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vivo e lucido, e le tracce del leopardo, che erano state lasciate da balzi di lunghezza<br />
irregolare, vi erano penetrate, e sulle foglie c’erano tracce di sangue, all’altezza della<br />
schiena, nel punto in cui si era accucciato per entrare.<br />
Ngui si strinse nelle spalle e scosse la testa. Ora eravamo entrambi molto seri, e<br />
non c’erano Uomini Bianchi che parlassero pacatamente, con un sapere nato<br />
dall’esperienza; né Uomini Bianchi che dessero ordini violenti, sbalorditi per la<br />
stupidità dei loro “boys” e che imprecassero contro di loro come se fossero stati<br />
segugi troppo lenti. C’era solo un leopardo ferito e sfortunato, che era stato buttato<br />
giù con uno sparo dall’alto ramo di un albero, aveva subito una caduta alla quale<br />
nessun essere umano sarebbe sopravvissuto e si era rifugiato in un posto dove, se<br />
conservava la sua bella, incredibile vitalità felina, poteva mutilare o ferire gravemente<br />
qualunque essere umano che gli fosse andato vicino. Avrei voluto che non avesse mai<br />
ucciso le capre e che io non avessi mai firmato un contratto con una rivista a<br />
distribuzione nazionale per ucciderlo ed essere fotografato, e azzannai soddisfatto il<br />
pezzo di osso, facendo un cenno alla macchina. L’estremità appuntita dell’osso<br />
fracassato mi aveva ferito l’interno di una guancia e ora potevo assaporare la<br />
familiarità del mio stesso sangue mescolato al sangue del leopardo. Dissi: «Twendi<br />
kwa chui» usando l’imperativo plurale dell’uomo di stato: «Andiamo dal leopardo».<br />
Andare dal leopardo non era molto facile. Ngui aveva lo Springfield 30-06 e<br />
aveva anche buoni occhi. Il portatore d’armi di Pop imbracciava il .577, che se avesse<br />
sparato l’avrebbe fatto cadere sul culo, e anche lui aveva occhi buoni come quelli di<br />
Ngui. In quanto a me, avevo il vecchio, amatissimo fucile a pompa Winchester<br />
modello 12 levigato dall’uso. Una volta era bruciato e tre volte aveva subito il cambio<br />
del calcio ed era più veloce di un serpente. Dopo trentacinque anni che eravamo<br />
insieme, con segreti, trionfi e disastri condivisi e mai rivelati, lo consideravo un<br />
amico e un compagno caro quasi quanto l’altro amico che un uomo ha con sé per<br />
tutta la vita. Superammo le radici incrociate e sovrapposte delle rizofore entrando dal<br />
punto con le macchie di sangue e andando verso sinistra, o verso ovest, da dove<br />
potevamo vedere la macchina ma non il leopardo. Poi tornammo indietro quasi<br />
strisciando e guardando nel buio delle radici finché raggiungemmo l’altra estremità<br />
della macchia di arbusti. Non avendo trovato il leopardo, tornammo di nuovo al punto<br />
in cui il sangue, sulle foglie verde scuro, era ancora fresco.<br />
Ora il portatore d’armi di Pop era in piedi dietro di noi, con il grosso fucile<br />
imbracciato, e io, accoccolandomi, cominciai a sparare da destra a sinistra, contro le<br />
radici avviticchiate, intere cariche di cartucce n’ 8. Alla quinta carica il leopardo<br />
emise un enorme ruggito, che arrivò dal folto della vegetazione, leggermente spostato<br />
a sinistra rispetto al sangue sulle foglie.<br />
«Riesci a vederlo?» chiesi a Ngui.<br />
«Hapana.»<br />
Ricaricai il lungo tubo del caricatore e sparai velocemente per due volte verso il<br />
punto da cui era arrivato il ruggito. Il leopardo ruggì di nuovo e poi tossì e tossì.<br />
«Piga tu» dissi a Ngui, e anche lui sparò nella stessa direzione.<br />
Il leopardo ripeté il ruggito e Ngui disse: «Piga tu».<br />
Sparai due volte contro il ruggito e il portatore di Pop disse: «Lo vedo».<br />
Ci raddrizzammo e anche Ngui riuscì a vederlo, ma io no. «Piga tu» gli dissi.