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Ernest Hemingway VERO ALL'ALBA

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11<br />

Mentre camminavo nel primo mattino e osservavo Ngui che avanzava leggero<br />

sull’erba e pensavo che eravamo fratelli, mi parve stupido essere bianco in Africa e<br />

ricordai che vent’anni prima ero stato portato ad ascoltare un missionario musulmano<br />

il quale aveva spiegato, a noi che eravamo il suo pubblico, i vantaggi della pelle nera<br />

e gli svantaggi della pigmentazione dell’uomo bianco. Io ero abbastanza abbronzato<br />

da passare per un mezzo sangue.<br />

«Osservate l’uomo bianco» aveva detto il missionario. «Cammina sotto il sole, e<br />

il sole lo uccide. Se espone il proprio corpo al sole, si brucia finché non si ricopre di<br />

vesciche e marcisce. Il poveretto deve stare all’ombra e distruggersi con l’alcol e gli<br />

stingah e i bastoni di chutta perché è incapace di affrontare l’orrore del sole che sorge<br />

il giorno dopo. Osservate l’uomo bianco e le sue mwanamuki: le sue memsahib. Se si<br />

espongono al sole, queste donne si ricoprono di macchie scure, macchie scure simili<br />

ai sintomi della lebbra. Se poi insistono, il sole stacca loro la pelle, facendole<br />

sembrare persone passate attraverso il fuoco.»<br />

In quella bella mattinata non tentai di ricordare altro del sermone contro l’uomo<br />

bianco. Era stato parecchio tempo prima e avevo dimenticato molte delle sue parti più<br />

vivaci, ma quello che non avevo scordato era il paradiso dell’uomo bianco,<br />

considerato semplicemente come una delle orripilanti cose in cui l’uomo bianco<br />

credeva e che lo spingevano a colpire con le mazze delle piccole palle bianche,<br />

facendole rotolare sul terreno, o a buttarsi altre palle più grandi, avanti e indietro fra<br />

due reti simili a quelle usate sui laghi per prendere i pesci, finché il sole lo tramortiva<br />

e lui si ritirava nel Club a distruggersi con l’alcol e a maledire Gesù Bambino, a meno<br />

che non fosse presente il suo wanawaki.<br />

Ngui e io superammo insieme un’altra macchia di cespugli dove aveva la tana<br />

un cobra. Il cobra doveva essere ancora fuori o era andato a far visita a qualcuno<br />

senza lasciare l’indirizzo. Nessuno di noi due era un grande cacciatore di serpenti.<br />

Quella sì che era un’ossessione dell’uomo bianco, anche se un’ossessione<br />

giustificata, dato che, se li si calpestava, i serpenti mordevano il bestiame e i cavalli, e<br />

alla fattoria di Pop c’era una taglia fissa in scellini su di loro; tanto per i cobra quanto<br />

per gli altri serpenti velenosi. La caccia ai serpenti fatta per soldi era il livello più<br />

basso a cui un uomo poteva scendere. Conoscevamo i cobra come creature veloci, dai<br />

movimenti sinuosi, che si cercavano tane tanto piccole da sembrare impossibile che<br />

riuscissero a entrarci, e su questo noi facevamo delle battutacce. Si raccontava ancora<br />

di feroci mamba che si alzavano in alto sulle code e inseguivano i poveri coloni o gli<br />

intrepidi Ranger della Caccia mentre erano a cavallo, ma questi racconti ci lasciavano<br />

indifferenti, dato che venivano dal sud, dove si sosteneva che ippopotami con un<br />

nome proprio vagassero in cerca d’acqua per centinaia di chilometri di territorio arido<br />

e che i serpenti facessero festini biblici. Sapevo che tutto questo doveva essere vero,<br />

dato che era stato scritto da uomini d’onore, ma quelli non erano i nostri serpenti e in<br />

Africa contano solo i vostri stessi serpenti.

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