30.07.2015 Views

Romano Penna Una fede per vivere

Romano Penna Una fede per vivere

Romano Penna Una fede per vivere

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

MEIC MARCHE & GRUPPO DI ANCONAGIORNATE DI SPIRITIUALITÀ DI FONTE AVELLANA 2012"A partire dal Concilio: la <strong>fede</strong> in dialogo dell'uomo contemporaneo"UNA FEDE PER VIVERE:IL RAPPORTO CON DIO E CON GESU’ CRISTOdi Mons. <strong>Romano</strong> <strong>Penna</strong>Premesse.Il termine ‘<strong>fede</strong>’ è tra quelli abusati, come succede <strong>per</strong> altri vocaboli come ‘amore, laico,storia’, la cui semantica oscilla tra significati molto diversi e <strong>per</strong>sino contrastanti (si pensi <strong>per</strong>esempio alla storia d’Italia e alla storia di cappuccetto rosso!). Così si può parlare di <strong>fede</strong> nelprogresso o nelle proprie idee o in se stessi, e di buona <strong>fede</strong>, <strong>per</strong> non dire del verbo ‘credere’, chenella parlata corrente può addirittura esprimere una incertezza se non proprio un dubbio.Qui <strong>per</strong>ò parliamo di ‘<strong>fede</strong>’ in senso religioso, sapendo comunque che già il termine‘religione’ è equivoco, poiché è un latinismo che non ha nessun corrispettivo esatto nelle linguebibliche, né in greco né in ebraico 1 . Propriamente quindi parliamo di <strong>fede</strong> come espressione di unrapporto dell’uomo nei confronti di Dio (del Dio d’Israele) e della sua rivelazione avvenutasoprattutto in Gesù Cristo.Mi ha colpito il titolo dell’ultimo libro del filosofo Jean-Luc Marion (cattolico, professore dimetafisica alla Sorbona, Accademico di Francia), Credere <strong>per</strong> vedere (Ed. Lindau, Torino 2010).L’inversione dei termini, rispetto al più corrente sintagma ‘vedere <strong>per</strong> credere’, è un fattointeressante e intrigante, che invita il lettore a rendersi conto che al di là dei fenomeni, del visibile,al di là della parete che ci sta di fronte, c’è tutto un mondo ‘altro’ di cui si deve almeno avvertire lapresenza, oltre che la diversità 2 . In parte l’intento del filosofo è polemico nei confronti dellepresunzioni di autosufficienza della scienza odierna, di cui scrive testualmente: «Per una stranainversione, l’atteggiamento autoritario si trova oggi immancabilmente dal lato della “scienza”,oggetto della propria incrollabile <strong>fede</strong> <strong>per</strong> i propri devoti … poiché la <strong>fede</strong> ha le proprie ragioni e la1 Perciò dobbiamo sempre fare autocritica del nostro linguaggio, <strong>per</strong> non incorrere nel rischio tutt’altro che teoricodi colonializzare un’altra cultura in base a categorie che sono solo nostre.2 Marion mi richiama ciò che paradossalmente ebbe a scrivere Marcel Clavel, uno dei ‘nouveaux philosophes’ del‘68 francese, dopo la sua risco<strong>per</strong>ta del cristianesimo, nel suo libro-testimonianza Quello che io credo (Città Nuova,Roma 1978): «La <strong>fede</strong> è un buco nero, ma come quello della pupilla dell’occhio»!


agione scientifica ha le proprie credenze» 3 . La sua è una riflessione filosofica, non biblica. Ma è suquest’altra prospettiva invece che qui voglio intrattenervi, se non altro <strong>per</strong>ché la <strong>fede</strong> cristiana nonsi basa su di una rivelazione naturale, <strong>per</strong> cui basterebbe contemplare le bellezze della natura oanche le sue tragedie <strong>per</strong> rendersi conto che qualcuno muove le fila dell’insieme. Tutta la filosofiaantica, sia greca che latina e <strong>per</strong>sino giudaico-ellenistica (cf. poi il Deus sive natura di Spinoza), simuoveva su questa strada; sicché, quando Paolo scrive che «le <strong>per</strong>fezioni di Dio, ossia la sua eternapotenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le o<strong>per</strong>eda lui compiute» (Rom 1,20), non dice nulla di nuovo.La <strong>fede</strong> in Dio.Il Dio d’Israele, invece, è distinto dalla natura in quanto la crea e la regge, e quindi la <strong>fede</strong> inlui fa <strong>per</strong>no essenzialmente su di un’altra dimensione dell’es<strong>per</strong>ienza umana, che è la storia. La suanon è una rivelazione naturale ma storica, nel senso che egli si fa conoscere, non con le belle auroree i bei tramonti o con il dramma degli tsunami, ma si muove nient’altro che al passo delle vicendeumane. La <strong>per</strong>cezione e la proclamazione di questo fatto è ciò che caratterizza i profeti 4 .Nella Bibbia la prima volta in assoluto che si parla di <strong>fede</strong>/credere è a proposito di Abramo, dicui si legge che egli «credette a Dio e ciò gli fu computato a giustizia» (Gen 15,6). Si scopre quialmeno una terna di tratti essenziali e fondamentali del concetto in questione, che cioè valgono <strong>per</strong>la <strong>fede</strong> tout court. (1) Il primo è che la <strong>fede</strong> (del patriarca) è semplicemente la risposta gratuita a unapromessa altrettanto gratuita, con cui Dio in questo caso assicura ad Abramo una discendenzanonostante l’età avanzata di lui e di Sara. A questa promessa si aggiunge quella di una terra, diversada quella di origine da cui egli è partito senza neanche sa<strong>per</strong>e dove andava (cf. Gen 12,1-3). Dio faqueste promesse soltanto sulla base della sua grazia e quindi della sua libertà, che è quindiimmotivata, non condizionata da nessun merito di Abramo. Per questo si può anche dire cheAbramo è oggetto di una insindacabile elezione divina. (2) Il secondo tratto riguarda lari<strong>per</strong>cussione della <strong>fede</strong> di Abramo sulla sua propria identità: egli diventa «giusto» (ebr. tsaddîq; cf.Sal 1,6: «Il Signore veglia sulla via dei giusti»), cioè giusto davanti a Dio, in rapporto a lui, inquanto lui lo considera tale. E questo nell’ottica israelitica equivale a dire che egli sta in unacondizione ineccepibile di fronte a Dio, il quale non ha nulla da rimproverargli, e quindi sconfinanella qualifica di ‘santo’ (ebr. chasîd; cf. Sal 64,11: «Il giusto [pio/santo] gioirà nel Signore eriporrà in lui la sua s<strong>per</strong>anza») 5 . (3) In terzo luogo si deve considerare che la <strong>fede</strong> implica3 Vedi anche il titolo significativo del libretto di G. Osto, Diversamente credenti, Tau, Todi 2012.4 Ed è ciò che li differenzia, sia dai sacerdoti, che sono limitati al culto (e che con essi entrano anche in conflitto),sia dai sapienti, che riflettono sulla vita umana in generale (al punto che nel libro del Qohelet manca <strong>per</strong>sino il nomeproprio del Dio d’Israele, Yhwh).5 La Bibbia greca detta dei LXX in entrambi i casi traduce indifferentemente con l’aggettivo díkaios, «giusto» (cosìanche la Cei). Il greco hágios, «santo», è riservato piuttosto a Dio stesso (cf. 1Sam 2,2: «Non c’è santo all’infuori di


essenzialmente un rapporto inter<strong>per</strong>sonale: essa non è un ripiegamento su di sé, e non riguarda coseo fatti, ma fa uscire l’uomo da sé stesso e lo relaziona ad un Altro (cf. E. Lévinas). È in questo Altroche Abramo o qualunque uomo trova la base, sia della propria vita sia della propria visione delmondo, e quindi scopre e ottiene il completamento di sé. Ciò è linguisticamente confermato dalverbo ebraico che vuol dire «credere», cioè ’āman (a cui corrispondono il sostantivo «<strong>fede</strong>», cioè’emunah, e la forma participiale ’amēn che vale come un responsorio), il quale propriamenteesprime l’idea di «essere stabile, solido, fermo, sicuro». Conseguenza logica inevitabile di questodato è la fiducia, dove il ‘fidarsi’ è anteriore e <strong>per</strong>sino esonerato dal ‘capire’. Si vede bene, cioè, chela <strong>fede</strong> è un atto tale che sconfina nell’amore, in quanto appunto ciò che conta in prima battuta nonè la ragione ma è e resta la dedizione esistenziale.Occorre aggiungere che il Dio della <strong>fede</strong> israelitica si autodefinisce così a Mosè: «Io sonocolui che sono» (Es 3,14: da cui il nome quadrilittero yhwh) 6 . Ma bisogna stare attenti a non pensarequesto ‘essere’ in termini astrattamente ontologici come se coincidesse con l’Essere della metafisicaaristotelica (e come è stato spesso inteso nella storia dell’interpretazione, forse senza accorgersi cheAristotele parla dell’essere al neutro, tò ón, letteralmente «ciò che è», mentre la Bibbia greca deiLXX ha il maschile ho ōn, letteralmente «l’Essente»). Infatti il verbo ebraico ‘essere’ (hāyāh) chesta all’origine etimologica del nome, in questo caso esprime l’idea di una presenza, cioè di un‘esserci’ vivo e o<strong>per</strong>ante 7 , come del resto Dio dice esplicitamente a Mosè: «Io sarò con te» (Es3,12). È la <strong>fede</strong> del Salmista quando esclama: «Anche se vado <strong>per</strong> una valle oscura, non temo alcunmale, <strong>per</strong>ché tu sei con me» (Sal 23,4; ebraico: ’attā’ c immādî; greco: sy met’emoû eî).Questa tipica concezione di Dio dà origine al noto appellativo «Emmanuele« (ebraico c immanû-’ēl,letteralmente «con noi Dio»), che Isaia attribuisce all’Unto/Messia (cf. Is 7,14) e che nelVangelo secondo Matteo viene applicato a Gesù di Nazaret (cf. Mt 1,23). Lo stesso evangelista inqualche modo tematizza questo epiteto, cristologizzandolo, cioè riferendolo ripetutamente a Gesùstesso (cf. Mt 18,20: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»; 28,20:«Io sono con voi tutti i giorni fino ala fine del tempo») 8 . Cioè: nel Messia Gesù è presente Diostesso in mezzo al suo popolo.La <strong>fede</strong> cristiana.te») oppure a luoghi (es. il Tempio) o cose (es. le suppellettili sacre) attinenti al suo culto.6 Rimando qui alla istruzione della Santa Sede “Sul nome divino” del 2008, che proibisce di pronunciare il nomeyahweh. Ciò è giusto <strong>per</strong> varie ragioni: sia <strong>per</strong>ché dal punto di vista filologico è discutibile la vocalizzazione corrente(essendo l’ebraico una lingua consonantica, come le altre lingue semitiche), sia <strong>per</strong>ché i nostri fratelli ebrei non lopronunciano mai (e le Scritture dell’Antico Testamento appartengono a loro in prima istanza), sia <strong>per</strong>ché il vocaboloebraico non è mai stato riportato in nessuna delle traduzioni antiche e moderne, dove invece è stato sempre sostituito(neppure tradotto!) con il nome Adonai (in ebraico), Kyrios (in greco: così anche nel Nuovo Testamento), Dominus (inlatino), con il suo equivalente in tutte le lingue moderne (Signore, Seigneur, Lord, Herr, ecc.).7 In tedesco si farebbe la distinzione tra il Sein/essere e il Dasein/esistere (come insegna M. Heidegger).8 Si veda anche At 18,10 dove a Paolo che si trova in difficoltà a Corinto il Signore Gesù dice: «Io sono con te».


Nell’ottica cristiana, in effetti, la <strong>fede</strong> presuppone tutte le caratteristiche precedenti, ma,ovviamente, non solo non può prescindere ma è costituita da una relazione peculiare con GesùCristo. Per il cristiano non basta credere in Dio: così fanno anche l’ebreo e il mussulmano, oltre aogni deista nel solco del razionalismo illuministico. Per il cristiano, come dice Pascal, è specifico edeterminante credere nel Dio di Gesù Cristo, non nel dio dei filosofi 9 !Negli scritti neotestamentari è Paolo a svolgere il discorso più ampio in materia di <strong>fede</strong>cristiana, soprattutto nel suo risvolto di contrapposizione tra la nuda <strong>fede</strong> in Cristo e un’eticapresuntuosa basata sulle o<strong>per</strong>e morali. Ed è interessante e significativo constatare che egli prende lemosse appunto dal caso di Abramo e in specie dal testo citato di Gen 15,6 (unico testoveterotestamentario, insieme a un paio d’altri, che egli cita due volte, e comunque l’unico su cuiimbastisce una riflessione di ampio respiro). In effetti esso sta all’origine di un’ampiaargomentazione giocata su tastiere leggermente differenti in due lettere diverse: in Gal 3 (di stampopiù cristologico) e in Rom 4 (di stampo più antropologico). In entrambi i casi comunque la figura diAbramo serve come prototipo del credente, e il ragionamento che l’Apostolo vi costruisce sopratende e sfocia nell’affermazione della totale gratuità della <strong>fede</strong> in Cristo.Paolo infatti contrappone la <strong>fede</strong> alle o<strong>per</strong>e della legge (mosaica) cioè alla mera pratica deicomandamenti. Si ricordi il celebre assioma di Rom 3,28 che letteralmente suona così: «Riteniamoche venga giustificato <strong>per</strong> <strong>fede</strong> un uomo, senza o<strong>per</strong>e di legge» (dove, a differenza delle traduzionicorrenti, la mancanza di ogni articolo evidenzia l’assolutezza della formulazione e la forza delleidee espresse) 10 . La sua sottolineatura della gratuità della <strong>fede</strong> si comprende anche sullo sfondodella interpretazione rabbinica del passo genesìaco, secondo cui la <strong>fede</strong> di Abramo è consideratacome un merito a cui corrisponde una ricompensa divina. Al contrario, Paolo libera totalmentel’atto di <strong>fede</strong> da ogni dimensione di una qualche prestazione morale, e anzi la contrappone alleo<strong>per</strong>e etiche. Soprattutto la <strong>fede</strong> di cui egli parla è tipicamente cristologica, come denota l’interocontesto di Rom 3,21-4,25, in cui l’affermazione è inserita.In particolare si veda il commento che egli fa al testo di Gen 15,6 nel passo epistolare di Rom4,4-5: «A chi lavora, il salario non viene calcolato come dono, ma come debito; a chi invece nonlavora, ma crede in Colui che giustifica l’empio, la sua <strong>fede</strong> gli viene accreditata come giustizia».La prima metà di questa frase potrebbe essere controfirmata da qualunque sindacalista. Ma laseconda metà è letteralmente sconvolgente <strong>per</strong>ché scompagina ogni logica commerciale basata sul9 Così egli scriveva nel celebre Memoriale autografo che ricordava l’es<strong>per</strong>ienza di forte intensità spirituale vissuta lanotte del 23 novembre 1654 (trovato, dopo la sua morte, cucito nella fodera di un suo indumento): «Dio di Abramo, Diodi Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo... Questa è la vita eterna, che essi ti riconoscano come il solo vero Dio e colui che hai inviato: Gesù Cristo. Gesù Cristo.Gesù Cristo. Mi sono separato da lui, io l'ho fuggito, rinnegato, crocifisso. Che non debba esserne separato mai più».10 Più ampi sviluppi dk commento a questo importa nte passo si trovano in R. <strong>Penna</strong>, Lettera au Romani, SOC 6,EDB, Bologna 2010, 272-276.


dare e sull’avere. Cioè: il Dio della <strong>fede</strong> cristiana in prima battuta non è un datore di lavoro chericompensi poi il lavoro svolto; ma, e soprattutto, non è neppure un giudice che emetta una sentenzadi colpevolezza contro chi ha infranto la legge. Al contrario! E questo è vangelo allo stato puro (!):egli in Cristo assolve il reo, il trasgressore, l’empio, il peccatore, il colpevole (che siamo tutti noi).Si vede qui all’evidenza che il Dio dell’evangelo sta al di là di ogni logica, al punto che logicosemmai diventa lo scandalo (cf. 1Cor 1,23: «scandalo <strong>per</strong> i giudei, stoltezza <strong>per</strong> i pagani»).Evidentemente non è il moralismo che conta <strong>per</strong> Paolo e neppure il devozionismo (che staanch’esso sul piano delle o<strong>per</strong>e, intese come prestazioni a cui Dio dovrebbe essere obbligato conuna qualche ricompensa). Siamo lontani dal principio enunciato già dal presocratico Eraclito,secondo cui «il démone <strong>per</strong> l’uomo è il suo ethos» (fr. 91/119): <strong>per</strong> quanto si intenda questo ethoscome indole o carattere, il filosofo sostiene che l’es<strong>per</strong>ienza del trascendente nell’uomo coincidesemplicemente con il suo modo d’essere e di agire. In Paolo invece si tratta del trionfo della libertàassoluta di Dio stesso, dove libertà vuol dire grazia, compassione, comprensione, misericordia, egenerosità, disinteresse, magnanimità. Infatti, «in questo si dimostra l’agàpe di Dio, che cioè Cristoè morto <strong>per</strong> noi mentre ancora eravamo peccatori» (Rom 5,8) e in lui, nel suo sangue, ha emessouna sentenza di assoluzione <strong>per</strong> i nostri peccati.L’esempio primo, anzi primario, che può illustrare questo dato è quello del buon ladrone chesulla croce, senza neppure l’ombra di alcun suo merito, ottenne da Gesù la promessa del paradiso(cf. Lc 23,42-43), e questo solo <strong>per</strong>ché ha avuto fiducia in lui, in Gesù stesso. ParadossalmenteSoeren Kierkegaard scriverà nel suo celebre Diario che quel ladrone è «l’unico cristianocontemporaneo di Cristo»! In poche parole: ciò che conta non è quello che faccio io, ma è quelloche Gesù ha fatto <strong>per</strong> me (cf. Gal 2,20: «Mi ha amato e ha dato se stesso <strong>per</strong> me; dunque non rendovana la grazia di Dio, poiché se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano»)! Non<strong>per</strong> nulla questo del ladrone è proprio l’esempio che un Padre della Chiesa, l’intellettualealessandrino Origene agli inizi del III secolo, adduce nel suo commento alla lettera ai Romani (chefu il primo di una lunga serie di commenti nei secoli successivi). Da parte sua, invece, Tommasod’Aquino adduce l’esempio di un battezzato (adulto) che è subito morto e precisa: «La sua <strong>fede</strong>,cioè essa sola (fides eius, scilicet sola) senza o<strong>per</strong>e esteriori … gli viene computata gratis, come seavesse fatto tutto (reputatur ei gratis, ac si totum fecisset); e l’Apostolo dice che questo computonon avrebbe luogo, se la giustizia fosse dalle o<strong>per</strong>e, ma ha luogo soltanto (solum) <strong>per</strong> il fatto che èdalla <strong>fede</strong>». Verrebbe da dire: più chiaro di così! Nemmeno Lutero nel suo commento alla lettera aiRomani si esprimerà in termini così chiari!Certo si tratta di casi estremi, che <strong>per</strong>ò in quanto tali esprimono all’evidenza la sufficienzadella <strong>fede</strong> in quanto non è condizionata (o contaminata?) dall’agire morale dell’uomo 11 .11 Naturalmente si dovrebbe pure fare un ampio discorso sulla componente morale dell’identità cristiana, anche se


È proprio in questo senso che l’euaggélion è davvero tale, cioè un buon annuncio, una notiziabuona, favorevole, che fa piacere ascoltare e accettare, semplicemente <strong>per</strong>ché è vantaggiosa <strong>per</strong> me,è <strong>per</strong> il mio bene. Non <strong>per</strong> nulla Paolo definisce Dio come il «Dio <strong>per</strong> noi» (Rom 8,31), quindi nonsolo «con noi» (v. sopra). La formulazione paolina 12 si differenzia da quest’altra, <strong>per</strong>ché la diversapreposizione («<strong>per</strong>» invece di «con») evoca non soltanto l’idea della assicurazione di unapresenza/assistenza/sostegno magari occasionali, ma, oltre a questa, richiama soprattutto l’idea diuna effettiva dedizione voluta e intenzionale, al di là di ogni aspettativa. Il Dio dell’evangelo noncammina soltanto accanto all’uomo, ma è definito in base a una sua totale dedizione all’uomostesso, alla sua promozione; sicché, il risvolto negativo umano, a cui egli si indirizza, non è soltantoquello di una solitudine improduttiva, come se senza Dio l’uomo fosse incapace a ottenere gli scopiche autonomamente si prefigge; invece, si tratta di una radicale impreparazione a raggiungere irisultati che Dio stesso, di suo, gli riserva. Cristiano, secondo l’Apostolo, non è chi diventa giusto‘insieme’ all’aiuto di Dio, ma chi diventa tale ‘solo’ <strong>per</strong> grazia di un intervento ins<strong>per</strong>ato di lui; ilquale, dunque, non solo scaccia la paura, ma dona qualcosa cha va al di là di ogni calcolo.Ebbene la <strong>fede</strong> non è altro che la risposta di ricezione e accoglienza di questa dichiarazione inquanto destinata a me, alla mia vita, a quello che concretamente sono pur con tutti i miei peccati.Essa <strong>per</strong>ciò non è solo la risposta intellettiva a una notifica o a un’informazione, ma è l’accettazionegioiosa e riconoscente, che coinvolge tutta la <strong>per</strong>sona, dell’assicurazione di un imprevisto impegnodi Dio stesso «<strong>per</strong> me» e di un impegno totalmente gratuito.In prima battuta, infatti, l’annuncio evangelico (o kérygma) non usa nessun im<strong>per</strong>ativo, cioènon chiede e non impone nulla, esattamente nulla. La più antica formulazione dell’annuncioevangelico infatti, che è addirittura pre-paolina in quanto ripresa e ritrasmessa da Paolo, diceproprio così: «Vi proclamo il vangelo … dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’hoannunciato; a meno che non abbiate creduto invano. Vi ho trasmesso infatti, anzitutto, quello cheanch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì <strong>per</strong> i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, eche è stato risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici»(1Cor 15,1-5). Come si vede, qui non c’è nessunissima richiesta morale. Anzi, non c’è neppurealcuna dichiarazione sull’identità <strong>per</strong>sonale di Cristo come Figlio di Dio o altro. C’è solo laproposizione di alcuni eventi, di cui Cristo è il soggetto, proclamati in quanto soteriologicamentedensi. È come dire che l’iniziativa di Dio in Cristo brilla da sola, senza essere oscurata dacondizionamenti umani di sorta, i quali in concreto non sarebbero altro che vanitose presunzioni di<strong>per</strong> Paolo essa è ‘seconda’ rispetto alla <strong>fede</strong>, ma comunque non ‘secondaria’; si vedano in merirto le pagine di R. <strong>Penna</strong>,Il DNA del cristianesimo. L’identità cristiana allo stato nascente, San Paolo, Cinisello Balsamo 4 2010, 107-240.12 Essa ha qualche parallelo nel Salterio: «Io so che Dio è <strong>per</strong> me» (Sal 56,10), «Il Signore è <strong>per</strong> me» (Sal 118,6), «IlSignore ha fatto grandi cose <strong>per</strong> noi» (Sal 126,3); ma questo è il testo originale ebraico, mentre la versione greca deiLXX (a cui abitualmente Paolo si rifà) modifica il costrutto e non attesta la preposizione «<strong>per</strong>», sicché il costruttodell’Apostolo è originale.


meriti o virtù come orgogliose richieste di ricompensa 13 . Il fatto è che Dio già è dalla nostra parte, è«<strong>per</strong> noi» (Rom 8,31), prima ancora e a prescindere dal fatto che noi vogliamo pretendere qualcosada Lui.Risulta <strong>per</strong>ciò che la <strong>fede</strong> cristiana è comunque teo-centrica in quanto orientata a Dio ma <strong>per</strong>la mediazione di Gesù Cristo, che il cristiano associa a Lui (con una o<strong>per</strong>azione consideratablasfema da ebrei e da mussulmani, che lasciano la Divinità da sola, disincarnata). Ma proprioquesta componente cristologica è ciò che di più distintivo ha il cristianesimo da proporre sul‘mercato’ delle religioni. La <strong>fede</strong> cristiana sa e professa che ormai Dio non è spiegabile senzal’uomo, anzi un Uomo particolare. Mi ha sempre colpito ciò che tra l’altro scriveva poco dopo lametà del II secolo l’apologeta cristiano Teofilo di Antiochia nel suo Ad Autolico (un amico paganoche derideva il cristianesimo): «Se tu mi dicessi “Mostrami il tuo Dio”, io ti direi “Mostrami il tuouomo e io ti mostrerò il mio Dio» (I,2). Qui, secondo il contesto, il riferimento all’uomo è di tipomorale, <strong>per</strong> dire che un uomo peccatore non può adeguatamente vedere Dio in quanto ha gli occhioffuscati dalla malvagità; ma se ne potrebbe fare anche una lettura filosofica, nel senso che <strong>per</strong> ilcristiano non si può parlare di Dio a prescindere dall’uomo, poiché nella definizione di Dio («allasua destra»!) c’è ormai un Uomo, e questo uomo, si noti bene, si chiama Gesù di Nazaretcrocifisso/risuscitato (confessato come Cristo e Signore), non Padre Pio e neppure la madre diGesù!Tutto ciò ci conduce a una conclusione a<strong>per</strong>ta. Per sa<strong>per</strong>e chi è questo Gesù intronizzatoaccanto a Dio e degno della nostra <strong>fede</strong>, bisogna andare alla sua dimensione storica (visto che ilRisorto non è più un soggetto storico). Bisogna indagare concretamente chi è il Gesù storico, qualeegli traspare non solo dalle sue parole ma anche dai suoi comportamenti, dalle sue relazioni(soprattutto quelle preferenziali con gli emarginati sociali e religiosi), dalle reazioni scandalose cheha suscitato e che lo hanno condotto a una sentenza di morte. Infatti, colui che i cristiani veneranocome loro Signore è proprio quel Gesù là, quello che è vissuto in carne ed ossa nella terra d’Israelein quegli anni precisi, come uomo del suo tempo eppure anche come uno infinitamente su<strong>per</strong>iore altempo, essendo Alfa e Omega: infatti, secondo l’Apocalisse, i santi sono esattamente quelli che«custodiscono la <strong>fede</strong> in Gesù» (14,12) 14 .13 È interessante notare che Paolo non ama il termine «virtù», che impiega una sola volta (in Fil 4,8:«Quello che èvero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che èvirtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri»). Per la verità il vocabolo italiano è un latinismo, cheha nella sua radice il termine vir cioè «uomo/maschio coraggioso». In greco invece si dice aretē, che derivadall’aggettivo «buono»/agathós o meglio dal suo comparativo (areíōn) o su<strong>per</strong>lativo (áristos), e <strong>per</strong>ciò indica ciò che èmigliore, ottimo, eccellente, naturalmente a livello di valori umani. Sicché il passo paolino, avendo dei paralleli <strong>per</strong>esempio in Cicerone, è di carattere ecumenico e rappresenta la ‘magna charta’ dell’umanesimo cristiano.14 Ciò resta tanto più vero anche se in questo caso, stando ai commentatori del testo, si dovesse intendere la<strong>fede</strong>/pístis come «<strong>fede</strong>ltà» a Gesù.


<strong>Romano</strong> <strong>Penna</strong>

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!