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Ernest Hemingway VERO ALL'ALBA

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La baciai sulla testa crespa e proseguimmo lungo la bella strada che descriveva<br />

strane curve salendo sulla Montagna. La città dai tetti di latta scintillava ancora al<br />

sole e mentre ci avvicinavamo vedemmo gli alberi di eucalipto e la strada vera e<br />

propria che, ombreggiata e dotata di britannica potenza, portava al piccolo forte e alla<br />

prigione e alla casa di riposo dove, quando erano troppo povere per tornare al loro<br />

paese, andavano a rifugiarsi le persone che avevano lavorato per l’amministrazione<br />

della giustizia inglese e per la sua burocrazia. Non saremmo andati a disturbare il loro<br />

riposo, anche se significava perdere lo spettacolo del giardino alla giapponese e del<br />

ruscello che, molto più avanti, si trasformava in fiume.<br />

La caccia al leone di Miss Mary era andata molto per le lunghe e tutti, tranne i<br />

fanatici e i veri sostenitori di Miss Mary, se n’erano stancati da tempo. Charo, che<br />

non era fra questi, mi aveva detto: «Spara al leone quando lei spara e facciamola<br />

finita». Io avevo scosso la testa perché non ero un sostenitore ma un seguace ed ero<br />

stato in pellegrinaggio a Compostela e ne era valsa la pena. Ma Charo aveva scosso la<br />

sua, di testa, disgustato. Charo era musulmano e quel giorno non c’erano musulmani,<br />

con noi. Non avevamo bisogno di nessuno che tagliasse la gola a qualcosa e<br />

cercavamo tutti la nostra nuova religione, che aveva la sua prima stazione, o<br />

comunque volessimo chiamarla, davanti all’emporio di Benji. Questa stazione era<br />

una pompa di benzina che si trovava di fronte al negozio dove Debba e la Vedova<br />

avrebbero scelto i tessuti per farsi i vestiti per la Nascita di Gesù Bambino.<br />

Non andava bene che io entrassi con loro, anche se mi piacevano i diversi tessuti<br />

e gli odori del locale e le Masai che conoscevamo, le Wanawaki, eccitate e senza<br />

soldi per comprare qualcosa, con quei cornuti dei loro mariti in fondo alla strada a<br />

bere sherry Golden Jeep venuto dal Sud Africa, con una lancia in una mano e la<br />

bottiglia di Golden Jeep nell’altra. I cornuti se ne stavano appoggiati su un piede o su<br />

due, e io sapevo dov’erano, così, per evitarli, camminai sul lato destro della stretta<br />

strada ombreggiata dagli alberi che comunque, e qui mi rivolgo a chiunque li percorra<br />

o ci abiti vicino, era più larga dei nostri viottoli di campagna. Proseguii con i piedi<br />

che mi facevano male e, speravo, non insolente né fiero della mia pistola, finché<br />

raggiunsi il locale dove bevevano i Masai. Dissi: «Sopa» e strinsi qualche mano<br />

fredda e uscii senza bere. Otto porte dopo, sulla destra, entrai dal signor Singh. Il<br />

signor Singh e io ci abbracciammo e la signora Singh e io ci scambiammo una stretta<br />

di mano e poi io baciai la sua, la qual cosa, essendo una Turkana, la riempì di gioia.<br />

Io avevo imparato molto bene a baciare la mano e fu come un viaggio a Parigi, che<br />

lei non aveva mai sentito neppure nominare ma che sarebbe stata la sua giusta<br />

cornice, soprattutto nelle giornate più assolate. Poi mandai a chiamare l’interprete<br />

della Missione, che entrò, come al solito con il turbante pulito e l’aria maliziosamente<br />

compunta, si tolse le scarpe della Missione e le consegnò a uno dei molti figli del<br />

signor Singh.<br />

«Come stai, Singh?» chiesi attraverso l’Interprete.<br />

«Non male. Ecco. Faccio affari.»<br />

«E la bella signora Singh?»<br />

«Mancano quattro mesi alla nascita del bambino.»

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