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Ernest Hemingway VERO ALL'ALBA

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«E poi, non hai avuto il tempo di sentire niente dal villaggio, perché è successo<br />

mezz’ora fa. Non cominciare a fare l’intrigante.» O a finire come tale, pensai.<br />

Eravamo arrivati allo Shamba dal terreno rosso e dall’albero sacro e dalle<br />

capanne ben costruite. Il figlio della Vedova mi picchiò la mano sullo stomaco e<br />

rimase là ad aspettare che lo baciassi sulla testa. Invece lo accarezzai e gli detti uno<br />

scellino. Poi ricordai che l’Informatore prendeva solo sessantotto scellini al mese e<br />

che con quella moneta davo al bambino quasi la metà di un giorno del suo stipendio.<br />

E così chiamai l’Informatore perché venisse via dalla macchina, e pescai dal taschino<br />

della camicia alcune banconote da dieci scellini incollate dal sudore.<br />

Ne staccai due e le detti all’Informatore.<br />

«E non dire puttanate su chi tiene il fucile. In questo Shamba non c’è un solo<br />

uomo capace di tenere neanche un vaso da notte.»<br />

«Fratello, ho mai detto che c’era?»<br />

«Compra un regalo per la Vedova e fammi sapere che cosa succede in città.»<br />

«È tardi per andarci stasera.»<br />

«Va’ in fondo alla strada ad aspettare il camion degli anglo-masai.»<br />

«Fratello, e se non arriva?»<br />

In genere, avrebbe detto “Sì, fratello”. E il giorno dopo: “Non è arrivato,<br />

fratello”. E così apprezzai il suo atteggiamento e i suoi sforzi.<br />

«Vacci all’alba.»<br />

«Sì, fratello.»<br />

Ero triste per lo Shamba e per l’Informatore e per la Vedova e per le speranze e i<br />

progetti di tutti e ce ne andammo senza voltarci indietro.<br />

Questo era successo molti giorni prima della pioggia e prima che il leone<br />

tornasse e non c’era ragione di ripensarci se non che quella sera ero triste per G.C.,<br />

che a causa degli usi, delle leggi e forse anche per sua scelta, nei safari doveva vivere<br />

da solo ed era costretto a leggere tutta la notte.<br />

Uno dei libri che avevamo portato con noi era Too Late the Phalarope di Alan<br />

Paton. L’avevo trovato quasi illeggibile a causa dello stile super-biblico e del<br />

quantitativo di pietà che conteneva. La pietà sembrava essere stata mescolata in una<br />

betoniera per essere poi riversata a secchiate nell’edificio del libro, eppure in quelle<br />

righe non c’era neppure l’odore della pietà. La pietà era come petrolio sul mare dopo<br />

che è colata a picco una petroliera. Ma G.C. sosteneva che era un buon libro e così io<br />

continuavo a leggerlo finché il cervello mi diceva che non valeva la pena di sprecare<br />

il tempo con gente tanto stupida, bigotta e orribile come quella descritta da Paton, e<br />

con il suo mostruoso senso del peccato, solo perché nel 1927 era stata varata una<br />

legge. Ma quando finalmente lo terminai, capii che G.C. aveva ragione. Paton aveva<br />

tentato di giustificare quella gente, ma essendo lui stesso estremamente religioso, a<br />

un certo punto si era ripiegato all’indietro e aveva cercato di capirla o, quantomeno,<br />

era stato incapace di condannarla se non attraverso le Scritture. Finché, nella sua<br />

grandezza d’animo, aveva finito con l’approvarla. Capivo quello che G.C. intendeva<br />

dire del libro, ma pensarci mi metteva tristezza.<br />

G.C. e Mary parlavano allegramente di una città chiamata Londra, che io<br />

conoscevo soprattutto per sentito dire o avevo conosciuto in concreto nelle<br />

circostanze più anormali, e così potevo ascoltarli e intanto pensare a Parigi. Quella sì

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