nee, processo cui non fu estranea la suggestione esercitata da modelliolandesi e inglesi. Dal momento, infatti, che la Serenissimanon intratteneva rapporti diretti con i mercati del Levante, l’importazionedi manufatti laccati dall’Estremo Oriente doveva essere unfenomeno del tutto estemporaneo, mentre i consolidati legami delpatriziato veneziano con la Compagnia delle Indie Orientali lascianopresumere che le prime cineserie in lacca a giungere in lagunafossero proprio quelle anglosassoni d’imitazione. È inoltre verosim<strong>il</strong>eche nelle botteghe veneziane circolassero prontuari iconografici,come <strong>il</strong> popolarissimo Treatise on Japanning and Va r n i s h i n g che JohnStalker e George Parker diedero alle stampe a Londra nel 1688.L’influenza esercitata sull’ebanisteria veneziana dalle “contraffazioni”in lacca di marca continentale, inglesi in particolare, è del restocomprovata da una numerosa sequela di esempi. Il fatto poi chea Venezia molte delle dimore storiche dell’antico patriziato conservinoa tutt’oggi, con più frequenza di quanto non sia ragionevolecredere, arredi laccati di fattura inglese,costituisce un’ulteriore riprovadell’anglof<strong>il</strong>ia che pervase la civ<strong>il</strong>tàlagunare settecentesca. Paradigmatico,in proposito, <strong>il</strong> confrontofra un cassettone a ribalta datab<strong>il</strong>econ buona approssimazione attornoal 1710-1715 e un mob<strong>il</strong>e a due corpi,cronologicamente di poco successivo,entrambi conservati a Venezia,[94-95] Cassettone a ribaltaprodotto in Ingh<strong>il</strong>terra nel 1710ca e, a destra, mob<strong>il</strong>e a due corpiprodotto a Venezia nel 1730 ca.nella medesima collezione. Interamentecostruito in legno di quercia,<strong>il</strong> primo esemplare è senza alcundubbio di provenienza inglese: particolareinconfondib<strong>il</strong>e, fra l’altro, èla fattura di bocchette di protezionee maniglie in ottone. Inflessioni analoghe contraddistinguono <strong>il</strong>fantasioso repertorio decorativo del mob<strong>il</strong>e a doppio corpo, d’incontrovertib<strong>il</strong>efattura veneziana e collocab<strong>il</strong>e cronologicamenteentro <strong>il</strong> terzo-quarto decennio del XVIII secolo.Analogamente <strong>il</strong> sommesso impiantotimbrico, di un cupo verde lacca, è accesodai bagliori dorati di freschissime chinoiseriescui rapide ombreggiature a penna d’ocaconferiscono maggior risalto plastico. L’ut<strong>il</strong>izzoper i particolari decorativi della pastiglia,ottenuta facendo colare dal pennello,negli appositi tracciati e senza poter assolutamentericorrere a stecche per eventualicorrezioni, un fluido amalgama di gesso ecolla, si configura come una versione squisitamentecontinentale del taka-maki giapponese.Entro garbate parentesi narrative turbanti di <strong>gusto</strong> persianeggiantepacificamente convivono con parasoli e devoti cortigianiabbigliati secondo <strong>il</strong> <strong>gusto</strong> cinese, mentre un sole dai dardi inanellatibenignamente sorride. Ma a un’attenta analisi questa spensieratacontaminazione fra Oriente Vicino e Lontano, fluttuante entrouna rarefatta trama decorativa a capricciosi girali fitomorfi, sembrarivelare, rispetto alle d<strong>il</strong>igenti trascrizioni anglosassoni, un’inflessionenuova, lievemente ironica, già protesa ad affrancarsi dalla pedissequaimitazione della novella orientale.La progressiva emancipazione del d e p e n t o r e dal decoro “alla chinese”di stretta osservanza determina, nei primi del Settecento, un’evoluzionein senso comico della c h i n o i s e r i e, assorbita entro categorieornamentali di conio europeo e gradualmente “addomesticata”. Èquesto <strong>il</strong> momento irripetib<strong>il</strong>e dell’affabulazione creativa, di unaspigliata c o n t a m i n a t i o, per la quale mandarini e dame veneziane, fumatorid’oppio e guerrieri con vess<strong>il</strong>li Ming convivono con disinvolturain un contesto di particolari lagunari camuffati alla cinese.Nel casino di Alvise Zenobio sul Canal Grande si poteva ammirareun’intera “camera alla cinese”, mentre un sontuoso fornimentoin lacca verde smeraldo a cineseriedorate, che originariamentearredava un salone di PalazzoCalbo Crotta agli Scalzi, è oggimaestosamente “ricoverato” aCa’ Rezzonico. È <strong>il</strong> concetto delcontinuum ornamentale t i p i c a m e n-te settecentesco, ribadito dallaraffinatissima inf<strong>il</strong>ata di “camerealla chinese” che in antico si affacciavanosul rio di San Barnaba,lungo l’ala destra del primo[96-97] Il fornimento Calbo Crottanella Sala delle Lacche Verdi a Ca’Rezzonico e, a sinistra, la porta acineserie della Sala degli Arazzi.piano nob<strong>il</strong>e del museo. Del superbo complesso ornamentale facevanoparte sei battenti in “lacca veneziana”; ne rimane ancora in sit u un’unica smagliante reliquia: una porta inlegno di abete laccato su entrambi i lati ac h i n o i s e r i e s dorate, con particolari a r<strong>il</strong>ievo rifinitiin pastiglia. Entro duplici specchiaturescontornate da cornici applicate in legnodolce dorato, increspate da ariose r o c a i l l e s,galleggiano su liquidi isolotti frementi divagazioniorientaliste, intrise di luce e dalladinamica narrativa sempre mutevole, ma cosìgenuinamente veneziana da far addiritturapensare a un pregresso disegno tiepolesco.La vaga approssimazione prospettica, unitamente ai disarticolaticostrutti delle frag<strong>il</strong>issime “pagodine” dorate sugli sfondi, stannotuttavia a rappresentare <strong>il</strong> solitario portato di una Cina “di maniera”che nel l758, data cui è probab<strong>il</strong>e risalga l’intero complesso, si configuracome geniale sintesi di raffinato esotismo e bonaria quotidianitàespressiva. È questa la ricetta veneziana di una Cina dalle arg u-te inflessioni lagunari, garbatamente ironica, estremamente ripetitivanei soggetti e di maliziosa ispirazione popolaresca. Il dato è particolarmenteevidente per la pressoché <strong>il</strong>limitata varietà di manufatt<strong>il</strong>accati di piccole dimensioni, che costituivano una sorta di produzione“continuativa” della Serenissima e che venivano larg a m e n-te apprezzati anche oltre i suoi confini: dai servizi da toeletta conspecchierine munite di sostegni, a vassoi eguantiere, da alzate e centritavola fino allasterminata gamma di scrigni, tabacchiere,scatole e scatoline e agli accessori per <strong>il</strong> camino,dai servizi per profumi, per la tavola,per la scrittura e <strong>il</strong> gioco, alle custodie perocchiali, agorai, vasi e portavasi, orologi,cannocchiali e soprammob<strong>il</strong>i.[98] Specchiera da toeletta, M<strong>il</strong>ano, collezione S<strong>il</strong>va.
Il ferro a Venezia*ALESSANDRO ERVAS eGEROLAMO FAZZINIUsato fin dall’antichità per le sue caratteristiche tecnicheche in molti casi lo rendono insostituib<strong>il</strong>e, <strong>il</strong> ferro, malgradola scarsa resistenza alla corrosione in ambiente ma -rino, è storicamente un materiale assai ut<strong>il</strong>izzato anche a Venezia:nelle imbarcazioni e costruzioni navali, nelle opere architettonichesia nelle parti strutturali che in tutti quei manufatti che sono elementidecorativi.Tra le associazioni di arti e <strong>mestieri</strong> – dette a Venezia Scuole Minori– che regolavano <strong>il</strong> mondo del lavoro stab<strong>il</strong>endo rigide regoledi appartenenza e di controllo, la Scuola dei fravi (fabbri) era unadelle più numerose e antiche: se ne ha notizia già intorno all’annoM<strong>il</strong>le. Molte erano le specializzazioni lavorative: nel c a p i t o l a r e d e l1271 sono elencati oltre ai f r a v i veri e propri anche altre professionicome i c a l d e r e r i (calderai), i c o l t e l e r i (coltellinai, in seguito unitiagli s p a d e r i), gli strassa feri (ferrivecchi). Gli iscritti alla corporazioneerano in gran parte forestieri, soprattutto provenienti dal territoriom<strong>il</strong>anese, e si riunivano dapprimanella chiesa dei Frari e successivamentea San Moisè dove edificaronoun altare, davanti al quale tuttorasi conserva una lapide sepolcrale intitolataall’Arte. A fianco di questachiesa fissarono la loro sede, in unpiccolo edificio dove ancor oggi è riconoscib<strong>il</strong>eun bel cancello d’ingressoopera di Umberto Bellotto. Nel1773 l’Arte dei f r a v i contava a Ve n e-zia 224 botteghe con 573 iscritti tracapimastri, lavoranti e garzoni.[99] L’antica sede dell’Arte deifabbri in campo San Moisè.Diffic<strong>il</strong>e da produrre e da lavorare, <strong>il</strong> ferro è sempre stato unmateriale costoso; nel corso dei secoli, inoltre, è sempre stato ut<strong>il</strong>izzatocome materiale bellico: per uno Stato <strong>il</strong> possesso di minieree di luoghi di lavorazione era dunque una questione di vitale importanza.La Serenissima aveva miniere di ferro e di rame nelle zonemontane dell’agordino, dello zoldano, del bresciano e del bergamasco,fino ai confini del territorio m<strong>il</strong>anese dotate anche di fornie fucine per lavorare <strong>il</strong> metallo e realizzare sia prodotti finiti che sem<strong>il</strong>avoratiche venivano commercializzati sotto stretto controllodelle autorità. Le fabbriche di armi erano in particolar modo soggettea rigidi controlli sia nella qualità e nella quantità della produzionesia negli spostamenti degli armaioli stessi a cui era fattodivieto di espatriare.La Serenissima favoriva in molti modi l’immigrazione di artigianispecializzati dai territori della terraferma. A Venezia un casosingolare di immigrazione si ha con le maestranze lombarde e inparticolar modo con la comunità originaria di un paese, Premana, situatoin Alta Valsassina, sopra Lecco, nel cui territorio si trovavanominiere di ferro già usate in epoca romana. Da questa zona provenivanoartigiani che praticavano i <strong>mestieri</strong> di fabbro, di calderaio o dicoltellinaio attivi anche all’interno dell’Arsenale marittimo, ma soprattuttoin officine e botteghe sparse in tutto <strong>il</strong> contesto cittadino.L’apice di questa presenza viene raggiunto nel 1769 con 139 botteghepremanesi a Venezia, di cui 108 officine da fabbro o calderaio.Ancora oggi, le ultime bottegheo ditte di fabbri e coltellinai rimastea Venezia e dintorni, sonobuona parte di oriundi premanesi,tra queste la storica bottegaTenderini al ponte del Soccorsoin fondamenta Briati a Dorsodurodocumentata dal 1682.Le fucine veneziane non eranoparticolarmente ampie e servivanoper la produzione del necessarioper la vita civ<strong>il</strong>e. A dimostrazione della loro grande diffusionerimangono in città molti toponimi come la calle dei Fabbri,riva del Ferro, calle del Calderer, calle delle Ancore. Il fatto che,malgrado le severe leggi antincendio della Serenissima, le fucinenon siano state trasferite altrove, come avvenuto a Murano con i vetrai,indica come fosse necessaria la presenza di queste botteghe direttamentenel cuore del tessuto urbano.Una passeggiata con sguardo attento tra lecalli permette di mettere a fuoco una infinitàdi oggetti in ferro normalmente trascurati,come i tiranti per i campanelli con irinvii (piccole leve sagomate) che servivanoa far suonare la campanella dentro l’appartamentotramite un f<strong>il</strong>o metallico; oppure lebandelle dei portoni, che a Venezia hannouna forma caratteristica, o la varietà di grate,inferriate, lampioni, strumenti in ferro per porte e finestre, serramenti,maniglie, cardini.Quello che colpisce è la cura dell’esecuzionee la raffinatezza del disegno.Come l’ebanisteria e l’oreficeriaanche la produzione fabbr<strong>il</strong>e venezianaè un mondo di oggetti raffinati.Le inferriate veneziane trovano <strong>il</strong>loro parallelo st<strong>il</strong>istico nel merletto,<strong>il</strong> disegno si sv<strong>il</strong>uppa sempre in due[102-103] Dettaglio di grata e, inbasso, le possenti inferiate delFondaco dei Tedeschi.[100-101] Bottega di fabbro a Castello ainizio Nocevento e, in basso, tirante percampanello.dimensioni, lo spessore del materialeimpiegato è quasi irr<strong>il</strong>evante ai finidella composizione. Certo le rostredel Fondaco dei Tedeschi, con <strong>il</strong>loro spessore possente danno senzadubbio un’impressione di forza, comepure la porta della Zecca, oraporta d’ingresso della BibliotecaMarciana, tuttavia <strong>il</strong> disegno si sv<strong>il</strong>uppasempre senza quegli interventidi deformazione plastica o di tridimensionalitàche possiamo ritrovarea Vienna o a Praga o la ridondanzadelle opere francesi ricche di fogliame e decorazioni applicate.Le opere in ferro nascevano con le architetture e ne riprendevanogli schemi geometrici nei disegni, in questo modo i manufattisi “fondevano” con <strong>il</strong> contesto.Anche dal punto di vista tecnico le opere veneziane rispondevanoa criteri di semplicità costruttiva, con l’uso di elementi modulariuniti tra loro da fascette sagomate, i collarini. Cambiamenti
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