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In quel safari niente era semplice perché in Africa Orientale le cose erano cambiate<br />
molto. Il cacciatore bianco era mio amico da molti anni. Lo rispettavo come non<br />
avevo mai rispettato mio padre, e lui si fidava di me, il che era più di quanto<br />
meritassi. Era comunque qualcosa di cui dovevo tentare di rendermi degno. Mi aveva<br />
istruito facendomi camminare con le mie gambe e correggendomi quando sbagliavo.<br />
Se commettevo un errore me lo spiegava. E se non commettevo lo stesso errore una<br />
seconda volta, spiegava un po’ di più. Ma era un nomade e ora ci lasciava perché<br />
c’era bisogno di lui, alla sua fattoria. Così in Kenia veniva chiamato un ranch di<br />
ventimila acri. Era un uomo molto complicato, fatto di coraggio assoluto, di tutte le<br />
buone debolezze umane e di una capacità assai critica e particolarmente sottile di<br />
capire la gente. Era tutto dedito alla famiglia e alla casa, ma per quanto amasse la<br />
moglie e i figli, preferiva vivere lontano da loro.<br />
«Hai qualche problema?»<br />
«Non voglio fare la figura dello stupido con gli elefanti.»<br />
«Imparerai.»<br />
«C’è altro?»<br />
«Ricordati che tutti ne sanno più di te, ma sei tu a dover prendere le decisioni e a<br />
doverle fare rispettare. Lascia a Keiti la cura del campo e il resto. Dai il meglio di te.»<br />
C’è gente che ama il comando e nell’ansia di assumerlo si innervosisce per le<br />
formalità imposte dal riceverlo da qualcun altro. Io amo il comando perché è la<br />
saldatura ideale fra libertà e schiavitù. Si può essere felici della propria libertà perché<br />
quando diventa pericolosa si trova rifugio nei doveri. Per molti anni non avevo<br />
esercitato nessuna forma di comando tranne che su me stesso, e ne ero stanco perché,<br />
conoscendo molto bene me stesso e i miei difetti e i miei punti di forza, sapevo che<br />
mi concedevano ben poca libertà e mi caricavano di molti doveri. Di recente ho letto<br />
con irritazione vari libri su di me, scritti da persone che ben poco sapevano della mia<br />
vita interiore, dei miei obiettivi e delle mie motivazioni. Leggerli è stato come<br />
leggere il resoconto di una battaglia in cui si è combattuto, scritto da qualcuno che<br />
non solo non vi ha partecipato, ma in certi casi, quando la battaglia ha avuto luogo,<br />
non era neanche nato. Tutta gente che scriveva tanto della mia vita interiore quanto di<br />
quella esteriore esibendo una sicurezza assoluta che io non avevo mai provato.<br />
Ora avrei voluto che il mio grande amico e maestro Philip Percival la smettesse<br />
di comunicare con me nello strano sottintendere stenografico che era la nostra lingua<br />
ufficiale. Avrei voluto chiedergli cose che era impossibile chiedere. E soprattutto<br />
avrei voluto essere istruito con la stessa completezza e competenza con cui gli inglesi<br />
istruiscono i loro piloti. Ma sapevo che il diritto consuetudinario che prevaleva fra<br />
Philip Percival e me era rigido quanto il diritto consuetudinario dei Kamba. Era stato<br />
deciso molto tempo prima che potevo ridurre la mia ignoranza esclusivamente<br />
imparando da solo. Ma ero consapevole che d’ora in poi non ci sarebbe stato nessuno<br />
a correggere i miei errori e questo, nonostante la felicità che potevo provare<br />
nell’assumere il comando, riempiva la mia mattinata di solitudine.