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Ernest Hemingway VERO ALL'ALBA

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1<br />

In quel safari niente era semplice perché in Africa Orientale le cose erano cambiate<br />

molto. Il cacciatore bianco era mio amico da molti anni. Lo rispettavo come non<br />

avevo mai rispettato mio padre, e lui si fidava di me, il che era più di quanto<br />

meritassi. Era comunque qualcosa di cui dovevo tentare di rendermi degno. Mi aveva<br />

istruito facendomi camminare con le mie gambe e correggendomi quando sbagliavo.<br />

Se commettevo un errore me lo spiegava. E se non commettevo lo stesso errore una<br />

seconda volta, spiegava un po’ di più. Ma era un nomade e ora ci lasciava perché<br />

c’era bisogno di lui, alla sua fattoria. Così in Kenia veniva chiamato un ranch di<br />

ventimila acri. Era un uomo molto complicato, fatto di coraggio assoluto, di tutte le<br />

buone debolezze umane e di una capacità assai critica e particolarmente sottile di<br />

capire la gente. Era tutto dedito alla famiglia e alla casa, ma per quanto amasse la<br />

moglie e i figli, preferiva vivere lontano da loro.<br />

«Hai qualche problema?»<br />

«Non voglio fare la figura dello stupido con gli elefanti.»<br />

«Imparerai.»<br />

«C’è altro?»<br />

«Ricordati che tutti ne sanno più di te, ma sei tu a dover prendere le decisioni e a<br />

doverle fare rispettare. Lascia a Keiti la cura del campo e il resto. Dai il meglio di te.»<br />

C’è gente che ama il comando e nell’ansia di assumerlo si innervosisce per le<br />

formalità imposte dal riceverlo da qualcun altro. Io amo il comando perché è la<br />

saldatura ideale fra libertà e schiavitù. Si può essere felici della propria libertà perché<br />

quando diventa pericolosa si trova rifugio nei doveri. Per molti anni non avevo<br />

esercitato nessuna forma di comando tranne che su me stesso, e ne ero stanco perché,<br />

conoscendo molto bene me stesso e i miei difetti e i miei punti di forza, sapevo che<br />

mi concedevano ben poca libertà e mi caricavano di molti doveri. Di recente ho letto<br />

con irritazione vari libri su di me, scritti da persone che ben poco sapevano della mia<br />

vita interiore, dei miei obiettivi e delle mie motivazioni. Leggerli è stato come<br />

leggere il resoconto di una battaglia in cui si è combattuto, scritto da qualcuno che<br />

non solo non vi ha partecipato, ma in certi casi, quando la battaglia ha avuto luogo,<br />

non era neanche nato. Tutta gente che scriveva tanto della mia vita interiore quanto di<br />

quella esteriore esibendo una sicurezza assoluta che io non avevo mai provato.<br />

Ora avrei voluto che il mio grande amico e maestro Philip Percival la smettesse<br />

di comunicare con me nello strano sottintendere stenografico che era la nostra lingua<br />

ufficiale. Avrei voluto chiedergli cose che era impossibile chiedere. E soprattutto<br />

avrei voluto essere istruito con la stessa completezza e competenza con cui gli inglesi<br />

istruiscono i loro piloti. Ma sapevo che il diritto consuetudinario che prevaleva fra<br />

Philip Percival e me era rigido quanto il diritto consuetudinario dei Kamba. Era stato<br />

deciso molto tempo prima che potevo ridurre la mia ignoranza esclusivamente<br />

imparando da solo. Ma ero consapevole che d’ora in poi non ci sarebbe stato nessuno<br />

a correggere i miei errori e questo, nonostante la felicità che potevo provare<br />

nell’assumere il comando, riempiva la mia mattinata di solitudine.

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