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Ernest Hemingway VERO ALL'ALBA

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andando su e giù con la macchina e il camion sulla corta erba nuova e strappando i<br />

rami spezzati e sradicando i folti cespugli a un’estremità. L’alto palo ricavato da un<br />

giovane albero era inclinato per le violente raffiche d’aria della notte precedente e la<br />

manica a vento, ricavata da un sacco di farina, pendeva molle. Fermammo la<br />

macchina e io andai a tastare il palo. Malgrado l’inclinazione era solido, e la manica<br />

avrebbe ricominciato a svolazzare non appena si fosse alzata la brezza. Nel cielo<br />

correvano le nuvole ed era bello guardare la Montagna, che oltre il verde della radura<br />

sembrava ampia, immensa.<br />

«Vuoi scattare qualche foto della Montagna o della pista?» chiesi a mia moglie.<br />

«Certe mattine sono perfino più belle di oggi. Andiamo a guardare i licaoni e a<br />

cercare il leone.»<br />

«Non sarà più fuori, ormai. È troppo tardi.»<br />

«Potrebbe esserci.»<br />

E così proseguimmo, seguendo le vecchie impronte di pneumatici che<br />

conducevano alla pianura salina. Sulla sinistra si apriva uno spazio interrotto da una<br />

fila irregolare di grossi alberi dalle foglie verdi e dal tronco giallo che segnava i<br />

confini della foresta dove poteva esserci il branco di bufali. Lungo i margini, c’era<br />

l’alta erba arida e c’erano molti alberi caduti, tirati giù dagli elefanti o sradicati dai<br />

temporali. Di fronte avevamo la pianura ricoperta dal verde della corta erba nuova, e<br />

sulla destra radure irregolari interrotte da isole di folti cespugli verdi e qua e là alti<br />

alberi dalle cime piatte. Ovunque c’erano animali che mangiavano. Quando ci<br />

avvicinavamo si allontanavano, spostandosi a volte in veloci galoppi improvvisi, a<br />

volte in trotti regolari, a volte venendo a mangiare poco lontano dalla nostra<br />

macchina. Ma si fermavano sempre per riprendere a nutrirsi. Quando procedevamo a<br />

quel modo, con regolarità, o quando Miss Mary scattava qualche fotografia, non ci<br />

prestavano maggior attenzione di quanta ne prestassero al leone se non era in caccia.<br />

Si tenevano lontani da lui, ma senza averne paura.<br />

Mi sporgevo dalla macchina per cercare le tracce sulla strada, come faceva<br />

anche il mio portatore d’armi, Ngui, seduto dietro di me dalla parte esterna. Mthuka,<br />

al volante, osservava tutta la distesa davanti a noi e sui due lati. Possedeva occhi acuti<br />

e veloci più di tutti noi. Aveva la faccia ascetica, minuta e intelligente, e sulle guance<br />

aveva incisi i tagli tribali a punta di lancia del Wakamba. Figlio di Mkola, era sordo e<br />

aveva un anno più di me. Non era maomettano, come suo padre. Amava la caccia ed<br />

era uno splendido autista. Non avrebbe mai fatto niente di sbadato o di irresponsabile,<br />

ma lui, Ngui e io eravamo considerati i tre poco di buono.<br />

Eravamo amici intimi da molto tempo e una volta gli avevo chiesto quando si<br />

era fatto i grandi tagli tribali che nessuno aveva. Quelli degli altri erano poco più di<br />

cicatrici a malapena visibili.<br />

Lui aveva riso, dicendo: «A un grande Ngoma. Sai, per piacere a una ragazza».<br />

Ngui e Charo, il portatore d’armi di Miss Mary, erano scoppiati a ridere.<br />

Charo era un maomettano sinceramente devoto, conosciuto per la sua sincerità.<br />

Naturalmente non sapeva quanti anni aveva, ma Pop pensava che avesse superato la<br />

settantina. Con il turbante in testa era più basso di Miss Mary di circa cinque<br />

centimetri e mentre li guardavo scrutare fianco a fianco oltre la pianura grigia i cobi<br />

che s’inoltravano cautamente nella foresta, controvento, con il grosso maschio dalle

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