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Ernest Hemingway VERO ALL'ALBA

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Era un po’ più giovane di mio figlio maggiore, e se a metà degli anni Trenta io<br />

fossi andato ad Addis Abeba per fermarmi un anno a scrivere un libro, come avevo<br />

programmato, l’avrei conosciuto a dodici anni, dato che il suo compagno di giochi di<br />

quel periodo era figlio delle persone presso le quali sarei dovuto stare. Ma non c’ero<br />

andato perché al posto mio c’erano andate le truppe di Mussolini e l’amico del quale<br />

sarei dovuto essere ospite era stato trasferito in un’altra sede diplomatica, e così<br />

avevo perso l’occasione di conoscere G.C. a dodici anni. Quando poi l’avevo<br />

incontrato per la prima volta, aveva alle spalle una lunga guerra molto difficile, più<br />

l’abbandono di un Protettorato inglese dov’era agli inizi di una brillante carriera. Era<br />

stato al comando di truppe irregolari, la qual cosa, se si è onesti, rappresenta il modo<br />

più ingrato di fare la guerra. Se un’azione viene condotta perfettamente e si hanno<br />

pochi caduti ma si infliggono ingenti perdite al nemico, il quartier generale lo<br />

considera un massacro ingiustificato e riprovevole. Se si è costretti a combattere in<br />

condizioni sfavorevoli e con tutte le probabilità contro, e si vince, ma con un lungo<br />

elenco di morti, il commento è: «Fa ammazzare troppi uomini».<br />

Per un uomo onesto non esiste il modo di comandare degli irregolari ottenendo<br />

qualcosa all’infuori di guai. C’è da dubitare che un soldato capace e veramente<br />

onesto possa sperare in un risultato diverso da quello di essere distrutto.<br />

Quando avevo conosciuto G.C., lui aveva cominciato un’altra carriera in<br />

un’altra colonia britannica. Non era mai amareggiato, né mai si voltava a guardare<br />

indietro. Davanti agli spaghetti e al vino ci raccontò di com’era stato ripreso da un<br />

funzionario pubblico di primo pelo per aver usato una parolaccia che poteva essere<br />

stata sentita dalla moglie del giovanotto. Detestavo l’idea che G.C. potesse essere<br />

infastidito da gente del genere. I vecchi Sahib Pukka erano spesso descritti e ridotti a<br />

caricature. Ma con quei nuovi tizi nessuno ci si era cimentato, tranne un po’ Waugh<br />

verso la fine di Misfatto negro e Orwell in Giorni birmani. Avrei voluto che Orwell<br />

fosse ancora vivo e raccontai a G.C. dell’ultima volta che l’avevo visto a Parigi, nel<br />

1945, dopo lo scontro di Bulge e di come lui era entrato nella camera 117 del Ritz,<br />

con indosso quelli che sembravano abiti civili. Nella stanza c’era ancora un piccolo<br />

arsenale dal quale voleva prendere una pistola perché “loro” gli stavano alle costole.<br />

Voleva una piccola pistola facile da nascondere e io ne avevo trovata una,<br />

avvertendolo che se avesse sparato a qualcuno con quella, alla fine il qualcuno<br />

sarebbe morto, ma forse non prima di un lungo intervallo. Comunque, una pistola era<br />

una pistola, e secondo me Orwell ne aveva bisogno più come talismano che come<br />

arma.<br />

Era molto teso e sembrava in cattive condizioni, e io gli avevo chiesto se voleva<br />

fermarsi a mangiare qualcosa. Ma doveva andare. Gli avevo detto che se “loro” gli<br />

stavano alle costole, potevo dargli un paio di persone per guardargli le spalle. I miei<br />

amici li conoscevano bene, quei tizi, e nessuno l’avrebbe infastidito, né disturbato.<br />

Aveva risposto di no, l’unica cosa di cui aveva bisogno era la pistola. Avevamo<br />

parlato di alcune conoscenze comuni, poi se n’era andato. Avevo spedito due uomini<br />

ad aspettarlo all’uscita per pedinarlo e controllare se era seguito da qualcuno. Il<br />

giorno dopo, il loro rapporto era stato: «Papa, non gli sta dietro nessuno. È in contatto<br />

con l’ambasciata inglese, ma non è un agente. Questa è solo una chiacchiera. Vuoi<br />

l’orario dei suoi spostamenti?».

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