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Ernest Hemingway VERO ALL'ALBA

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faccenda. Poi tornammo al campo guardando la Montagna e sentendoci tristi perché<br />

non avremmo più cacciato insieme fino a Natale.<br />

Dopo che G.C. e i suoi uomini se ne furono andati, restai solo con il dolore di<br />

Miss Mary. Non che fossi realmente solo perché c’erano Miss Mary e il campo e la<br />

nostra gente e la grande montagna del Kilimangiaro che tutti chiamavano Kibo e gli<br />

animali e gli uccelli e i nuovi campi di fiori e i vermi che bucavano la terra per uscire<br />

a mangiare i fiori. C’erano le aquile marroni che venivano a nutrirsi di vermi, aquile<br />

comuni come polli e aquile che indossavano lunghi calzoni di penne scure e altre<br />

aquile dalla testa bianca che camminavano insieme alle faraone indaffarate a<br />

mangiare vermi. I vermi avevano fatto sancire un armistizio fra tutti i volatili e tutti<br />

camminavano insieme. Poi a mangiare i vermi arrivarono grandi stormi di cicogne<br />

europee e si videro acri di cicogne che si muovevano su un’unica striscia di pianura<br />

ricoperta di fiori bianchi. Il dolore di Miss Mary resistette alle aquile perché per lei le<br />

aquile non avevano lo stesso significato che avevano per me.<br />

Lei non se n’era mai stata sdraiata sotto un cespuglio di ginepro su in alto, oltre<br />

una foresta, in cima a un passo delle nostre montagne con un fucile calibro 22 ad<br />

aspettare che le aquile calassero su un cavallo morto che era stato un’esca per orsi<br />

finché l’orso era stato ucciso. Ora era un’esca per aquile e poi sarebbe ridiventato<br />

un’esca per orsi. Quando le avevo viste per la prima volta, le aquile volavano molto<br />

in alto. Mi ero infilato sotto i cespugli che era ancora buio e avevo visto spuntare le<br />

aquile fuori dal sole non appena il sole aveva rischiarato la vetta opposta del passo.<br />

Quella vetta era come una collina erbosa con una roccia che spuntava dalla cima e<br />

cespugli di ginepro sparpagliati lungo i pendii. L’altitudine era tutta uguale, e una<br />

volta arrivati lassù, anche facilmente percorribile. Le aquile erano venute da molto<br />

lontano e avevano raggiunto le montagne innevate che, se fossi stato in piedi invece<br />

che sdraiato sotto il cespuglio, avrei potuto vedere chiaramente. Le aquile erano tre e<br />

saettavano e sfrecciavano e cavalcavano la corrente e le guardai finché il sole mi<br />

accese mille macchie negli occhi. Allora li chiusi e attraverso il rosso delle palpebre il<br />

sole era ancora là. Li aprii di nuovo e guardai il limite laterale della cortina del sole e<br />

vidi le ali distese e le code aperte in un largo ventaglio e mi sentii guardato dagli<br />

occhi nelle grosse teste. Era stato freddo, nel primo mattino, e avevo osservato il<br />

cavallo e i suoi denti troppo vecchi, che ora erano esposti, mentre avevo sempre<br />

dovuto alzargli le labbra per vederli. Aveva labbra gentili e gommose e quando<br />

l’avevo portato a morire in quel posto e avevo mollato la cavezza, lui era rimasto in<br />

piedi come da sempre sapeva di dover stare, e quando l’avevo accarezzato sulla<br />

lucida testa nera dove spiccavano i peli bianchi, lui l’aveva abbassata per<br />

mordicchiarmi il collo con le labbra. Aveva guardato in basso per vedere il cavallo<br />

sellato che avevo lasciato al margine della foresta, come se si chiedesse che cosa ci<br />

faceva lui là e in che cosa consisteva il nuovo gioco. Mi ero ricordato la splendida<br />

vista che aveva al buio e come mi ero aggrappato alla sua coda, con la pelle di un<br />

orso assicurata di traverso sulla sella, mentre scendevo per viottoli dove non potevo<br />

vedere assolutamente nulla e come il viottolo procedeva lungo il precipizio nel buio<br />

attraverso gli alberi. Lui aveva sempre ragione e capiva tutti i nuovi giochi.

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