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Ernest Hemingway VERO ALL'ALBA

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eve molto ha bisogno di mangiare. Questa era non solo una vecchia verità, ma era<br />

anche alla base di un articolo del “Reader’s Digest” che avevamo letto tutti. Ora quel<br />

numero del “Digest” era finito nel gabinetto. Dissi che avevo deciso di presentarmi<br />

alle elezioni per il partito degli ubriaconi impenitenti, in modo da non ingannare<br />

nessuno dei miei elettori. Se si poteva credere alla cronaca, Churchill beveva il<br />

doppio di me e aveva appena ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. Tentavo<br />

semplicemente di elevare il quantitativo di quello che bevevo, portandolo a un livello<br />

che forse avrebbe permesso anche a me di vincere il Nobel. Chissà.<br />

G.C. disse che potevo considerare il premio già mio e che potevo vincerlo grazie<br />

anche solo alle mie fanfaronate, dato che Churchill ne era stato insignito, almeno in<br />

parte, per la sua oratoria. Non aveva seguito il premio con l’attenzione dovuta, ma era<br />

convinto che potessero darmelo anche per il mio lavoro in campo religioso e per la<br />

cura che mi prendevo degli indigeni. Miss Mary suggerì che se avessi tentato di<br />

scrivere qualcosa, almeno di tanto in tanto, forse l’avrei vinto per la scrittura. Questo<br />

mi commosse profondamente e le dissi che quando lei avesse ucciso il leone, per farle<br />

piacere io non avrei fatto altro che scrivere. E lei mi disse che se avessi scritto solo un<br />

po’, le avrei fatto comunque piacere. G.C. mi chiese se avrei scritto qualcosa su<br />

com’era misteriosa l’Africa e aggiunse che se avevo intenzione di scrivere in Swahili,<br />

mi avrebbe procurato un libro sullo Swahili dell’interno che mi sarebbe risultato<br />

prezioso. Miss Mary disse che ce l’avevamo già, quel libro, e che era meglio che io<br />

tentassi di scrivere in inglese. Suggerii che potevo copiare dei paragrafi del libro per<br />

acquisire lo stile dell’interno. Miss Mary disse che in Swahili non sapevo scrivere<br />

una sola frase corretta, né pronunciarne una, e io risposi con grande tristezza che era<br />

vero.<br />

«Pop lo parla così bene, e anche G.C., e tu sei una vergogna. Non so come si<br />

faccia a parlare una lingua male come la parli tu.»<br />

Avrei voluto dirle che una volta, anni prima, era sembrato che stessi per<br />

impararla bene. Ma ero stato uno stupido e avevo lasciato l’Africa per andare in<br />

America, dove avevo soffocato in modi diversi la mia nostalgia per l’Africa. Poi,<br />

prima che potessi tornarci, c’era stata la guerra di Spagna e io mi ero lasciato<br />

coinvolgere da quello che accadeva nel mondo, e me ne ero occupato nel bene come<br />

nel male finché non ero tornato. Tornare non era stato facile, così come non era stato<br />

facile spezzare le catene delle responsabilità che mi ero assunto, apparentemente<br />

leggere come tela di ragno ma in realtà solide come cavi d’acciaio.<br />

Ora si stavano divertendo tutti, prendendosi in giro a vicenda, e anch’io scherzai<br />

un po’, ma stando attento a essere modesto e contrito nella speranza di riconquistare i<br />

favori di Miss Mary e anche nella speranza di tenerla di buonumore nel caso si fosse<br />

fatto vivo il leone. Avevo bevuto Bulwer’s Dry Cider, che avevo scoperto essere una<br />

bevanda meravigliosa. G.C. ne aveva portato un po’ dall’emporio di Kajiado. Era<br />

leggerissimo e rinfrescante e non rallentava per niente i riflessi. Lo vendevano a<br />

bottiglie da un litro con il tappo a vite e avevo preso l’abitudine, quando mi svegliavo<br />

di notte, di berlo al posto dell’acqua. La cugina di Mary, una ragazza estremamente<br />

gentile, ci aveva regalato due cuscini quadrati coperti di tela di sacco e pieni di aghi<br />

di pino balsamici. Io dormivo sempre con il mio sotto il collo o, se stavo su un fianco,<br />

appoggiandoci sopra l’orecchio. Emanava lo stesso profumo del Michigan di quando

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