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«Dorme ancora. Che cosa leggi?»<br />
«Lindbergh. È maledettamente buono. E tu che cosa leggevi?»<br />
«L’anno del leone. Per dimenticare il nostro, di leone.»<br />
«È un mese che lo leggi.»<br />
«Sei settimane. E tu, come te la cavi con il misticismo dell’aria?»<br />
Quell’anno, sia pure con ritardo, eravamo tutti e due pieni di misticismo<br />
dell’aria. Per un periodo, nel 1945, avevo completamente perso il mio, mentre<br />
tornavo a casa a bordo di un decrepito B-17 non revisionato e stanco di volare.<br />
Quando fu l’ora feci alzare Mary, mentre i portatori d’armi tiravano fuori da<br />
sotto i letti il suo fucile e il mio e controllavano i proiettili e le cartucce.<br />
«È là, tesoro. È là e tu lo prenderai.»<br />
«È tardi.»<br />
«Non pensare a niente. Va’ alla macchina.»<br />
«Lo sai che devo mettermi gli stivali.»<br />
La stavo aiutando a calzarli. «Dov’è il mio maledetto cappello?»<br />
«Eccolo, il tuo maledetto cappello. Cammina, non correre, e vai alla Land Rover<br />
più vicina. Non pensare ad altro che a ucciderlo.»<br />
«Non parlare tanto. Lasciami in pace.»<br />
Mary e G.C. si misero sul sedile anteriore con Mthuka al volante. Ngui, Charo e<br />
io nella parte posteriore scoperta insieme allo Scout del Dipartimento della Caccia. Io<br />
controllai le cartucce in canna e nel caricatore del 30-60, e controllai quelle che avevo<br />
in tasca e controllai e pulii l’apertura dell’alzo, togliendo con uno stecchino tutti i<br />
granelli di polvere. Mary teneva il fucile diritto e io godevo dello spettacolo della<br />
canna scura appena lucidata e del nastro adesivo che assicurava il coperchietto<br />
dell’alzo e della nuca di Mary e dell’indecoroso cappello. Ormai il sole era sopra le<br />
colline e ci eravamo lasciati i fiori alle spalle e procedevamo a nord sulla vecchia<br />
pista che correva parallela alla foresta. Da qualche parte sulla destra c’era il leone. La<br />
macchina si fermò e scendemmo tutti tranne Mthuka, che rimase al volante. Le tracce<br />
del leone portavano a destra verso una macchia d’alberi e di cespugli, e dalla nostra<br />
parte c’era l’albero isolato sul quale l’esca era coperta da un mucchio di rami. Il leone<br />
non era vicino all’esca, e non c’erano neanche gli avvoltoi. Erano tutti sugli altri<br />
alberi. Mi voltai a guardare il sole. Non sarebbero passati più di dieci minuti prima<br />
che scendesse dietro le colline più lontane, a ovest. Ngui era salito sulle prime alture<br />
e scrutava attentamente verso la cima. Indicò, tenendo la mano vicino alla faccia, in<br />
modo che la si potesse appena vedere muoversi, e poi scese di corsa.<br />
«Hiko huko» disse. «È laggiù. Macchina Mzuri.»<br />
Io e G.C. guardammo di nuovo il sole e G.C. agitò la mano per fare avvicinare<br />
Mthuka. Salimmo in macchina e G.C. gli spiegò da che parte andare.<br />
«Ma dov’è?» chiese Mary a G.C.<br />
G.C. posò la mano sui braccio di Mthuka, che fermò la macchina.<br />
«Lasciamo la macchina qui» disse G.C. a Mary. «Dev’essere laggiù, in quel<br />
folto di alberi e di cespugli. Papa si metterà sul fianco sinistro e lo bloccherà, in caso<br />
tenti di tornare nella foresta. Tu e io avanzeremo diritti su di lui.»<br />
Quando ci muovemmo verso il punto in cui doveva trovarsi il leone, il sole era<br />
ancora sopra le colline. Ngui era dietro di me e sulla nostra destra Mary precedeva