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Ernest Hemingway VERO ALL'ALBA

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«Ricorda semplicemente la vecchia tecnica che usavi con i mammut» disse Pop.<br />

«Cerca di piazzargli la prima pallottola sotto il secondo anello della zanna. Se lo<br />

scontro è frontale, sotto la settima ruga del naso contando a calare dalla prima ruga<br />

sulla parte superiore della fronte. Hanno fronti straordinariamente alte. Molto<br />

scoscese. Se sei nervoso, spara nell’orecchio. Scoprirai che è uno scherzo.»<br />

«Grazie.»<br />

«Non ho mai pensato che tu potessi non prenderti cura della Memsahib, ma<br />

prenditi cura anche di te stesso e tenta di fare il più possibile il bravo ragazzo.»<br />

«Tenta anche tu.»<br />

«Sono anni che tento.» Poi, la frase classica: «Ora tocca a te».<br />

Infatti. Ora toccava a me, nella mattinata senza vento dell’ultimo giorno del<br />

mese che precedeva l’ultimo mese dell’anno. Guardai la nostra tenda e la tenda in cui<br />

consumavamo i pasti. Poi guardai le tende più piccole e gli uomini che si muovevano<br />

attorno al fuoco per cucinare e poi ancora i camion e la camionetta, che sembravano<br />

ghiaccio sotto l’abbondante brina. Poi, attraverso gli alberi, guardai anche la<br />

Montagna, che quella mattina appariva molto alta e vicina, con la nuova neve che<br />

scintillava alla prima luce del sole.<br />

«Pensi che quel camion vada bene per te?» chiesi.<br />

«Certo. La strada è buona, quando è asciutta.»<br />

«Prendi la camionetta. A me non serve.»<br />

«Ne avrai bisogno. Voglio riportare indietro il camion e mandartene uno più<br />

sicuro. Loro non si fidano di questo.»<br />

Era sempre “loro”. Loro erano quella gente, i Watu. Un tempo venivano<br />

chiamati boys. Pop li chiamava ancora così. Ma lui li aveva conosciuti quando erano<br />

ancora veramente dei ragazzi, oppure aveva conosciuto i loro padri quando anche<br />

loro erano ragazzi. Vent’anni prima anch’io li avevo chiamati boys e né a loro né a<br />

me era mai passato per la testa che non avessi il diritto di chiamarli così. Nessuno ci<br />

avrebbe fatto caso, se avessi usato ancora quel termine, ma per come stavano le cose<br />

adesso, non lo usavo più. Tutti avevano un compito e tutti avevano un nome. Non<br />

conoscere un nome era segno di maleducazione e anche di trascuratezza. C’erano<br />

strani nomi di tutti i tipi e nomi abbreviati, e nomignoli amichevoli e ostili. Pop<br />

imprecava ancora contro di loro in inglese o in Swahili, e a loro piaceva. Io non<br />

avevo il diritto di imprecare e non lo facevo. Dai tempi della spedizione nella zona di<br />

Magadi condividevamo certi segreti e certe cose. Ora c’erano molte cose che erano<br />

segreti e c’erano cose che andavano oltre il segreto ed erano comprensione. Alcuni<br />

segreti non erano per niente gentili e altri erano così comici che mi capitava di vedere<br />

uno dei tre portatori d’armi scoppiare a ridere all’improvviso, e allora io lo guardavo<br />

e capivo di che cosa si trattava, e ridevamo tutti e due tanto forte che se tentavamo di<br />

controllarci cominciava a dolerci il diaframma.<br />

Era una bella mattinata limpida, mentre attraversavamo la pianura con alle spalle<br />

la Montagna e gli alberi dell’accampamento. Sull’erba verde davanti a noi c’erano<br />

numerose gazzelle di Thomson, che brucavano sventagliando la coda. C’erano anche<br />

branchi di gnu e di gazzelle di Grant che si nutrivano vicino alle macchie di cespugli.<br />

Raggiungemmo la pista di decollo che avevamo costruito su una lunga radura aperta

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