la presentazione, in questo contesto,
della mostra “Il Quarto Stato e il territorio
di Volpedo nelle fotografie del
fondo Giuseppe Pellizza”.
Caratteristica di MIA Fair è quella di
valorizzare i vari artisti permettendo
approfondimento e analisi critica del
lavoro di ciascun partecipante, anche
attraverso un catalogo dedicato a ogni
espositore in formato e-book, consultabile
su supporti elettronici.
Insomma, un’occasione unica e imperdibile
per gli operatori del settore
a tutti i livelli, artisti, studiosi, gallerie,
editoria specializzata (con la sezione
dedicata al libro fotografico), collezionisti
e semplici appassionati, che
avranno l’occasione di confrontarsi,
scoprire nuovi talenti, apprezzare il lavoro
di quanti operano seriamente nel
settore, confrontarsi sulle nuove tendenze
del mercato.
La fiera si svolgerà dall’11 al 13 aprile
2015, in concomitanza con una serie
di iniziative artistiche di altissimo livello
che interesseranno varie istituzioni
milanesi, tra cui l’Hangar Bicocca con
la mostra personale dello scultore Juan
Muñoz (“Double Bind & Around”), la
Fondazione Trussardi, la Triennale con
“Arts & Foods. Rituali dal 1851”, sulla
scia del tema Expo Milano 2015 (1
aprile-1 novembre 2015), e con MiArt,
la fiera d’arte moderna e contemporanea
che si terrà dal 10 al 12 aprile.
123

© Massimo Sestini, Costa Concordia, Isola del Giglio, 2012, stampa inkjet fine art su carta cotone, cm 100x150,
courtesy Massimo Sestini
© Nicolas Feldmeyer, Even After All 5, 2014, cm 100 x 67, stampa Lambda in B/N su carta resin coated, ed. 5 + 2AP,
courtesy Nicolas Feldmeyer e mc2 gallery
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© Claudio Isgrò, Architectures, 2012, fotografia a colori su Leger, cm 66x100, ed. 5,
courtesy Claudio Isgrò
© Carsten Ingemann, Creatures of the Night #3, 2012, stampa Inkjet, cm 70x100, ed. 1/6,
courtesy Carsten Ingemann
125

© Gian Paolo Barbieri, La Bella Otero, 2014, foto in analogico su carta Hahnemühle Fine Art Baryta 308 gr.,
cm 90x70, ed. 1/15, courtesy 29 Arts In Progress
© Stephane Gripari, Smoke, 2015, fotografia digitale stampata su carta Fine Art Canson Rag 210 grammi, cm 42x60,
9 + 2 AP, courtesy Stephane Gripari
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© Bjørn Sterri, Beauty & Beast, Oslo, 2008, stampa Inkjet su carta Baryta, cm 125x126, ed. 3,
courtesy Galerie Stephan Witschi
© Dominique Laugé, Let bygones be bygones, 2010, stampa digitale su carta fatta a mano,
cm 30x41 (immagine); 40X60 (foglio), ed. 5, courtesy Dominique Laugé
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© Fabrizio Carraro, Aeterna Domus, 2001, pellicola fotografica girata in Polaroid
stampa Lambda su Dibond e Plexiglass, cm 90x90, ed. 1/5, courtesy Fabrizio Carraro

HENRi CARTIER BRESSON
Riflessioni
Mirko Orlando - Tu parli di fotografia
e alla fine finisci col parlar dell’attimo,
dell’istantanea, della capacità di cogliere,
in una frazione di secondo, l’essenziale.
Ci provi in tutti i modi a dire alla
gente che esistono fotografi come Diane
Arbus, August Sander, Richard Avedon
(la lista potrebbe continuare a lungo),
ma niente. Quella è fotografia da “messa
in posa”, un’altra cosa. Certo esiste
anche quella, e capita che sia magnifica,
ma è un’altra cosa. Perlopiù fotografare
significa cogliere la realtà quando meno
se lo aspetta, freddarla, pigliarla così,
con le braghe calate. Tu lo sai che non
è tutta qui la fotografia ma non ti basta,
e accetti il terreno di gioco così come ti
viene presentato: l’istantanea? E parliamo
dell’istantanea!
Dopotutto è il contributo che Cartier-
Bresson ha dato a questa disciplina, per
cui «fotografare è riconoscere nello stesso
istante, e in una frazione di secondo,
un evento e il rigoroso assetto delle forme
percepite con lo sguardo che esprimono
e significano tale evento. È porre
sulla stessa linea di mira la mente, gli
occhi e il cuore. È un modo di vivere» 1 .
Convengo, ma di qui a parlare dell’attimo
pregnante, di quel momento in cui
tutto trova il suo equilibrio per poi perderlo
l’istante dopo… beh, ho qualche
dubbio.
Dunque che ne è del significato latente
nell’istante successivo? Siamo davvero
sicuri che una buona fotografia sia l’immagine
congelata di un momento che
intercede tra due istanti del tutto insignificanti?
Una frazione di secondo prima
ed è tutto sbagliato. Una frazione di
secondo dopo ed è materiale buono per
il macero. Rapporto di estrema seduzione
tra un occhio vigile ed una realtà
che gioco forza scorre, la fotografia che
vale il suo nome sarebbe quella in cui
entrambi i contendenti si consumano in
un orgasmo simultaneo? Molto bello!
Ma non è così che stanno le cose. Non
del tutto.
Diciamolo chiaramente: troppo facile,
visto l’attimo appena congelato, dire che
è proprio l’istante giusto. Quello vero.
Quello che in sé racchiude il senso di un
intero scorrere. È l’istante dopo? Non
significa nulla? Magari coglie in sé, portandoselo
in grembo, un altro punto di
vista… è veicolo di un diverso modo di
significare ciò che accade. Cogli l’attimo
e lo sorprenderai sospeso, come un angelo
che vola su specchi di cielo, ma esita
un solo momento e lo vedrai precipitare,
irrimediabilmente. Da un lato l’estasi,
dall’altro la tragedia. Due cose molto diverse,
ma se non è sempre vero che un
attimo vale l’altro, è anche vero che è difficile
dire quale valga di più… la realtà è
indifferente, siamo noi che ci ostiniamo a
dotarla di una ragione nascosta.
E poi questa storia del significato non mi
ha mai convinto! Ma quale significato?
L’immagine fotografica non significa
nulla perché non è il frutto di un progetto
sul quale poter porre un veto assoluto,
ma il bottino che il fotografo si porta a
casa dopo aver depredato un pezzo di
mondo… e il mondo non ha significato!
Poi tu guardi lo scatto e ci ritrovi
dentro mille storie, e dici caspita! In un
solo momento tutta l’eternità? Sì, tutta
l’eternità! Ma vi assicuro che c’è tutta
l’eternità in tutta la serie di attimi che
un dispositivo fotografico riesce a congelare:
basta che nei vostri occhi ci sia
abbastanza spazio.
Così mi è venuta un’idea folle, al di sopra
delle mie possibilità, ma credo sia
una bella sfida da lanciare ad un editore
coraggioso che non abbia perso la voglia
di azzardare. La spiego: di solito, per
ogni situazione che il fotografo s’ingegna
a cogliere, per quanto possibile, egli
scatta una piccola serie di fotografie. Nel
suo archivio c’è il fotogramma giusto,
ma anche quello prima, e quello dopo.
Ora pensate ad un libro in cui figurino
i fotogrammi successivi (o precedenti è
indifferente) delle foto più significative
della storia, ad esempio la piccola Kim
Phuc un po’ più vicina all’obiettivo di
Nick Ut mentre corre, nuda, con la pelle
bruciata dal Napalm, o la faccia beata
del marinaio di Times Square, nella foto
simbolo della fine della seconda guerra
mondiale scattata da Alfred Eisenstaedt,
dopo aver baciato l’infermiera, o ancora
Albert Einstein, ormai con la lingua al
suo posto, nel fotogramma successivo a
quello celebre di Arthurs Sasse. Lo immaginate?
Dopotutto la fotografia non
ci ha semplicemente raccontato la storia,
l’ha proprio costruita, o meglio ne
ha costruito il corpo, e così avremmo
tra le mani la storia in differita, un’altra
storia, con altre icone, più sobrie (forse),
più umili, inette, ma chissà se non più
autentiche… che storia sarebbe? Io la
vorrei vedere la storia dei fotogrammi rimossi,
l’inconscio della storia fotografica
del mondo, se non altro perché sarebbe
la prima storia che non viene scritta dai
vincitori. Mica male come inizio. Poi si
vedrà.
Note
1. Henri Cartier-Bresson, L’immaginario dal
vero, Abscondita; Milano 2005.
129

Translations
page 6
Editorial
Franco Carlisi
I do not have a solid opinion of the threats addressed to Italy and their real
danger. My thoughts change constantly, they fluctuate in the magma of the stereotypes
of a fake, reckless and moneygrubbing political ritual. I watch television
and read newspapers with a diffident curiosity: the brave declarations made by
apocalypse criers increase my feeling of manipulation and engender an internal
rebellion of civic resentment.
“We are ready to invade Lebanon”. And when will we be ready to invade Somalia
and Eritrea? And, being a creditor country, just to renew our fascist unlucky
magnificence, we could affirm “We will break Greece’s back”. But this would
not get on well with my sicilianity, given that I feel a bit Greek, Roman, Arab,
Viking and Catalan as well. We have welcomed all of them in Sicily, sometimes
they acted as troublesome tenants, but more often they have carried wealth to
our territory. Two thousand four hundred years ago, Alcibiades used to describe
Sicily as follows: « For it is only with a mixed rabble that its cities are populous;
and they easily admit changes in their government, and adopt new ones.» 1 The
history of the progress of humanity is the result of mixtures and exchanges between
different people. It has to be a gradual and respectful process though.
From my window, beyond the horizon there is Lebanon. I have to admit that I
feel uncomfortable, knowing that I could become a special correspondent in the
war “to defend our civilisation”. Over the modern landsknecht, the beheaders,
I cannot recognize the enemy specificity in absolute terms. When I was a child,
everything was much easier. We used to wage wars in the little dusty streets in
the Arab quarter of my town, our alarm scream was: “Mamma li turchi!” (“mother,
the Turks are coming!”). A desperate panicking expression, a remain of a
preceding popular culture that could ideally identify the topos of non-reciprocity.
In the xenophobic popular imagination, Turkey, that is, geographically speaking,
a very close country, transformed into a far and vast country, the headquarter of
Islamic multitudes, far from God’s grace, with which it was of course impossible
to establish any kind of dialogue, because of their defects, excesses and iniquity.
The “Turk” was the stranger par excellence, the other to be feared. The anti-me.
The more I could have recognized my identity, the more the “Turk” would have
denied and contradicted it with his nature.
As the time passed by, I freed myself from this legacy of prejudice and fear, I
started to redefine the concept of identity. The form of ethnic or religious affiliation
looked approximate and I surprisingly started to ask myself how much
I could ever recognize myself as a Sicilian, following the common meaning of
that. My identity was increasingly the result of the sedimentation of different
non-conflicting identities, coming from different places; they were not extraneous
to the homologating influence of the media and the Internet.
During the years I lived in Palermo, the poor city was a natural laboratory of
multiculturalism - nowadays as never before - ; a crossing of foreign and confused
languages, grafted in the Palermitan dialect. Each encounter was a mixture
of odours, skin and eyes colours.
I wanted to live in that town and I thought that my studies, my readings, the
cinema and my travels had planted in me the values of tolerance and respect of
diversity. Still, on some occasions, my multi-ethnic mentality crumbled on me. I
could not integrate my experiences with moves, uses and life practices that were
absolutely different to me, even if I knew them. My behaviour tended to distort
an incontrovertible truth: the other exists as someone else.
The actual acceleration of history makes us assist to a contamination of peoples
that we are not ready for. We cannot love a neighbour that is different from us and
that does not try to look like us. A mistaken culture of integration unconsciously
praises for homologation. Everyone should be western, then. We behold the
same extremist culture that we condemn and that would like us to be better
than the others, no matter who they are. The legitimate claim for identity has
become a short blanket, drowned by all directions, which stops being inviolable
when it takes on itself the right to discriminate other identities in an absolutely
misleading way.
We could stay outside history, claiming a badly hidden supremacy of our civilisation,
being pushed by a fury of power that entitles us to deploy events as if
they were sheer calculations, or otherwise we could accept its course, with its
severe moments and teachings, knowing that every growth process is difficult,
but always liberating.
Our magazine cannot influence political choices, and I know very well that the
flow of events could make me step on words. Anyway we can give our contribution,
through the portfolio hereby presented, to take us away from the flood of
images that tells us about a stranger barbarian world, inhabited by beheaders.
Photography gives us the chance to know the other, in a less negotiated way than
any other language. Photographers can cut through distances, not just with their
cameras, but also with their physical presence, they relate with the people that
they portray, they live their space and time, they know their culture and daily
life customs, they give us the chance to understand the truth of situations which
are very far from us. When the words are not comprehensible and the dialogue
is interrupted, images can produce fears, pain, connections, hope. Reporters are
the military outpost of millions of peaceful people, that do not want to export
freedom and democracy to others, against their desire and will.
1
Bryan, William Jennings, The World’s Famous Orations. Funk and Wagnalls, New York, 1906
Portfolio page 8
Annalisa
Natali Murri
Then the Sky
Crashed Down
Upon Us
Giusy Randazzo - «Give me water, I beg you…give me water - I heard a girl
near me imploring for water…We were a just few stuck under the ruins. Some
of us died, I've seen them dying. It had been about three days since the collapse,
we were still trapped there. We didn't know if we would all have died down
there. Then I saw the girl trying to bite the neck of a corpse at her side, with
her last strength, to suck and drink its blood. I have no words to describe what
I saw. When I was rescued, after 4 days, she was dead". » (Imran Hossain, 48
years old).
Some events cannot be told just using pieces of information, sometimes their
intensity cannot be described through words. They create a sense of disorientation,
a sort of confusion in the spoken language: it is impossible to restore the
powerful representation of emotions that lay at the bottom, where emotions
were originated, and where they sediment becoming gangrenous. There should
be a spectral language, that hints at the truth, but leaves the reader free to do his
decryption in the imaginative time. It cannot stay in a denotative field, it needs
to go over using the means of an original sense, that gives the readers the chance
to do a thorough analysis to free and spread their sensibility out of the borders
of reason, so that they can finally comprehendĕre, embracing the event with the
sixth sense. There should be a poet, a pastor of the Being, a philosopher, that
uses that original language, but doing so, we would encounter another risk:
just an élite would listen to him. Instead, that event is meant to go around the
world, to enter each house, to slaughter every soul, crash every window, to upset
even the most insensitive individual, it must shake like a tsunami, horrify like
a genocide, overthrow like a coup d’état, it must freeze everyone like an infernal
apparition. It must make us go back, go ahead, get closer. And finally scream.
Only photography has this power, because only its language is universal
enough to go beyond the Babel Tower and to reduce the space, to let us live
the time, giving it a disguise of reversibility; only its democracy can give photography
the chance to reach everyone, and to commit everyone in an interpretation,
in which the fundamental and necessary pre-data, even before the
cultural one, is the “emotional disposition” of each one of us, the one that
philosophers call Stimmung.
Annalisa Natali Murri’s photos speak this language. Multiple expositions, reflections,
blurred pictures, the use of black and white, to tell about those eyes that
break into our mind, that shake with violence the borders of our occidentality.
Those eyes look at you and look inside themselves, they do not resist to the
banality of present and get lost in the severe memory, that talk without using
words, and scream by listening to the horror that they have seen, that cry without
tears and push you to tears. There is no lucidity in those eyes, so the image
becomes complicated, our sight cannot be limited to a simple gaze, but wants
to catch the shock in its complexity. As that particular event cannot be resolved
in a simple information, it does not end at its beginning, but still continues to
lacerate, and still kills people, and still destroys, because the excavations have not
finished yet, because it is the symbol of real poverty: their poverty, of the people,
of means and substances, and our poverty of truth and justice.
«“The tragedy of the Rana Plaza changed the course of my life” - says also
Sajal Das, 26. His conditions are common to hundreds of victims, their relatives
130

and the rescue workers who are still unable to recover physically, and especially
psychologically, from the trauma. The tragedy and pain are far from over ».
Bangladesh is part of the Fourth World, a name that usually indicates the group
of the poorest countries among the already poor ones.
How many people know that one of the most terrible accidents ever happened
in a factory in the history of the 20th century took place less than two years ago?
And that in the building that collapsed because of a structural subsidence there
was a textile factory? And that the collapse killed more than one thousand people?
I bet, just a few know all these things. Maybe because in the Western world,
the news coming from poor countries do not make much noise. Yet, the Rana
Plaza, 8 floors, collapsed in Savar, a Dacca district, on 24 th April, and rescuers
worked for almost one month, until 13 th May, still hoping to be able to save some
lives, taking them away from those ruins, stinking of death and poverty. In the
end, they counted 1129 official victims and more than 2500 injured. The Rana
Plaza hosted different shops and one bank that were closed that day. Some deep
cracks had appeared on the walls and the inspectors had ordered the immediate
evacuation of the building. The owners of the textile factories in Rana Plaza,
that are part of the Western production chain for well-known brands, ordered
their employees to go to work anyway, and they threaten to deduct a month of
pay if they had refused to go. Using the word “work” to define something that
actually is a state of slavery is inappropriate and this so-called work is paid - so
to speak - with an amount that to our hears sounds like a humoristic joke: it
corresponds to 38 euros per month.
Murri’s documentary does not deal with the people that died in the collapse, it
talks about the spectral existence of those that survived that event, remaining
trapped in the trauma. The images open a gap in the observer, a wound, to be
used to look beyond, to see the complexity of the painful drama provoked by
the collapse. The real collapse is the temporal one, that forces those who lived
it to inhabit the horror of the fatal moment ad infinitum. Poverty does not help.
Neither our poverty, that increases every time that a tragedy is turned into a
spectacle, that keeps us away from events, that makes us passive spectators and
makes us forget our sensitivity, that drowns in a sea of useless images. Murri's
photographs actually break the desecrating banality of daily routines, and tear
us away from the XXI century Versailles, that we inhabit, to invite us to see the
real World, even the Third and the Fourth World, that actually exist and are
much more real than the families in Barilla’s advertisements.
Endnotes
1. Disponibile all’indirizzo web (ultima visita il 24 febbraio 2015): http://annalisanatalimurri.com/
portfolio/documentary/album/695958/b6a9b5f34a81d5?p=1&s=UA-49874612-1. La traduzione
in italiano è mia.
2. Ibidem
Portfolio page 16
Susanna
Majuri
surreal abandon
Dario Carere – The picture of natural landscapes, as an immediate representation
of a reality sounding alien to us by now, is often administered, if not as
some detached documentary news, as an unattainable, exotic object, or a venerated
tourist beauty. We are informed, sometimes, that somewhere on planet
Earth antelopes, wolves and polar bears exist – not anthropized remains of a
dying out world. Through the usual self-lying Western mechanism, we instinctively
think about pandas as some endangered species, while, much closer to
our homes, civilization swallows (someone says: necessarily) anything we like
calling genuine.
Therefore, it is a risky tentative, Susanna Majuri’s one: her shots try to put
mankind and nature together through an efficaciously ambiguous perspective,
neither only romantic nor only scientific, which leaves the observer enraptured
as well as, hopefully, perplexed. Human figures immersed in the water, with
postures evoking reflection or abandon, unexpectedly merge with pictures of a
virgin nature, of wild animals and, sometimes, even of postcard landscapes in
which little houses with a sloping roof remind us scenes of an immaculate past
world, more than banal fairy-tale remains.
This young photographer by Helsinki, with the help of, perhaps, that environmental
cupio dissolvi desire which is much more common among Northern
people than among us, the Mediterranean ones, rests her white and willowy
models, their faces modestly hidden, sometimes so similar to certain lingering
pictorial nymphs (I’m thinking about Böcklin), in waters of dream and maybe
baptism, but even, judging by their soft and plastic poses, of sorrow (Gravity) or
passion (Mirror). While landscapes lying on the bottom of the swimming pool
would have, if considered alone, a rather little aesthetic power, through the
twisting effect of water these “genre pictures” get surrealistic and disquieting
tones, in which human figure doesn’t seem to be at ease, feeling half servile,
half dismayed.
Is it nostalgic or of communion, the feeling that pushes the two underwater
girls to stroke the giant bear of woods? The sitting female model in the middle
of a wooded, snowy environment does not only evoke a dizzying abandon, but
also, maybe, a suffocating sinking movement. Are these shrunken and melancholic
fairies, contrasting with the grace and the solemnity of the nature they
swim in, trying to evoke, as the wonderful and terrible Belgian film The Fifth
Season (2012), the so cruelly poetic perspective of a nature without mankind, of
a poetry finally emptied of the overbearing language of poets?...
Actually, the most interesting aspect, without the which the forcefulness of
these photos would be probably halved, is that there are no faces; this fact,
considered together with the strongly pictorial style of the whole work, bestows
to Majuri’s lens something of Friedrich 1 ’s art; but, while in Friedrich’s
romanticism man melts in the environment until vanishing, here he plunges in
it drowning, seeing it, unavoidably, as a foreign body, because he made himself
foreign to it. And this is what the word nature, more than nature itself, means
in modern society, and Majuri shows it to us wonderfully: a background, a
desktop, a monitor, therefore something two-dimensional, flat and reproducible,
that doesn’t fulfil human need of beauty but occasionally and with the
detached preconception of the sole development that is considered as such
– the capitalistic one.
Endnotes
1. Caspar David Friedrich (1774-1840) is one of the leading spokespeople of the pictorial German
romanticism. In his paintings the rapport between man and nature is enriched with utterly
new aspects, since the former is depicted in a subordinate, enchanted position in respect to
the latter.
Portfolio page 22
Sian Davey
Harmony and
disharmony in a
family microcosm
Loredana Sferrazza - Looking for Alice is the title of Sian Davey’s intense photographic
project. Emergent photographer of the English West Country, Davey - a
woman, a mother, a psychotherapist and a photography student - describes her
personal journey of exploration and re-construction of a familiar and individual
identity. In particular, through the composition of a sort of family album, Davey
searches for and recreates a “functional” emotional and intimate dialogue with
her daughter Alice, affected by the Down syndrome.
The privileged locus of Davey’s work is the family microcosm, a complex cultural
and relational “human space” that everyone of us knows and shares, a “known”
space that every observer is asked to read and perceive with new eyes. Sian’s photographic
project is full of large-scale emotions and intentions. It primarily derives
from the personal needs of the artist, who, as a woman and a mother, needs to
share and process the whirlpool of emotions and feelings caused by the birth of
her fourth daughter, Alice. Fear, anxiety and refusal gradually leave the pace to
acceptance, tenderness, and an inclusive and loving relation that flourishes in its
coloured “normality”, and pushes away the “ghost of disharmony”.
Alice grows up surrounded by family and friends, in a unique and special way:
her innocent presence and her curious and proud look refer to the complex process
of identity construction occurring within the constant interaction of contingencies
and relations, a process that continuously pushes us to cope with alterity,
difference, multiplicity.
The brilliant reflections and the intense shades of Sian Davey’s snapshots convey
her intention to work on the personal and social prejudice that often pushes people
to underestimate and to marginalize the difference, to make “invisible” and
“silent” those that do not comply with the canons of an apparent “harmony”.
In his famous critical essay, Camera Lucida. Reflections on Photography, Roland Barthes
underlines the interaction between three major components of the photographic
art: «a photograph can be the object of three practices (or of three emotions, or
131

of three intentions) to do, to undergo, to look. The Operator is the Photographer.
The Spectator is ourselves, all of us […] and the photographed person or thing is
the target, the referent […] the Spectrum of the Photograph […]» 1 . Moreover, to
define that particular fascination exerted upon the observer by the photograph
or by one of its details, that something that «sets me off», Barthes uses the word
«accident» and defines as «punctum» 2 that detail that “pricks” us and gives an added
value to the image and its details. Well, in the Barthesian terminology, Davey’s
pictures “animate’ the observers, they “surprise” and “seize” them with a new
and “thoughtful” light that illuminates ordinary situations, gestures, spaces and
looks. On their turn, the observers “animate” those images and their details,
giving them the chance to “to say nothing, to shut eyes, to allow the detail to rise
of its own accord into affective consciousness” 3 .
Personal Sian’s expectations – as a mother and as an operator – are interlaced with
Alice ones – the spectrum and the photographed subject. Alice is portrayed in her
family, she is the main character of the experience process, through which she
discovers the world and builds up the image of herself and her relations with
others. Davey’s snapshots ask the observers – spectators – to get rid of the opaque
layer that the “Down syndrome” puts on pictures, and to look at Alice’s world of
lights, colours and shadows, abandoning themselves to her adventures, to receive
and give a caress, to feel with their hands the wrinkled faces of her grandparents,
to get seized by the amazement of discovery, by the frustration of exclusion. In
Davey, photography is an effective method of expression with a sure therapeutic
value. Hanged between subjective and objective, the photography becomes the
privileged instrument for the exploration and narration of the self. Being really
similar to a mirror, the camera gives the subjects – either operators, spectators or
spectrums – the chance to re-search, re-look and re-find themselves.
Davey’s photographic project is dedicated to Alice, it reflects the harmony and
disharmony of every family microcosm, it tells about the difficult relation with
prejudice and personal and social expectations. It involves the need to re-member
our identity universe: to put together its fragments, to validate its existence and
to fix its memory.
Endnotes
1. Roland Barthes. Camera Lucida. Reflections on Photography, English translation by Richard
Howard. New York: Hill and Wang, 1981, page 9
2. Ibidem, page 26
3. Ibidem, page 55
When the gaze is lowered, it becomes empty as well, in these annulled gazes we
can find the paradox of the photographs that compose the Shared Loss project
by Andrei Pungovschi: moments of withdrawal from the social dimension, at
the centre of images that find their space in a gallery, in a website or in a magazine.
The immeasurable personal tragedy is reduced to a pattern that includes
a photographic series. Roland Barthes believed that photography condemned
us to an expression, to becoming an everything-image, despite our will. Andrei
Pungovschi’s snapshots actually force the barthesian principle, as they actually
give a face to the transfiguration of pain. These paradoxes have been part of
photography since its very beginning, but in Shared Loss they emerge in a powerful
way. In these pictures we can see someone that looks at something that
we cannot see: people as a medium that refers to the fights of Tahrir’s square,
to ideals tamed through machine-gun fire, to the evils with friendly faces, to
internally destroyed families. Samir Assem lost his brother during the period of
the rebellions in Egypt, Amal Ahmad lost his son. These two men were in two
opposing factions, but fate led them on the same front: the one of the martyrs
without glory. The same applies to the families and friends of Samir, Amal,
Hussein, Mohammad, Mary, Fatima and thousands of other Egyptians who
died under the shots of a fratricidal war.
Shared Loss shows many copies of The Pietà by Michelangelo, without bodies
to be embraced, deaths shared with enemies and placed in front of strangers’
eyes, spectators of other people’s pain. 2 Silent apostrophes 3 that leave us
speechless and without any other world to imagine.
Endnotes
1. J. Lacan, The Four Fundamental Aspects Of Psychoanalisis, trans. Alan Sheridan, W.W. Norton
& Company, New York, 1979, p. 83 .
2. S. Sontag, Regarding The Pain Of Others, Farrar, Straus and Giroux, New York, 2003
3. C. Bailly, L'Apostrophe muette: essai sur les portraits du Fayoum, Hazan, Paris, 1997
Portfolio page 32
Linda Dorigo
Rifugio
Portfolio page 28
Andrei
Pungovschi
The silent
apostrophe of pain
Vittorio Iervese - As we know, words are an attempt to make communication
more precise and evident, taking it away from the exclusive domain of
the senses and the body. There are moments and situations during which we
can see how this evolutionary programme has only partially succeeded, if not
completely failed. The expression of pain is one of these moments. If, on one
side, the pain can transfigure the face or push to delirium, on the other side it
can produce the collapse of the word. “I have no words” we say, for decency
and as an admission of impotence in front of certain tragedies that involve
us personally. And when we want to show respect for the other peoples’ pain,
we leave space to silence (as it happens in the moment in which we show a
dazzling love).
When facing real and deep emotions, as well as the inexplicable and amazing
things, the available words show their disloyalty and their lack of efficiency.
Poets break this functional characteristic of language, but that is another story.
When the word collapses, there are gestures that go up through the flow of
time and re-emerge in our body from primordial times. The gaze is an essential
element to understand this emotional archaeology. To use Lacan words, the
gaze is: “the object on which depends the phantasy from which the subject is
suspended in an essential vacillation”. 1 The gaze is withdrawn to take it away
from the relation with the other in a search of solitude. Those who raise their
gaze try to give an high and different dimension to the upsetting event, but
those that lower their eyes, affirm the irreversibility and the ineluctability of
that event. The gaze is lowered to give up trying to collect some fragments of
that previous world that has already gone away.
Andrea Milluzzi - In 2011, on New Year’s Eve, a car bomb destroyed the Saints
Church in Alexandria, Egypt. Another act of violence against Christians in
the Middle East, that urged our decision to go there to tell the story of those
thousand-year old communities and of their lives hidden far away from the
media’s attention. “Rifugio – Christians of the Middle East” is the account of
three years of research among Christian communities of the Middle East. The
text that follows is an abstract telling about the experiences and the encounters
made during our travel that covered nine countries: Iran, Egypt, Syria, Iraq,
Lebanon, Turkey, Israel, Palestine and Jordan.
"Christians were the first to settle in these territories. A lot of us are going away
now, but I believe that it is important to remain here, to maintain our identity
and the roots of our religion”. Jan lives in Teheran, Iran. He is one of the
200.000 Christians still sharing spaces, laws and uses, with 76 million of Iranian
Muslims. Jan is married to Clara. They are a couple of Assyrian Christians,
a minority that counts 10.000 people in the country. Their only daughter lives
in California: “Leaving would be the easier choice for Iranian Christians, but
I would not know how to live in a western country, where identity and religion
count for nothing” says Jan.
Eastern Christians are the descendants of the first evangelists that, a few years
after Jesus Christ’s death, crossed the current Middle East. For centuries, the
relations between Christians, Muslims and Jews had been ruined by fundamentalism
policies and dictatorship. We arrive in Egypt on the day in which Mohammed
Morsi, leader of the Muslim Brothers, becomes President. Mubarak
is his predecessor, and the new politic trend scares the Christian community,
that fears the rise of extremisms, as the men of Assuan in the South of Egypt
tell us: “Our women do not go out on their own, because fundamentalists try
to marry them to convert them. Women are kidnapped and raped, and we are
afraid we may never see them again”.
Wars and revolutions are changing the aspect of Middle East. In March 2011,
Syria was the scenario of a revolution that after a few months became a proper
war. "Will you write about me? Then you have to write that I love my country
and my President Bachar al-Asad. He respects everybody’s rights, including
Christians.” Says Shamo, a 25-year-old girl from Syrian Kurdistan. She is
132

hanging out the washing, on the hill where she lives with her brother, her mom
and dad, the guardian of the tiny church of the village that was built thousands
of years ago. Before the war, Shamo worked as a hairdresser, but now nobody
thinks about getting their hair cut. “I do not want to go away, but if the war
does not end, I will have no other chance” she sighs.
"I have no problems with my husband Joseph, even if he is a Christian. Our
child celebrates Christmas and knows what Islam is. I cannot believe that we
are en exception in the Middle East” laughs Leila, while showing us the apartment
where we stayed for almost three years in Beirut. Examples of mixed
marriages and religious cohabitation are very frequent in Lebanon, a country
where 4,5 millions of people follow 18 different religious confessions. Leila and
Joseph are not an exception. They are one of the examples thanks to which we
should be hopeful for the dialogue and a peaceful future.
Portfolio page 38
Salvi Danés
Transmontanus
Oscar Meo – In an interview with the magazine Axiom in 2011, Danés stated
– or, rather, understated – that his authorial intention is not to judge the
subjects of the photographs, but to give suggestions from his «humble point
of view» (www.axiommagazine.jp/2011/12/19/salvi-Danés). Photography
as interpretation then or, as Danés wrote on his official website (salviDanés.
com), photography as a «(re)creation» of the world, as an attribution of new
meanings to things. It is not difficult to perceive the relationship between
these declarations regarding “poetics” and the travel through memory as
cognitive and emotional “re-construction”, that he does in the Transmontanus
portfolio, which title refers to the wind coming from the Pyrenees and to the
geographic setting of the photographs: his native Catalonia.
The framing is subjective and partial. In natural landscapes, in the photographs
representing animals, handmade items or events, Danés makes an
effort to translate in images his experience of the scene, to capture that detail,
that fragment (or even a discard) that makes that scene stand out semantically
for its authorial subject. The detail, once turned into the core element of the
photograph, becomes the main character, also thanks to the use of black and
white (the colours of memory, of space-time nostos), leaving pieces of unrepresented
elements (“un-said” elements of the imagination) and ambiguities,
sometimes disturbing, that invite the observer to complete the “narrative”
content by himself, to give a meaning to the seen object by placing it in a
“story”, to notice the presence of the wind in the ruffled hair. Thus, the
movement of re-creation, helped by the absence of titles in the photographs,
is transmitted by the author to the receiver, who is called to cooperate to
build the meaning of the message, to re-update the authorial experience.
Another essential element of Danés photographic production is the apparent
randomness of the subjects. Is there anything in common between a sea
landscape showing an island on the background, a house model that betrays
(in an almost disturbing way) the presence of the fingers that hold it, a rudimentary
perforated box looking like a beehive, an insect lying on a shoulder
as if it was a tattoo, an old door turned into a simulacrum uselessly dominating
a meadow, an outstretched arm suspected to be (maybe aggressively)
leaning against a woman’s neck, and so on? The answer can be found in the
objet trouvé impression, offered by all these elements. They act as clues and
traces evocating a hidden world that refers elliptically to another meaning.
The “domination of the particular”, that guides the observer’s eyes, makes
the captured object become an absolute one, and states its “re-constructive”
power when in contact with the places of our memory: when transposed
in the medium, all the subjects of the photographs, including the humble
ready-made so loved by Danés, are transformed, acquiring their uniqueness
and mystery, and losing any possible illusion of global comprehension and
finality. In his space-time travel, Danés is aware of the continuous renovation
of things and people, of their growth and death, of the unspeakable
and invisible that surround them.
Portfolio page 44
Raed Bawayah
Beauty and identity
Simona Venezia - We traditionally think of beauty as a dimension that can
lead to gratification and admiration, or, in any case, «something related to
pleasure, as a simple object » 1 . Yet, contemporary sensitivity has broken this
paradigm that, in the attempt of elevating beauty to a supreme subjective
reality, has actually locked it up, in a space that is extraneous to any speech
of truth. When an important poet like René Char writes in one of his Leaves
of Hypnos: «In the depths of our darkness, there is no place for beauty. The
whole place is for beauty» 2 , he unveils that a new way of intending truth is
given in the moment in which we decide to abandon any emotional ambition,
every sentimentalist drift. Beauty is considered in its totally absorbing primarity,
in its perspective that goes beyond any personal and intellectual tie. Some
important currents of thought of the twentieth-century considered beauty
more as «something that is an event of truth» 3 in a revealing perspective, as beauty
in itself would actually be «a way in which truth, as revelation, explains its presence»
4 . That means that beauty is not something that is appreciated and that
seduces the observer, but it is what it shows and presents, without invention
or enchantment. It is a fragment of truth that lies in the middle of the world.
This is the kind of beauty evoked by the pictures of the Palestinian photographer
Raed Bawayah that, in the intensity of a dense and neat look, unveil
something that is beautiful, not because it is appreciated by the observer, but
because it demonstrates its true nature. Indeed, his portfolio captures daily
life scenes of Palestinians. Portraits are powerful and impressive, thanks to
the use of black and white that shows in a sharp and poetic way the need
to look with clarity and without superstructures at the things and the world.
There is no anxiety of evaluation in these pictures, as the most urgent thing
in them is to look, instead of expressing judgments. The rhythm that is given
to truth is the one of existence that has a primary importance if compared
to external conditions, always more individual than social, and contingent at
the same time. It is then possible to concentrate on the looks and the poses,
and not necessarily on the historical conditions and social contexts, without
taking away the strength of the seriousness and of the importance of these
conditions, that we know are dramatic and desperate. The beauty that can be
effectively recognized in this pictures is the beauty of identity: Bawayah’s look
takes from the gestures and the hesitations of the respectful and busy life of
his compatriots, a sense of belonging that fills the immense void of the political
recognition. He does not underlines poverty, or the privations and the injustice
that his people suffers, because its identity has not been granted a land.
The Palestinian people cannot be reduced to this: their identity is not just a
fight for freedom, that is correct and necessary, but it grows in the respectful
and hopeful lives of individuals, of which he describes the real difficulties and
the potential expectations. The beauty of these portraits unveils something
that goes beyond a simple appreciation or a mere gratification: the identity
of people that find self-recognition in an existence lived with dignity, which
may seem limited and poor to cold and demanding eyes, but which is full of
its décor instead. Beauty as identity is not something that can be appreciated
or not, but a path that indicates what is essential.
To the epoch-making principle of Dostoevsky’s The idiot, beauty will save the
world 5 . Yet, every day we can easily and sadly note that it risks becoming
an unfeasible utopia. Beauty, not even the powerful representative beauty of
photography can save the world. But in front of a picture that opens to the
intensity of identity we can understand that, if it is true that beauty cannot
save the world, at least it demonstrates that it would deserve to be saved.
Endnotes
1. M. Heidegger, The Origin of the Work of Art (Der Ursprung des Kunstwerkes), trans. David
Farrell Krell in The Basic Writings. New York, Harper Collins, 2008 (modified translation)
2. R. Char, Leaves of Hypnos (Feuillets d’Hypnos), trans. Cid Corman, Grossman Publishers,
New York, 1973
3. M. Heidegger, The Origin of the Work of Art (Der Ursprung des Kunstwerkes), trans. David
Farrell Krell in The Basic Writings. New York, Harper Collins, 2008 (modified translation)
4. Ibidem.
5. F. Dostoevskij, The Idiot, trans. Richard Peaver and Larissa Volokbonsky, Vintage Classics,
Random House, New York, 2003
133

Portfolio page 52
Mario Daniele
Metaphors
of Silence
Gigliola Foschi - Whiteness, delicacy and silence. Vastness of vague and light
spaces plunged in a sort of inner, suspended time. Mario Daniele’s images are enchanting,
thanks to their ability to combine the dimension of indefinite to the one
of lightness. A white light spreads in each and every one of his works, a clarity that
never flows out with violence, but stays in the lovable vagueness of the unclear.
Thanks to this project, dedicated to snowy landscapes, it is possible to feel again
the ability to receive the silence and the mystery of nature without revealing it, as
it is gently offered to our imagination, wrapped into a suffused, soft and muffled
light. The presence of trees and the rows of vines does not stand out in a graphic
and intrusive way, they appear and shade, they lightly and intensely crop up in
the fog, among the mist, in the whiteness of snow. These images are suspended
in a timeless time, they are almost fairy-like and delicate, like a pencil drawing
on a white sheet of paper, with few light strokes that do not want to impose their
presence, but suggest the enchantment of the earth and of the un-revealed. His
photographs are almost evanescent, evocative and never purely descriptive, they
are nourished by that emptiness and silence in which a voice can emerge from the
earth without dispersing its secret, without revealing its language.
The author himself wrote: “I think that the wonder and the capacity to be still
astonished when facing nature’s determination are essential conditions to preserve
and conceive attitudes, that make possible a renewed connection with earth”.
Mario Daniele is aware that the earth should not just be saved and defended, but
also listened to with love and gratitude, to recover that link that contemporary
society makes every day more difficult and urgent at the same time. He puts into
practice the arts of silence, of slow walking and pausing, to offer us his poetic and
amiable landscapes as a gift born from a loving and patient look that knows how
to become a welcoming look, and how to create, in front of nature, an affective,
mental and emotional experience. A gift that can put away the noise of the world
and the anxiety of the chasing time, to let us hear again the silent voice of the
earth. He becomes a guardian of the earth, that uses the art of photography to
give it back its dignity and its mystery, to save it from noise, from oblivion, from
men’s devastating negligence. Like metaphors of silence, his images know how
to stop on the threshold, instead of going towards fake revelations. Daniele stays
in front of the trees as he was to portray them, but at the same time he makes a
respectful step back. Or he uses a fairy-like point of view that hovers in the air, to
give a touch of amiability to his feather-looking landscapes. His images – similar
to “stages of an atlas of emotions” (as written by Veronica Caciolli, curator of
MART) – invite us to a comforting silence, to fluctuating thoughts similar to daydreaming,
and to sweet and deep fantasies. An invitation accepted and launched
by tiny portraits, that couple the images of some of his snowy landscapes like
light counterpoints. Evanescent and light, these portraits portray hidden faces
and suggest loving glances that outstretch towards somewhere else or towards a
calm and thoughtful inner being. Like gentle guides, those images of hidden faces
push us towards a possible path in the silence, a space to listen to ourselves and a
meeting place with a landscape that is no longer still in front of us, but it looks at
us and gets right through us.
Portfolio page 56
Jacob Gils
MOVEMENT
Leonardo V. Distaso - The apparent lack of focus in the Jacob Gils series Movement,
gives us the perception of an object. The focus deformation underlines
the presence of the portrayed object, it puts it at the core of the scene, in a
perceptive dimension that enlightens its details. The blurred objects show their
details to those eyes prepared to make an effort: their apparent defect is turned
upside down to maintain a promise, through the use of the light and the colours.
At the first look it can be considered as an impressionistic procedure, but in the
receiver’s eyes it becomes an expression of the shapeless.
In impressionism, the visual border surrounds the represented object, still maintaining
its mimetic collocation, in a settled relation between meaning and significance.
Gils’s images are impressionistic when they try to give a meaning to
the mere ostensive reference of the portrayed object: “This is a tree!” But, if
eyes get lost in details and in the movement impression that the lack of focus
imposes, then the attention paid to the detail and to the complexity of the picture
renounces to the enchantment of the demonstrative meaning to penetrate the
viewed object, taking into consideration also the parts that cannot be seen. In
this case, Gils’s photography refers more to Duchamp’s Nude descending a staircase
No.1 (1911) and to Sad young man on a train (1912) than to Monet’s Water Lily. What
appears in the illusion of the movement of Gils’s image has to go beyond the
boundaries of the photographic image, concentrating on the significance that
it represents. The hidden potential of Gils’s moving images goes towards the
non-retinal: the figure evaporates in dynamic details and could go in the Mondrian’s
neoplastic direction that follows Gray Tree (1911). Gils figures are blurred, but
also deliberately decomposed and recomposed beyond the retinoic vision. You
cannot look at Gils images without thinking that they are the result of a process
of construction. A construction of what lies beyond the visible. The London
telephone box and the taxicab stay in our eyes as that presence persists in a flash
that continuously changes its appearance. So even the Lisbon trees, that close the
apparent movement, make a temporal sequence more than a spatial sequence.
That is the point: Gils’s moving images mark time, more than space. The illusion
aims at guiding our look towards the search of time, urging us to continue
looking at the object while it persists in time. So, the immovable and everlasting
object (the tree that has a non-moving existence par excellence), is enclosed in the
photographic image frame and appears recomposed in the time, as if we could
follow its life, which we could never do through an image of its meaning. In Gils’s
vitalistic dream, we can recognize the attitude to go over the simple clarity: this
would make us see the object, while photography gives us an image in over time,
which only a film could give to observers. Gils’s trees are freeze-frames more than
an imaginary sequence: time-image.
Is there a limit in his photography? We do not know if that is a limit, but his moving
photographs are surrounded by an unreal silence. As if the flowing of the
situation could happen without the help of the natural elements that envelope his
subjects. If life cannot take place without movement, then the movement cannot
take place without noise, included the dull sound of the camera click.
Portfolio page 60
Kerry Skarbakka
Dissociated and
dissonant gravities
Sergio Labate – Humanisms always have claims over the world. Those claims
usually take the form of colonialism. Their mission – no matter if it is declared
or not – is always to humanize nature. The image of humanism ends up capturing
the form of order (or past disorder, or an order that has been removed). How
can the order demanded by humanists be portrayed? Through mutual taming.
Men are part of the world, they take their place inside the world. It is not really important
to understand what the world really is, if it is a world intended as nature
or as social community. In these pictures, for instance, the world is represented
through its extremes. It is the “elemental” world: it is the tree and the fire. But it
is also the world in its most articulated version: a building, a town, the inside of
a house. In any case, the world is what it is: something that stays there entirely,
together with people. But this is the point: in those pictures there is the description
of the end of humanism. Everything stays there together with the world, but
people do not feel at home in their own world.
We should not rush, though. If, for people, the first step of taming means to feel
at home in the world, the second step of taming takes place when people choose
the world as their own property. People, lords of the world. The colonialist rush
of humanists. I do not know if it happens to you as well, but I always feel uncomfortable
when I need to define the relation that binds me to “my” domestic
animal. What is my function in this weird relation? Am I the “owner” of my
134

cat? Yet, domestic animals are exactly those that “belong” to a human being. I
am forced to be its owner. Our forced taming of the world is also showed in the
little complications of control: if I take a plane with my cat, there will be more
controls to the cat than to myself. We take the world with us only if it is under our
control. It must be ours before we can use it. I cannot explain to my cat that our
relation is a clear sign of the humanistic project hypertrophy. Though, I can look
at those pictures and believe that they are trying to deconstruct this humanist
hypertrophy, as well as the mutual taming process. The recurring subject of these
pictures is the disproportion between people and the world. It does have a form,
though. The description of its forms is absolutely natural, even when it concerns
the social world. But naturalism is not a background inhabited by people. The
world and the people follow a completely schizophrenic law of gravity. The body
weighs, but its weight goes in the opposite direction to the weight of the world.
So the photographic naturalism does not become surrealism, but cosmology: the
human body is an antimatter if compared with the solid matter of the world.
There is no mutual taming, and there is a never-ending non-involvement that
manifests itself in the dimensions of matter: if the world goes up, people fall, if
the world goes down, people go up.
So my feeling interprets these photos as a true anti-humanist manifesto. I wonder
if this permanent dissonance is the most realistic form of our way of being in
the world. I wonder if avoiding to tame the world could guarantee an artistic
balance. The dissonance, in the photos, looks like a dance. The art of being in
the world, refusing to give it our form. If mankind is lost, photographs will fix
the form of a disorder. This form has no ethic nor ontology. Only an aesthetic
reason will save us.
Portfolio page 66
Philippe Assalit
The face and
colour of money:
power tattoos
over forty countries reported in the exuberant watermark of current and ancient
notes. The result is disruptive: the national paper currencies cover the figures with
a suffocating effect, reducing their human dimension to a peculiar tapestry. While
screaming out loud their belonging to a group, those images actually deny, in
their substance, any individuality, that is hidden behind an obsessive and commodifying
weft. The allusion to tattoos and their perpetuity eliminates any possible
hope of change or redemption with regards to a condition, which is bound
to last for an indefinite period of time. The faces showed in a sequence, stuck
and frontal as in an mugshot, look sad, depressed, lost or aggressive, depending
on the purchasing power of the various superimposed currencies: GDP prevails
over everything, over hope, over nostalgia, over the needs and over entire peoples.
The figurative programme of the farcical portraits of Arcimboldo, an aristocratic
Milanese painter who worked for Maximilian II von Habsburg, is symmetrically
upturned: objects, vegetables, fruits, fish, birds or books are part of combinations
of « almost» human metaphoric subjects. Human faces are distorted by luxuriant
tattooed arabesques, they are transformed into objects that hardly save their primitive
and animal vitality. This apparently calm, fifty-year-old man sends a message
that deeply touches the observer. Every single portrait, half paint and half
sculpture, both drawing and photography, requires not less than three months of
work, lived along that thin line that divides, and at the same time combines, the
different artistic displays. Assalit, who defines himself as a neo-pictorialist, has
certainly drawn on the ideas of the pioneers of collage, grattage, montage and
hand colouring. But a sophisticated technique without a soul can never be art:
through the invasive money blanket which wraps up its subjects like mummies,
we perceive the restless spirit of this photographer, who does not feel as part of
the sophisticated Parisian atmosphere, wearing casual clothes and a hardly shown
earring on the left ear: the only discreet symbols to stand up against a strong social
order that asks for deprivations and sacrifices. The astonished «women with the
veil» 1 by Philippe Assalit, even the most aggressive and evil ones, seem to ask for
an explanation about this money-dominated world, the commerce of values and
the unrestrained consumerism of unnecessary goods: considering the long and
deep crisis, this question will hardly find an answer.
Endnotes
1 Starting from the famous Dama velata (Woman with veil) by Raffaello, art history features a
countless list of feminine figures portrayed in poses which are considered to be more or less
enigmatic, from Leonardo to Botticelli, from Dürer to Modigliani, just to mention the most wellknown
artists.
Saverio Ciarcia – A tattoo is forever. Like all things which are meant to be forever
– a concept of eternity linked to the short length of one life -, which attracts and
inevitably scares us, tattoos capture our attention and touch our fantasy with an
extraordinary emotional power. Drawings on skin have accompanied the history
of mankind since its very beginning: the need to communicate was so strong that
initially general postures and facial expressions were used, as primates do it so
well, and not just them: dogs’ and cats’ physiognomy would pile up an endless
amount of remarks, emotional at first and scientific as well. Their eagerness to
communicate was so strong that our ancestors used their entire cutaneous surface
as a text, and as a pretext, to give signals both to themselves and to their fellows:
even the Similaun Man had a tattoo that probably had a «therapeutic» purpose.
Thus the body is used as a customized «machine»: the uniqueness of the bodywork
as a typically human need (and fixed idea) is not just a contemporary trend
then. It is also a flag to be waved as an improper weapon, used to frighten first
rather than to impress. We can easily think about the wonderful « movements»
that open the rugby matches of the All Blacks, the New Zealand national team:
those gestures and rhythms come from a typical ritual of the Maori population,
mainly located in the north of New Zealand and featuring a large number of
its own members in the national team. I am referring to the famous haka, a war
dance that first was an evocative action song for Sun God. A question arises when
looking at Monnaies, the recent collection of photographs: is the French author
Philippe Assalit, a 50-year-old photographer working between Paris and Gers,
effectively aware of all these implications when he captures his (both male and
female) models? Every doubt fades away in front of the power and effectiveness
of his « photographic tattoos». A weird gallery of portraits parades in front of us:
they are neither kings, emperors, grand dukes nor princes of the church, inexpressive
and consumed under the dust that time leaves on power, as in the long Vasari
corridor in the Uffizi Gallery; they are men and women, completely «tattooed»
with drawings that may seem odd at the first look. Those faces, like coloured veils,
rip up transparent reproductions of the notes of each country. The technique
does not involve scars or oblique injections that delay cicatrisation and put colouring
substances in the wounds, but a simple digital superimposition. Yet, colours
are fixed in a deeper way: those eyes covered in scribbles, that weird look at a first
glance, actually question us about the real life that different ethnic groups run in
Portfolio page 72
Giorgio Bianchi
Behind Kiev's
barricades
Alessandra Ciarcia – The influence of History with a capital “H” on our little
history is one of the problems that we need to solve on a daily basis, without
even noticing it. How much the world and the flow of events could mark our
projects, our ideas on being our plans, is an aspect that varies in each person.
Without any doubts, we must be available to receive an invasion from history
and we also have the right to resist; as we are in charge, in a more urgent
and dynamic way, of taking part into it as social beings that respect their
responsibilities. In Giorgio Bianchi’s personal experience, photography is the
connecting point between a single man and history, it has an influence on his
way of staying on earth and works as a transforming factor as well. His love
for photography has become a full time job that becomes even stronger when
it takes the definite traits of documentaries. “Behind Kiev’s barricades” is the
photographic reportage that tells the story of the violent fights that took place
from 16 th February until the beginning of March 2014, between Ukrainian
demonstrators and the police of the pro-Russia president Viktor Yanukovych.
The civil war in eastern Ukraine would start some time after these events.
Maidan Square, the interiors of government buildings and the streets around
them have been the indoor and outdoor stages of a brutal conflict, the impact
of which has been enlightened by images with a larger framing, in which the
action and the reaction happen in that very moment. The observer is placed
at the heart of the uprising, while a protestant slowly takes the aim before
shooting. A group of men, near the barricades, are hiding from the enemy’s
sight, evoking the World War I trenches. In this case, the landscape is not an
empty layer that looks at the collapse of men and animals in the ground that
135

covers underground towns. The battle takes place under the light (even if it
is clouded by the smoke generated by the inflamed tyres), it needs “armours”
to protect faces and bodies, on the asphalt and on the floors of the buildings,
people build their camps and the rubbles start to pile up. The only exception
to this scenery is represented by the presence of “testudos”: they appear from
the soft ground, forming a never-ending line among the trees and the fog,
surrounded by something similar to what the Roman Legionaries must have
seen in the Teutoburg forest. Nobody goes forward, nor back, suffering from
a sort of feverish stillness, that spreads in the areas where desperate crowds
concentrate, they have lost everything and keep protecting their eyes and
mouths. Even the helmets of the guerrilla fighters bang against each other,
as carapaces in a too little space, when they do not float comfortably on tyres;
a concert of loneliness. The people portrayed on their own have nothing in
common, apart from the isolation that cuts them off the context. Or maybe
they are united by everything. The first layer, including the two men, shows
the inscrutability of a barrier that in one case (the man is wearing helmet,
glasses and balaclava) just leaves some inches of uncovered skin. In the other,
the real barrier is not the shield near the face, but the man’s glacial fair eyes.
The toy gun and the obscure smile of the boy make childhood tenderness inaccessible,
both to the child himself and to the observer. The woman wearing
a traditional dress, standing still, with her hands jointed, to push evil away.
Even time stops in front of the gracious embroideries, that let the traces of the
native Slavic faith emerge. This older Madonna, characterised by a bowing
head and a resigned sufferance, wears the poor clothes of the present day,
which make her incredibly human. The banner in her arms has the weight
of her died child. For those who have faith, the sight is not just a sense: a
wounded eye crosses the space and the bandage that covers it, and reaches the
point that it wants to. Intimate moments, like an extreme unction or a procession
done to remember the victims of the massacre, narrow the frame on
each human life, and recover the subjective narration, the minuscule everyday
history, in the History acrobatics. The instinct and the strength that belong to
everyone of us, allow us to continue drawing our figure, to still fight our battles
and to suffer for our personal pains, that make our experiences partially
impermeable to what happens around us and contribute to the definition of
our value as people.
close up page 80
Franco Carlisi
intervista l’autore
Lynsey Addario
Franco Carlisi: How would you define your work?
Lynsey Addario: Photojournalism that covers or conveys issues of human rights
abuses, humanitarian crises, primarily in conflict and post-conflict countries.
Your chosen line of work must have impacted the course of your life. Is there anything you wanted
to do that your work has prevented you doing?
Probably have a personal life! For many years, I set aside my personal life in order
to pursue my career. Fortunately, I met my husband in my thirties, and was able
to have a career, and get married and have a child, but for many years, I was
convinced I would never meet anyone who would be able to respect and put up
with the demands of my work.
Do you take photos in your personal life (away from work)?
Not really. Usually when I get home from an assignment, I don’t even want to
look at my cameras. I photograph my two grandmothers, though, who are 101
years old and 97. One was born in Bari, and the other was born in the US to
Italian parents.
Do you feel that there is a link between personality traits and how good a photographer someone
can be?
I think someone has to be compassionate, and really care about people. and they
have to be curious and know how to make the subject feel comfortable.
In February your biographical book came It’s What I Do can you tell us about any individual
life event which shaped your future?
Probably my childhood: I was raised by hairdressers in Connecticut in a very bohemian,
open household. Our doors were open to anyone and everyone, and my
parents taught my sisters and I never to be judgmental of people, and especially
those who are considered ‘different’ by society
What was your criteria in choosing photos to go into the book?
In selecting the photographs, I didn’t select what I considered to be my best
photographs, but I selected images to help illustrate situations as I discuss them.
The book is a memoir, rather than a photo book, so I wanted the photographs
to compliment the reader’s experience with the memoir, rather than to create a
book of my best images.
Is there always a link between one of your individual photos and the overall photographic narrative
you are constructing [in a project]? How do you evaluate the success of an individual image
when it is isolated from the rest of the set/project?
It depends: when I am working on a story, I am always aiming to round out the
narrative, to provide more information, to educate and involve the viewer more
with a selection of intimate, engaging images. Sometimes images work as standalone
pictures, but sometimes they also work best as part of a collection.
You shoot in both colour and B&W. For many photographers, colour is used as a tool to ‘interpret’
reality, rather than an exact ‘representation’ of it, which can seem paradoxical as we
perceive the world in colour. Some feel that the addition of colour adds an arbitrary element in
how we represent reality. There is indeed always a degree of difference between the colours one
saw whilst taking the photo, and those appearing in the final image. What are your views on
this? What makes you decide to shoot in colour or B&W, or indeed do you only decide how to
output once you have looked at the image(s)?
When I first started photographing at 12/ 13 years old, I photographed in black
and white. When I went out with my camera, I visualized scenes in black and
white, rather than color, developed and processed in the dark room, and really
believed black and white was my preferred medium and accurate form of expression.
And, it wasn’t until I started shooting professionally, around 21 years
old, when I transitioned almost exclusively to color. I am a photojournalist, not a
fine artist, and so I believe in trying to capture a scene as accurately and as true
to reality as I can. I don’t over-process images in post-production, and really see
in color, and conceptualize stories in color. There have been very few times in
my professional life when I approached a story and knew that I wanted it to be
in black and white: Talibanistan, for example. From the very beginning of that
story, I thought it would be more powerful in black and white for its starkness
and simplicity. I proposed that to Kathy Ryan, the photo editor of the New York
Times Magazine, and she agreed. But I almost always see and shoot and publish
in color.
Often, stories about conflict zones are shot by people who happened to be there, rather than
necessarily by a photojournalist. Because of the difference of approach, the context of these
images can often be manipulated to illustrate a certain slant on the story, and their meaning can
be twisted. What are your thoughts on this?
I think it is incredibly important for editors to do their homework when buying
images from photographers they haven’t worked with in the past. As conflicts
become more dangerous and almost inaccessible for western journalists because
of the increased kidnapping and targeting of journalists, editors are relying more
heavily on buying pictures from whoever happens to be there. This is extremely
dangerous, because we have no background information about who is providing
images: are they staging photographs, are they combatants, themselves? Journalists
are schooled in the importance of integrity, we are unbiased in our coverage,
have learned how to capture and provide accurate caption info to tell the story in
a way which represents reality, rather than one side. And we do not set up scenes
or photographs.
A photojournalist is there to represent but also interpret reality. In this latter role of interpretation,
cultural and moral influences can influence the visual language of the photographer. How
does this affect the former role of representing reality? To what degree is reality preserved in the
imagery?
See above. Of course, we all carry our own moral influences and past experiences,
but as journalists, we have a responsibility to cover a scene as unbiased
and accurately as we can. And we should always attempt (provided access and
security permissible) to cover different sides and angles of a story.
Photojournalism projects are virtually always accompanied by text. How do you feel about this
relationship between your images and an article – which is almost always written by someone
else? Do you ever feel that it distorts the meaning?
I tend to only work for publications where I trust the reporting and writing and
integrity of the journalists who work for them. I also trust my editors to ensure
my work isn’t misrepresented by the context in which it is published. If I have
never worked with a reporter before, and the story is sensitive, I sometimes ask to
speak with the writer before I accept an assignment.
136

Who makes the decisions about what to show and not show in an edit? How much control can
a photojournalist have in this regard?
I depends: some editors are more collaborative than others, and invite the photographer
into the process, ask for additional background info on the photographs
in order to have a better sense of how to lay out the story. Other editors
are less collaborative. I have been around for a while at this point (!) and fortunately,
have great relationships with my editors, who I have been lucky to work
with over years, and they generally invite me into the process.
How do you feel about photography awards in general? Lots of photographers seem to opt not to
focus on long term projects, but on creating powerful single images which can win them awards,
and through that get them recognition.
I think winning awards is always a validation of one’s work in some way, but the
goal of this work should be to tell important stories, and to create powerful images
that speak to the public. It should not be to win awards, or about personal
recognition. We do this work to benefit others, not ourselves. I almost never win
awards from the main international photography contests, but I don’t let that
discourage me—I just want my work to speak to people around the world. With
or without a prize!
LIBRI page 88
Antonella
Monzoni
ferita armena
Antonia Arslan - Melancholy, rain, snow, windswept landscapes, run-down Soviet
buildings, fighting dogs and many sad flowers scattered on the ground in
front of the twelve basalt slabs of the Genocide Memorial on the hill of Tsitsernakaberd
(“swallow’s fortress” in Armenian); but also raised fists, the symbol of the Armenians’
eternal struggle to ensure that the terrible 1915 events are not forgotten,
and untamed faces with fiery eyes bearing the burden of an ancient sadness.
That is the “Armenian wound”. An evocative, compelling title. Antonella Monzoni
went there, to that dark and gloomy place. She walked along the streets
and through the many (too many) cemeteries of Armenia. She photographed
its centuries-old stones, its flagstones engraved with the marvellous letters of its
ancient alphabet, its gravestones from which young, thoughtful faces stare at the
exhausted survivors as from an altar.
In one of her photographs a woman is sitting in a peaceful, grassy clearing
bordered by bushes and is looking at a black and recent gravestone covered
by withering fl owers. She looks awkward, her long black hair falling on her
sad face, but she is not crying; maybe she is waiting for someone or something.
In the foreground we can see a white path of square fl agstones leading
to who knows where.
Another picture shows four bells hanging from a wooden door frame opening
on the deserted ruins of an ancient church, its crumbling walls crying out to the
sky. But life is stronger and Armenians are indomitable: in the foreground we
can see a man ringing the biggest bell, as if it were a long-gone bell-tower, and
we can almost hear the monks singing their liturgical chants.
Faces are strong, angular, ancient and reflect the toughness of Armenians, who
choose to withdraw into themselves in order to survive and draw their strength
from the darkness they hide in. It is snowing and a woman is waiting under a
tree for a man who is walking towards her, bent under a heavy weight. In the
background we can see the unmistakable outline of an Armenian church, with
its octagonal dome and its small cross on top. It is freezing cold, but the man
and the woman are about to reunite: life triumphs over everything, bringing
them back together.
There are crosses everywhere in Armenia, but those that are really distinctive
of its landscape are the khatchkars (“stone crosses” in Armenian) – carved granite
slabs bearing a cross. They are everywhere: near ancient churches, along the
roads and in the fields and they express the will to bear witness, to mark the
territory, to make it special. Crosses represent death, but also the resurgence of
life; sometimes a big cross watches over several smaller ones, as Christ’s cross
does over those of us miserable human beings. They are often engraved with
the tree of life.
What is really surprising in Antonella’s photographs is the constant feeling of a
huge variety of spaces open onto infinite horizons. A flock of sheep moves towards
nowhere; the mild animals stand out against a bright snowy background,
while a shepherd walks towards the observer looking like an ancient hero - a
grave and solemn Nestor of Pylos, with his white beard and his ragged clothes
wrapped around him like a king’s cloak.
The terrible 1988 earthquake is another “Armenian wound”. Some pictures
show the results of its devastating fury: patched-up houses, remains of old cars,
a bus abandoned in a field, thin-walled houses, fragile as sand castles, scattered
on a plain strewn with ancient stones. And above, a cloudy, gloomy sky.
Nevertheless, the strong Armenian women boldly hang out their ragged clothes
and their worn out rugs on lines strung between trees and power poles. And they
keep on loving and smiling with their intense eyes, defying their fate.
ENRICO NICOLÒ
PHOTOBLURRYGRAPH
LIBRI page 92
Enrico Nicolò
photoblurrygraph
Saverio Ciarcia – Writing a review for a photo book has never been an easy
job. It is not easy to put into words a story that has already been told by images.
Trying to draw the comparison at a visual communication level would be an
unequal game, that would be lost very easily. By looking at the colours, the lights
and shadows, the shapes, the angles and the framing, you suddenly understand
that no comparison can be drawn. You may try, instead, the difficult operation
of making the author’s “hidden” intentions come out from those images, without
even trying to compete with them. The author’s intentions are sometimes
apparent, sometimes hidden and obscure, a combination of urging expressive
needs and aversions, more or less inherited or acquired during life, which are the
trademark of his or her work. In this respect, the analysis becomes much more
than just a proof of concept (the more you write, the more you get far from the
subject and the object in which you are interested). The analysis may become
not just legitimate and desirable, but even fruitful. In this regard, Enrico Nicolò’s
book is no exception.
The weird word that he created, Photoblurrygraph, is used to identify his pictures
and it is one of those mental products that links different entities, ideas and
actions «in a chain», once they are integrated they can take a much wider and
deeper meaning than the one that the single parts would take: and it is not by
chance that he used English (he could have also used German), indeed, it has an
incredible potential in the creation of these combinations of words.
In this composed word it is possible to hear the echo of far and evocative sounds:
it is made of a «spelling» that scratches the support’s surface, paper is used as
it was in the past with wooden boards covered in wax, that were engraved to
impress meaningful signs, in a long lasting way; but this idea is expressed, in
our case, as a simple means and not as an aim, through «blurred photography».
Browsing the images presented in the book is like attending to a live process
of artistic growth, to a slow and unstoppable transition from impressionism to
post-impressionism, that aims to a form of actual abstract expressionism in his
more recent snapshots. It also aims at the complete destruction of forms and materials,
put together in vague combinations of colours, brilliant and vivid lights.
In the first experiments, most of the work has been done during the first analogical
take on the film, without any special post-production intervention, trying to
save some physical and mimetic references of the represented reality (the eyes
inevitably linger on the codification of objects, landscapes and figures that are
still noticeable). In the advanced stages of the process, any attempt of decoding
becomes impossible: eyes are finally free from the suffocating and mechanical
commitment to build a concrete and identifiable reality, and lightly move between
complex balances of purely virtual solids and voids, among light or heavy
colours, in a never ending and mutual contrast, made of flashes of light and dark
stains, that can communicate just a storm of pulsating internal emotions to the
observer: far stars of meaning, that dance a whirl in the infinite and mysterious
space of our memory and identity, as fire sparks, evocated by inexorable calls.
There is, of course, a certain memory of the exasperated and typically romantic
sensibility, that, although being pervaded by spirituality and by the perception
of a divine entity, crushes the poor human creatures, that are astonished and
lost, in front of the vast and strong nature. In the critical texts that go with the
images, the paintings of Caspar David Friedrich have been widely cited. He was
137

one of the main interprets of the German Romanticism. In the indefinite figures
that look at the far horizon from the back, where the sky and the sea meet each
other and become blurred, there is an evident trace of The Monk by the Sea (1808
– 1810) and of the Wanderer above the Sea of Fog (1818): a restless sense of wait fills
the photographic report, that in the most intense pictures is reduced to sinuous
flames that keep composing themselves in the foggy background of a dawn or of
a sunset, or that try to reach the summit against the absolute darkness of night.
There is the same perception of a divine entity, but at the same time, there also
is that character of doubtful and temporary scrappiness that is a typical sign of
our crisis era.
So, in the choice of these «out of focus images», we can feel a call to the first
researches made by Balla (Dynamism of a Dog on a Leash - 1912) and Marcel
Duchamp (Nude Descending a Staircase – 1912/16): this link is not surprising if we
consider that we are talking about an electronic engineer, that likes to combine
scientific research with photography. But in this case, making the movements
more noticeable through a fading that belongs to television and cinema is not
the point; the objective is summarising reality, eliminating the waste provoked
by the recognisability of details, to obtain a better comprehension of the feelings
that crowd the heart, more than the mechanisms that control the cerebral vision.
If that is true, at the beginning, painting borrowed the result of the long poses
from photography, needed to capture the images on the negative, transforming
it in the aesthetic quality of representation, it is also true that today photography
is treasuring the deforming and suggestive vision of paintings, to put forward
a new and thorough analysis of reality. In the fog that shades the contours, the
image is purified and its existence becomes, by paradox, cleaner in its essence:
the same energy that deconstruct the representation, recomposes a new image,
that is presented as pure quality. In this respect, it would be more correct to
associate Nicolò’s images to the fascinating mists painted by Turner, instead of
the German and the twentieth-century avant-garde artists. Indeed, in Turner the
intense light of the pictures tears the fog, while the sea, the sky and the earth are
confused in whirling clouds.
Importantly, a procedure that is similar to the one experimented by Enrico
Nicolò is at the basis of the project work of one of the most famous New York
architects, Peter Eisenman, who has worked to try and translate movement in the
most stable art, architecture, not only as a conceptual inspiration, but also as a
technique to organize and perceive space and its forms: if space is time, then it
can be measured through time (light year), it lives, it is consumed and restored in
time, thanks to an endless becoming process that destroys life to create it again
in new forms. Its essence can be grabbed only in the movement and through
movement.
The constant «breath» of universe, that surrounds us, is materialised in the continuous
slip of the impressed images through the following layers on the film. It
is a silent earthquake, that produces a more or less diffused blurred effect, that
does not ruin our chances to understand, but ends up exalting human capacities
of instinctive and emphatic nature perceptions: a pastel-coloured universe,
made of continuous expansions of lights and colours, that envelops us and leaves
us dazzled and astonished in front of the evanescent forms of absolute beauty,
where men have disappeared – together with olive trees, anchored boats and
poor houses - , to leave us alone in front of an indistinct plain of sand dunes,
beaten by the furious winds of desert. It is in this sensation of loss, loneliness and
lack of values and certainties – especially the most frequently suggested by our
senses -, that Enrico Nicolò reveals himself as a sensitive artist of our time: a time
that, on one side, pushes us to avoid seeing some dreadful details, on the other
side, it urges us to search in ourselves the answer to thousands of empty promises,
as if this was the only possible compensation.
libri page 96
Robin Schwartz
Amelia And
The Animals
Carmelo Rampello - «Exploring interspecific interactions.
My pictures are the result of my travels in the interspecific and private
world, done with my daughter Amelia over the last 12 years, during which
we lived with every possible kind of animal. I try to capture our interactions
with animals, hoping that those moments will have an echo, and I
want to show Amelia’s great courage and naivety, when she relates with
any kind of animal in a gentle and respectful way. My daughter is much
more than just a sweet and beautiful model. Amelia is sharp, strong and
brave enough to fondle animals with delicacy. Photographs are not a document,
but the evidence of an invented world that we perform, and we
follow its creative flow. This photographic project gave us the chance to
enter into our dreams and discover their extraordinary side. Animals and
their interactions between species have always had a great role in my work.
In my pictures animals are never represented in a cruel way or just to
describe people’s life, but as a part of our daily life… In the world that
we explored, the border line between people and animals looks blurred,
where animals are part of our world and humans are part of their world.
My daughter and I share this affinity with the animal kingdom, we have
fun with our fantasies and explore our eccentricity, creating a dimension
in which animals co-exist with humans and interact with them as real partners.
Amelia’s complicity with me, and with the animals, gives an added
value to the pictures. Those fifteen years of motherhood have often been
urged by a dizzy rhythm of work and deadlines. Looking back, these photographs
actually represent the most meaningful period of my life, it is a
vital means of communication with my daughter. »
With these words, Robin Schwartz, Associate Professor in Photography at
the William Paterson University, New Jersey, introduces her latest work.
If we give credit to the declared intent to explore the interspecific interactions,
the title “Amelia And The Animals” can be disorienting. In my
opinion, looking at these images and thinking of a study on real interactions
between a girl and animals would be a mistake. Instead, I think that
we should bear in mind the following sentence : « Photographs are not a
document, but the evidence of an invented world».
The feeling that we get since the very first analysis, is that the author
used the young model and the animals as sheer instruments to compose
– through photograms – a sort of puzzle coming to surface from her childlike
fantasies: an oneiric dimension that appears as a projection of distant
fairy-like suggestions.
Looking at the pictures on the book, the observer is hit by two big blue
eyes in a face that never smiles: Amelia is portrayed, in her approach with
animals, as relaxed and used to contact, but also frowning and serious, detached
and far from the playful and joyful emotions that we would expect
to find in the interaction between children and animals.
In the pictures, domestic animals often have anthropomorphic features
and are portrayed in static poses; they look like lifeless toys, easily confused
with Amelia’s dolls. Wild animals are portrayed in habitats very far from
their native ones, in artificial settings dominated by the strong presence of
the photographer.
My professional bias – I am a vet and a referee in zoo anthropology studies
– immediately made me think that this work was just a stale report of the
interactions with the animal world, ruined by an anthropocentric vision,
that considers animals as objects, and surely does not leave us free to cross
the threshold of diversity: a loving vision lacking of empathy, the only feeling
that makes it possible to really feel the different and the others’ feelings.
Love and empathy alone are not enough: real communication between human
beings and other species requires people to get off their high horse and
humbly start studying the non-verbal language of their fellow travellers.
There are still a lot of people in the United States rejecting evolutionism
in favour of creationism and that may represent the major ideological
difficulty for a peaceful coexistence with other species.
Honestly, the previous Robin Schwartz works, like Arabbers stables (2006)
and Mexico (1992-93), also deal with the interactions with domestic animals.
Yet, the pictures of these collections, rigorously in black and white,
tell a realistic dimension, in which interspecific interactions are based on
the old rural culture. Men, women and children interact following the archaic
rules of peasant society, free from the urban rules, where the animals
are simply a part of their life. In those pictures animals are not replaced
by a childish and banal icon, as, unfortunately, often happens in Primate
Portraits (1992).
Despite the above-mentioned limits, the photos of the book are worth
mentioning for the sincere intensity of the mother-daughter relation that
can be caught in the cryptic fixity of poses: a secret harmony runs on the
line of charming and padded frozen frames, wisely enlightened, through
which Robin Schwartz succeeds, by instinct, in capturing and hitting the
observers’ attention.
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Grand Tour
GIULIANO FERRARI
libri page 100
Giuliano Ferrari
Grand Tour
libri page 104
Vincenzo
Marzocchini
ritratti
al plurale
Pippo Pappalardo - Over the last decades, more than ever, the experience of
travelling has been nourished of images and imaginary: “travelling” in itself asks
for that, with its flows, its crossings and penetrations made of looks; and then, its
memories that need to be kept, the thoughts that come up slowly over time and,
finally, the act of sharing with others.
A new need and maybe a different requirement come to scene: travelling involves
the experienced time and space – namely the ones sectioned and contained in
the image and in the instant –, but also the storytelling attitude of those who
lived it on the occasion of an encounter, a confrontation, a discover; and, so, do
want to share it.
While recalling the existential and the more than adventurous experiences of the
Grand Tour’s protagonists, Giuliano Ferrari does not forget that those gentlemen,
good enough at drawing and using watercolours, were excellent storytellers
and so, in his work, he builds up a sequence where the rhythms of the story, between
the incipit and the end, enclose the meditation on the “Italian” character of
storytelling, even if he also gives a personal and extremely Italian iconographic
proposal.
I want to compare this work with “Il Bel Paese” written by the abbot Antonio
Stoppani, a classic book of our childhood, in which the author, pretending to be
writing for his nephews, explains that nature, botany, architecture and landscapes
are part of the traditions, the uses and the culture of the country.
We are actually far from Stoppani’s times and, between Goethe’s travels and
our present days, a lot of time has passed by; moreover, a lot of travellers have
passed, and they have reformulated their representations, piling up images over
images, risking to confuse reality and, sometimes, to hide it.
Luckily, our photographer is culturally well-trained. He studied and meditated
the Alinari historic iconography, which is part of the complex proposal of the
Italian Touring Club, and of course the cultural events provoked by “Travel in
Italy” curated by L. Ghirri.
Today we need to put forward a story to deal with those experiences and, at the
same time, to move towards a representation that does not look at monuments
and landscapes with suspect, and that does not address to banality and bad taste
with haughtiness and snobbery: the two aspects, in his proposal, are not one
against the other, but have the same nature, as they refer to the photographer’s
look and to the particular will to represent them, which is the reason for their
existence as new images.
The privileged subject is again in front of us, as in our atlas, as in travel guides;
but the narration he adopts is new, fresh, with touches of originality contaminated
by Martin Parr’s irony or by the classic and sweet references to Herbert List
and Leonard Freed.
Sweetness and irony are, moreover, the constant feelings that go with his representations
and with his photographic samples, often taken using aesthetic and
instrumental rules referring to watercolors or to the naivety of polaroid; there is
a consistency in taste and style that flows in a poetic coherence of the feeling experienced
towards a referee that we always recognize with clarity and sympathy.
Maybe it is not the ability to recognize the place and of the photographic gesture
that grabs our interest, but their interpretation: clearly it is a matter of going
back to formulate a new and qualified version; it is a matter of finding a solution
for a different proposal to understand the images.
So naivety is recovered without falling into cryptic and breathless concepts, also,
the other and the elsewhere, are researched without making an effort to find a
new referee in the crowded Italian panorama, nor a new point of view, but just
to find a new way of thinking and telling stories through images, capturing attention,
provoking curiosity, inviting the reader to cooperate in focusing on a story
and an experience that cannot be defined and resolved in a snapshot.
The photographer then considers his readers’ perspective and he is aware of
their ability to understand and recognize what he has portrayed: he looks for the
rhythm and tone that can be more easily received, in the most efficient way. We
witness the refusal to conceive the “usual” postcard as a free entrance ticket to a
space that is incorrectly considered as eternally accessible.
There is still an elsewhere waiting for our discovery and for our invention. We
just need to want it, as in a story, as a temporal elsewhere.
Diego Mormorio - Vincenzo Marzocchini has been a solid point of reference
in the scenario of Italian photography for a while. He has made thorough
researches in the historiographical field and has dealt with aesthetic subjects
and literature. As a researcher and as a “hobbyist photographer”, he has
been attracted to portraits and territory. Two topics that melt into each other
and that stay together. The “figure” – intended as a face and as an attitude –
takes its shape in the “territory”, […]as in our faces and in our hearts, we are
marked, especially during childhood, by the place where we live. It is during
those years that we become what we are. We become Icelandic, Sardinians,
Romans, Piedmonteses, Sicilians or inhabitants of Marches… and in some
way, we will always be that, even if we travel or if we live on the other side
of the world. […] With a touch of envy, I can affirm that Marzocchini had
the chance to operate in a place where history and nature could generate that
sharecropping landscape that inspired a lot of writers, even if those writings do
not really touch the leading “classes” and new generations. He has been lucky
to be surrounded by those beautiful hills from which the poem L’infinito by
Leopardi comes, that we can – or must – take as a starting point for any kind
of reasoning around the landscape. […]
The finite and the infinite penetrate into each other and give an authentic
meaning to the word landscape. I would like to quote Rosario Assunto: “Between
the two extremes, the closed finiteness and the unlimited infinity, there is a
space that creates the landscape, where the infinity and finiteness are reconnected,
passing from one to the other: so finiteness is opened and becomes infinite
for the limited - unlimited continuity that sets into it, (the limit defines the
unlimited, and shows it as infinity, because its limits are not undefined anymore;
the unlimited takes the limits and does not become a negation of infinity, but
the way in which it is self-presented in finiteness); while infinity, as a limited
infinity, becomes finiteness and makes it become its own mirror”.
Using these words, the philosopher […] combines his thoughts with Leopardi’s
verses and shows how the poet (at the age of 21) already had a very
clear idea of unity (“almost identity”) of space infinity and finiteness,
around which, every possible strict analytical reasoning on observation
could be developed. Starting from Leopardi’s poem and from the reasoning
that Rosario Assunto made around it, we can say that the landscape
is the limited space that opens to infinite, that is why it is in the territory,
but it is not the territory tout-court, which instead becomes landscape
when it takes the aspect of a closed extent “which cuts off the view
of so much of the last horizon.” Being an unlimited space, the sky cannot
be considered as a landscape, just like the sea, that can instead be part of a
landscape.
[…] Considering that we are talking about the landscape, I would remain on
a subject touched by Leopardi, but still true today. The one of wilderness, that
concerns the Marches territory.
The wilderness myth started in Western countries in the XVII century, thanks
to the fathers of the so-called “modern ambientalism”, the Americans Henry
David Thoreau (1817-1862) and John Muir (1838-1914), that made up stories
of an uncontaminated nature, never touched by the man’s hands.
Actually, as the German philosopher and theologian, Romano Guardini
wrote, “this nostalgia of a nature at a pure state, absolutely intact” was “already
a manifestation of culture”, “the result of an existence spoiled by an
excess of artificiality”. In such nature, men could not exist. “Human existence
– he adds – is full of spirit, but the spirit cannot operate unless it takes some
reality away from nature”.
And that process of “taking away from nature a little bit of reality” gave life to
men’s landscapes, their towns and their gardens.
[…] Any attempt of order comes from a specific need, that grows inside a
particular social frame, with its values and its priorities. Those priorities can
generate beauty –as it happened with the Marches sharecropping landscape –,
but also destruction, as it happened along the coasts of Italy, that since the ‘60s
have been attacked by a “gang of hirelings”, to use Antonio Cederna’s words,
that were completely unable to make any reasoning of construction planning.
139

For what has been done and undone along Italy’s coasts there is no remedy,
apart from the one, that our small economic resources cannot afford: demolition.
The beauty of the Marches hills can still be saved, instead. But it is linked
to a new and different Italian policy.
Nobody can deny that most of the Italian touristic resources find their beauty
in the sceneries. Even those who are not interested in cultivating beauty,
should at least, for money's sake, pay attention to the safeguard of the variety
of Italian territory, that requires continuous efforts. Specialized photographers
should also work for the safeguard of territory, as they could document every
local peculiarity. […]The conservation of the landscape’s qualities goes hand
in hand with the conservation of historical memory, that, as far as it concerns
the last century, has found in photography a great strength, but now needs a
big work of re-evaluation. That means that – as it is done by the beautiful research
presented by Vincenzo Marzocchini – the photographic material, that
is bulky saved in the archives, needs to be transformed into cultural legacy.
Local governments should encourage this commitment to research, and do
everything in their power to avoid that pictures, that are today dispersed in
many public and private drawers, get lost. The creation of a national “visual
bank” would be a good idea to store our documental legacy.
I do hope that, by seeing this research carried out by Vincenzo Marzocchini,
many people will understand the need to make this dream come true.
mostre page 108
Wim Wenders
4 Real & True 2
Angela Maria Piga - Vastness is Wim Wenders’s genius loci, large painted
backgrounds are his goal. Three decades of photographs, more than 60
large-size pictures shot all over the world by the great German filmmaker.
Düsseldorf, where Wenders was born in 1945, pays tribute to him with an
exhibition at the Museum Kunstpalast, curated by the director of the Museum,
Beat Wismer and by Wenders himself. Light is the protagonist of these
photographs, and the horizon is the vanishing point. The horizon has no
limits imposed by the camera or by the photograph. Through the movement,
Wenders can capture the space to come in all its width, always at
human reach. Wenders’s horizon recalls the painting on canvas, which he
approached as a young man, by attending the Arts Academy of Düsseldorf.
He then left for the University of Television and Film Munich in 1967. Painting
is there, over these vast expanses of light and colour. The light is stark and
arid, bright and lively, pure and distilled, evoking the Dutch painters, from
Vermeer to Rembrandt, who heavily influenced Wenders’s creativity. As he
stated in 2005 in an interview with Daniel Bickermann: “As the filmmaker,
which is what I became after some detours, and also as photographer, I owe
infinitely more to the history of painting than to the history of film or photography.”
Yet, differently from the number of deserts, urban archaeology
sites and horizons, which are often the subjects of contemporary photography,
Wenders’s eyes are never captured by the absence of people, or by ruins,
but by the power of the colours to bring things to life. The snapshot does not
freeze reality, but it pushes it even forward: every snapshot is a magnificat, an
epiphany heading towards a tangible horizon. In this context, the abandoned
urban landscape is just a point, indeed, a vanishing point. As Wenders told
the curator and director of the Museum, Beat Wismer: “Look at this, this exists,
I have seen it, I want to show it to you”. This reality, which doesn’t claim
to be realistic, is expressed by the movement of the eyes and by the light: the
aerial perspective of Wenders’s analogue snapshots gives back to the light
(which is never artificial) its speed and its dynamic nature, nothing is static,
the snapshot moves forward along with the eyes. The lack of tripod gives
the artist the opportunity to shot at human height: Wenders’s horizon is not
ideal, or psychic, or the result of utopia. It is real. From the initial snapshots
in b/n, to the panoramic photography of monumental landscapes – recalling
Veronese’s Italian painting, besides the Dutch one – to the Ground Zero
images, rarely exhibited before, up to the photographs taken just one year
ago, Wenders’s eyes remain basically narrative, never nostalgic. Because the
colour does not stand for the lack of human subjects, but for their testimony.
Wenders’s narrative is in contrast with the one mainly melancholic of his
movies, as stated by Beat Wismer: “In his pictures he refrains from telling
any stories whatsoever. Wenders’ photographs are distinctly different from
the stills taken from his films: The mostly quiet shots usually devoid of people
offer a potential, seducing us to conjure up our own stories.”
Rassegne page 110
Düsseldorf
Photo
Week-End 2015
Angela Maria Piga - This year, the Düsseldorf Photo Week-End 2015 (at its
fourth edition) opens the city’s doors to photography during the first three
opening days – from 30 th January to 1 st February (but it will last until March
and April for most of the participants): 13 public and private institutions and
more than 20 art galleries have organised both contemporary and historical
photographic exhibitions.
This event aims at giving a new image of the relation between the capital
of North Westphalia and photography. The relation is still influenced by the
School of Photography founded by Bernd and Hilla Becher, which acquired
international recognition thanks to Thomas Struth, Andreas Gursky, Candida
Höfer and Thomas Ruff, and to which the Kunsthalle Düsseldorf dedicated an
important exhibition (open until 11 th January 2015).
The exhibitions are basically composed of parts of institutional collections.
Among the most important exhibitions, the NRW Forum hosts a selection from
the collection of the Deutsche Boerse, “Human nature”, curated by Anne-Marie
Beckmann. It focuses on the human impact on nature and it includes photographs
by Paul Almasy, Mike Brodie, John Davies, Axel Hütte, Vivian Maier,
Simon Norfolk, Sebastião Salgado and Gunnar Smoliansky.
The NRW Forum also hosts the exhibition presented and curated by Enrica
Viganò, probably the most important one of the entire event: “Neorealism:
The new image in Italy 1932-1960”. The exhibition deals with the cultural
origin of the neorealist photography, that is how it was an integral part, along
with cinema and literature, of the entire neorealist experience – more a different
perspective on art, than an art movement itself - which freed photographers
from the myth of the “beautiful Italy”.
The exhibition bursts into the photographic context of the city, both from the
cultural and visual points of view, with the stark and rarely lyrical photographs
by Gianni Berengo Gardin, Mario Cattaneo, Nino Migliori, Mario De Biasi,
Giancolombo, Pablo Volta or Piergiorgio Branzi, to name a few. Part of the
works of AFORK (Archiv künstlerischer Fotografie der rheinischen Kunstszene)
is exhibited at the Museum Kunstpalast, along with Maren Heyne’s portraits
(1941, Munich) and Vera Lutter’s photographs, made with the Camera
Obscura especially for the Museum.
Videos and photographs (taken from her own videos) by Elizabeth Price -the
British artist who was awarded the Turner Prize in 2012 – are part of the exhibition
“Number Nine” at the Julia Stoschek Collection. The Polish Institute
hosts the “Radiation” collection, which gathers photographs from different
periods (such as those of the botanist Wilhelm Beermann, who lived in the
19 th century), taken with different methods. Among the private galleries, special
mention goes to the Clara Sels Gallery, with Gabriele Croppi’s (1974) and
Peter Marifoglou’s (Thessaloniki, 1954) photographs, and to the Voss Gallery.
The latter has presented the exhibition “Lost Scapes”, which includes photographs
of the Israeli photographer Uri Gershuni and Giacomo Costa (Florence,
1970). Costa’s artificial landscapes are indirectly linked with the aesthetic
phenomenon, which took place during the past decades, when art absorbed
photography, introducing it among the leading disciplines of the contemporary
world. Costa, on the contrary, remains a photographer, even when he
uses techniques for the processing of photographs. In this way, photography
absorbs art, not vice versa.
Without any pictorial signs, Costa shows the very nature of photography, that
is, the ability to obtain artificial results through technique, today replaced by
technology.
140

incontri page 112
Claudio
Composti
Direttore artistico
mc2gallery
Giusy Randazzo. First of all, tell us about yourself. Why did you decide to open a photographic
gallery?
Claudio Composti. Well, photography has always been my passion, I really
wanted to be a photographer. But then I started working with photographers
and gave my desire a practical application. mc2gallery was born in 2009, I set it
up with my friend and associate Vincenzo Maccarone, a young collector that I
met in Berlin a couple of years before opening the gallery. We have a common
passion for Art, which kept increasing in Vincenzo, so, after a few years spent
going around fairs and exhibitions, we decided to start this adventure. Before
that, I have had a 13 years long experience at the Ca’ di Fra’ gallery, that I
had opened with my father Gianfranco Composti, my two sisters Manuela and
Maxela, and Franco Toselli. In that gallery, in 1997, I started working my way
up with two “old school” (which I believe it is the best one) teachers, who taught
me how to do this job. Thanks to my father, I have been breathing Art since I
was a child. At first, it was just my most favourite hobby, then, it became the job
of my life. Indeed, at a certain moment, I felt the need to live my time and to
start taking my own path and my decisions, following my love for photography.
There we are now.
What kind of photography is there in your gallery?
It is a research gallery. Since the very beginning, we decided to support and
promote the work of young artists, sometimes funding their first exhibition, or
presenting them on their first Italian exhibitions, like Nicolas Feldmeyer. We
have always supported mid-career artists as well, especially foreigners, like Julia
Fullerton-Batten, Simon Roberts or the Chinese Yang Yongliang, but also foreign
established and well-known photographers like Michael Ackerman, Jacob
Aue Sobol, Vanessa Winship. Sometimes directly with them or with their galleries.
In any case, our choices have been determined by the research of artists
that put together the subjectivity of aesthetic and narrative content or careful
research, that, in our opinion, should always coincide, as in Renato D’Agostin,
Lamberto Teotino or Roberto Kusterle’s works.
What do you think about documentary photography and reportages? Do you think they have
a market?
Reportage is very difficult to be sold. As selling is not its “natural” consequence.
Those pictures are more suitable for public exhibitions and for social purposes.
Instead, if we refer to intimate photography, comparable to a personal “diary”,
in which the author portrays experiences and situations that become the narrative
subject, as in Michael Ackerman, Jacob Aue Sobol, Pierre Gonnord and
Antoine D’Agata, then there absolutely is a market, even if it is not easy. There
is a poetry that takes part into it, over the aesthetic aspect that is usually of
secondary importance in reportages, as they are made of the narration of raw
events and they are far from the realistic and personal interpretations of events.
In your opinion, what are the qualities of a good photography?
Vision and determination. When I talk about ‘vision’, I mean the capacity (of
artists in general) to see the invisible and to be able to describe it, anticipating
a “feeling” that goes from the personal vision to universality, that belongs
to everyone. In this particular case through a snapshot. With ‘determination’,
I mean the courage to describe without “shame” what the author has and is
inside. A snapshot hits the observer when it is not the result of compromises,
and when it is made with determination. It can be aesthetic or not. It can be a
beautiful picture or a “tough” picture, this is clear. To cite Barthes, the punctum,
hits your heart.
“A nice picture or a tough picture”. An alternative that urges me to ask if you meant that good
photography does not have to stay in the category of beauty.
As I said, beauty is subjective, without any technical and objective reference.
The basis for the discrimination comes from the correspondence between form
and content, beauty and meaning: sometimes a picture is more addressed towards
aesthetics, as it happens in Julia Fullerton-Batten or Yang Yongliang; in
other cases, it can be more “tough”, as in Araki, Joel Peter Witkin, Michael
Ackerman and Gonnord.
The chosen guidelines are always heart and instinct though, they have the last
word.
If you were to describe the work done by a gallery owner, what would you underline?
The intellectual approach and the istinctive feelings when evaluating a work or
an artist, even before the economic aspect (that is still a fundamental factor in
the decision making process).
Allow me a provocative question. Many photographers think that most gallery owners do not
understand anything about photography and that they expose the works of authors that, for
obscure reasons, have nothing to do with photography in itself, but have more success with
collectors. Others believe that the choices of gallery owners can influence collectors. What is the
truth? How does a gallery owner take decisions? And, anyway, does a gallery owner have the
“power” to influence the market?
He does, partially. The market is now so wide and fractioned that it leaves a lot
of space to improvisation. So, it is true that many would-be gallery owners,
critics and photographers do not know anything about photography. It is also
true – obviously - that if an important gallery promotes the exhibition of a
young artist, this will have a much stronger influence on the market than if the
artist was presented by a less known gallery. In this case (important), galleries
can influence collectors. At that point, buying a certain artist’s work becomes
an investment in itself. But in Italy and abroad, only historical galleries have this
power. Also, we have to say that this happens because they have acquired quite
a credibility in the field, after years of investments, experience and quality of
their exhibitions. When it comes to money, I think that denying that there are
some expositive and selling strategies, is a bit naive, and I believe that applying
strategies is correct, as gallery owners investment time and money to organize
the artists’ exhibitions. Strategies are part of the game and they take place any
time there is supply and demand, i.e. a market. On the other hand, I believe
that neither collectors nor critics have the same kind of influent power. Not
today, at least. Yet, most of the “allegations” are often the mirror of the frustrations
of those that live outside this “world of Art” and out of the “system”
(if there still was one). It sounds more like the fable of the fox and the grapes
to me…
A well-known photographer comes to my mind. Last year, during an interview, I asked Gianni
Berengo Gardin if photographers study their colleagues’ photography, and so he answered:
«Unfortunately, most of the photographers – especially professionals – look a lot at themselves
and do not care about the others. They actually do not love photography, they love “their”
photographs. Whereas it is very important to love the others’ photographs as well».
I absolutely agree. If you replace the word photographers with gallery owners,
the concept will be exactly the same. Only a few gallery owners go and see their
colleagues’ exhibitions.
What does it mean to be an “expert in photography”? What kind of sensibility do you need to
recognize a “good and beautiful” photograph?
You need to study, read and look around yourself. You have to be curious. This
is the starting point for everything. Instinct is fundamental, but not everyone
has it.
Why have you decided to participate in MIA? How did it go in Singapore?
MIA (Milan Image Art) is a fair that we have been doing for some years. Importantly,
Fabio Castelli is the first – and only one, up to now – that has created
an Italian fair dedicated to Authorial Photography, finally pushing the value
of Photography as an art masterpiece, going beyond a technique and amateur
approach that characterises Photo shows. Last year, for the first time, he tried to
propose an edition of MIA in Singapore. For us, this choice was linked to our
will to develop our relation with Asia, by working with artists that work around
that geographic area: from China (Yang Yongliang and Liu Xiaofang), Korea
(Chan Hyo Bae) and Vietnam (Tiffany Chung). It was a good opportunity to
develop new contacts with local galleries and with potential international collectors.
Unfortunately, the response was not as good as we expected.
Why? What happened in Singapore?
The venue was excellent (Marina Bay Sands) and even the – hypothetical – target
of collectors was very good. Taking into account that every first edition of
a fair, especially abroad, is uncertain – especially in such a distant country, both
geographically and culturally – and taking into account that determining the
success of a fair requires the analysis of a number of aspects, which go beyond
the selling activity, it has to be acknowledged that, unfortunately, collectors did
not attend the fair in Singapore, so I have to suspend my judgment as we did
not have any kind of feedback about the public’s tastes. Every one of us had
believed in this attempt, Castelli too. He is the one that can better answer your
question and tell you what has not worked and why.
141

Are we taking the existence of photograph collectors for granted? Do they really exist?
Of course, they do. But it is a recent group, which still needs to grow. Maybe
the youngest and the future generations will be more accustomed to living and
buying photographs.
We interviewed and met different gallery owners and some of them think that photography
cannot be easily sold in Italy. We would like to know your opinion about that.
It is true. Photography has gained recognition in Italy very recently. But collectors
that consider photography as a form of art are still a few if compared to
other countries like the United States, France and Great Britain, where photography
was born and where it immediately became a means of documentation
and of political and cultural historic affirmation.
Why would a collector buy a photograph?
Why do people buy paintings? Emotion. A real luxury.
What happens to the uniqueness of the artwork, as usually intended, if related with the reproducibility
of photographs? Is there a way to restore its aura of authenticity?
This question touches a very Italian problem. Starting from the idea that photography
is a revolutionary means, because it can always be reproduced, what
really is “against nature” is the number of copies declared by the artist, because
it follows the market rules made by the law of demand and supply, and so the
least editions are available, the most each copy will cost. This market in Italy has
grown over the last fifteen years. But before, until the ‘80s, none of the Italian
photographers would have thought about photography in editions, from Berengo
Gardin to Giacomelli, from Ghirri to Fontana and Nino Migliori – a dear
friend with whom I have often exchanged views on the subject and that confirmed
my hypothesis – simply because there was no market for photography.
So printed editions wouldn’t make no sense. Even today, printed editions do not
have much sense for photographers like Migliori, who indicates the technical
data of the printed photo on the back (date, quantity of copies printed in a day,
who is the printer, the type of paper, etc.). I do not want to make the subject
even more complex by talking about the so called vintage, modern print or printed
later. Reproducibility in Italy becomes a problem both for the declared circulation
and the open circulation. In the United States, there are less problems.
Renato D’Agostin (born in 1983), a young Italian artist, who still works with the
film, had to go to the United States when he was 20 years old, to make a living
out of photography. There, he immediately became Ralph Gibson’s assistant.
He prints 25 copies of the same subject in the darkroom – dealing with nowadays
costs of papers and chemicals, of time and of artisanal professionalism.
Here in Italy, 25 copies sounds like a huge quantity of copies, especially in the
digital era in which the technological reproducibility reduces to banality even a
very difficult technical process, but in the United States nobody mourns about
the edition number.
Let me answer your question about aura: to me the aura can be found in the
artist. The only authenticity that is needed more than reproducibility. I cannot
avoid quoting Walter Benjamin: «that which withers in the age of mechanical
reproduction is the aura of the work of art»; « its presence in time and space, its
unique existence at the place where it happens to be. […]The presence of the
original is the prerequisite to the concept of authenticity » 1 . Ipse dixit.
Of course I was referring to Benjamin and with this quotation you confirm that technical
reproducibility diminishes the aura of the artwork. Moreover, Benjamin writes that in
photography « to ask for the “authentic” print makes no sense» 2 . I find your statement very
interesting, because it supports the idea that the aura stays in the artist. That makes me think
that the aura has to do with the authoritativeness of the artist’s signature more than with the
uniqueness of the artwork. Moreover, even other forms of art are reproducible, sculpture for
instance, but this has no effect on its art or on its market. Do you think that this is one of the
reasons why sculpture has a smaller market than the one of paintings? And is this the reason
why they have different prices?
You are right, I quoted Benjamin because I “had to”, because we are talking
about aura. You make the example of sculpture referring to the value of
uniqueness. Here is my provocative question to you, then: is it the Pietà by
Michelangelo worth for itself as a piece of art – in the very moment in which
it is shaped in the marble (a shape that according to the sculptor was already
in the block, he “just” needs to take away the extra layers) – or does it have an
increased or decreased value, depending on the number of the existing copies?
What I am saying, is that the aura, the thing that gives uniqueness to a photographic
shot, to a sculpture, to a painting, to a drawing, belongs to the hand,
and to that “vision” to which I was referring earlier, that are in the artist, who
sees the invisible and puts it in its creation, going beyond the artwork itself, to
create an icon or a symbol. That gives uniqueness to a piece of art, even if it
can be reproduced. Of course, uniqueness makes every object desirable for
collectors, giving it an economic and fetishist value that pushes to collecting. But
aura has a value in itself; more in photography than in any other forms of art,
especially considering its technical reproducibility.
To remain on the importance of signatures, Michelangelo signed just one Pietà, but, with no
doubt, also the other versions have an intrinsic value. They are all unique, as they are linked to
their space and time, to quote Benjamin again. Actually, my question referred to the sculptors
that use the mould, otherwise my example could have been extended to Monet and his thirty-one
paintings in the Rouen Cathedral, or to the obsessive work of research of many other
artists, in the useless attempt – for them and for us as well - to catch the essence of entities. I
am thinking about Monet’s Water Lilies, Morandi’s bottles, Cézanne’s apples, Degas’ dancers
and Turner’s sea. Let me put aside reproducibility and uniqueness, to go back to photography
market. How do you see the future of the photography market in Italy and abroad?
In expansion, inevitably.
In comparison with other countries, what are the differences in Italy, as far as culture and
photographic sensitivity are concerned?
Again, we need to look at history. On books, Italy was born just 150 years ago,
forty years after photography had seen the light! We come from Giotto. Our history
of photography has always been nourished and written by photo amateurs
groups without the support of institutions or specialized museums, as it has
happened, instead, in other countries, where, during colonization, photography
was used as a means of documentation and political and cultural diffusion of
their history. We have always been colonised and vulnerable. Institutions have
never documented or worked to export our Italian photography as a system,
because it did not exist then, and still does not exist officially. Everything is
as fragmented as it was when noble families and municipalities were the most
powerful institutions that are part of our historic DNA. Each one of them was
stuck in its territorial and cultural reality that did not feel Italy as a nation, but
as a combination of many different situations (even from a photographic point
of view).
What has provoked the excessive democracy of the photographic means? I refer to the availability
of the instruments that allow everyone to take pictures. Has it influenced the incapacity
of many people to recognize the value of photography?
Absolutely. But it has mainly to deal with the fact that people are not able to
recognize their “non” value as photographers. We all take thousands of pictures
every day. Many of them are beautiful as well. But that is not enough to give
ourselves the title of photographers, not even the title of artistic photographers.
This confusion is caused by the fact that our technological means allow us to
take pictures in very easy ways. But that does not mean being able to take
photographs. We are living today a bulimia of images. An event is not a real
event if it is not registered by a snapshot or if it is not immediately “posted”.
The absurdity lays also in front of a live show: events seem to have the right to
be, only if they are filtered by a screen. And the unmanageable and narcissistic
phenomenon of selfies is something apart. I photograph, ergo sum.
1. Walter Benjamin, The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction (Das Kunstwerk
im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit), trans. Harry Zohn, (New York: Schocken,
1988), chapter II.
2. Ibidem, chapter V
PUNCTUM page 118
Ralph Crane
July 4th 1950,
Santa Monica,
California
Salvatrice Graci – Some pictures get into collective memory and become symbols,
universally recognized and codified. In the history of photography, there
are many examples that demonstrate how a simple instant can become the
summa, the icon and the symbol of a common feeling, of the same concept.
Who would not associate the picture of the sailor kissing a nurse in a festive
New York with the end of the war? And how many people could tell that they
have never seen the saddest, most terrible and heartrending picture in history,
the one of a young girl running naked in the street? Only a few. These are
specular images, that live their own life, so that the majority of people now
knows that the first one was taken by Alfred Eisenstaedt and became one of
the most famous covers ever published by “Life” in 1945; and that the other
picture represents the tragedy of Vietnam and was taken by Nick Ut in 1972.
In other cases, instead, one photograph is linked with a personal experience, to
the impression of the moment, to something that cannot be repeated. More-
142

over, even if the photos are codified by many people, they still offer to the
observer the chance to add or subtract something, or to just adapt the meaning
to their own experiences and to their intimate feelings. This is the case of the
snapshot being presented today, “Couple cuddling while sitting in a hole as
others enjoy the beach on 4th July” (1950), taken by Ralph Crane on the Independence
Day in the United States. The snapshot captured some young people
on the beach of Santa Monica, in California; it is an evocative picture that suggests
a three-level analysis. In the first level we see a couple tenderly hugging
in a sand hole, in the second we see some young people lying under the sun in
the shape of a semi-circle, on the third we see more bathers, out of focus and
dominated by the banner of a typical American bar, on which some slogans
invite to taste the typical ice-cream. And that is the element that captures the
attention and offers the interpretation for a picture that otherwise would be
absolutely out of its context, that could be the portrait of a Sunday in Riccione
or Ostia (two famous beaches in Italy) during the years of the economic boom.
Crane gives a portrait of the situation in the United States during 1950: World
War II had just finished and everything was rapidly changing. The United
States were the real big winners of the war, as well as the new powerful political
and economic leader of the western world, which made them also achieve the
cultural hegemony. The myth of the rich, ambitious, unconventional, liberal
and loudly wealthy America started to spread, diffusing via films and glossy actors
its music, cartoons, jeans, leather clothes, hamburgers and the well-known
drink with the bubbles; iconographic elements that gave their contribution to
the creation of the American dream. But devils like racism and imperialistic
tendencies were hiding under the big advertising posters, leading to the consequential
exacerbated nationalism, wars in Korea and in Vietnam, fake and
vulgar puritanism, bigoted religion and apparent respectability. The cultural
scene and the intellectuals reacted to these homologating tendencies proposed
by a society closed in its golden dreams and hidden in its nationalism, with
a desecrating and denouncing attitude, that was in complete contrast. Those
were the years of Hemingway and William Faulkner, Norman Mailer, Tom
Wolfe, William Styron. But also Jerome D. Salinger who, with his The catcher in
the rye, that was published in 1951, just one year after Crane’s photograph, gives
life to the topics of the traditional American novel, travel first of all, innocence,
adolescence, escape and the consequent search for identity. It was also the time
of Jack Kerouac and his masterpiece On the road (1957), manifesto of the Beat
Generation – that comes from an idea of John Steinbeck and his Tortilla flat
(Pian della Tortilla, ed. it. 1939) – . On the road is the symbol of a disenchanted
generation, that is not able to hold the weight of the American dream, devoted
to travelling, to disconnected wanderings in the search for an elusive freedom,
through hitch-hiking and drugs.
As I was saying at the beginning of my piece, when a snapshot is a good one, it
is never an end in itself and its influence does not stop with codification. In this
sense, we can conclude with some lines written by Doris C. O’Neil, Director
of vintage photographs for “Life” magazine, that comes from a photographic
book that includes the picture we are dealing with: «By looking at a photograph,
we receive inputs at various levels, which are very different from each
other and […] the same image may lead to completely different reactions, both
equally valid, in two different people. I often happened to quote that Japanese
saying, according to which a print is never really completed by its author, since
every single observer will always integrate it with his or her personal experience.
That is equally true for a photograph, an engraving, a lithography or a
painting».
Bibliography
Life. 1946-1955.
PUNCTUM page 120
Joe Rosenthal
Raising the Flag
on Iwo Jima
Annarita Curcio - Raising the Flag on Iwo Jima represents five marines and
one sailor while hoisting the United States’ flag on the summit of Mount
Suribachi on Iwo Jima, a little volcanic island where one of the most violent
battles fought by the US against the Japanese fanatic militarism took place
between February and March 1945. This picture, taken by the AP photographer,
Joe Rosenthal, can be defined as an icon-image, as it symbolizes
a complex of ideas and abstract concepts: it is a symbol of the US military
victory, of the triumph over the enemies, but it is also the incarnation of
the admirable heroism of American soldiers serving their nation. As we
know, the photograph that won Rosenthal the Pulitzer Prize was accurately
staged: it was shot four days after the marines actually landed on the island,
so it was taken on 23 rd February. Iwo Jima was instead officially declared
under American military forces control on 16 th March. This date would
have assumed a different role in the whole narration of the story. The image
immediately became the pivot for a massive propaganda aiming to collect
the funds, needed to balance the dreadful budget of the war.
On 25 th February the photograph appeared on the first pages of the newspapers.
John Bodkin, the Ap’s photo editor, declared: “It is an eternal image”
as soon as he saw it; the New York Times reported the enthusiastic sentence of
an anonymous commentator: “It is the most beautiful picture of the war”.
The readers’ reaction bordered fanaticism. Newspapers’ editorial offices
were invaded by letters that asked for the republication of the picture, three
millions posters were produced and it was not the end: three of the men
portrayed in the picture, Ira Hayes, René Gagnon and the Navy male nurse
John “Doc” Bradley – the others were already dead – were called back to
the United States to put in place a tour in the stadiums all over the country,
where they climbed a fake mountain to repeat the glorious exploit in front
of thousands of spectators.
As we said, the military top management used this photograph to promote
the values of patriotism and to legitimate war. The full repertory of symbols
universally comprehensible has been used to promote patriotism: among
them, the flag. It is a tòpos that can transmit unmistakable and precise messages
in the field of visual rhetoric that can be easily manipulated by the
politic propaganda, especially during war periods. Here we need to report a
short anecdote: the picture taken by Rosenthal is preceded by a first photo
taken by Louis R. Lowery, that captured the very first flag-raising ceremony;
the Navy Secretary, James Vincent Forrestal, observed the scene from the
beach and immediately ordered to replace the flag with a bigger one and
to raise it again. This time the witnesses were Rosentahl and the cameraman
Bill Genaust. Anyway, we can easily and inevitably say that the flag in
Rosenthal’s image represents the punctum, the visual “concretion” around
which the sense of the image coagulates. I doubt that anyone looking at this
photo would not glance at the flag: it stands out, at the centre of the frame
to indicate that victory prevailed over the enemy.
So, we can reasonably say that the American military victory corresponds to
the media success of Raising the Flag on Iwo Jima. After many years, the mission
carried out by the marines in 1945 is repeated, once again, in front of
the camera. Indeed, in periods of crisis, the appeal to national unity always
needs its icons. In the aftermath of 11 th September 2011 attacks, some firemen
raised the United States flag on the rubbles of the World Trade Center,
afterward renamed “Ground Zero”. The photograph Thomas E. Franklin
captured the moment with a snapshot that has clear analogies with the Iwo
Jima image, that have been immediately recognised by some press operators,
who showed Joe Rosenthal’s historic image next to the one of the firemen.
The myth that wraps up the genesis and the following propagation of Raising
the Flag on Iwo Jima can help understand the destiny of a symbolic photo as
soon as it appears on the public scene: it undergoes a process of massive and
omnipresent reproduction, it is absorbed by the collective imaginary, until
it becomes part of it. Photography, indeed, is a very effective instrument to
remember and memorize an event, political elites are very aware of that axiom,
that sounds difficult to be contested, as they use photography, television,
cinema and radio to shape citizens’ opinions and the social identity. Visual
language helps the public in immediate identifications and it can be injected
in everyone, urging a “cardiac” emotional and non-rational feeling, that has
nothing to do with verbal rhetoric, which involves logic, discursive and eminently
cerebral reasoning. The large scale diffusion of images, via the Internet,
newspapers, weekly and periodic magazines, is an essential aspect of
public life, as well as an instrument in the politicians’ hands – in democracy,
in dictatorship, during peace or wartimes – to create the consensus needed
to legitimate programmes and decisional proceedings.
Moreover, the meaning of a photograph is historical and contingent, as
every observer gives it historical and cultural aspects. The significance is,
with very few exceptions, the product of a constant and lively negotiation
with the reader’s knowledge. There are some exceptions though, and this is
the case of Raising the Flag on Iwo Jima, that showed how to “resist” the distortions
of the different contexts in which it has been used, preserving its core
of meaning, i.e. being the icon of a triumphal war, used by the American
propaganda during the war to strengthen the faith in the “magnificent and
progressive future” of the country.
143

PHOtO FAIR page 122
mia
milan image
art fair
Salvatrice Graci – In the year of Expo2015, the appointment with MIA Fair
is renewed. MIA Fair is the most authoritative art market event dedicated to
photography and moving image in Italy.
It was born out of Fabio Castelli’s genius, creator and director of MIA, a
tycoon, a sensitive and refined collector, who, since decades and far from any
reasoning linked to the adverse international economic conditions, has been
able to look at the domestic and international photography as something
precious and promising, both on the cultural and on the economic side. He
supports the work of young artists through special categories like the “MIA
Proposal” selection, conceived to give independent artists a chance to get
known and appreciated. Attention is paid not just to the future, thanks to the
works of the young talents, but to the past as well. Indeed special focus will be
put on historic photographs during the third edition of the prize “The time to
be rediscovered – Must-see photographs” and through the exhibition entitled
“the Fourth Estate and the Volpedo district in the photographic archives of
Giuseppe Pellizza”.
The main characteristic of MIA Fair is to enhance the various artists and to
allow an in-depth study and a critical analysis of each participant’s work, even
through a personal e-book catalogue available in digital format.
It is a unique and unmissable opportunity for the operators of the field: artists,
researchers, galleries, specialised publishers (there will be a section dedicated
to photographic books), collectors and simple enthusiasts, that will have the
chance to compare and discover new talents, to appreciate the work of those
who earnestly operate in the field, to discuss the new trends of the market.
The fair will be held from 11 th to 13 th April 2015. During the same period,
Milan will host other high level artistic events, as the individual exhibition of
the sculptor Juan Muñoz (“Double Bind & Around”) at Hangar Bicocca, the
Trussardi Foundation, the Triennale Design Museum the exhibition “Arts &
Foods. Rituals from 1851”, linked with the topic of Expo2015 (1 st April – 1 st
November 2015) and MiArt, the modern and contemporary art fair that will
be held from 10 th to 12 th April.
RIFLESSIONI page 129
henri cartier
bresson
organization of visually perceived forms that give it meaning 1 ». I agree,
but I am not sure that he was referring to the culminating moment, that
very moment in which everything fi nds its balance, that will be lost in the
following moment.
What happens to the latent meaning of the following moment? Are we
really sure that a good photography is the frozen image of a moment between
two completely meaningless moments? A fraction of a second earlier,
everything is wrong. A fraction of a second later, everything is to be sent for
pulping. In a relationship of extreme seduction between a vigilant eye and
the unstoppable fl ow of reality, must a picture be the result of a simultaneous
orgasm for both parts, to get the epithet of photography? That would
be really romantic! But that is not how it works. Not completely.
Let’s say it clearly: it is too easy to say that the moment that has just been
captured is exactly the right one. The real one. The one that holds in itself
the sense of a full fl ow. And what about the following moment? Is it
meaningless? Maybe it holds in itself another point of view… maybe it is
the vehicle for a different meaning of the same event. When you capture a
moment, you catch it while it is hanging on, like an angel fl ying on mirrors
made of sky. But if you hesitate for just one moment, you will see the angel
fall irreparably. You will have ecstasy on one side, tragedy on the other side.
Two things which are really different. It is also true that it is difficult to
decide which moment is more valuable… reality is indifferent, whereas we
keep giving moments hidden reasons.
This theory of meaning has never really convinced me! Which meaning?
A photograph has no meaning because it is not the result of a project to
which you can give an absolute veto, it is just the spoils that a photographer
takes with him after plundering a piece of the world… and the world has no
meaning! Then you look at the snapshot and you fi nd thousands of stories
in it, and think: good heavens! Does eternity lie in just a single moment?
Exactly, all eternity! But I can assure that you can fi nd all eternity in every
single moment that a photographic instrument can capture: as long as there
is enough space in your eyes.
So a crazy idea came to my mind, it is above my possibilities, but I believe
that it would be a nice challenge for a brave publisher that still likes risks.
Let me explain it: usually, on each situation that a photographer wants to
capture, he takes, when possible, a short sequence of pictures. In his archive
there is the right photogram, as well as the one before and the one after.
Now, think about a book showing the photograms following (or preceding)
the most signifi cant pictures of history, like the little Kim Phuc, running a
bit closer to Nick Ut’s objective, naked, her skin burnt by Napalm; or the
blissful face of the sailor in Times Square at the end of World War II, photographed
by Alfred Eisenstaedt, just after kissing the nurse; or even Albert
Einstein, the tongue back into his mouth, in the photogram following that
famous one taken by Arthurs Sasse. Could you imagine that? Photography
has not just told us history, it has built it, it has built its body, so we would
have in our hands a delayed history, another history, with different icons,
(maybe) more sober, more humble, worthless, but maybe more authentic…
what kind of history would it be? I would like to see the history of removed
photograms, the unconscious photographic history of the world, at least because
it would be the fi rst time that history would not be written by winners.
Not bad as a start. Then we will see.
Mirko Orlando - You start talking about photography and in the end you
talk about the moment, the snapshot, the ability to capture the essential in
a fraction of a second. You do your best to tell people that there are photographers
like Diane Arbus, August Sanders, Richard Avedon (and the list
could be longer), without success. That is “pose photography”, not the same
thing, then. Of course “pose photography” exists, it can be beautiful as
well, but it is different. Most of all, to take a photograph means to capture
reality when it least expects it, freezing it, taking it as it is, unprepared. You
know that photography is not just that, but it is not enough, you accept the
playground as it has been introduced to you: instant photography? Let’s
talk about it then!
That is the result of the contribution given to this discipline by Cartier-Bresson
: «to take photographs means to recognize - simultaneously
and within a fraction of a second – both the fact itself and the rigorous
144

© Philippe Assalit
40061
9 771593 176007 >