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VIAGGIO<br />

IN ITALIA<br />

una collana diretta da Fabio Francione


EDIZIONI<br />

FALSOPIANO


In copertina: Juha di Aki Kaurismaki (1999)<br />

In quarta di copertina: Gli ultimi di Vito Pandolfi (1963) e, in basso, L’albero degli zoccoli di Ermanno<br />

Olmi (1978)<br />

© Edizioni Falsopiano - 2016<br />

via Bobbio, 14/b<br />

15121 - ALESSANDRIA<br />

http://www.falsopiano.com<br />

Per le immagini, copyright dei relativi detentori<br />

Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri<br />

Stampa: CNS Vaprio d’Adda<br />

Prima edizione - Marzo 2016


INDICE<br />

Introduzione p. 7<br />

Tra modelli e miti:<br />

La Terra e la collettivizzazione agricola nel cinema sovietico p. 11<br />

Tra modelli e miti:<br />

il Furore contadino nel cinema statunitense p. 19<br />

La questione contadina nel cinema italiano p. 38<br />

1. I contadini oscurati (1896-1914) p. 38<br />

2. Il mito della Terra madre e il cinema di propaganda fascista p. 47<br />

3. Il risveglio dal sogno e il confronto con la realtà p. 61<br />

4. Del rosa, del rosso e di altri colori p. 77<br />

5. Casali e pummarò tra i due millenni p. 101<br />

Lo sguardo europeo sul mondo contadino p. 117<br />

La Francia, avanguardia dell’eccezione europea p. 131<br />

Il proletariato agricolo nell’altra metà del cinema<br />

(Asia, Paesi arabi, Africa e America latina) p. 147<br />

I contadini del mare e il cinema p. 166<br />

Nota editoriale p. 180<br />

Bibliografia essenziale p. 182<br />

Festival e archivi del cinema su mondo rurale,<br />

ambiente, alimentazione p. 184<br />

Filmografia p. 186


Viridiana (1961)<br />

6


Introduzione<br />

“Di tutto quello che mio padre mi ha lasciato, quello che preferisco<br />

sono le terre. È sulla terra che si vede il risultato del lavoro”<br />

Viridiana (1961) di Luis Buñuel<br />

“Quelli che abitano in città o sono arroganti o sono farabutti.<br />

E mio nipote è un farabutto”<br />

Revanche - Ti ucciderò (2009) di Götz Spielmann<br />

Nel realizzare questo libro abbiamo pensato di offrire uno strumento utile<br />

alle associazioni, alle scuole, ai centri sociali, ai circoli culturali, in breve a<br />

chiunque voglia organizzare una rassegna di film su temi legati all’agricoltura,<br />

all’allevamento, alla pesca.<br />

Se ad alcuni parlare di contadini può apparire rétro, non “di tendenza”,<br />

quanto di più lontano dagli universi virtuali in cui ormai tutti navighiamo, a noi<br />

al contrario è sembrato un argomento tutt’altro che inattuale, e non solo perché<br />

i lavoratori della terra sono ancora maggioranza in molti Paesi e lo erano fino<br />

a un secolo fa in quelli oggi più industrializzati o terziarizzati. Avvicinarsi al<br />

“settore primario”, come per molto tempo la geografia economica ha chiamato<br />

la produzione di cibo, significa andare a discutere di salute, di suolo, di consumi,<br />

di popoli affamati e società obese, di tradizioni e modernizzazione, di rapporti<br />

sociali, di padroni e forza lavoro, di multinazionali, capitali e globalizzazione,<br />

di scelte economiche e politiche, di sfruttamento e di rivolte.<br />

E significa, nel nostro caso, andare a scoprire quale relazione ha avuto il<br />

cinema con il mondo contadino. Un soggetto non proprio cinematografico,<br />

paesaggi a parte, al quale la maggioranza dei cineasti si è avvicinata con disagio,<br />

come più in generale a tutto il mondo della produzione nel quale si consumano<br />

contraddizioni tra le più drammatiche e scontri sociali tra i più aspri.<br />

La rappresentazione del lavoro degli uomini e delle donne, e ancora oggi dei<br />

bambini e delle bambine, non v’è dubbio che sia vista come ostacolo alla realizzazione<br />

delle logiche di sfruttamento. È così che gli apparati degli Stati e<br />

le lobby di potere esercitano da sempre il controllo della produzione culturale,<br />

soprattutto se di massa come fin dall’inizio è stato il cinema che, a differenza<br />

della letteratura, non richiede l’apprendimento di strumenti di decodifica<br />

del messaggio, neppure un’alfabetizzazione primaria. Negli Stati totalitari<br />

e nelle dittature, ma altrettanto nelle cosiddette democrazie e Stati libera-<br />

7


li, certo con metodi diversamente violenti, il cinema è stato utilizzato per<br />

manipolare, distorcere, aggredire la realtà. Per dis-trarre ovvero per trascinare<br />

quanto più lontano da essa. Fino all’occultamento attraverso la non rappresentazione.<br />

Di certo la soluzione che deve essere apparsa la più efficace,<br />

semplice ed economica.<br />

Affermazioni non pregiudiziali, ma supportate dalle realizzazioni filmiche<br />

provenienti da realtà geografiche e momenti storici molto lontani tra loro, in cui<br />

assistiamo all’esaltazione della vita dei campi, edulcorata fino al ridicolo, ai<br />

“sani” valori del mondo contadino additato a modello da imitare, dove e quando<br />

le politiche economiche fanno scelte orientate in questo senso. Oppure, al<br />

contrario, contadini relegati al ruolo di semplici comparse, rapidamente sottratte<br />

ai primi piani per fare spazio alla città che avanza dove e quando l’economia<br />

cambia direzione. Salvo poi tornare alla visione di un mitico passato da rimpiangere,<br />

che persino l’ex contadino è convinto di ritrovare nei cibi fatti come<br />

una volta, a regola d’arte (o forse arte-fatti?), vestiti alla campagnola sugli scaffali<br />

del supermercato. Quasi amici perché già incontrati in altre campagne,<br />

quelle pubblicitarie, sullo schermo piccolo e domestico dove spesso è migrato,<br />

dallo schermo grande, il regista di talento che sa come trasformare un biscotto<br />

in un divo del cinema e un mix di improbabili ingredienti in una prelibatezza<br />

alla quale è impossibile rinunciare.<br />

Esiste però anche una cinematografia non asservita. Esistono le produzioni<br />

indipendenti, l’autore affermato che può permettersi di autoprodursi, i cortometraggi<br />

alla portata economica dei giovani autori. Ed esistono i capolavori,<br />

quei film che non ti stanchi di rivedere e sui quali il tempo non deposita la polvere.<br />

Se non di eccezioni si tratta com’è ovvio di minoranze.<br />

Abbiamo cercato di organizzare questa ricca e variegata messe di film che<br />

nascono dal rapporto tra il cinema e il mondo contadino, suddividendo le pellicole<br />

per aree geografiche e storiche, in un ordine cronologico al loro interno. Ci<br />

sembra un criterio che possa agevolare la consultazione ed è lo stesso seguito<br />

nel precedente volume sul rapporto tra il cinema e il mondo della fabbrica uscito<br />

nel 2010 sempre per Falsopiano (La classe operaia non va in paradiso,<br />

Umberto Calamita e Giuseppe Zanlungo).<br />

Laddove è stato necessario operare una selezione, tenendo presenti le finalità<br />

del nostro lavoro, abbiamo privilegiato le pellicole che meglio si prestano<br />

ad essere utilizzate in chiave di dibattito, di riconsiderazione, di approfondimento<br />

e, tra queste, le produzioni occidentali di più facile reperibilità sul<br />

mercato. Non si è usata dunque la discrimin<strong>ante</strong> del valore, né ci si è addentrati<br />

nell’analisi critica e di linguaggio cinematografico delle opere prese in<br />

considerazione. Al riguardo esistono già numerose pubblicazioni e studi,<br />

alcuni anche sulla “filmografia contadina”, in parte citati nella bibliografia.<br />

Le schede che seguono ciascun capitolo (quasi 200 in tutto) sono quindi di<br />

tipo tecnico, con una brevissima sinossi, per agevolare la scelta di titoli da<br />

proiettare in cineforum.<br />

8


Abbiamo dato voce anche a quel cinema che è diventato un’arma import<strong>ante</strong><br />

nella lotta delle classi subalterne contro lo sfruttamento, nelle campagne africane,<br />

asiatiche o latinoamericane. Lo scambio di esperienze, grazie alla produzione<br />

di film e incontri pubblici, sta facendo decollare, a livello internazionale,<br />

una decisa opposizione delle popolazioni contro il profitto che nega, attraverso<br />

coltivazioni nocive e degrado ambientale, un rapporto equilibrato con le risorse<br />

naturali.<br />

Le deturpazioni del paesaggio, gli squilibri commerciali, le aggressioni al<br />

patrimonio forestale, l’assoggettamento di intere popolazioni attraverso guerre<br />

e fame sono questioni oggi documentabili grazie a registi sensibili che vanno al<br />

di là del semplice reportage giornalistico, per trasformarle in risposta utilizzabile<br />

come strumento di organizzazione e lotta a difesa della “terra madre”. E qui<br />

andiamo ad affrontare il campo dei film documentari sul mondo rurale, citati in<br />

gran numero nel presente lavoro, che spesso attestano uno sguardo più<br />

approfondito e coinvolto nella conoscenza e nella difesa di territori e tradizioni,<br />

rispetto a quello, talvolta più borghese e superficiale, degli autori di film di<br />

finzione. Certi argomenti scottanti, si “raffreddano” naturalmente col trascorrere<br />

del tempo, pensiamo ad esempio alle repressioni sanguinose di t<strong>ante</strong> lotte<br />

contadine anche in Italia, la cui narrazione differita di qualche decennio, può<br />

essere meritoria per ristabilire una verità storica agli occhi del grande pubblico,<br />

ma perde di incisività sul presente.<br />

Al contrario, il documentario su temi di ambiente contadino si è andato spostando<br />

dal reportage etnografico, e dal documentario per il recupero di tradizioni<br />

e antichi riti, verso l’opera milit<strong>ante</strong> di denuncia del mercato capitalistico<br />

legato all’alimentazione e alla produzione agricola allo scopo di profitto, da<br />

parte delle grandi multinazionali. Sono per lo più firmati da giovani autori, talora<br />

di grande qualità, purtroppo poco visibili da noi al di fuori del circuito dei<br />

festival o, per pochi giorni, nelle sale d’essai.<br />

Ci auguriamo di aver reso evidente, nelle pagine che seguono, come il cinema<br />

sia vissuto per decenni creando e diffondendo false contraddizioni tra città<br />

e campagna, stereotipi come quello del “buon contadino”, profusione di spot<br />

pubblicitari, autopromozioni sulla pelle dei lavoratori dei campi. A tutto ciò va<br />

replicato, rimettendo al suo posto la realtà oggettiva, spesso cruda e crudele,<br />

che vede ancora una volta il lavoro, senza distinzioni, contrapporsi al profitto,<br />

la lotta opporsi allo sfruttamento, perché dai tempi de La Terra di Dovženko ad<br />

oggi non è poi passata molta acqua sotto i ponti né sulle valli.<br />

U.C. e C.S.<br />

9


Quando volano le cicogne (1957)<br />

10


Tra modelli e miti: La Terra e la collettivizzazione agricola nel cinema<br />

sovietico<br />

“Il film più erotico che ho mai visto è La Terra di Dovženko, non già per l’intervento,<br />

puramente tragico, di una donna nuda nel finale, ma per la sequenza di centro... La notte in<br />

un villaggio ucraìno, i meli gravidi di frutti sotto la luna piena. Capanne, campi, siepi e<br />

dappertutto coppie d’amanti, la mano del ragazzo nel corsetto della fanciulla.<br />

Immobili, in piena eternità erotica e amorosa, senza dir niente, senza far niente, ma<br />

trasfigurati perché giunti al colmo di quella felicità completa, di quei folli istanti grazie<br />

ai quali si posson considerare privilegiati solo gli uomini e<br />

le donne che li abbiano conosciuti per più di qualche ora in tutta una vita”.<br />

Georges Sadoul, intervistato in un’inchiesta sull’erotismo al cinema<br />

Un sottile ma solido filo di celluloide lega tutto il cinema europeo, statunitense,<br />

asiatico. Uno scambio frenetico di esperienze e di incontri, che spesso<br />

avviene dietro curiosità intellettuale, interesse culturale, partecipazione personale<br />

di registi, montatori, sceneggiatori, fotografi, connota un mondo del cinema<br />

in ebollizione, da quegli anni ’20-’30 che seguono la Rivoluzione d’Ottobre<br />

e precedono la Seconda Guerra mondiale, fino agli inizi degli anni ’50.<br />

Marinetti incontra, burrascosamente, Majakovskji in Russia; Ejzenstejn<br />

vola a Hollywood per vedere come lavorano le Majors; Jay Leyda (statunitense)<br />

soggiorna qualche anno in Russia e scrive la monumentale e migliore Storia<br />

del Cinema russo e sovietico; Renoir, Carné, Melville, Duvivier, Visconti, De<br />

Sica e Zavattini (ma anche Camerini e Blasetti) riconoscono il loro debito nei<br />

riguardi della cinematografia sovietica e di quella statunitense; notissimi registi<br />

indiani (Ray su tutti), giapponesi e cinesi intravedono nel Neorealismo italiano<br />

una inesauribile fonte d’ispirazione, tecnica ma anche etica e spirituale.<br />

Queste sparse e incoerenti notazioni possono però dare, probabilmente, il<br />

senso di una cinematografia mondiale in sviluppo caotico ma connesso, disordinato<br />

ma tenuto insieme da un comune impegno alla scoperta ed al rinnovamento.<br />

E geniali sono gli esponenti maggiori delle varie scuole nazionali,<br />

soprattutto quando il cinema narra la realtà, critica la conservazione, apre il<br />

mondo della celluloide alla diretta rappresentazione delle fatiche dei popoli.<br />

Il cinema internazionale trova modelli rivoluzionari e si crea miti indistruttibili.<br />

Anche quando narra il mondo dei contadini. Anche quando questo mondo<br />

è deriso dall’industrializzazione e dalla vita cittadina.<br />

In un’Unione Sovietica in cui la società era eminentemente rurale – il 75%<br />

degli abitanti risiedeva in campagna ed anche se la servitù della gleba era ufficialmente<br />

abolita da anni, di fatto persisteva in gran parte dei territori almeno<br />

fino all’eliminazione dei kulak nel 1929 – e con un analfabetismo che rasenta-<br />

11


va il 90% della popolazione, lo sguardo dei cineasti è necessariamente rivolto<br />

alla vita nei campi, alla collettivizzazione, all’introduzione delle prime macchine<br />

nei lavori agricoli. La NEP (Nuova politica economica) era finita da un<br />

pezzo, Lenin era morto nel 1924 e l’immenso Paese aveva anche abbattuto ogni<br />

opposizione interna, consolidandosi a livello internazionale.<br />

L’era staliniana, durata quasi un trentennio, si dota immediatamente di un<br />

forte apparato di propaganda, del quale è parte fondamentale il cinema: treni e<br />

camion percorrono l’intero territorio sovietico mostrando con proiettori, fotografie<br />

e manifesti le acquisizioni economiche, politiche e sociali del potere dei<br />

soviet. In improvvisati cinematografi – ne verranno poi costruiti a migliaia – il<br />

mondo contadino può così vedere per la prima volta i cinegiornali, scoprire il<br />

volto di Lenin, ammirare lo sforzo di tutti quei popoli che costellano l’Urss e<br />

lodare la straordinaria industrializzazione e la collettivizzazione.<br />

Tra i primi successi, c’è nel 1927 il bel film al femminile Le donne di<br />

Rjazan’-Il villaggio del peccato di Olga Preobraženskaja, già attrice e regista<br />

prerivoluzionaria, che mostra la condizione di semischiavitù della donna contadina,<br />

nella Russia <strong>ante</strong>cedente la Prima Guerra mondiale. Non è invece propriamente<br />

un film sui contadini il noto Tempeste sull’Asia (1928) del grande<br />

regista Vsevolod Pudovkin, che narra, con la consueta potenza espressiva e<br />

poetica personalissima, una grande insurrezione mongola, in pieno e paesaggisticamente<br />

meraviglioso Deserto del Gobi.<br />

Nel 1929, Sergej Michajlovič Ejzenštejn aveva cercato con Il vecchio e il<br />

nuovo (iniziato nel 1926 col titolo La linea generale) di tratteggiare l’impegno<br />

collettivo della fondazione di un kolchoz nella campagna russa, con attori non<br />

professionisti, producendo, tra conservazione e rivoluzione, un film corale e,<br />

nello stesso momento, didascalico, grazie alla tecnica del personalissimo “montaggio<br />

delle attrazioni” e toccando le varie note del sentimento: dramma, comicità,<br />

ironia. Il regista era però già in evidente crisi di maturità (l’anno seguente<br />

sarebbe andato in giro per l’Europa, poi negli Usa ed in Messico a studiare, tra<br />

l’altro, le nuove tecniche del sonoro), dovuta anche all’esaurirsi apparente della<br />

spinta innovativa e ad una incipiente svolta culturale nazionale che porterà di lì<br />

a poco al “realismo socialista”.<br />

Eppure c’è ancora spazio e tempo per produrre il capolavoro della vita nei<br />

campi: nasce nel 1930 La Terra (Zemlja) di Aleksandr Petrovič Dovženko, il<br />

regista ucraìno che aveva già realizzato il magnifico Arsenale (1929) e che è<br />

considerato il più lirico dei grandi registi sovietici. La Terra diviene, in breve<br />

tempo, un mitico inno al lavoro collettivo ma collegato strettamente alle stagioni,<br />

alla pioggia, ai venti, alla bellezza del cielo, alla nascita ed alla morte, al<br />

p<strong>ante</strong>ismo in cui ogni soffio vitale è parte del tutto.<br />

Anno di “svolta” il 1929, proprio perché lo Stato sovietico decide la centralizzazione<br />

dell’industria cinematografica attraverso la Commissione per il<br />

Cinema che, nell’anno seguente, crea la Soyuzkino, unica fonte e solitario filtro<br />

di tutte le future pellicole, in stretta dipendenza dal potere centrale.<br />

12


Il giovane Mikhail Kalatozov (divenuto famoso internazionalmente per<br />

Quando volano le cicogne, 1957) filma nel 1930 un documentario di 55’, Il sale<br />

della Svanezia, girato in un’area caucasica particolarmente povera, con un verismo<br />

poetico e crudo, unico nel raccontare i disagi di contadini e animali. Anche<br />

Yuli Raizman realizza, ancor giovane, La terra ha sete (1932), che narra l’unione<br />

tra studenti d’ingegneria e giovani contadini in Turkmenistan per dotare<br />

i campi della necessaria irrigazione, fino ad allora negata dai potenti amministratori<br />

locali.<br />

Adesione completa al realismo socialista è quella di Sergej Jutkevič (Leone<br />

d’oro alla carriera nel 1982 a Venezia, tra l’altro), che nel 1931 realizza Le<br />

Montagne d’oro con cura particolare del paesaggio rurale. Dovženko continua,<br />

con Ivan (1932), il suo personale discorso lirico e naturalista su una campagnamadre<br />

e sulle differenze con il mondo della fabbrica. Collaboratore di Jutkevič<br />

per Contropiano (film su una lotta esemplare di operai in un’azienda industriale,<br />

1932), Fridrich Ermler è un regista abbastanza conformista che mette su pellicola<br />

I contadini (1934), solidali, uniti, in lotta contro la repressione. È del<br />

1934 La felicità (o Gli accaparratori) di Aleksandr Medvedkin, che riesce a<br />

fondere, in questo che è l’ultimo film sovietico muto, un ritmo farsesco con la<br />

volontà didascalica di mostrare la battaglia di un contadino contro se stesso per<br />

sconfiggere il proprio conservatorismo individualista.<br />

Già collaboratore di Ejzenštejn, Grigorij Aleksandrov tenta una strada<br />

nuova per l’Urss, quella della commedia musicale, con il fortunato Tutto il<br />

mondo ride-Allegri ragazzi (1934), che narra le avventure di un pastore che<br />

diviene suonatore jazz e cant<strong>ante</strong> di successo, pur sempre seguito dal suo gregge.<br />

Lo stesso Aleksandrov firma il film Volga, Volga (1938), amato dallo stesso<br />

Stalin, con una storia di contadini che risalgono con due imbarcazioni il<br />

Volga per arrivare, con la loro orchestra ed un coro, al concorso nazionale che<br />

vinceranno. L’ironia, la fantasia e l’antiburocratismo sono le note di fondo di<br />

questo regista, poi arenatosi nelle maglie di un realismo di regime che non condivideva.<br />

Completamente interno alle tematiche ed alla propaganda dell’epoca staliniana<br />

è invece il regista Ivan Pyryev che sforna discreti film sulla vita contadina,<br />

come La fidanzata ricca (1938), Il trattorista (1939), La guardiana dei<br />

porci e il pastore (1941), I cosacchi di Kuban (1949), di sicuro successo ma<br />

retorici e scontati.<br />

Il membro del governo (1940) di Aleksandr Zarkij e Josif Heifits ci racconta<br />

la carriera di un’umile contadina, vessata in casa, che, grazie alle sue capacità,<br />

diviene capo-villaggio fino ad essere cooptata al Soviet Supremo. Come<br />

nelle democrazie occidentali un “buon cittadino” (ruolo mitizzato da James<br />

Stewart negli Usa) può aspirare ai gradini più alti della società, così in Urss un<br />

“buon contadino” può giungere alla guida del Paese. Il georgiano Sergej<br />

Paradzanov ha girato il noto Il colore del melograno (Sayat Nova, 1969), un<br />

film che si tuffa nel simbolismo più accentuato, ma pieno di quadri pittorici di<br />

13


estrema fantasia, che prendono le mosse dalla vita errabonda di Sayat Nova, un<br />

trovatore del ’700.<br />

Lo smembramento dell’Urss, iniziato nel 1991 e passato attraverso l’esperienza<br />

della CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), ha dato luogo alla crescita<br />

di cinematografie nazionali, tra cui alcune sono emerse lentamente ma decisamente<br />

e si sono rivelate assai interessanti (soprattutto negli Stati centroasiatici),<br />

all’interno di questo ultimo ventennio. Uno dei film migliori, di tematica<br />

rurale, è sicuramente il russo Madre e figlio (Mat’i syn, 1997), di Aleksandr<br />

Sokurov, ambientato in una campagna bellissima e dolce, con al centro il rapporto<br />

tra un giovane e la mamma morente.<br />

14


I FILM<br />

Le donne di Rjazan’- Il villaggio del peccato (Baby Rjazanskie)<br />

di Olga Preobraženskaja, Urss, 1927, b/n, muto, 67’.<br />

La regista, già famosa attrice prerivoluzionaria, passò dietro la macchina da<br />

presa nel 1925, dopo essere stata anche insegn<strong>ante</strong> alla Prima scuola statale di<br />

cinematografia e in altri istituti di cinema. Dopo aver girato tre film per bambini,<br />

realizzò Baby Rjazanskie, che in Italia venne censurato dal Fascismo e<br />

distribuito col titolo Il villaggio del peccato. Narra di un villaggio di contadini<br />

nella Russia profonda, dove tutto è magico, festoso, perfetto, anche quando il<br />

duro lavoro nei campi di grano curva le schiene. Con Il placido Don (1932, presentato<br />

alla prima Mostra del Cinema di Venezia), ha ottenuto il suo maggiore<br />

successo.<br />

Il vecchio e il nuovo (La linea generale, Staroe i novoe)<br />

di Sergej Mikhajlovič Ejzenštejn, Urss, 1929, b/n, muto, 121’ e 89’ (nella versione<br />

ridotta).<br />

Il grande realizzatore russo ha voluto rappresentare la situazione nelle campagne,<br />

dove la povertà e lo sfruttamento repressivo da parte degli agrari (i kulaki)<br />

avevano costretto i contadini alla sottomissione totale. Grazie alla caparbietà di<br />

una vecchia contadina, nasce una cooperativa che riesce a contrastare il conservatorismo<br />

padronale. Il film è decisamente didascalico, ma vi compaiono<br />

elementi tecnici molto interessanti, tipici del regista, come il montaggio parallelo<br />

e contrasti continui tra il mondo reazionario della borghesia e quello progressista<br />

e rivoluzionario di operai e contadini. Dopo questo film, Ejzenštejn<br />

partì per un lungo viaggio all’estero (Stati Uniti e Messico, soprattutto).<br />

La terra (Zemlja)<br />

di Aleksandr Petrovič Dovženko, Urss, 1930, b/n, muto, 83’.<br />

Vero inno alla natura, al p<strong>ante</strong>ismo, alla felicità campestre, questo film è giustamente<br />

ricordato come il maggiore di Dovženko, il regista ucraìno che aveva<br />

già ottenuto apprezzamenti unanimi per Arsenale (1928). La pellicola, fortemente<br />

simbolica, luminosissima, racconta una storia di progresso, di collaborazione,<br />

di sforzo collettivo dei contadini di un villaggio povero per raggiungere<br />

l’indipendenza economica dai kulaki, attraverso anche il deus ex machina rappresentato<br />

dal trattore nuovo che irrompe tra i campi. La collettivizzazione è la<br />

risposta allo sfruttamento padronale che arriva anche all’omicidio pur di non<br />

perdere il potere.<br />

15


Le montagne d’oro (Zlatye gory)<br />

di Sergej Jutkevič, Urss, 1931, b/n, 132’ - Con Boris Poslavsky, Yuri Korvin-<br />

Krukovsky, Boris Tenin, Ivan Shtraukh, Nikolai Michurin. Musica di Dmitrij<br />

Šostakovič.<br />

Regista legato all’ortodossia di Stato, premiato oltre che a Venezia anche a<br />

Cannes nel 1955 con Otello il moro di Venezia, realizzò Le montagne d’oro<br />

quando era già famoso in patria. Il film tratta il passaggio di un contadino dalla<br />

campagna alla città, dove troverà non certo una mitica ed ingenuamente desiderata<br />

ricchezza ma un onorevole impiego da operaio. Questa storia è emblematica<br />

del realismo socialista e del desiderio di indicare al popolo sovietico la<br />

strada verso un progresso ancora lontano.<br />

La felicità (Scast’e)<br />

di Aleksandr Medvedkin, Urss, 1934, b/n, muto, 63’ - Con Pyotr Zinovyev,<br />

Yelena Yegorova, Nikolai Cherkasov.<br />

Il film, che porta il sottotitolo Gli accaparratori, narra la storia di Chmyr’,<br />

povero contadino, e delle sue traversie in giro per il mondo, tra città e campagne,<br />

scontri con le autorità, incomprensioni, delusioni. Dopo averle provate<br />

tutte, Chmyr’ entra in un kolchoz, dove viene maltrattato perché lavora poco.<br />

Si riscatterà grazie alla strenua difesa del pane dei contadini contro gli accaparratori.<br />

La felicità è dietro l’angolo. Il film dell’esordiente (nel lungometraggio)<br />

Medvedkin è il proseguimento dei tanti “corti” che il regista aveva portato<br />

alla visione del popolo, anche nelle terre più lontane, grazie al “cinema sul<br />

treno”. Il suo stile, particolarmente fortunato, prevede l’utilizzo di comicità e<br />

satira a piene mani.<br />

Volga, Volga<br />

di Grigorij Aleksandrov, Urss, 1938, b/n, 104’ - Con Lyubov Orlova e Igor<br />

Ilyinsky. Musica di Isaak Dunayevsky.<br />

Si tratta di una commedia musicale che mette in scena il viaggio sul fiume, alla<br />

volta di Mosca, per partecipare alle “Olimpiadi musicali” da parte di un gruppo<br />

di musicisti dilettanti. La Orlova era la moglie del regista. Questo film, che<br />

si dipana tra gag e canzoni e che pare fosse il preferito di Stalin, era originariamente<br />

in bianco e nero ed è stato recentemente colorizzato.<br />

Il colore del melograno (Sayat Nova)<br />

di Sergej Paradzanov, Urss, 1969, col, 73’ - Con Sofja Ciaureli.<br />

Un film altamente simbolico, caratterizzato da una miriade di quadri statici, che<br />

raccontano la vita errabonda di Sayat Nova, un trovatore armeno vissuto nel<br />

16


17<br />

Il vecchio e il nuovo (1929)


XVIII secolo. Anche se c’è poca azione, la pellicola si afferma per il forte cromatismo<br />

e per i paesaggi in continuo cambiamento, tra campagne e villaggi,<br />

fino alla reggia del sovrano, alla vecchiaia ed alla morte del cantore. Pare che<br />

Paradzanov, inviso al potere centrale del Pcus, non riuscisse a terminare il film<br />

che venne affidato alle “sicure” mani di Jutkevič. Il regista, negli anni ’70,<br />

venne anche arrestato, ma poi liberato grazie ad una mobilitazione internazionale<br />

degli intellettuali.<br />

Madre e figlio (Mat’i syn)<br />

di Aleksandr Sokurov, Urss, 1997, col., 73’ - Con Aleksei Ananishnov e Gudrun<br />

Geyer.<br />

Sokurov, il regista russo oggi più apprezzato e con innumerevoli premi mietuti<br />

in vari festival, ha realizzato questo film, primo di una trilogia, che rappresenta<br />

il rapporto amorevole, casto, intimo tra una madre sul finire della sua vita ed<br />

un figlio premuroso, in mezzo ad una natura immobile ma di un’austera bellezza.<br />

La pellicola ha avuto contrastanti giudizi, ma è di indubbia commozione<br />

e di penetranti sequenze.<br />

18


Tra modelli e miti: il Furore contadino nel cinema statunitense<br />

“Siamo vivi. Siamo il popolo, la gente che sopravvive a tutto.<br />

Nessuno può distruggerci. Nessuno può fermarci. Noi andiamo sempre<br />

avanti.”<br />

19<br />

Furore (1940) di John Ford<br />

Non può meravigliare più di tanto la quasi contemporaneità, con la produzione<br />

dell’Urss, di tematiche e ispirazioni della migliore filmografia statunitense<br />

sul mondo contadino, negli anni <strong>ante</strong>cedenti il Secondo Conflitto mondiale.<br />

Se è la fase postrivoluzionaria il detonatore che fa esplodere la creatività ed il<br />

genio innovativo della cinematografia sovietica, negli Stati Uniti ad accendere<br />

la miccia ci pensa il crollo borsistico di Wall Street del 1929, cui seguono la<br />

Grande Depressione e la ripresa dell’economia con le due fasi del New Deal.<br />

Fino ad allora, l’attenzione della cinematografia statunitense è stata riservata<br />

essenzialmente a tre filoni: quello storico (con i registi De Mille e Griffith su<br />

tutti), quello di intrattenimento avventuroso, musicale o comico (dai primi<br />

western alle slapstick comedy ed ai polizieschi) e quello drammatico borghese.<br />

Poco spazio era dedicato al mondo del lavoro e, tantomeno, a quello della vita<br />

rurale. Inoltre, il Paese cresceva a dismisura, l’incremento demografico era<br />

stato tra i più alti del mondo nei primi anni del secolo, l’immigrazione<br />

dall’Europa (intorno alla Prima Guerra mondiale e dopo) risultava rivitalizz<strong>ante</strong><br />

ma anche massiccia (quattro milioni solo tra il ’20 e il ’30), con innumerevoli<br />

problematiche connesse.<br />

L’espansione delle città dell’Ovest portava con sé nuove infrastrutture ed un<br />

notevole dispiegamento di coloni nelle “terre di mezzo”, a vocazione agricola.<br />

Gli studi cinematografici erano approdati a Hollywood, lasciando New York (il<br />

primo cinema era stato aperto a Broadway) orfana dell’industria della celluloide,<br />

mentre la vittoria della Prima Guerra mondiale produceva inattese conseguenze<br />

e problemi sociali ed economici non indifferenti (surplus di manodopera<br />

nelle campagne, aumento della xenofobia e delle tensioni sociali, paura del<br />

bolscevismo).<br />

Ad attestare l’estrema tensione sociale di quegli anni, si pensi che, solo nel<br />

1921, il presidente repubblicano Warren Harding fa intervenire l’esercito per<br />

sedare uno sciopero di minatori e fa approvare una legge per controllare le<br />

quote di immigrati, mentre vengono condannati a morte Bartolomeo Sacco e<br />

Nicola Vanzetti con un processo indiziario. Nonost<strong>ante</strong> l’Intermediate Credit<br />

Act (1923) cerchi di fornire con maggiore facilità prestiti al mondo agricolo e<br />

venga diminuita la pressione fiscale (1926) per stimolare investimenti produttivi<br />

e consumi, la speculazione borsistica crescente porta al crollo di Wall Street<br />

nel famoso “giovedì nero” (24 agosto 1929). Inizia un decennio di depressione


economica di portata planetaria che, negli Usa, ha conseguenze sociali particolarmente<br />

gravi. La popolazione è ferma, stabilmente ancorata al generale<br />

miglioramento fino allora acquisito. Anche l’immigrazione si blocca sul mezzo<br />

milione di individui tra il ’30 e il ’40.<br />

Dal 1932, anno dell’elezione del democratico Franklin D. Roosevelt alla<br />

presidenza degli Usa, alcuni decisi aggiustamenti economici portano ad una<br />

lenta e progressiva inversione di tendenza. In questo periodo, chiamato del New<br />

Deal (Nuovo Patto o Corso), si accentrano nello Stato le decisioni, gli stimoli<br />

ad agricoltori ed industriali, il meccanismo del prestito e i sussidi ai disoccupati<br />

(un quarto dei lavoratori), si mettono sotto tutela statale le banche, si incentiva<br />

la costruzione di edifici pubblici ed infrastrutture e si svaluta il dollaro.<br />

Con l’Agricultural Adjustement Act (del 1933, invalidato dalla Corte suprema<br />

e reiterato nel 1938) si pongono sotto il controllo dello Stato la produzione agricola<br />

ed i prezzi al consumo. Ma, poiché proseguono l’ondata di disoccupazione<br />

soprattutto nelle campagne (molti salariati perdono il lavoro a causa della<br />

meccanizzazione incentivata dallo Stato) ed una forte carestia, il governo crea<br />

la Farm Security Administration (1937) per pianificare gli aiuti all’agricoltura.<br />

Le lotte sindacali, nel decennio, aumentano, così come i conflitti di lavoro<br />

con scioperi a oltranza, serrate da parte padronale, con ricorso al crumiraggio<br />

ed alla forza pubblica. Cronisti, fotografi, trasmissioni radio e scrittori (John<br />

Steinbeck e John Dos Passos tra gli altri) documentano la grande depressione<br />

economica e sociale, che cessa solo nel 1941, grazie allo sforzo bellico in preparazione.<br />

E il cinema? Come in Italia, in epoca fascista, l’autarchia e la preparazione<br />

bellica portavano con sé l’imperativo “Distraetevi!”, così negli Usa<br />

il New Deal rooseveltiano impone al mondo del cinema di non pensare, evitare<br />

tematiche sociali, evadere dalla realtà.<br />

Sono in piccola quantità, di conseguenza, registi e produttori che, infrangendo<br />

un tacito divieto, si sentono di rappresentare il disagio dei disoccupati, le lotte<br />

dei contadini, la povertà delle periferie urbane: Frank Borzage, Charlie Chaplin,<br />

King Vidor, John Ford, Michael Curtiz, Lewis Milestone sono tra i pochi coraggiosi<br />

e, guarda caso, alcuni di loro, sospettati di simpatie per il comunismo, verranno<br />

allontanati dalla carriera cinematografica o addirittura dal Paese.<br />

Il nostro pane quotidiano (City Girl, 1930) di Friedrich Wilhelm Murnau, è<br />

un film sul contrasto campagna-città, che mostra le difficoltà di comprensione<br />

tra due giovani (lui viene dal mondo rurale, lei da un impiego cittadino), che<br />

decidono di sposarsi e trasferirsi nella fattoria di lui. Tentazioni (The Cabin in<br />

the Cotton, 1932) di Michael Curtiz rivela l’esistenza dei contadini poveri nel<br />

Sud degli Stati Uniti e lancia Bette Davis come “sciupauomini”. In mezzo a<br />

film sui gangster o cavalcate western, tra balli e canzoni del duo Astaire-Rogers<br />

e commedie sofisticate, appare Nostro pane quotidiano (Our Daily Bread,<br />

1934) di King Vidor, film buonista sulla vita nei campi che, benché misera, è<br />

comunque positiva per l’innata solidarietà tra contadini e artigiani fuggiti dalla<br />

città e per il lavoro collettivo che dà sempre frutti. Arriva nel 1937 La buona<br />

20


terra (The Good Earth), di Sidney A. Franklin, che mette in scena la personale<br />

scalata al successo di un contadino povero, il quale, dopo una serie di rovesci,<br />

torna alla “sana” tradizione agricola.<br />

Nel 1935, in un rapporto dell’American Medical Association, si riteneva che<br />

circa venti milioni di abitanti non avesse abbastanza da mangiare. E così John<br />

Steinbeck fornisce, con due suoi romanzi (Of Mice and Men e Grapes of<br />

Wrath), occasione per i due film più rappresentativi della Grande Depressione<br />

nelle campagne Usa. Con Uomini e topi (1939), Lewis Milestone affronta lo<br />

scott<strong>ante</strong> tema del lavoro bracciantile che si confronta con la durezza del padrone<br />

e con il disagio mentale. Il film ebbe un buon successo e Gary Sinise, nel<br />

1992, ne ha riproposto un rifacimento ancor più intenso. Ad ideale chiusura del<br />

decennio più tragico per la storia dei lavoratori statunitensi, compare Furore<br />

(1940) di John Ford, in cui si raccontano le peripezie di una famiglia di contadini<br />

poveri, costretti ad attraversare gran parte del Paese alla ricerca del lavoro.<br />

Il film, almeno nella prima parte, affronta il discorso del disagio d’un popolo<br />

travolto da una crisi che non ha causato e della rapacità del mondo bancario<br />

che, dur<strong>ante</strong> la stessa crisi, non ha cessato di arricchirsi.<br />

Nel 1941, in pieno sforzo economico e sociale per uscire dalla Grande<br />

Depressione, il Dipartimento per l’Agricoltura USA commissionò a Robert<br />

Flaherty un film, La Terra (The Land), che documentasse le condizioni di vita<br />

e di lavoro nelle campagne. Ne uscì una crudissima testimonianza della situazione<br />

di disperazione e sottosviluppo che stavano attraversando i contadini del<br />

centro del Paese, alle prese con la trasformazione delle proprie terre, erose dalla<br />

deforestazione, desertificate. Lo stesso Dipartimento, preoccupato dell’immagine<br />

“non patriottica” ed eccessivamente realistica del documentario, nonost<strong>ante</strong><br />

avesse finanziato il progetto, non fece uscire, nel ’42, il film nelle sale.<br />

Ancora Flaherty confezionò un eccellente documentario, finanziato da una<br />

grande società petrolifera, Louisiana Story (1948), in cui la vita di una famiglia<br />

contadina viene cambiata, tra curiosità e preoccupazione, dall’arrivo delle trivelle<br />

per estrarre l’oro nero dall’area in cui vive.<br />

Su questa stessa onda appaiono ancora, agli inizi degli anni ’40, delle pellicole<br />

sul mondo contadino statunitense, dense di contraddizioni, paure, problemi,<br />

ma già con uno sguardo fiducioso rivolto al superamento della crisi. Con La<br />

via del tabacco (Tobacco Road, 1941, dal romanzo di Erskine Caldwell) ancora<br />

John Ford tocca il tema della famiglia povera che, pur di arrivare ad una<br />

minima tranquillità economica, cede a compromessi dolorosi. Ma se nel 1939<br />

c’erano ben nove milioni e mezzo di disoccupati (il 17% della forza lavoro), già<br />

nel 1941 questi sono stati riassorbiti dalla produzione agricola e soprattutto<br />

industriale. E con Gente allegra (1942) di Victor Fleming – ancora tratto da un<br />

romanzo di Steinbeck, Tortilla Flat – si è infatti ormai fuori dalla crisi ed il film<br />

rappresenta, attraverso l’allegro universo contadino messicano, l’ottimismo dei<br />

produttori cinematografici statunitensi e di un Paese avviato verso una nuova<br />

avventura bellica.<br />

21


Sette spose per sette fratelli (1954)<br />

22


Gli Usa erano appena entrati nel conflitto mondiale, quando viene prodotto<br />

Festa d’amore (State Fear, 1944) di Walter Lang, in cui è rappresentata la classica<br />

famiglia contadina alle prese con la fiera paesana. Ed è da poco finita la<br />

guerra nel momento in cui escono, di seguito, Io e l’uovo (The Egg and I, 1947)<br />

di Chester Erskine, commedia campagnola con Claudette Colbert e Fred<br />

MacMurray pollicoltore; La moglie celebre (The Farmer’s Daughter, 1947) di<br />

Henry C. Potter, altra commediola sulla promozione sociale made in USA della<br />

contadina Loretta Young, che si reca a servizio in città e batte alle elezioni il<br />

suo datore di lavoro, Joseph Cotten; Il mare d’erba (The Sea of Grass, 1947) di<br />

Elia Kazan, con Spencer Tracy, Katharine Hepburn e Melvyn Douglas, sorta di<br />

kolossal su un lungo e contrastato amore tra un ricco proprietario terriero, la<br />

moglie e l’am<strong>ante</strong>. In questo periodo esce anche quello che è considerato il<br />

miglior film del periodo americano di Jean Renoir, L’uomo del Sud (The<br />

Southerner, 1945) che racconta della lotta tra agricoltore e natura in senso<br />

ampio e, a buon titolo, si annovera tra le realizzazioni “positive” in cui la forza<br />

di volontà dell’uomo è esemplare.<br />

Gli anni ’50 iniziano negli Stati Uniti ancora all’insegna del “buonismo<br />

campagnolo”, con L’allegra fattoria (Summer Stock, 1950) di Charles Walters,<br />

un musical reso godibile dagli eccellenti Judy Garland e Gene Kelly, ma con<br />

una campagna rifatta in studio. Ancora un musical, reso famoso dalla bella<br />

colonna sonora (premio Oscar del 1955), è il noto Sette spose per sette fratelli<br />

(Seven Brides for Seven Brothers, 1954), favola boscaiola di Stanley Donen.<br />

Più impegnato socialmente, il drammatico La legge del Signore (Friendly<br />

Persuasion, 1956) di William Wyler e con Gary Cooper, che narra l’atteggiamento<br />

pacifista – ma fino ad un certo punto – dei contadini quaccheri dur<strong>ante</strong><br />

la Guerra di Secessione. Con Il piccolo campo (God’s Little Acre, 1958),<br />

Anthony Mann rappresenta la follia di un agricoltore (Robert Ryan) che cerca<br />

l’oro nel suo terreno: alla fine si pente e torna a coltivare.<br />

Fred Zinnemann gira I nomadi (The Sundowners, 1960) in Australia, con<br />

Deborah Kerr e Robert Mitchum, ma il risultato è deludente e si salvano solo i<br />

grandi paesaggi con le greggi di pecore al pascolo. La dura legge – Uno, patata,<br />

due, patata (One Potato, Two Potato, 1961) è un film di Larry Pearce, che<br />

narra di una donna di campagna a cui viene tolta dal tribunale la potestà sulla<br />

figlia, solo perché lei, separata, s’è messa con un nero. Piccolo dramma sul razzismo<br />

campestre. Nel 1962 vede la luce ancora un musical agricolo, Festa d’amore<br />

– Alla fiera per un marito (State Fair) che altro non è se non il rifacimento<br />

del film del 1944 con titolo simile.<br />

Lo stereotipo campestre, fino agli anni ’60 imper<strong>ante</strong> nella cinematografia<br />

statunitense, appare terminare con il nuovo decennio. Infatti, già con La terra<br />

si tinse di rosso (The Lolly Madonna War, 1973) di Richard C. Sarafian, i contadini<br />

sono diventati aggressivi e violenti. Hal Ashby, nel 1976, racconta l’epopea<br />

dei disoccupati, delle campagne impoverite dalla Grande Depressione, con<br />

il noto Questa terra è la mia terra (Bound for Glory), premiato con l’Oscar, che<br />

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ipercorre la vita errabonda del folksinger Woody Guthrie, interpretato magistralmente<br />

da David Carradine. Film disincantato, crudo, con magnifica fotografia<br />

e splendidi paesaggi è il pluripremiato (Oscar e Festival di Cannes) I<br />

giorni del cielo (Days of Heaven, 1978) di Terrence Malick. Con il coraggioso<br />

Northern Lights (1978) di John Hanson e Rob Nilsson, viene riproposta la vera<br />

vita e le esperienze politicamente interessanti dei fondatori della Nonpartisan<br />

League, attiva nelle campagne del North Dakota negli anni ’10, con toni populisti,<br />

di socialismo rivoluzionario.<br />

Ancora descrizioni di lotta dura – ma stavolta contro le esondazioni di un<br />

fiume e contro gli speculatori – da parte di una famiglia contadina in Il fiume<br />

dell’ira (The River, 1984) di Mark Rydell. Dello stesso anno è il bel film Le stagioni<br />

del cuore (Places in the Heart) di Robert Benton, con un’ottima Sally<br />

Field che interpreta una vedova che difende la sua terra dalla speculazione. Un<br />

buon successo di pubblico (e un Oscar), dovuto soprattutto alla presenza di<br />

Harrison Ford, ha riscosso Witness – Il testimone (Witness, 1985), thriller di<br />

Peter Weir, che è ambientato presso una comunità di contadini amish che rifiutano<br />

il consumismo ed i macchinari della modernità. Ne L’allegra fattoria<br />

(Funny Farm, 1988) di George Roy Hill, c’è lo scontato scontro tra la mentalità<br />

cittadina e le “piacevolezze” rurali, con un’ovvia serie di esperienze capitate<br />

ad un giornalista che si trasferisce da New York nella campagna del<br />

Vermont con la moglie.<br />

Non molti sanno che Gary Sinise, prima di fare l’attore, realizzò dei buoni<br />

film, come Gli irriducibili (Miles from Home, 1988), con Richard Gere, e<br />

Uomini e topi (Of Mice and Men, 1992), con lo stesso Sinise e John Malkovich.<br />

Il primo racconta le gesta di due fratelli che, per combattere banchieri speculatori,<br />

mettono a soqquadro le campagne del Midwest. Il secondo è il rifacimento<br />

del film di Milestone del ’39, con ancor maggiore crudezza e bravura nelle<br />

descrizioni del paesaggio rurale e nei ruoli attoriali. Ancora Richard Gere (a<br />

fianco di Jodie Foster) interpreta Sommersby (1993) di Jon Amiel, thriller rurale<br />

imperniato sul ritorno a casa di un reduce della Guerra di Secessione, che<br />

appare molto diverso da com’era sette anni prima. Il suo segreto sarà svelato<br />

solo per discolparsi da un’accusa di omicidio.<br />

Con Il profumo del mosto selvatico (A Walk in the Clouds, 1995) di Alfonso<br />

Arau, ripiombiamo (solo nelle intenzioni, però) nella magica e rarefatta atmosfera<br />

di Quattro passi tra le nuvole, il film di Blasetti girato dur<strong>ante</strong> la Seconda<br />

Guerra mondiale. Qui abbiamo il commesso viaggiatore di cioccolatini (Keanu<br />

Reeves) che s’innamora di una ragazza incinta e si fa passare per suo marito al<br />

fine di aiutarla col padre tradizionalista. Il lavoro nei campi è quello dei<br />

vignaioli californiani.<br />

Negli Usa la documentazione e l’archiviazione delle condizioni di vita e di<br />

lavoro nelle campagne sono da sempre uno strumento fondamentale dello<br />

Stato, che lo ha utilizzato, come abbiamo avuto già modo di vedere, sia nel<br />

periodo del New Deal che dur<strong>ante</strong> la Seconda Guerra mondiale a fini di propa-<br />

24


25<br />

Il profumo del mosto selvatico (1995)


ganda. Ma l’attività documentaria è continuata ed ha ritrovato grande espressività,<br />

buon successo e felicità di linguaggio, quando ha cominciato ad occuparsi<br />

dell’attualità economica e sociale, quando ha iniziato a mettere alla berlina<br />

scelte politiche e militari delle varie Amministrazioni federali. Prodotti di<br />

discreta qualità e menzioni e premi internazionali hanno ottenuto film come<br />

quelli di Michael Moore o quelli che trattano tematiche legate all’alimentazione,<br />

alle coltivazioni con Ogm, ai problemi della fame, allo sfruttamento dei<br />

contadini poveri da parte delle multinazionali.<br />

In questo senso, vanno citati fortunati film come Super Size Me (2004) di<br />

Morgan Spurlock, che mette in scena l’odissea volontaria di un giornalista che,<br />

dur<strong>ante</strong> un’inchiesta sul cibo-spazzatura, si nutre per un intero anno presso i<br />

fast food, con le ovvie conseguenze sulla propria pelle, e Mondovino (2003) di<br />

Jonathan Nossiter, che ci mostra in modo coinvolgente e denso di interessanti<br />

interviste, la coltivazione dei vigneti e la produzione del vino in giro per tre<br />

Continenti. Anche Fast Food Nation (2006) di Richard Linklater affronta, con<br />

un viaggio all’inverso, la catena sfruttatrice e disinteressata della salute che va<br />

dalla produzione dell’hamburger nel ristor<strong>ante</strong> fino agli allevamenti nei Paesi<br />

poveri ed ai rapporti Nord-Sud.<br />

Per parlare direttamente di uno dei temi più presenti nella cinematografia<br />

statunitense, l’allevamento, abbiamo qui scelto solo due pellicole cult, che raccontano<br />

(la prima) vicissitudini epiche di un gruppo di cow boys nel famoso Il<br />

fiume rosso (Red River, 1949) di Howard Hawks, con i grandissimi John Wayne<br />

e Montgomery Clift, e (la seconda) La morte invisibile (Bitter Harvest, 1981)<br />

di Roger Young, che narra la storia d’una malattia strana che miete molte vittime<br />

tra i bovini di una grande fattoria del Michigan. Si scoprirà, dopo un anno,<br />

che la moria è dovuta ad un farmaco velenoso, dato per sbaglio da un’azienda<br />

chimica agli allevatori. Ed è una storia vera.<br />

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I FILM<br />

Il nostro pane quotidiano (City Girl)<br />

di Friedrich Wilhelm Murnau, USA, 1930, b/n, muto, 67’ – Con Charles Farrell,<br />

Mary Duncan, David Torrence, Edith Yorke.<br />

Il grande regista tedesco, sbarcato da qualche anno a Hollywood, dove aveva già<br />

avuto successo con Aurora (1927), prova a raccontare la storia di un amore contrastato<br />

tra un giovane agricoltore (Farrell) ed una ragazza di città (Duncan). I<br />

due si trasferiscono in campagna, ma le incomprensioni aumentano, anche perché<br />

il padre di lui e la gente del villaggio si dimostrano ostili alla coppia. Il film,<br />

disuguale e non del tutto riuscito, ha subito le sforbiciate della produzione.<br />

La buona terra (The Good Earth)<br />

di Sidney A. Franklin, USA, 1937, b/n, 138’ – Con Luise Rainer, Paul Muni,<br />

Walter Connolly, Jessie Ralph. Fotografia di Karl Freund. Due Oscar 1938<br />

(migliore attrice e migliore fotografia).<br />

Il film è tratto dal noto romanzo omonimo di Pearl S. Buck e si svolge in Cina,<br />

dove una povera famiglia di agricoltori è costretta a cambiare residenza, alla<br />

ricerca della “buona terra”. Con un po’ di fortuna arriva la ricchezza e l’agognato<br />

trasferimento nella vecchia area di provenienza. Ma proprio i soldi e un<br />

diverso atteggiamento verso la vita sconvolgono l’equilibrio familiare.<br />

Un’invasione di cavallette costringerà il focolare domestico a ricomporsi.<br />

Uomini e topi (Of Mice and Men)<br />

di Lewis Milestone, USA, 1939, b/n, 106’ – Con Burgess Meredith, Betty Field,<br />

Lon Chaney jr., Charles Bickford. Musica di Aaron Copland. Soggetto di John<br />

Steinbeck.<br />

Dal romanzo omonimo di John Steinbeck, fedelmente ripreso da Milestone, la<br />

storia di un’amicizia tra due braccianti, uno particolarmente determinato e<br />

cosciente delle difficoltà dell’epoca (siamo in piena Depressione), l’altro mentalmente<br />

ritardato ma forte e disponibile. Il loro girovagare in cerca di lavoro li<br />

porterà a scontrarsi con le difficoltà di essere accolti nel contesto sociale. In una<br />

fattoria però si scatena la tragedia e George (Meredith) non riesce a difendere<br />

Lennie (Chaney jr.) che uccide Mae (Field), provoc<strong>ante</strong> ragazza. Per evitare il<br />

linciaggio dell’amico, sarà George a sparargli. Nel 1992, Gary Sinise ha rifatto<br />

il film.<br />

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Furore (1940)<br />

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Furore (Grapes of Wrath)<br />

di John Ford, USA, 1940, b/n, 129’ – Con Henry Fonda, John Carradine, Jane<br />

Darwell, Russell Simpson, Ward Bond. Soggetto di John Steinbeck. Fotografia<br />

di Gregg Toland. Due Oscar 1941 (migliore regia e migliore attrice non protagonista<br />

alla Darwell).<br />

Ancora un romanzo di Steinbeck trasportato nel cinema attento alle problematiche<br />

della Depressione. Narra di un ex carcerato che, tornato a casa, vede la sua<br />

fattoria confiscata dalla banca. Parte con la sua famiglia e con le masserizie alla<br />

ricerca di maggior fortuna, verso la California. Lungo la strada cresce lo sgomento<br />

per le condizioni di assoluta povertà delle masse di disoccupati ed<br />

aumentano anche la rabbia e la coscienza di classe.<br />

La via del tabacco (Tobacco Road)<br />

di John Ford, USA, 1941, b/n, 70’ – Con Charley Grapewin, Dana Andrews,<br />

Gene Tierney, Ward Bond, Marjorie Rambeau, William Tracy.<br />

Di impostazione teatrale (una piéce di John Kirkland tratta dal romanzo di<br />

Erskine Caldwell), è una storia senza quasi azione. Ford tenta di disegnare un<br />

ambiente familiare fatto di immobilità, assenza di etica, mancanza di stimoli. I<br />

Lester stanno per perdere la loro fattoria, in Georgia, ma non fanno nulla per<br />

evitarlo, colpiti da una sorta di apatia colpevole, giustificata solo dal contesto<br />

economico generale che vede la Grande Depressione avanzare. Il film gettò<br />

scompiglio tra i benpensanti e non fu ben accolto.<br />

L’uomo del Sud (The Southerner)<br />

di Jean Renoir, USA, 1945, b/n, 102’ – Con Zachary Scott, Betty Field, Beulah<br />

Bondi, J. Carrol Naish. Un premio alla Mostra di Venezia nel 1946.<br />

Film di derivazione letteraria (dal romanzo di George Sessions Perry) rivisitata<br />

dallo stesso Renoir con William Faulkner. La storia racconta le difficoltà di<br />

un lavoratore agricolo e della sua famiglia, tra campi di cotone e vicini ostili. I<br />

pochi che saranno disponibili ad aiutare e a ricevere aiuto potranno contrastare,<br />

insieme, la furia della natura. Probabilmente è il migliore film di Renoir nel<br />

periodo passato negli Usa.<br />

Il piccolo campo (God’s Little Acre)<br />

di Anthony Mann, USA, 1958, b/n, 110’ – Con Robert Ryan, Tina Louise, Aldo<br />

Ray, Vic Morrow, Jack Lord.<br />

Dal romanzo di Erskine Caldwell (che termina però in modo meno edulcorato),<br />

un film impegnato che racconta in modo discontinuo le disavventure di un agricoltore<br />

(Ryan) alla ricerca dell’oro nel proprio campo. Dopo aver bucherellato<br />

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inutilmente il suo terreno, scoprirà che, in effetti, il vero tesoro ce l’ha nella coltivazione<br />

della terra e nella famiglia.<br />

La terra si tinse di rosso (The Lolly Madonna War)<br />

di Richard C. Sarafian, USA, 1973, col, 103’ – Con Rod Steiger, Robert Ryan,<br />

Jeff Bridges, Scott Wilson.<br />

Un film di derivazione letteraria (The Lolly Madonna War di Sue Grafton) che<br />

presenta il duro contrasto tra la famiglia dell’agricoltore Laban Feather (un Rod<br />

Steiger superbo) e quella di Pap Gutshall (l’ottimo Ryan) che ne ha comprato<br />

la terra, in Tennessee. La guerra tra i due è senza esclusione di colpi, con parecchi<br />

morti ed altre aggressioni fisiche. Alla fine, Feather impazzirà.<br />

Questa terra è la mia terra (Bound for Glory)<br />

di Hal Ashby, USA, 1976, col, 135’ – Con David Carradine, Ronny Cox, Gail<br />

Strickland, Melinda Dillon, Randy Quaid. Due Oscar: per la fotografia (Haskell<br />

Wexler) e per la colonna sonora (Leonard Rosenman).<br />

Dall’autobiografia del sindacalista e folk-singer Woody Guthrie, un film on the<br />

road, che ricostruisce il lungo peregrinare del popolarissimo cant<strong>ante</strong> tra<br />

Depressione, contadini poveri, disoccupazione, scontri con il padronato e la<br />

polizia, canzoni (cantate molto bene dallo stesso Carradine), tentativi di aggregazione<br />

sindacale e solidarietà proletaria. Il film, nonost<strong>ante</strong> l’indubbio fascino,<br />

è discontinuo.<br />

I giorni del cielo (Days of Heaven)<br />

di Terrence Malick, USA, 1978, col, 95’ – Con Richard Gere, Brooke Adams,<br />

Sam Shepard, Linda Manz, Robert Wilke. Un Oscar per la fotografia (Nestor<br />

Almendros) e Premio a Cannes per la regia. Musica di Ennio Morricone.<br />

Una coppia fugge da Chicago nelle campagne del Texas. Lui (Gere) è ricercato<br />

per omicidio ed induce l’am<strong>ante</strong> (Adams) a sposarsi con un proprietario terriero<br />

(Shepard) presso cui stanno lavorando. Lo strano rapporto che s’instaura<br />

tra i tre protagonisti (il latifondista crede che gli altri due siano fratelli) sfocerà<br />

in tragedia. Malick è molto bravo e gli attori sono ottimamente guidati. Ci sono<br />

belle e coinvolgenti scene di lavoro nei campi.<br />

Northern Lights<br />

di John Hanson, USA, 1978, b/n, 95’ – Con Robert Behling, Susan Lynch, Joe<br />

Spano. Ha vinto la Caméra d’Or a Cannes 1979 come migliore opera prima.<br />

Primo lungometraggio di Hanson, che racconta le difficoltà degli immigrati<br />

scandinavi nel Midwest statunitense, a metà Ottocento, con la lotta contro una<br />

30


31<br />

I giorni del cielo (1978)


natura ostile e con l’incomprensione dei vecchi residenti. Nessuno degli interpreti<br />

è attore professionista, ma il regista ha fatto recitare cittadini delle campagne<br />

del North Dakota.<br />

Il fiume dell’ira (The River)<br />

di Mark Rydell, USA, 1984, col, 122’ – Con Sissy Spacek, Mel Gibson, Scott<br />

Glenn, Barry Primus, Billy Green Bush.<br />

Siamo in Tennessee, dove un agricoltore (Gibson) lotta insieme alla moglie<br />

(Spacek) contro un fiume che minaccia il suo terreno e contro un altro agricoltore<br />

(Glenn) che si vuole appropriare del loro campo ed è anche concorrente in<br />

amore. Film scontato, ma con una bella fotografia.<br />

Le stagioni del cuore (Places in the Heart)<br />

di Robert Benton, USA, 1984, col, 102’ – Con Sally Field, John Malkovich,<br />

Danny Glover. Oscar a Sally Field (migliore attrice) ed alla regia di Benton nel<br />

1985. Migliore regia al Festival di Berlino. Fotografia di Nestor Almendros.<br />

Fortunato film che rivitalizza la saga campagnola con contenuti “moderni”.<br />

Una fresca vedova (Field), aiutata da un cieco (Malkovich) ed un nero (Glover),<br />

lotta con tutte le sue forze per difendere il suo terreno dalla rapacità delle banche<br />

e dai reazionari membri del Ku Klux Klan. Drammatiche sequenze, bella<br />

fotografia, antirazzismo, affettività non sdolcinata, ottima recitazione ne fanno<br />

un prodotto di sicuro successo.<br />

Witness - Il testimone (Witness)<br />

di Peter Weir, USA, 1985, col, 112’ – Con Harrison Ford, Kelly Mc Gillis,<br />

Lukas Haas, Danny Glover. Oscar per la migliore sceneggiatura.<br />

Anomalo film, stretto tra spettacolarità, azione, thriller e amore, racconta la storia<br />

di un poliziotto (Ford) che, per difendere un ragazzo Amish (Haas) e sua<br />

madre (Mc Gillis) inseguiti dalla malavita perché il giovane ha assistito ad un<br />

omicidio, è costretto a nascondersi con i due presso la comunità Amish. Il poliziotto<br />

è ferito e la mamma del ragazzo, vedova, lo cura amorosamente, ricambiata.<br />

La vicenda si chiude positivamente, ma il poliziotto torna alla sua vita cittadina<br />

e lascia mamma e figlio nella colonia agricola.<br />

Gli irriducibili (Miles from Home)<br />

di Gary Sinise, USA, 1988, col, 108’ – Con Richard Gere, Kevin Anderson,<br />

Penelope Ann Miller, John Malkovich.<br />

Due fratelli (Gere e Anderson) ereditano una fattoria ma non riescono a gestirla<br />

a causa della generale crisi economica nel Midwest. Bruciano la tenuta e la<br />

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33<br />

Witness - Il testimone (1985)


casa e fuggono, diventando eroi per gli altri contadini. Alla fine dovranno fare<br />

i conti con la giustizia. Film interess<strong>ante</strong> ma lento e scontato.<br />

Uomini e topi (Of Mice and Men)<br />

di Gary Sinise, USA, 1992, col, 111’ – Con John Malkovich, Gary Sinise,<br />

Alexis Arquette, Sherilyn Fenn.<br />

Rifacimento del film del 1939 di Lewis Milestone, tratto dall’opera di John<br />

Steinbeck. La storia vede la difficile avventura di due braccianti nell’epoca<br />

della Grande Depressione. Uno (Malkovich) è ritardato mentale ma fortissimo<br />

ed ingenuo, l’altro (Sinise) lo aiuta ed è più determinato a non farsi schiacciare<br />

dal padronato e da chi vuole deridere il suo amico. Il racconto esplode nella<br />

tragedia, causata dalla provoc<strong>ante</strong> presenza di una ragazza, figlia del fattore che<br />

dà lavoro ai due amici. Bravissimi gli interpreti.<br />

Il Fiume rosso (Red River)<br />

di Howard Hawks, USA, 1949, b/n, 126’ – Con John Wayne, Montgomery<br />

Clift, Joanne Dru, Walter Brennan.<br />

Epico film sulla transumanza a cui sono sottoposte immense mandrie di bovini<br />

e cow boys che le controllano. Due uomini (Wayne e Clift), molto diversi tra<br />

loro ma legati da un rapporto padre-figlio (adottivo) e da amicizia virile, rappresentano<br />

opposti modi di gestire le difficoltà che, dur<strong>ante</strong> il viaggio, sono<br />

costretti ad affrontare. Si divideranno, ma, alla fine e dopo una scazzottata rivitalizz<strong>ante</strong>,<br />

si apprezzeranno maggiormente. Grande successo tra i “film della<br />

frontiera” e grande spaccato della vita del bovaro d’oltreoceano.<br />

La morte invisibile (Bitter Harvest)<br />

di Roger Young, USA, 1981, col, 100’ – Con Ron Howard, Art Carney.<br />

Storia vera svoltasi nelle campagne del Midwest, dove un agricoltore vede<br />

ammalarsi in modo grave gran parte della sua mandria. Mentre cerca inutilmente<br />

di comprendere il perché dell’epidemia, cominciano ad ammalarsi anche<br />

membri della sua famiglia. Grazie alla sua ostinazione, verrà a capo del problema<br />

sanitario. Il film venne prodotto per la tv.<br />

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