costanzo.anti
Create successful ePaper yourself
Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.
VIAGGIO<br />
IN ITALIA<br />
una collana diretta da Fabio Francione
EDIZIONI<br />
FALSOPIANO<br />
ANIME<br />
FERITE<br />
il cinema di<br />
Saverio<br />
Costanzo<br />
a cura di<br />
Alberto Morsiani<br />
Serena Agusto
Volume realizzato in occasione della rassegna Anime ferite – Il cinema di Saverio Costanzo,<br />
curata da Alberto Morsiani e Serena Agusto per l’Associazione Circuito Cinema, Sala Truffaut<br />
– Modena (19 novembre – 10 dicembre 2015)<br />
Il volume e la rassegna sono stati realizzati grazie alla Fondazione Cassa di Risparmio di<br />
Modena<br />
In copertina: Alba Rohrwacher in Hungry Hearts (2015)<br />
I curatori ringraziano per la gentile collaborazione Ludovica Damiani, Karin Annell, Wildside,<br />
Sky Cinema, Marco Pisciotta, Lucia Urzino.<br />
© Edizioni Falsopiano - 2015<br />
via Bobbio, 14/b<br />
15121 - ALESSANDRIA<br />
http://www.falsopiano.com<br />
Per le immagini, copyright dei relativi detentori<br />
Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri<br />
Stampa: C.N.S. Vaprio d’Adda<br />
Prima edizione - Dicembre 2015
INDICE<br />
Conversazione con Saverio Costanzo<br />
a cura di Serena Agusto p. 9<br />
Il quasi-horror: le strategie di rinnovamento formale<br />
del cinema italiano nei film di Saverio Costanzo<br />
Roy Menarini p. 23<br />
Dietro la porta chiusa. L’angst claustrofobica<br />
di Private e Hungry Hearts<br />
Alberto Morsiani p. 33<br />
In memoria di me. Forme, luoghi di conflitto<br />
Tullio Masoni p. 45<br />
Il passato mai passato. La solitudine dei numeri primi<br />
Roberto Chiesi p. 57<br />
In Treatment<br />
Emanuela Martini p. 69<br />
Inserto fotografico p. 81<br />
Antologia della critica p. 125<br />
Filmografia - Bibliografia p. 149<br />
Nota editoriale di Fabio Francione p. 155
8
CONVERSAZIONE CON SAVERIO COSTANZO<br />
A cura di Serena Agusto<br />
Saverio Costanzo studia comunicazione, muove i primi passi nel<br />
2001 come documentarista – “etnografo visuale” ama definirsi – e<br />
fonda insieme a Mario Gianani la società Offside che inizialmente<br />
produce documentari e programmi per la tv. La sintonia Gianani-<br />
Costanzo è un sodalizio prezioso che porta la società ad avvicinarsi<br />
anche al mondo cinematografico. Così nel 2004, con il marchio<br />
Offside, Gianani produce Private, lungometraggio d’esordio di<br />
Costanzo. Il film si aggiudica il Pardo d’Oro al Festival di Locarno,<br />
il David di Donatello, il Nastro d’Argento e nel 2005 finisce nella<br />
rosa dei film in lizza per diventare il candidato italiano agli Oscar.<br />
Da allora Costanzo è diventato uno dei maggiori autori del cinema<br />
italiano e Hungry Hearts (2015), presentato a Venezia e vincitore di<br />
due Coppe Volpi per i protagonisti, segna la sua definitiva consacrazione.<br />
Nel frattempo Offside si fonde con Wilder di Lorenzo<br />
Mieli e diventa Wildside, la società che produce per la televisione<br />
In Treatment di Costanzo e The Young Pope di Sorrentino e al cinema,<br />
oltre ai film di Costanzo, anche Bellocchio, Bertolucci e recentemente<br />
il primo lungometraggio di Pif. La storia e l’attività della<br />
casa di produzione diventa emblema del percorso del regista:<br />
Saverio Costanzo è uno sperimentatore, si muove con entusiasmo<br />
tra vari linguaggi (su web con Caffè mille luci, in tv con Sala Rossa<br />
e In Treatment) mentre i suoi film mantengono una forte connotazione<br />
autoriale.<br />
Nella sede romana di Wildside, dove incontro Saverio, colpiscono<br />
fin dal primo momento la professionalità e la serietà del regista e<br />
9
dello staff: un’atmosfera di stampo più “americano” che italiano,<br />
data la precisa organizzazione e la lontananza da contesti cinematografici<br />
informali, sgangherati o caotici. Alla fine rimane la sorpresa<br />
per la rara capacità di riflessione teorica dimostrata sul proprio<br />
lavoro, ma anche sull’opera degli altri cineasti e allo stesso<br />
tempo per la sua profonda umiltà, che illumina un fare cinema d’altri<br />
tempi, da artigiano, come un Mario Bava, Lucio Fulci, Umberto<br />
Lenzi.<br />
Partiamo dagli esordi Caffè mille luci e Sala Rossa, documentari in<br />
cui ti ispiri a Frederick Wiseman...<br />
Sono di formazione sociologo e nella mia tesi di laurea mi sono<br />
occupato di “La vita quotidiana come rappresentazione” di Erving<br />
Goffman, un sociologo/etnografo che sosteneva una teoria semplicissima<br />
che regola la nostra società: tutti dobbiamo recitare in modo<br />
diverso a seconda dei diversi teatri in cui agiamo. Egli infatti sosteneva<br />
che la vita è un teatro, dove il comportamento individuale è<br />
interpretabile alla luce del contesto sottostante all’interazione simbolica<br />
faccia a faccia.<br />
Mi interessava anche lo psicodramma di Jacob Levi Moreno, un<br />
metodo psicoterapeutico che appartiene all’ambito delle terapie di<br />
gruppo. Ricorrendo al gioco drammatico libero, mira a sviluppare<br />
attivamente la spontaneità dei soggetti. L’essenza di questa terapia<br />
consiste nell’esteriorizzazione rappresentativa dei vissuti personali<br />
mediante le improvvisazioni sceniche e nella loro successiva analisi,<br />
operata da uno psicoterapeuta, “direttore del gioco”. Moreno<br />
secondo me è il precursore dei reality: dalle improvvisazioni delle<br />
proprie ferite personali scaturiva una rappresentazione straordinaria<br />
e seguendo il suo metodo la persona più timida poteva diventare la<br />
più estroversa.<br />
Unendo quindi Goffman e Moreno, a 22 anni volevo diventare un<br />
etnografo visuale e realizzai la mia tesi di laurea sulla comunità ita-<br />
10
loamericana di Brooklyn: scelsi un bar della 18ma Avenue e feci riprese<br />
per un anno prendendo ispirazione anche da Frederick Wiseman che<br />
faceva con i suoi documentari dell’osservazione partecipante proprio<br />
come Moreno. Mi unii a questo gruppo di avventori che si misurava<br />
con la propria italianità: fuori dalla finestra c’era l’America, all’interno<br />
l’Italia. Diventavano tutti personaggi da bar: c’erano il sedicente<br />
avvocato, due pensionati che facevano le parole crociate, l’animatore<br />
del bar detto il “sindaco”, i detrattori e i sostenitori di tale personaggio<br />
e il mafioso, Tony Genovese, che mi consentiva di rimanere nel locale<br />
con la telecamera purché non lo riprendessi.<br />
Alla fine è diventato un documentario di 8 ore che montammo in<br />
piccole puntate per Rai.it.<br />
A mio parere, successivamente non ho fatto altro se non approfondire<br />
tecniche e tematiche di questa mia prima opera naturale, artigianale.<br />
Sala Rossa si basava sullo stesso principio: cercavo un luogo che si<br />
caratterizzasse per il forte contrasto tra l’interno e l’esterno e quindi<br />
ho scelto la sala di pronto soccorso di un ospedale. Dopo mesi di<br />
osservazione e avvicinamento, ho seguito con la telecamera nel<br />
corso di un anno e mezzo 90 notti di lavoro dell’équipe che vi operava.<br />
Di nuovo un dentro e un fuori, un contesto che determina il<br />
cambiamento delle persone e del loro atteggiamento.<br />
Ho iniziato con lo stesso spirito anche il mio terzo film, Private, il<br />
cui soggetto è una famiglia palestinese.<br />
Private è un film di fatto in bilico tra la fiction e il documentario,<br />
un’opera, se vogliamo, ancora cinematograficamente immatura<br />
soprattutto dal punto di vista tecnico.<br />
Ero in Palestina in vacanza e una mia amica giornalista mi portò in<br />
questa casa di confine e mi fece conoscere il proprietario. Volevo<br />
fare di Private un documentario ma non potevo perché questo<br />
avrebbe messo in pericolo noi e soprattutto gli abit<strong>anti</strong> della casa<br />
11
occupata. Il padrone della casa mi convinse a immaginare un film<br />
ispirato alla sua storia. Ero timido nei confronti del cinema, avevo<br />
solo 25 anni, ma iniziai a lavorare alla sceneggiatura. Avevo sentito<br />
subito affinità con il luogo, rappresentava uno scenario che mi era<br />
utile a capire la guerra in Medio Oriente: una casa/prigione all’interno<br />
della quale c’erano altri confini, il piano superiore e quello<br />
inferiore, fino alla stanza con la porta chiusa a chiave dove era<br />
costretta a dormire la famiglia palestinese. Ho interiorizzato la storia<br />
nella fase di scrittura talmente tanto che sarei stato disposto a<br />
girare il film anche in piazza Risorgimento con gli attori giusti.<br />
Non potevo girarlo in Palestina, dove avrei dovuto e voluto. Si trattava<br />
di un film low budget e lì l’assicurazione della troupe sarebbe<br />
stata troppo costosa e comunque ci sarebbero stati problemi di sicurezza,<br />
dunque l’ho girato in Calabria.<br />
Per me, per la mia formazione, l’aver accettato di spostare la location<br />
ha rappresentato la chiave di volta, mi ha costretto alla “rappresentazione”<br />
ed è stata la mia prima esperienza puramente cinematografica.<br />
Con il film successivo (In memoria di me), tratto da “Lacrime<br />
impure” di Furio Monicelli, ti cimenti invece con l’adattamento letterario:<br />
che ispirazione trovi nel romanzo?<br />
Tutto nasce sempre dalla realtà. La storia di Private è vera ma poteva<br />
essere un libro, lo è diventato quando la mia amica lo ha scritto<br />
ispirandosi alla stessa storia. Io non riesco a fare distinzione tra storia<br />
vera e letteratura: anche il libro di Giordano [“La solitudine dei<br />
numeri primi”] o di Furio Monicelli raccontano esperienze che<br />
riguardano il libro stesso. Se è credibile e i personaggi sono credibili,<br />
per me diventa una storia reale. Per il mio lavoro io dimentico<br />
il libro nella sua specificità letteraria, leggo il testo solo un paio di<br />
volte e quello che mi rimane è solo la storia tout court, non faccio<br />
adattamenti “carta carbone”. Credo che la genesi di tutti i miei film<br />
12
sia identica, deriva dal fatto che qualcosa che mi hanno raccontato<br />
oppure ho letto mi colpisce e risulta credibile.<br />
Ci sono anche delle cost<strong>anti</strong> tematiche che attraversano i tuoi film che<br />
forse rappresentano per te il polo di attrazione della storia che scegli<br />
di raccontare: ad esempio il labile confine tra salute e malattia...<br />
Io non parlerei di malattia, diciamo che si raggiunge una temperatura<br />
molto alta... Hai ragione ad individuare delle cost<strong>anti</strong>, ma io<br />
non sono molto adatto ad analizzare il mio lavoro: mi rendo conto<br />
che alcuni aspetti prendono forma malgrado me.<br />
Strano però, perché tutte le tue opere hanno una coerenza stilistica<br />
e tematica.<br />
Cerco sempre di mettermi alla prova con qualcosa di nuovo, che mi<br />
spaventa anche. Sono portato a scoprire prima di tutto nuovi aspetti<br />
di me stesso: non voglio essere sempre lo stesso, sarebbe disonesto<br />
perché l’essere umano è in perenne movimento. C’è una riflessione<br />
teorica dietro i miei lavori che mi spinge a scegliere le storie<br />
e il modo di rappresentarle con una forma linguistica specifica.<br />
Un aspetto in particolare mi colpisce della tua cifra stilistica, il<br />
fatto che ti allontani decisamente dalla tradizione cinematografica<br />
italiana. Ogni tuo film, ogni plot ha un forte potenziale mélo che<br />
qualsiasi altro autore italiano avrebbe colto e sviluppato, invece tu<br />
scegli di rappresentare le storie in chiave thriller/horror.<br />
Sto leggendo “Roth scatenato”, un libro biografico su Philip Roth,<br />
autore che adoro. Leggo sullo scrittore perché mi interessa capire il<br />
contesto in cui lavora e produce l’artista e in che modo la realtà che<br />
lo circonda influenza la sua creatività. Allo stesso modo rifletto sul<br />
contesto in cui vivo e che influenza i miei film.<br />
13
Quando dico di essere sempre in una condizione di scoperta nei confronti<br />
della nuova storia a cui lavoro, non penso di imprigionarla in<br />
un genere specifico. Sono attratto dal mélo perché cerco qualcosa<br />
che mi emozioni e quando procedo con la fase di scrittura entro talmente<br />
in contatto con le paure e le nevrosi dei personaggi da generare<br />
una tensione da thriller e un’atmosfera horror anche se in forma<br />
impura. Non lo faccio però coscientemente, si tratta del mio modo<br />
di entrare in relazione con ciò che racconto. Mi rendo conto che<br />
approfondire e rappresentare una scena che ho scritto, per me, ha<br />
sempre a che fare con un sentimento di paura e di angoscia e con<br />
l’aspirazione a liberarmi da questa forma di oppressione.<br />
Scegli però di esprimerlo non da un punto di vista psicologico, ma<br />
fisico.<br />
Sì certo, a me interessa l’azione dei personaggi, non la psicologia. I<br />
miei personaggi in genere fuggono nel tentativo di emanciparsi,<br />
prendi i personaggi di Dostoevskij ad esempio, che sono stati fondamentali<br />
nella mia formazione, anche loro non si possono definire<br />
malati mentali, sono però estremamente passionali: questo vale<br />
per Raskol’nikov [“Delitto e Castigo”], Stavrogin [“I demoni”],<br />
Myskin [“L’idiota”], i tre Karamazov. In questi romanzi c’è sempre<br />
una tensione incredibile tra la terra e il cielo, un continuo voler<br />
oltrepassare i confini terreni con entusiasmo e impeto da parte dei<br />
personaggi che mi affascinavano da ragazzo e credo abbiano ispirato<br />
i miei lavori.<br />
Non seguo le regole del thriller, quindi, ammesso che rimanga qualcosa<br />
dei film, sono certo che rimangano i personaggi, la loro tensione<br />
umana, la perenne lotta e non il genere cinematografico che il<br />
film prende in prestito: in fondo sono personaggi rom<strong>anti</strong>ci.<br />
Se il genere non ti interessa, perché, per esempio, hai scelto di inserire<br />
il personaggio misterioso dell’infermeria in In memoria di me?<br />
14
Nel libro era un personaggio vero, malato, Lodovici, di cui Andrea<br />
si innamora. Nel film non si incontrano mai.<br />
Del libro mi colpì la tensione ideale dei personaggi, ma il tema principale<br />
è un amore omosessuale che alla sua uscita negli anni ’60 fu<br />
deflagrante, ma nel 2007 lo sarebbe stato molto meno.<br />
Andrea da una parte anela alla perfezione ideale e utopica, dall’altra<br />
è circondato dal mistero, cova un segreto e tale rimane: un malato<br />
chiuso in infermeria che appare come un’ombra e cammina con<br />
la solennità di Gesù. Ho voluto rappresentare la metafora dell’ultimo,<br />
dell’emarginato come proiezione dello stesso protagonista.<br />
Anche i luoghi dei miei film, le case, il monastero, sono sempre<br />
emanazioni dei personaggi e rappresentano fisicamente la loro<br />
interiorità.<br />
Andrea rappresenta la parte razionale dell’uomo, è pieno di entusiasmo<br />
rom<strong>anti</strong>co per la propria scelta fino a quando scopre che si tratta<br />
di egocentrismo: lo fa per se stesso, per sentire la potenza di Dio<br />
dentro di sé, non perché crede nelle “storielle”. Si tratta di una provocazione<br />
molto intelligente di Furio Monicelli che bilancia l’approccio<br />
razionale con quello irrazionale di Zanna [Filippo Timi] che<br />
è più idealista e meno cinico di Andrea. Zanna ha una fede incrollabile<br />
mentre Andrea a un certo punto dice “io non credo in niente,<br />
credo solo nella mia potenza”, resta quindi ancorato alla propria<br />
scelta del sacerdozio che è l’unico legame possibile con il mondo<br />
per lui, ma abbandona per sempre l’idealismo di Zanna.<br />
Parlami del tuo rapporto con la fede: ho letto che ha collaborato<br />
alla stesura della sceneggiatura tua madre Flaminia Morandi, giornalista<br />
e teologa...<br />
Non ho una posizione precisa a riguardo: non ho il coraggio di affermare<br />
di essere credente né di non esserlo. Attraverso il mio lavoro<br />
cerco di capire se c’è un dio dentro di me, una luce, e se sto facendo<br />
il possibile perché questa luce venga fuori. Certo non credo<br />
15
all’Aldilà, credo solo alla realtà in cui viviamo.<br />
Credo nell’arte e nella capacità dell’arte di acquisire significato<br />
malgrado la mia volontà. Attraverso la mia ricerca e la mia apertura<br />
all’esterno credo/spero che i miei film abbiano vita propria e che<br />
abbiamo quindi un valore universale, che non restino imprigionati<br />
dal mio pensiero.<br />
Quindi leggi il cinema come un’esperienza esclusivamente personale?<br />
Parto sicuramente da una dimensione personale ma senza i miei collaboratori<br />
non potrei fare questo mestiere anche perché, non avendo<br />
avuto una formazione cinematografica, loro mi hanno letteralmente<br />
insegnato a farlo. Francesca Calvelli [montatrice], Fabio Cianchetti<br />
[direttore della fotografia], Lucilla Cristaldi [aiuto regista], Mario<br />
Gianani [produttore], Antonella Cannarozzi [costumista], Nicola<br />
Piovani, per quanto riguarda Hungry Hearts, sono le prime persone<br />
a cui mi affido in maniera assoluta.<br />
Il montaggio sincopato e la secchezza espressiva funzionale all’approccio<br />
materico, dinamico e non psicologico del tuo cinema, dove<br />
nasce quindi?<br />
Nasce sicuramente dalla mia collaborazione con Francesca che è<br />
imprescindibile dal mio lavoro. Lei è la prima testimone di quello<br />
che faccio, il nostro confronto è come una seduta psicanalitica: è lei<br />
la prima a mettermi in discussione, tra di noi c’è una tale intimità<br />
che è difficile per me immaginare di averla con qualcun altro in<br />
questa fase.<br />
Che tipo di rapporto hai invece con gli attori?<br />
Partendo dal presupposto che tutti i miei lavori nascono da un<br />
16
impulso di realtà, l’attore è colui a cui affido la responsabilità di<br />
mettere in scena questa realtà, quindi deve essere all’altezza: non mi<br />
interessa che sia tecnicamente bravo, mi interessa la persona dietro<br />
l’attore.<br />
Lavori più sull’improvvisazione quindi?<br />
Dipende, l’ultimo film, Hungry Hearts ha una sceneggiatura molto<br />
precisa che lascia poco spazio all’improvvisazione e poi avevamo<br />
poco tempo. Dove invece la sceneggiatura aveva bisogno di mutare,<br />
o quantomeno di trovare una sua identità attraverso la parola dell’attore,<br />
abbiamo scelto l’improvvisazione.<br />
Quello che cerco negli attori è la condivisione. Nel primo film volevo<br />
raccontare il conflitto tra israeliani e palestinesi, gli attori quindi<br />
erano israeliani e palestinesi e ho cercato di mettere in scena uno<br />
psicodramma, potevano farlo solo dav<strong>anti</strong> ad un terzo: si fidavano<br />
perché non appartenevo a nessuna delle due parti. Sono riusciti così<br />
a mettere in scena loro stessi e i propri drammi e molte cose sono<br />
nate dall’improvvisazione. Quando Mohammed Bakri [l’attore protagonista]<br />
chiede al soldato israeliano, che ha occupato la propria<br />
casa, se può andare a prendere al piano di sopra qualcosa, il soldato<br />
gli risponde “Be my guest!”: non era una battuta prevista dal<br />
copione eppure poteva quasi dare il titolo al film stesso. Non avrei<br />
mai potuto scrivere una cosa del genere, sarebbe stato un giudizio<br />
troppo esplicito e non ho mai avuto questa pretesa, volevo solo<br />
osservare i fatti.<br />
Per In memoria di me gli attori hanno fatto un ritiro spirituale di 10<br />
giorni in silenzio, dopo tale esperienza abbiamo riscritto insieme la<br />
sceneggiatura perché ognuno di loro aveva più chiaro il personaggio<br />
e lo ha arricchito di piccoli dettagli.<br />
Per me quindi è fondamentale il lavoro con gli attori, cerco più degli<br />
autori che non degli interpreti.<br />
Ne La solitudine dei numeri primi c’era il rapporto con il corpo che<br />
17
legava gli attori alla realtà. Hanno potuto vivere sulla propria pelle<br />
il tempo che passava, con il cambiamento faticoso del proprio<br />
corpo, hanno potuto sentire davvero i segni degli anni trascorsi che<br />
vengono obliterati sullo schermo: attraverso la loro sofferenza reale<br />
ho potuto spendere meno parole per descrivere la loro storia. Sono<br />
riuscito ad ottenere la secchezza che prima citavi grazie al lavoro<br />
con gli attori, alla loro capacità di esprimere tutto il loro dolore in<br />
un’unica immagine [la magrezza di Alba e il sovrappeso di Luca].<br />
Tutto ciò fa parte della credibilità di cui ti parlavo e che cerco nelle<br />
persone e nelle storie che racconto.<br />
Hungry Hearts invece l’ho pensato e scritto per Alba che è una parte<br />
fondamentale della mia vita.<br />
È la tua musa ispiratrice?<br />
No, non è la mia unica fonte di ispirazione, sarebbe noioso se facessi<br />
tutti i film con lei.<br />
Si può dire però che lavorare con lei porta con sé – anche – la nostra<br />
esperienza di essere insieme e credo questo arricchisca il lavoro.<br />
In che misura Alba Rohrwacher ha contribuito alla realizzazione di<br />
Hungry Hearts?<br />
Moltissimo: definirla attrice è riduttivo, è un’artista. Io sono una<br />
persona molto complicata e per certi versi violenta, per lei entrare<br />
nel mio mondo è stato difficile però nel lavoro abbiamo trovato una<br />
forte condivisione.<br />
Passando invece ai riferimenti cinematografici, abbiamo parlato di<br />
Wiseman, di riferimenti letterari, la critica ti attribuisce influenze di<br />
Argento, Bava, Bellocchio, Polanski e mi colpisce il fatto che tu<br />
dica che queste connessioni non sono volute, avvengono “malgrado<br />
te”.<br />
18
Ogni regista ha i propri modelli, ma il mio primo punto di rifermento<br />
per La solitudine dei numeri primi è stato un libro di fotografie<br />
delle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 e tutto il film è stato<br />
costruito su quel tipo di immagini. L’associazione a Dario Argento<br />
deriva dalla musica [vedi scena iniziale della recita scolastica con<br />
“Magic Thriller” dei Goblin] e il tipo di ricerca sull’ambientazione<br />
è simile al lavoro di Argento perché volevo realizzare una favola<br />
horror e gli anni ’70-’80 sono stati molto preziosi per questo tipo di<br />
immaginario.<br />
Per Hungry Hearts mi sono ispirato ad un dipinto di Gerhard<br />
Richter, “Ella”. I colori, il colletto della camicetta, tutto nel film mi<br />
riporta a quest’immagine fissa.<br />
Il riferimento di In memoria di me è stato Palladio e di rimando sono<br />
stato definito kubrickiano perché anche Kubrick amava Palladio,<br />
avevano la stessa solennità, semplicità e amore per la grandezza.<br />
Non ho mai pensato di citare Kubrick ne La solitudine dei numeri<br />
primi, anche se è uno dei miei autori preferiti, però l’immaginario<br />
collettivo è portato ad associare il corridoio di un albergo di montagna<br />
a Shining.<br />
Comunque anch’io ho dei modelli cinematografici. All’epoca di In<br />
memoria di me era Bresson il mio punto di riferimento, poi ad un<br />
certo punto è diventato Polanski, autore di Rosemary’s Baby che<br />
non potevo ignorare mentre lavoravo ad Hungry Hearts, si tratta<br />
però di punti di riferimento meramente estetici, non c’è la stessa<br />
tensione, la stessa ricerca. Mi dicono anche che Hungry Hearts<br />
somigli a Repulsion per l’utilizzo dei grandangoli ma io non l’ho<br />
mai visto.<br />
Diceva David Lynch: “Se dovessi pensare di avere qualcuno con cui<br />
condivido lo stesso universo artistico sarebbe Kafka”, evidentemente<br />
io condividerò anche in maniera inconsapevole lo stesso universo<br />
di Polanski.<br />
Non saprei dirti però qual è il mio vero punto di riferimento, significherebbe<br />
che ho già capito chi sono, invece sono in costante ricer-<br />
19
ca, quindi prendo in prestito delle suggestioni più che altro estetiche,<br />
non di percorso, e il film diventa naturalmente altro nelle mie<br />
mani.<br />
Cambiando argomento, mi piacerebbe approfondire il discorso<br />
sulla tua esperienza televisiva.<br />
L’esperienza di In Treatment è stata estremamente formativa. Ho<br />
lavorato su un format, non dovevo inventare niente come i pittori di<br />
icone sacre. Il tocco non sarebbe stato mai lo stesso identico, ma mi<br />
affascinava l’idea della riproduzione pura e semplice che appartiene<br />
alla cultura del lavoro, il mettere in scena tecnicamente ed emotivamente<br />
qualcosa messo già in scena in 18 paesi.<br />
Lo studio delle sceneggiature di In Treatment mi è stato molto utile<br />
anche per il mio lavoro da regista di Hungry Hearts. Ho imparato<br />
così regole drammaturgiche più solide.<br />
L’unità di luogo e di azione mi è poi congeniale e andare a lavoro<br />
tutte le mattine nello stesso posto mi ha fatto intravedere il mio<br />
sogno di realizzare un film come si faceva un tempo, tutto in teatro<br />
di posa.<br />
Che tipo di rapporto hai con il cinema italiano?<br />
Il cinema italiano è molto rappresentato all’estero ed è questo in<br />
fondo il dato interessante, anche perché, a leggere le riflessioni teoriche<br />
e critiche, il cinema italiano è sempre stato in crisi. Il cinema<br />
italiano è rappresentato all’estero come tante altre realtà provinciali,<br />
nel senso di periferiche rispetto al grande impero americano.<br />
Ultimamente mi pare anche che nei festival internazionali i film italiani<br />
stiano vincendo. Personalmente non amo fare nomi, ma ci sono<br />
10 registi che seguo tra quelli più anziani e i più giovani. Quello che<br />
in Italia attualmente manca è una visione collettiva che forse c’era<br />
negli anni Sessanta-Settanta, anche se poi non ne sono così sicuro.<br />
20
Noi siamo certamente più individualisti, forse impauriti dall’idea di<br />
collettività. Bisogna sempre guardare un arco temporale di almeno<br />
10 anni: quando ho iniziato per esempio c’erano degli autori che<br />
hanno mantenuto le promesse, altri li abbiamo persi per strada invece.<br />
Il cinema italiano quindi esiste nella sua dimensione individualistica,<br />
nessuno si somiglia come invece accadeva negli anni ‘70. La<br />
ricerca della propria immagine e la riflessione teorica sul proprio<br />
linguaggio li rende tutti molto diversi l’uno dall’altro, questo può<br />
essere un limite ma anche una forza.<br />
Hai vissuto diversi anni oltreoceano, cosa pensi del cinema americano?<br />
Sono un grande fan di Paul Thomas Anderson, Tar<strong>anti</strong>no, dei primi<br />
film di Aronofski, dei Coen: mi piace in generale t<strong>anti</strong>ssimo il cinema<br />
americano. Prendi per esempio Iñárritu e Cuarón, che sono messicani<br />
quindi provinciali nell’accezione cui accennavo prima: stanno<br />
rivitalizzando il cinema americano, anche rispetto ai grandi che<br />
ho citato, perché riescono a fare film d’autore milionari. Gravity è<br />
quanto di più autoriale si possa immaginare: Cuarón ha scritto,<br />
diretto e montato il film, è quindi un film artigianale che non ha una<br />
storia, ma che vive di sensazioni, di atmosfere, emozioni profonde.<br />
L’utilizzo del 3D in un contesto in cui non c’è nessuna pretesa, né<br />
pretenziosità alla Interstellar di spiegarti l’universo, ha qualcosa di<br />
eccezionale. Il risultato è un film d’autore realizzato con 100 milioni<br />
di dollari.<br />
Birdman è la stessa identica cosa ma in forma intellettuale: Iñárritu<br />
è riuscito a realizzare un unico piano sequenza (che costa molto)<br />
con Michael Keaton che rifà Carver a Broadway: è incredibile che<br />
abbia ottenuto i fondi necessari. Sulla carta risulta un film con del<br />
potenziale dal punto di vista tecnico, ma che rinuncia allo spettacolo,<br />
eppure riesce a fare un piano sequenza che non diventa mai<br />
manieristico, ma formalmente sempre coerente con quello che sta<br />
21
accontando e lo fa grazie agli effetti speciali. Riesce quindi a realizzare<br />
un film da 26 milioni di dollari ed è anche questo un film<br />
d’autore. Loro insomma, secondo me, stanno facendo esplodere il<br />
cinema americano dall’interno.<br />
Che è un po’ quello che si dice di te e del cinema italiano (cito Roy<br />
Menarini):<br />
“Dunque La solitudine dei numeri primi fa esplodere, frontalmente,<br />
di fronte agli occhi dello spettatore, un discorso di teoria dell’immagine,<br />
o meglio, di sistema del guardare del cinema italiano.<br />
Costanzo volutamente ignora la tradizione realista che – quantunque<br />
venga ridimensionata da alcuni storici – continua sempre a<br />
imperare nel nostro cinema, esclude le più viete trasformazioni tra<br />
letteratura e cinema di questi anni...” 1 .<br />
Ah sì, mutatis mutandis [ride]<br />
Note<br />
1<br />
Roy Menarini, La solitudine dei numeri primi, «Segnocinema», 166, novembredicembre<br />
2010, p. 51.<br />
22
IL QUASI-HORROR: LE STRATEGIE DI RINNOVAMEN-<br />
TO FORMALE DEL CINEMA ITALIANO NEI FILM DI<br />
SAVERIO COSTANZO<br />
Roy Menarini<br />
Le forme e lo stile dei film sono le questioni meno affrontate in<br />
assoluto dalla critica recente, che è tornata ad essere contenutistica<br />
e puramente tematica, come a scrollarsi di dosso anni di tecnicismi<br />
paludati ed eccessivi. Con l’acqua sporca, però, si è finito col gettare<br />
anche il bambino e oggi sembra che nessuno sia più in grado,<br />
almeno fuori dal mondo accademico, di valutare un film formalmente.<br />
L’horror è una questione di forme cinematografiche. Valutarlo in<br />
termini meramente tematici vorrebbe dire inchiodarlo alle scarse<br />
vari<strong>anti</strong> narrative che possiede. E disperderne i valori emotivi, psicanalitici<br />
e simbolici che è in grado di evocare grazie a scelte di<br />
ritmo, stile, linguaggio, inquadratura, montaggio e così via.<br />
Anche Saverio Costanzo è un regista formalista. In che senso?<br />
Ovviamente non nel significato peggiorativo del termine, che ancora<br />
oggi come un boomerang torna nel superficiale bagaglio estetico<br />
dei nostri spettatori e dei nostri commentatori – quindi non nell’idea<br />
che Costanzo sia un autore privo di contenuti o un calligrafico dello<br />
stile. Piuttosto va inteso come un regista, tra i pochi in Italia, che<br />
investe le forme del fare cinema tanto quanto le storie narrate e i<br />
temi affrontati.<br />
Non stupisce, dunque, che tra Costanzo e l’horror ci sia una relazione<br />
particolare, sotterranea ma non certo nascosta o peggio dissimulata.<br />
Potremmo dire con qualche spirito provocatorio che La solitudine<br />
dei numeri primi è il film che Dario Argento non gira più da<br />
anni (purtroppo). O che Hungry Hearts è la versione più polanskiana<br />
di un incubo famigliare che il cinema italiano contemporaneo<br />
23
abbia proposto. Ma si rischierebbe di fermarsi alle suggestioni, alle<br />
allusioni, al ricorso ai maestri in funzione nobilitante.<br />
Tornando ai “numeri primi”, vale la pena soffermarsi sulla questione.<br />
Nel romanzo di Paolo Giordano (una vicenda morbosa di sofferenza<br />
inf<strong>anti</strong>le e adolescenziale, bulimia e anoressia, spleen melodrammatico<br />
e disprezzo verso il proprio corpo, che colma il romanzo<br />
dall’inizio alla fine) Costanzo ha individuato miracolosamente<br />
l’unica strada possibile per sollevare la materia: l’horror. Si tratta di<br />
un percorso interpretativo che lo stesso autore ha già più volte indicato<br />
ai suoi intervistatori, segnale evidente, per fortuna, di un regista<br />
italiano con un certo bagaglio di letture alle spalle, che studia e pensa<br />
criticamente ai testi e che immagina per i suoi film una dimensione<br />
teorica in grado di sostenerli. Ne esce – è stato detto non erroneamente<br />
– un film sinistro e cerebrale, qua e là di gelo assoluto, quasi<br />
un esercizio di figure colte e quadri autonomi, poco correlati.<br />
Forse ciò è vero, ma vanno lodate le parole di Mauro Gervasini:<br />
“Il vero colpo di genio del regista è stato quello di raccontare la solitudine<br />
dei suoi numeri primi nonostante il romanzo, trasformandolo<br />
in qualcosa di diverso. Un horror tra il Kubrick di Shining e<br />
L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento (di cui torna,<br />
ossessiva, angosciante, la musica). L’horror come genere politico, il<br />
solo che possa rappresentare la levatrice per antonomasia di traumi<br />
e fobie, vale a dire la famiglia, quella che costringe Pollicino e i suoi<br />
fratellini a perdersi nel bosco. Ci sono il pagliaccio cattivo e la strega<br />
che manipola il dolore e la diversità (l’amica Viola), la matrigna<br />
e il padre orco, la musica dei Goblin (formidabile l’inizio del film)<br />
e quella insinuante di Mike Patton dei Faith No More; le scenografie<br />
di Antonello Geleng (Cannibal Holocaust, Paura nella città dei<br />
morti viventi) e soprattutto lo sguardo, ora barocco, ora essenziale,<br />
di Saverio Costanzo. Un altro cinema, finalmente” (Film Tv, 14 settembre<br />
2010).<br />
Ovvero, se anche fosse che il film di Costanzo è solamente un’opera<br />
accademica e formalista (pensiamo comunque che sia qualco-<br />
26
sa di più), non sarà dunque il caso di rivalutare queste categorie e<br />
scoprire in esse dei valori positivi?<br />
Eccoci tornati alla questione. Qu<strong>anti</strong> registi italiani oggi sono in<br />
grado di riflettere in maniera seria sui termini formali delle proprie<br />
opere? Qu<strong>anti</strong> sedicenti autori nazionali scambiano una struttura stilistica<br />
con qualche scelta visuale generica (quante volte abbiamo<br />
sentito parlare di “macchina da presa ad altezza di bambino” o di<br />
“paesaggio urbano che rimanda alla crisi dei protagonisti” etc.)? La<br />
solitudine dei numeri primi mette in gioco nozioni di pratica dello<br />
sguardo nel cinema italiano. I riferimenti, dunque, servono sia a<br />
scuotere i rami dell’albero sempre invadente del realismo nazionale,<br />
sia a realizzare una critica in fieri all’atto stesso del fare cinema<br />
nel nostro Paese.<br />
La costellazione Bava-Argento-Kubrick, con accenni a Polanski<br />
e Bellocchio, costituisce – più che un corollario di citazioni – una<br />
palette, uno stilema di riferimento generale su cui innestare credibilmente<br />
una vicenda altrimenti indigeribile.<br />
Attenzione, perché se si tratta di questioni formali, la scelta investe<br />
anche i processi nei quali all’apparenza c’è ben poco da inventare.<br />
Pensiamo alla versione italiana di In Treatment (dove peraltro<br />
anche la claustrofilia richiama le altre opere di Costanzo, fino a far<br />
viaggiare la fantasia intorno a una filmografia fatta di case infestate,<br />
occupate, spettrali e divinizzate). Qui il format – ci riferiamo alla<br />
prima stagione – è rigidissimo e si potrebbero ritrovare passo passo<br />
intere equivalenze di dialogo, di personaggio, persino di messa in<br />
scena. Eppure In Treatment di Costanzo esce vincitore, proprio perché<br />
– anche in una trasposizione interna al medium di riferimento (e<br />
non da letteratura a cinema) – l’autore individua spazi di manovra<br />
sorprendenti nella direzione degli attori, nell’intensità delle inquadrature,<br />
nelle minime variazioni scenotecniche, lasciando trapelare<br />
dolori e dissidi spesso lugubri e irrisolti. Il risultato è maiuscolo,<br />
tanto è vero che si dovrebbe guardare a In Treatment per avere<br />
un’allegoria della società italiana negli irraccontabili anni Duemila.<br />
27
Venendo a Hungry Hearts, le questioni dell’analfabetismo interpretativo<br />
di fronte alla dimensione formale e narrativa si sono se<br />
possibile acuite. L’accusa di misoginia formulata nei confronti di<br />
Costanzo – spesso ignorando tra l’altro l’origine letteraria della storia,<br />
dal Bambino indaco di Marco Franzoso – è parsa completamente<br />
avulsa dalle modalità della messa in scena del regista. Ben<br />
consapevole dei rischi presi attraverso una vicenda così dolorosa e<br />
liminare, Costanzo ha virato la messa in scena verso territori orrorifici<br />
proprio per riempire di diaframmi e specchi simbolici la questione<br />
di una madre talmente ossessionata dal proprio bambino (in<br />
termini di possesso, se non di vera e propria “possession”) da metterlo<br />
al rischio della vita. Al solito, gli accusatori non hanno nemmeno<br />
preso in considerazione le modalità rappresentative concentrandosi<br />
solamente sulla “femmina furiosa” interpretata da Alba<br />
Rohrwacher, rinverdendo – e senza nemmeno quegli strumenti teorici<br />
– le sorpassate letture anni Settanta che accusavano il noir o<br />
Hitchcock di misofobia narrativa.<br />
Il film, peraltro, possiede un incipit particolarmente riuscito. Una<br />
sequenza nella toilette di un ristorante, luogo di incontro casuale tra<br />
due giovani che si innamoreranno, segnata da eventi comici e persino<br />
scatologici, che promette letizia. Con la scelta di girare il film in<br />
maniera differente dal solito, con troupe ridotta e in America,<br />
Costanzo sembra indirizzare la pellicola nella prima parte verso le<br />
atmosfere dell’“indie-movie” alla Sundance. È nella progressione<br />
dell’isteria materna, dell’estremismo delle scelte, della casa che<br />
diventa una prigione, della compagna di vita che si trasforma in<br />
demone che il regista – sempre rinunciando a sfociare nel parapsicologico,<br />
nel soprannaturale o nello slasher – offre una torsione di<br />
immaginario particolarmente riuscita. Questo Rosemary’s Baby<br />
bagnato nello Stige della depressione post-partum, sollecita aspetti<br />
essenziali del contemporaneo: la maternità, appunto, che da sempre<br />
è territorio privilegiato per l’horror e persino per il fanta-horror. E<br />
l’alimentazione, che ha nuovamente scatenato polemiche perché<br />
28
Hungry Hearts è stato identificato tout-court come una critica al<br />
veganesimo.<br />
A ben vedere, il film è invece un’opera sulle ossessioni, dove la<br />
figura del patriarca è affidata a un maschio fragile, costretto ad azioni<br />
solitamente tipiche della donna nel cinema di genere (il terrore<br />
verso il partner, il rapimento del bebè in pericolo, la fuga silenziosa<br />
col figlio in braccio ecc.), e anch’egli alle prese con una figura<br />
materna decisamente ingombrante: una nonna dominante, più attiva<br />
del proprio stesso figlio, pronta a tutto per difendere l’ovile, un po’<br />
sinistra a sua volta e borghesemente in grado di accoglienza grazie<br />
a una casa peraltro violabile. Il confronto tra la “reggia” dove il<br />
figlio viene rapito e il piccolo, labirintico, appartamento-orto della<br />
coppia permette di intorbidire le acque del rapporto tra vittima e carnefice,<br />
che molti recensori hanno decisamente sottovalutato.<br />
Cristina Piccino (su “Il Manifesto” del 15 gennaio 2015) cerca<br />
una terza via tra sostenitori e accusatori e scrive: “Ma Hungry<br />
Hearts non è tanto diverso dal precedente La solitudine dei numeri<br />
primi, e per questo più che di misoginia (che pure c’è) sembra il<br />
grembo familiare lo spavento horror di Costanzo, il luogo in cui<br />
qualsiasi relazione finisce per essere impossibile, avvelenando se<br />
stessa e coloro che vi prendono parte, e quello dove esercitare<br />
un’imprevedibilità dello sguardo. Uomo e donna psicotici, genitori<br />
indifferenti o ingombr<strong>anti</strong> (…), interni familiari di un’auto-distruttività<br />
che passa sul corpo — può essere anoressia o bulimia.”<br />
Curioso che Costanzo abbia dovuto fronteggiare anche in passato<br />
questioni legate alla rappresentazione, questa volta maschile, di<br />
un comportamento. Era il 2007 di In memoria di me, film tratto da<br />
Furio Monicelli e racconto ostinato, cupo, doloroso di un noviziato<br />
attraversato da mille dubbi. Il casus belli fu un bacio tra uomini di<br />
Chiesa, anche se poi il portavoce del Papa Padre Federico Lombardi<br />
si lamentò in particolare della descrizione claustrale e paurosa del<br />
noviziato religioso stesso.<br />
L’impressione, anche in quel caso, fu che si parlasse di contenu-<br />
29
30
ti per riferirsi invece ai modi di messa in scena, il che porta a un dialogo<br />
tra sordi. Il regista reclama la propria spiritualità, il religioso e<br />
i giornali guardano a comportamenti e azioni, senza alcun contesto<br />
di trasformazione artistica.<br />
Le varie polemiche – peraltro non particolarmente aspre – aiutano<br />
paradossalmente a mettere meglio in luce i nodi autoriali di<br />
Costanzo. Il tema della chiusura, certo (se ne parla altrove nel volume).<br />
I controversi legami della famiglia (La solitudine dei numeri<br />
primi e Hungry Hearts). Il problema della convivenza forzata (da<br />
Private a In memoria di me).<br />
Ma soprattutto il tema delle istituzioni: i confini dello Stato, che<br />
tracciano frontiere persino dentro un’abitazione; i confini della psicanalisi,<br />
pronti ad essere forzati (quasi che lo scavalcamento di<br />
campo tra la poltrona dell’analista e il divano del paziente diventi<br />
un tabù mortale); i confini della medicina, quelli della maternità,<br />
quelli della religione. Bellocchianamente, l’istituzione diventa perimetro<br />
perfetto per misurare la temperatura all’Italia. Ma dal<br />
momento che un Bellocchio c’è già, e che la cultura di cui è nutrito<br />
(la filosofia degli anni Sessanta e Settanta) è bagaglio difficile da<br />
gestire per chi è nato dopo, Costanzo preferisce lavorare sulle<br />
forme. L’orrore che si cela dietro i battenti di un convento, dentro le<br />
stanze di una famiglia impazzita, nel corpo anoressico di persone<br />
traumatizzate, nel mondo visto con gli occhi di chi è troppo fragile,<br />
è in fondo horror a tutti gli effetti. Se il genere horror, infatti, parte<br />
dai codici e dalle convenzioni per raccontare la società e la cultura,<br />
Costanzo – partendo da problemi istituzionali e personali – trasforma<br />
in dialogo formale con il genere ciò che altrimenti diventerebbe<br />
pedagogico, didascalico e abusato (come accade al cinema d’autore<br />
italiano molte più volte di quanto siamo abituati a pensare).<br />
Il fiabesco, l’ancestrale, il corporeo rientrano dunque dove non<br />
sono gran che esistiti in questi anni, salvo appunto che nei meandri<br />
dell’horror argentiano, anche quello di derivazione. Tornando al<br />
quesito, dunque, perché porre resistenza o provare disagio se abbia-<br />
31
FALSOPIANO<br />
NOVITÀ<br />
Federico Magni<br />
Meraviglioso. Effetti speciali al cinema<br />
Ignazio Senatore<br />
Alessandro D’Alatri. Il mio cinema<br />
Alessandro Leone<br />
Corpo da ring. La boxe immaginata dal cinema<br />
Giovanni Ottone<br />
Nuovo cinema in Turchia<br />
Stefano Sciacca<br />
Fritz Lang Alfred Hitchcock. Vite Parallele<br />
In libreria e su www.falsopiano.com<br />
(le spese di spedizione sono gratuite)