Area 51_ La verita, senza censu - Annie Jacobsen
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Alla fine tornò a scuola, prese un diploma e si arruolò nell’aeronautica per andare a<br />
combattere nella Guerra di Corea. Al poligono Mingus aveva fatto la gavetta. Per anni, nel<br />
caldo torrido delle estati e nel gelo degli inverni, aveva lavorato a progetti classificati nel<br />
deserto sempre a guardia di bombe nucleari e di test che implicavano la dispersione del<br />
micidiale plutonio. Alla metà degli anni Sessanta aveva risparmiato abbastanza denaro<br />
facendo gli straordinari da potersi permettere una casa per la sua famiglia, in cui adesso<br />
c’era il bambino che lui e Gloria avevano sempre sognato di avere. Alla metà degli anni<br />
Settanta Mingus poté comprare una seconda casa, un capanno da caccia nei boschi.<br />
All’inizio degli anni Ottanta aveva ottenuto così tante promozioni da avere la qualifica di<br />
GS-12, che nella gerarchia degli impiegati federali è solo tre gradini sotto il livello<br />
massimo, GS-15. «Avevo frequentato la scuola di orientamento per le armi nucleari alla<br />
base di Kirkland e avevo passato una serie di corsi avanzati» dice Mingus. «Ma niente, e<br />
intendo dire proprio niente, può prepararti all’esperienza di essere convinto che il<br />
materiale nucleare di cui hai la responsabilità sia sotto attacco.»<br />
Nel corso di quella mattina caotica, Mingus si rese conto che l’unica cosa da fare era<br />
concentrarsi sulla bomba nel pozzo. «Pensai: “Dick Stock ha detto che la bomba è quasi<br />
al secondo picco. Noi siamo sotto attacco qui”. Poi mi chiesi: “Che cos’è meglio?”. Se<br />
qualcuno avesse puntato una pistola alla tempia del gruista e gli avesse detto: “Tirala<br />
fuori”, si sarebbero impadroniti di una bomba innescata. Sapevo di dover prendere una<br />
decisione. Era più sicuro tirar su la bomba oppure continuare a calarla nel pozzo? Decisi<br />
che era meglio avere un grosso problema al punto zero che da qualche altra parte e così<br />
diedi l’ordine. Dissi: “Continuate a calare l’ordigno”.»<br />
Mingus parlò velocemente con Joe Behne 6 , il direttore del test, di quello che stava<br />
succedendo. I due concordarono che Mingus avrebbe dovuto telefonare al capo della<br />
sicurezza del dipartimento dell’Energia, una donna di nome Pat Williams. «Lei mi disse:<br />
“Sì, abbiamo sentito la stessa cosa e dobbiamo presumere la stessa cosa. Per quanto ne<br />
so, siamo sotto attacco”» ricorda Mingus.<br />
Poi Mingus chiamò <strong>La</strong>rry Ferderber, il manager del <strong>La</strong>wrence Radiation di Livermore al<br />
Nevada Test Site. «Due minuti dopo Ferderber conferma la stessa cosa: “Ho sentito che<br />
siamo sotto attacco”.» Mingus e Behne avviarono la procedura prevista dal protocollo.<br />
«Joe e io discutemmo se scendere in cantina e distruggere i documenti cifrati che si<br />
trovavano lì. Poi decidemmo che era troppo presto. Quando guardi fuori e vedi i ragazzi<br />
sparare, come sulla Pueblo, allora è il momento di distruggere le cose. Non prima.»<br />
Invece Mingus telefonò a Bill Baker, l’uomo a capo dell’edificio di assemblaggio. Con la<br />
conferma dell’attacco da parte del portavoce del dipartimento dell’Energia e del manager<br />
del poligono, Mingus doveva muoversi in fretta. «Chiesi a Bill Baker che cosa stava<br />
succedendo» ricorda. «E lui rispose, calmissimo: “Qui va tutto bene. Sto guardando dalla<br />
finestra. Vedo il capitano Williams in piedi lì fuori”.» Mingus riagganciò e si rimise a<br />
discutere con Joe Behne. «Dissi a Joe: “Non possiamo prestar fede a quello che dice. Può<br />
essere stato costretto. Magari aveva un coltello alla gola o una pistola puntata alla<br />
testa”.»<br />
Nel frattempo, pochi chilometri a est, un elicottero si librava sopra il posto di guardia<br />
tra il poligono e l’<strong>Area</strong> <strong>51</strong>, mentre gli uomini a bordo sparavano con armi