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Arti e mestieri: il gusto dell'artigianato - The Venice International ...

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Autunno a Palazzo FortunyMuseo Fortuny, fino al 9 gennaioS<strong>il</strong>enzi, natura, meditazione, tempo: intorno a queste suggestionisi articola la vasta offerta di Palazzo Fortuny per la stagioneespositiva d’autunno. Come sempre <strong>il</strong> genius loci e lospirito di Mariano aleggiano su interventi di artisti di oggi, che lavoranonel museo rendendogli omaggio e riprendendone l’attitudinesperimentale.Gli spazi al pianoterra ospitano Nuala Goodman con i suoiGardens. Al primo piano nob<strong>il</strong>e, nello spazio dedicato alle collezioni,ai tessuti, ai dipinti e all’ineguagliab<strong>il</strong>e atmosfera fortuniana,convivono diverse proposte: la grande vetrina-armadio del saloneospita Unicum. Gioielli e argenti 2000-2010 di Alberto Zorzi mentredue sale laterali sono la sede espositiva preziosa e autonoma, interamentededicata ai S<strong>il</strong>enzi di Giorgio Morandi.Lungo tutto <strong>il</strong> piano, inoltre,continua la mostra Mariano Fortunyla seta e <strong>il</strong> velluto che presenta unapreziosa serie di Delphos, i leggendariabiti plissé di Fortuny, completatada cappe, mantelli, costumi e accessori,provenienti dalle collezioni privateamericane di Keith H. Mc Coye della famiglia Riad che tornano “acasa” nel laboratorio in cui furonorealizzate.Il secondo piano è dedicato alle opere di Marco Tirelli mentre alterzo piano trovano spazio due proposte: Altre nature di Giorgio Vigna,nello spazio w a b i - s a b i, e My W<strong>il</strong>d Places di Luca Campigotto.Nuala Goodman. GardensCombinando pittura, design e moda, Nuala Goodman reinterpretamob<strong>il</strong>i, oggetti, tappeti con le sue stoffe floccate erifinite a mano. La floccatura è una lavorazione che consentedi ottenere un effetto velluto su superfici diverse, mediante l’applicazionedi altre fibre, con particolari esiti e disegni. I tessuti diNuala, lavorati con uno straordinario senso del colore, abbinanomateriali diversi in un insieme armonioso di vere e proprie installazionicreate per <strong>il</strong> museo, in cui sedersi, osservare e scoprire.Gardens si svolge lungo un percorso che inizia “attraverso degliarmadi” che espongono vestiti, cappotti e scarpe dipinti a mano. Èun omaggio alla Mostra del Cinema con un riferimento esplicito aun f<strong>il</strong>m nel quale un armadio porta in un mondo pieno di suggestione,meraviglia e fantasia. Negli ambienti si sv<strong>il</strong>uppano vari con -cept idea e ognuno racconta una storia legata a un tessuto, svelandol’emozione della materia e mostrandola tecnica usata per l’effettotatt<strong>il</strong>e che si vuole raggiungereattraverso i tessuti.[9] Nuala Goodman mentre realizzala floccatura.[8] La mostra La seta e <strong>il</strong>velluto ospitata al primo piano.Un percorso espositivo diverso e intrigante per <strong>il</strong> visitatore chepuò ammirare anche i celebri Portraits from M<strong>il</strong>an, la serie di ritratti di grandi creativi, icone del mondo dell’arte, del design, della fotografiae della moda, come <strong>il</strong> designer Ettore Sottsass, lo st<strong>il</strong>istaPaul Smith, l’architetto Luca Scacchetti, <strong>il</strong> fotografo Santi Caleca.La particolarità di queste opere è lo sv<strong>il</strong>uppo di una tridimensionalitàottenuta mediante interventi di floccatura.BREVE PROFILO BIOGRAFICONata a Dublino nel 1962, si è diplomata nella sua città natale alNational College of Art and Design. Nel 1984 si trasferisce in Italia,inizialmente per collaborare con lo studio di Ettore Sottsass, eda allora vive a M<strong>il</strong>ano. I suoi lavori e progetti combinano pittura,design e disegno tess<strong>il</strong>e; fra essi si ricordano <strong>The</strong> Irish Chair (1988-1990), Painted Boxes (1993), entrambi realizzati insieme all’ebanistalondinese James Howett, e l’orologio Eve Watch (1995) ancoraoggi ricercato pezzo da collezione. Tra <strong>il</strong> 1984 e <strong>il</strong> 1990 disegna anchenumerosi tessuti per le aziendepiù prestigiose e allestisce diversemostre: nel 1988 partecipa a unacollettiva alla Kerlin Gallery di Dublinomentre nel 1995 è protagonistadi due personali: una a Dublino,l’altra a M<strong>il</strong>ano.Alla ricerca di nuovi sbocchicreativi, nel 1996 interrompe <strong>il</strong> suopercorso di pittrice per fondare insiemea Paolo Giordano I+I, aziendache progetta oggetti e tessuti prevalentementerealizzati in India e Ne-[10] Dettaglio di floccatura.pal ut<strong>il</strong>izzando tecniche artigianali tradizionali. Del 2008 è la seriePortraits from M<strong>il</strong>an e la collettiva alla Royal Hibernian Accademydi Dublin dove viene richiamata anche l’anno dopo.Alberto Zorzi. UnicumGioielli e argenti 2000-2010Settantaquattro opere uniche: gioielli-scultura – creati conoro, argento, pietre preziose, pittura a olio – di cui sei grandiargenti che, a prima vista, sembrano opere solo da osservarementre invece nascondono una funzione “rivelandosi” quali vasi,portafrutta, centrotavola. Sono lavori dell’ultimo decennio, sceltiespressamente dall’artista per porsi in relazione con <strong>il</strong> luogo, lo spazio,gli oggetti, gli abiti e i tessuti del Museo Fortuny.Alberto Zorzi è uno scultore che ha convertito la propria vocazioned’inventività plastica entro la dimensione del gioiello. Comeafferma Enrico Crispolti nel catalogo, le sue sono sculture da indossareentro <strong>il</strong> cui patrimonio iconicole suggestioni sono molteplici,sempre meno formali e sempre piùcomportamentali, cercando di connettere<strong>il</strong> flettersi strutturale e <strong>il</strong> di-[11] Dettaglio di collana con pendente.


chiararsi materico delle componentianche a una condizione di nesso corporeonell’uso effettivo del mon<strong>il</strong>e.Una sorta di ag<strong>il</strong>ità di questo, comed’altra parte una sua connessioneperformativa anche nel rapportod’incidenza materico-luminosa. Nelmodo cioè di come <strong>il</strong> trattamentomaterico del metallo prezioso, laparticolare aggettivazione delle suesuperfici solleciti particolari effettidi riflessione luminosa, che arricchisconola qualità autorappresentativadi quell’invenzione plastica che è divolta in volta diversamente <strong>il</strong> gioiello di Zorzi. E ciò in connessioneanche alla varietà materiologica preziosa messa in campo: dall’oroal rame, all’acciaio, dall’ebano ai quarzi; risolvendosi tuttaviarecentemente anche nell’uso inedito del colore a olio.BREVE PROFILO BIOGRAFICOAlberto Zorzi nasce nel 1958 a Santa Giustina in Colle in provinciadi Padova. Dopo gli studi all’Istituto statale d’arte e al Liceo artistico,si laurea in storia dell’arte all’Università di Padova. Dal1987 è docente in Arte dell’oreficeria e della lavorazione delle pietredure e delle gemme all’Istituto Statale d’Arte poi, tra <strong>il</strong> 1991 e<strong>il</strong> 1993, insegna Progettazione di oreficeria all’Istituto Europeo diDesign a M<strong>il</strong>ano. Dal 1994 al 2009 è professore di Progettazionedel gioiello e Storia delle tecniche artistiche all’Università di Firenzee dal 1998 è professore di Oreficeria, modellistica e micromosaicoall’Accademia di Belle <strong>Arti</strong> di Ravenna.Ampia e articolata, fin dagli anni ottanta, l’attività espositiva,con numerose mostre personali in Italia e all’estero; le sue opere sonopresenti in vari musei e collezioni pubbliche in Italia, in Europae negli Stati Uniti.Giorgio Morandi. S<strong>il</strong>enziAttraverso un’accurata selezione di opere raramente esposte,che coprono un arco di tempo che va dal 1921 al 1963, lamostra vuole immergere <strong>il</strong> visitatore nello stesso s<strong>il</strong>enziomeditativo che Giorgio Morandi riservava alla realizzazione deisuoi dipinti.Il visitatore è invitato ad addentrarsi nel dipinto per trovareuna personale chiave di lettura, fosse anche solo quella di interrogarsisul significato di quei vasi e di quelle bottiglie, di quegli oggettisempre uguali, ma sempre diversi, che sono <strong>il</strong> codice, l’alfabetoespressivo dell’artista. Il tentativoè quello di favorire, tra l’opera elo spettatore, un dialogo privo di f<strong>il</strong>trie di parole, nella consapevolezzache <strong>il</strong> s<strong>il</strong>enzio morandiano non sipresta a un’interpretazione univoca e[13] Natura morta, 1948. Bologna,Galleria d’Arte Maggiore.[12] Islam, bracciale in argento epittura a olio.[14] Fiori, 1951. Bologna,Galleria d’Arte Maggiore.può essere di volta in volta letto esentito in maniera differente: nonuno ma più “S<strong>il</strong>enzi”, tutti possib<strong>il</strong>if<strong>il</strong> rouge della sua opera. Del restointorno a questo tema la critica morandianasi è espressa da sempre.Arnaldo Beccaria nel 1939 raccontadella preparazione ascetica a ogniopera “fatta di digiuni, di s<strong>il</strong>enzi, dimortificazioni del colore” in cui“l’arte è l’espressione dell’abito moraledell’artista” e di quelle “note dicolore che si compongono nel s<strong>il</strong>enziodel dipinto; e quel s<strong>il</strong>enzio è accesodi una musica intensa e segreta” che chiude l’opera “in un ordineassoluto” dove “tutto è equipartito, secondo un connaturatocalcolo, acutissimo e infallib<strong>il</strong>e, una sublime equazione” dove queicolori bruciano “come un incenso inconsumab<strong>il</strong>e sacrificato al s<strong>il</strong>enzio”.Secondo Francesco Arcangeli, <strong>il</strong> maestro “sembra rendere,forse inconsapevolmente, col suo s<strong>il</strong>enzio <strong>il</strong> supremo omaggio di unumanista ormai disperato a un’immagine dell’uomo per ora irrestituib<strong>il</strong>e”.Roberto Longhi suggerisce di cercare <strong>il</strong> s<strong>il</strong>enzio nell’armoniae nell’equ<strong>il</strong>ibrio di quegli oggetti che nascondono una realtàpiù profonda della loro apparenza. Ma è Castor Seibel che evidenziacome la pittura di Morandi esprima “ciò che le parole non possonomai dire, cioè una poesia pittorica che esteriorizza l’inafferrab<strong>il</strong>e”.E precisa come <strong>il</strong> s<strong>il</strong>enzio nell’opera del maestro sia evidenteanche agli occhi quando sostiene che “Morandi riesce a “metamorfosare”<strong>il</strong> s<strong>il</strong>enzio, assenza di suoni, in un fenomeno visivo: laluce del s<strong>il</strong>enzio”.Ventuno nature morte, dipinti – come afferma nel catalogoFrancesco Poli – “s<strong>il</strong>enziosi e dimessi” i cui colori “vibrano di unaluminosità un po’ appassita che sembra venire dall’interno... unapittura che si colloca mirab<strong>il</strong>mente nello spazio percettivo e mentaleche sta fra <strong>il</strong> visib<strong>il</strong>e e l’invisib<strong>il</strong>e”. S<strong>il</strong>enzi è un’occasionestraordinaria e unica per dar vita a un insieme di assonanze e rimandi:da un lato, sul piano della ricerca formale, con la minuziosaaccuratezza di Fortuny, dall’altro con gli “spazi metafisici” di Tirelli,esposti al primo e al secondo piano.Marco TirelliAnticipata da alcune opere dell’artista esposte o “disseminate”già al primo piano, la mostra occupa tutto <strong>il</strong> vastoambiente del secondo piano del Museo e presenta tele digrandi dimensioni insieme a sculture e altri lavori di piccolo formato,concepiti da Marco Tirelliper questi spazi.I dipinti rappresentano elementiarchitettonici e geometriciastratti che alludono a stati diindeterminatezza e di passaggio.[15] Opere di Marco Tirelli esposte alsecondo piano di Palazzo Fortuny.


[16] Senza titolo, 2009.Forme essenziali in cui l’oggetto fisicodiventa un pretesto per valicare<strong>il</strong> confine tra luci e ombre, stab<strong>il</strong>endoun rapporto metafisico con lospazio: qui l’architettura si d<strong>il</strong>ata finoa scomparire in un’<strong>il</strong>lusoria monocromiache avvolge e coinvolge lospettatore, creando uno spazio straniante,una finestra per la percezione,un varco per la meditazione.Francesco Poli nel saggio del catalogoafferma che Marco Tirelli invitaalla riflessione e alla meditazione s<strong>il</strong>enziosa e approfondita sullepossib<strong>il</strong>ità e i limiti fisici e spirituali della pittura come forma specificadi creazione visiva. Con un’esemplare chiarezza di idee e unaprecisa messa a punto di un linguaggio caratterizzato dall’usoestremamente originale ed essenziale di mezzi tecnici e di effetticlassici, dà vita a opere di singolare attualità proprio nella misurain cui sembrano collocarsi a una distanza siderale rispetto alla freneticae congestionata fenomenologia iconica iperdinamica dellarealtà virtuale in cui siamo oggi immersi a livello globale. È la lororadicale alterità che, per contrasto, funziona come un magnificodeterrente poetico che apre prospettive inedite di interpretazionedel nostro rapporto col mondo.Le ben studiate composizioni di Tirelli sono immagini impalpab<strong>il</strong>mentemateriali, visioni sospese in una dimensione spazialeche annulla <strong>il</strong> senso del tempo come durata. Sono forme più o menogeometriche che lievitano come volumi senza peso, o anche nudiscorci ambientali in penombra in cui risuona <strong>il</strong> vuoto: forme espazi impregnati da stranianti tensioni enigmatiche, sott<strong>il</strong>menteinquietanti e misteriose. Ma questa aura misteriosa e straniante nonderiva tanto dalla natura delle presenze in scena, quanto piuttostodal processo percettivo attraverso cui avviene la loro apparizione. Ein effetti si rimane affascinati dal lento lievitare delle configurazionidal fondo buio (dall’oscurità o dalla semioscurità) che si apre virtualmenteal di là della tesa superficie della carta o della tela. Ci sitrova davanti alla presenza immob<strong>il</strong>e (ma con impercettib<strong>il</strong>i vibrazioni)di fantasmi figurativi che si situano al limite osc<strong>il</strong>lante frabidimensionalità reale e tridimensionalità <strong>il</strong>lusoria. Il repertoriodegli elementi a dominante geometrica (ricorrente nel tempo macon aggiunte e variazioni progressive) è costituito da sfere, anelli,c<strong>il</strong>indri, tronchi di cono, poliedri di diversa specie, ma anche crocio strutture rettangolari tipo cassette (e altro) con volumetrie vuote.Sono forme e oggetti di nitida e allo stesso tempo sfumata plasticitàpositiva e negativa (e non di rado ambivalente) che si definisconograzie a raffinatissime gradualità di luminosità, o meglio d<strong>il</strong>uminescenza, proveniente da una fonte non ben identificab<strong>il</strong>e all’internodella scena del quadro.Pare quasi che Tirelli, con queste immagini sempre al limitedella monocromaticità, ricerchi l’anima stessa della pittura intesacome incanto visivo puro. E questo incanto, d’una sensib<strong>il</strong>ità tuttamentale, arriva spesso a sfiorarlo; è l’eco lontana dell’essenza metafisicadella pittura: un evento di luce e ombra, linee e volumi, chevive nel tempo sospeso della visione decantata nella camera oscuradella coscienza riflessa.BREVE PROFILO BIOGRAFICOMarco Tirelli è nato nel 1956 a Roma, dove vive e lavora. Frequental’Accademia di Belle <strong>Arti</strong> a Roma diplomandosi nel corsodi scenografia con Toti Scialoia. Dopo la prima mostra personale,nel 1978, a M<strong>il</strong>ano, nel 1982 espone alla Biennale di Venezia, conuna sala personale, invitato da Tommaso Trini nella sezione Aperto82. Seguono numerose mostre personali in Italia e all’estero epartecipazioni alle biennali internazionali tra cui quella di San Paolo,Sidney e Parigi.Gli anni novanta si aprono con la mostra all’American Academydi Roma che pone in dialogo una collezione di suoi disegnicon i wall drawings di Sol LeWitt. Nel 1990 partecipa con una salapersonale alla Biennale di Venezia invitato da Giovanni Carandente,Laura Cherubini e Flaminio Gualdoni; nello stesso anno laGalleria Civica di Modena dedica una mostra al suo disegno e nel1992 una personale. Nel 2002 si tiene all’Institut Math<strong>il</strong>denhöhedi Darmstadt un’importante mostra antologica dal titolo Das Universum der Geometrie, presentata l’anno successivo alla Galleria d’ArteModerna di Bologna.Giorgio Vigna. Altre natureUn progetto site specific sv<strong>il</strong>uppato da Giorgio Vigna appositamenteper <strong>il</strong> wabi-sabi al centro del terzo piano di PalazzoFortuny. Ancora una volta è la sperimentazione dellepotenzialità della materia – vetro, rame e oro così come materialidi scarto – a guidare la ricerca dell’artista, in cui naturale e artificiale,immaginifico e sublime s’incontrano e scontrano in operesospese tra <strong>il</strong> possib<strong>il</strong>e e l’irreale. La mostra si articola in undici momenti,undici “stazioni” o meditazioni diverse in cui la materia divieneora leggera ora pesante, può farsi puro colore incandescente,assumere consistenza ingannevole o forme ancestrali.Altre nature si presenta comeun viaggio, un percorso circolaree atemporale in cui le ottantanoveopere sintetizzano edesemplificano aspetti diversi dellavoro dell’artista, in cui giocaun ruolo fondamentale la sceltae la ricerca sulla materia. Unasosta contemplativa – <strong>il</strong> Giardi -no dell’inizio – apre <strong>il</strong> percorsoespositivo, un invito a sedere su[17-18] Acqua, 2005 e, in basso,Fuochi astrali, 2010.grandi sculture, un vuoto sonoro racchiuso in segmenti metallici,improvviso e catartico. Nelle tre successive “stazioni” si manifestanoaccostamenti materiali antinomici, incui <strong>il</strong> rame è reso doc<strong>il</strong>e e racchiuso in formelevigate, traslucide come gocce d’acquasolidificate. Nel sesto passaggio – <strong>il</strong> Giardino fiorito – enigmatici vasi in vetro emergononell’oscurità facendo esplodere fiori susteli di rame, chiaro rimando alla canna dasoffio dalla cui estremità nascono da semprele opere dei maestri vetrai delle fornaci diVenini. Seguono poi le “finestre astronomi-


che”, due grandi opere in carta lavoratacon un personale processo distampa, “acquatipo”, che si presentanocome grandi finestre affacciatesu una vita cosmica ricca e frammentata.La nona “stazione” è un totemcostituito di bracciali dei piùvari metalli, reali e non, che emergecome una stalagmite affiorata da misteriosecavità sotterranee.[19] Magma, 2005.Il percorso si chiude in un ultimocontraddittorio contatto la forma perfetta della sfera di vetro trasparentecontenente un frammento di materia metallica grezza, comefosse acqua congelata che ingloba al suo interno <strong>il</strong> fuoco, unaforma incandescente che evoca l’esplosione dei vulcani marini.BREVE PROFILO BIOGRAFICOGiorgio Vigna, nato a Verona nel 1955, è un artista che si esprimeattraverso molteplici mezzi, dalla scultura al gioiello, dal disegnoall’installazione, ponendo sempre al centro della sua ricerca da unlato elementi “primordiali” della natura – acqua, terra, fuoco, vento,ombre, luce, trasparenze – dall’altro la relazione tra questi e lasua straordinaria forza immaginativa. Sperimentando le potenzialitàdella materia ne asseconda l’essenza e ne esplora allo stesso tempoi limiti, svelandone possib<strong>il</strong>ità nascoste fino al paradosso e facendoneperdere le coordinate di partenza. Suoi lavori sono presentiin importanti collezioni pubbliche e private tra cui <strong>il</strong> Museum ofArts & Design e <strong>The</strong> Olnick and Spanu Collection di New York,l’Indianapolis Museum of Art, <strong>il</strong> Museo Internazionale delle <strong>Arti</strong>Applicate Oggi di Torino e <strong>il</strong> Museo degli Argenti di Palazzo Pittia Firenze. Tra le principali esposizioni personali recenti si segnalanoquelle ospitate da istituzioni internazionali, tra cui <strong>il</strong> Museod’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, <strong>il</strong> Museo Correr di Venezia,<strong>il</strong> Museo di V<strong>il</strong>la Pignatelli di Napoli e <strong>il</strong> Design Museumdi Helsinki; tra le collettive, quelle all’Istituto Nazionale per laGrafica di Roma, alla Bas<strong>il</strong>ica Palladiana di Vicenza, a Palazzo Bricherasiodi Torino, al Museo Nazionale di <strong>Arti</strong> Decorative di BuenosAires, al Museum of Art and Design di New York, al Museumof Art di Toledo, al Kunstgewerbe Museum di Berlino, al CentrePompidou di Parigi, al Museo Sforzesco, alla Fondazione Stelline ealla Triennale di M<strong>il</strong>ano.Luca Campigotto. My W<strong>il</strong>d PlacesLe quaranta grandi immagini sono un viaggio nella natura comepercorso iniziatico e necessità del fare fotografico, tra riferimentistorici e suggestionicinematografiche. Grandiscenari fissati nell’intensità delleloro luci, formano – tra rappresentazionedegli spazi e trasformazionidella memoria – una[20] Il fiume Indo a Ladakh in India,2007. Venezia, Bugno Art Gallery.[21] Deserto dell’Atacama in C<strong>il</strong>e,2000. Venezia, Bugno Art Gallery.ballata dello sguardo. Intrise distoria e di attesa, le fotografie diquesto lavoro evocano l’animadei luoghi, come fossero documentiimprescindib<strong>il</strong>i di unmondo destinato a scomparire.Le immagini in mostra sono un’ampia selezione del volume MyW<strong>il</strong>d Places che raccoglie sessantasette fotografie – a colori e inbianconero – scattate dall’autore in varie parti del mondo nell’arcodi una ventina d’anni.Un deserto, un mare; a colori, in bianco e nero; distesa di terra,distesa d’acqua, le nuvole in alto; immagini segnate dalla linea dell’orizzonte,bassa nel primo caso, alta nel secondo, mai centrale emai, soprattutto, perfettamente orizzontale. Si apre così questa raccoltad’immagini di Luca Campigotto, fotografo italiano giunto ormaialla compiuta maturità, amante in egual misura della fotografia,del viaggio e della lettura.Due immagini – come scrive Walter Guadagnini – colte lontanodalla propria terra d’origine, dall’altra parte del mondo, come lagran parte – non tutta – di questi luoghi selvaggi che l’autore sindal titolo considera propri, i “suoi” luoghi. Un piccolo, ma precisissimoe indicativo scarto, quella linea leggermente obliqua, chevale come una dichiarazione poetica, o almeno una chiave di letturaut<strong>il</strong>e per entrare in questo universo, fatto insieme di regole e dieffrazioni, di rigore operativo e di adesione emotiva. Quella lineanon perfettamente orizzontale – al contrario di altre che pure si trovanoin diverse fotografie del volume – segna infatti <strong>il</strong> passaggiocruciale dalla veduta alla visione, elemento centrale nella letturadell’intera opera di Campigotto sin dagli esordi, avvenuti al principiodegli anni novanta.Veneziano, laureato in storia, Campigotto ha piena coscienzadel valore documentario dell’esperienza fotografica, un valore assuntoprimariamente come retaggio culturale, come chiave di interpretazionedel reale che investe contemporaneamente l’occhio ela mente.BREVE PROFILO BIOGRAFICOLuca Campigotto, nato a Venezia nel 1962, vive e lavora a M<strong>il</strong>ano.Terminati gli studi di storia moderna, nel 1990 si dedica alla fotografiadi paesaggio, d’architettura e per l’industria. Tra <strong>il</strong> 1995 e <strong>il</strong>2000 pubblica tre libri su Venezia e fotografa gli scenari italiani dimontagna della Grande Guerra.Dal 1996 lega la propria ricerca al tema del viaggio, realizzandoprogetti su Londra, Il Cairo, New York, Chicago, Tokyo, la stradadelle Casbah in Marocco, Angkor, <strong>il</strong> deserto di Atacama in C<strong>il</strong>e,Patagonia, Isola di Pasqua, India, Yemen, Iran, Lapponia.Ha esposto a: Mois de la Photo, Parigi; Canadian Centre for Architecture,Montreal; MAXXI, Roma; La Biennale di Venezia; Festivaldella Fotografia, Roma; MEP, Parigi; Galleria Gottardo, Lugano;IVAM, Valencia; <strong>The</strong> Art Museum, Miami; <strong>The</strong> Margulies Collectionat the Warehouse, Miami. Sue opere sono presenti in importanticollezioni pubbliche e private, in Italia e all’estero.Coltiva da sempre un interesse per la scrittura, e sta attualmentelavorando a un libro di poesie e immagini.


Le arti di Piranesi. Architetto, incisoreantiquario, vedutista, designerFondazione Giorgio Cini, fino al 9 gennaioche presenta oltre trecento stampe originali,è pensata per valorizzare la poliedricità, lo st<strong>il</strong>e e la straordinariamodernità dell’artista ve-L’esposizione,neziano, anche in virtù di alcuni interventicontemporanei ispirati al suolavoro. Tra questi, la realizzazione diun video in 3D delle Carceri d’Inven -z i o n e e di sette oggetti originali –due tripodi, un vaso, un candelabro,un altare, una caffettiera e uno straordinariocamino corredato da alari ebraciere – ideati da Piranesi e ricavatidalle sue stampe ma mai realizzatiprima, a cui si aggiungonotrentadue vedute di Roma di Gabriele Bas<strong>il</strong>ico, che costituisconoun personale omaggio del fotografo al grande maestro.Giambattista Piranesi (Ve n e z i a1720 – Roma 1778) è stato una figurachiave nella formazione di un<strong>gusto</strong> tipico del XVIII secolo, anticipando,con i suoi metodi di lavoro,<strong>il</strong> ruolo dell’architetto e del designercontemporanei. È proprio l’accentosulla modernità e la contemporaneitàdella figura di Piranesi a dareun taglio inedito alla mostra poiché[23-24] Vaso antico di marmotratto da Vasi, candelabri,cippi..., 1778 e, in basso, la suarealizzazione in marmo composito.[22] Ritratto di GiambattistaPiranesi.– come afferma <strong>il</strong> curatore MicheleDe Lucchi – è stato “preso l’artistacome uomo del nostro tempo e lettola sua opera interpretandola con latecnologia, scoprendo la ricchezzadel suo eclettismo e della sua eccentrica vena ispiratrice”.Le oltre trecento incisioni originali piranesiane, provenientidalla collezione conservata negli archivi della Fondazione Cini, sonostate selezionate tra quelle più rappresentative della complessitàe versat<strong>il</strong>ità della sua esperienza teorica,artistica, professionale. Ma lamostra si spinge oltre, per sfatare lacritica di irrealizzab<strong>il</strong>ità mossa ripetutamenteai progetti di Piranesi erendere ancora più evidente lastraordinaria modernità del suo pensiero.Come spiega De Lucchi, “lestampe legate alle serie progettuali edecorative sono state ut<strong>il</strong>izzate comeprogetti di design [...] e ne sonousciti modelli, prototipi, oggetti,fotografie di straordinaria intensità che dimostrano la grandezza diPiranesi artista e attivano un dibattito sull’importanza del facsimi -le d’arte e delle tecnologie moderne nell’analisi e nell’approfondimentocritico dell’opera d’arte antica”.Le arti di Piranesi vuole essere una mostra originale, pionieristica,provocatoria,com’è stato lo spiritodi Piranesi. Ruolofondamentale è giocatodall’allestimentoin cui è stato disegnatoun percorso difruizione flessib<strong>il</strong>e einterattivo che offreal visitatore l’opportunitàunica di en-[25-26] Tripode di bronzo in un disegno di Piranesi e,a destra, la sua realizzazione.trare in contatto conle visioni prodotteda Piranesi. Un video, realizzato appositamente per la mostra, documenta<strong>il</strong> “passaggio” dalle Invenzioni Capricciose di Carceri alleCarceri d’Invenzione in cui è possib<strong>il</strong>e osservare, attraverso un confrontoin dissolvenza, le differenze tra <strong>il</strong> primo stato delle Carcerinella serie all’Accademia Nazionale di San Luca e gli ultimi statidelle matrici conservate alla Fondazione Cini. Inoltre un’installazionetouch screen rende possib<strong>il</strong>e la consultazione di quasi trecentofogli dei due taccuini conservati alla Biblioteca Estense di Modena,<strong>il</strong>luminante esempio della grafica di Piranesi: attraverso i suoi appuntidi lavoro, gli schizzi di figura, le vedute con rovine, le raffigurazionidi oggetti antichi, è possib<strong>il</strong>e entrare nel processo creativodell’artista e coglierne appieno l’originalità. Di particolare interessesono i pensieri e gli schizzi relativi agli oggetti antichi che Piranesiaccumulava nella sua bottega in Palazzo Tomati.Unita dal f<strong>il</strong>o rosso delle molte professioni esercitate da Piranesinel corso della vita, Le arti di Piranesi non è una mostra intesa insenso tradizionale, ètante mostre insieme,ricca di elementiinediti volti adaprire nuove prospettivee riflessionisul lavoro dell’artista.Una proposta d<strong>il</strong>ettura dell’esposizioneè suggerita[27-28] Veduta del Campidoglio e della scalinata che dalla suddivisioneporta alla chiesa dell’Aracoeli nella versione di degli spazi; tre granditemi, corrispon-Piranesi e, in basso, in una foto di Gabriele Bas<strong>il</strong>ico.denti alle tre saleprincipali del centro espositivo: Piranesi architetto, Piranesi designere Piranesi vedutista. A quest’ultimo tema si lega l’interventodi Gabriele Bas<strong>il</strong>ico – fotografo e documentarista che ha messo alcentro del proprioitinerario professionalee artistico <strong>il</strong> temadella città – cheha ripercorso con lamacchina fotograficai luoghi delle vedutepiranesiane, verificandonecorrispondenze,analogie e“ d e v i a z i o n i ”.


Adolph Gottlieb. Una retrospettivaPeggy Guggenheim Collection, fino al 9 gennaio[29] Autoritratto allo specchio,1938 ca, New York, GottliebFoundation.Prima antologica in Italia dedicata all’espressionista astrattoamericano, Adolph Gottlieb. Una retrospettiva si colloca nell’ambitodi una linea d’indagine – perseguita in occasionedelle personali dedicate a W<strong>il</strong>liam Baziotes, Jackson Pollock e RichardPousette-Dart – incentrata su quell’emblematica generazioned’artisti d’oltreoceano del secondo dopoguerra <strong>il</strong> cui linguaggionasce e matura proprio negli anni in cui Peggy Guggenheim aprea New York la sua galleria Art of This Century.La storia di Adolph Gottlieb (1903-1974), carismatico artista eintellettuale, si allinea con quelle degli esponenti dell’EspressionismoAstratto. Sodale di BarnettNewman e Mark Rothko – con cuigià negli anni trenta condivide la ricercadi un innovativo linguaggiopittorico basato su una personaleespressione artistica – Gottlieb nel1935 è tra i soci fondatori di <strong>The</strong>Ten, gruppo di artisti consacrati allapittura espressionista. Nel 1941 decidonoinsieme di esplorare soggettimitologici e junghiani, dando originea una fase importante della nascenteScuola di New York che segnaper la prima volta l’indipendenzadei pittori americani dagli schemidell’avanguardia europea. Ancora[30] Il gruppo degli EspressionistiAstratti americani ritratti da NinaLeen nel 1950. Gottlieb è <strong>il</strong> secondo dasinistra nell’ultima f<strong>il</strong>a.con Rothko, Gottlieb è autore dell’ormai storica lettera, pubblicatasu <strong>The</strong> New York Times <strong>il</strong> 13 giugno del 1943, considerata la primaformale dichiarazione d’intenti dell’Espressionismo Astratto.Nella primavera del 1950 organizza un gruppo di artisti cheprotestano contro la politica del Metropolitan Museum of Art neiconfronti degli artisti contemporanei americani: <strong>il</strong> gruppo, definitogli “Irascib<strong>il</strong>i” in un articolodel <strong>The</strong> New York Herald Tribune,divenne noto al grande pubblicograzie a una celebre fotografia diNina Leen pubblicata su Life.Nell’immagine compaiono Baziotes,W<strong>il</strong>lem de Kooning, RobertMotherwell, Newman, Pollock,Pousette-Dart, ClyffordSt<strong>il</strong>l, e lo stesso Gottlieb. Nel1958-59, per la mostra itineranteorganizzata dal Museum ofModern Art di New York, cheincludeva Gottlieb e molti diquegli stessi artisti, fu scelto <strong>il</strong>titolo emblematico di La NuovaPittura Americana. Benché Gottliebsia etichettato come pittore espressionista astratto, sia statouno dei fondatori del gruppo e sia stato uno dei suoi maggiori rappresentantinegli anni quaranta e cinquanta, <strong>il</strong> termine è troppo ristrettoper contenere l’ampiezza della sua arte.La mostra intende, infatti, dimostrare la diversità della produzionedi Gottlieb, in continua evoluzione, in accordo con <strong>il</strong> suo stessoaforisma “Tempi diversi richiedono immagini diverse”. L’ e s p o s i-zione si articola in un percorso che inizia con dipinti, disegni e acquefortidegli anni trenta, che comprendono i ritratti di Rothko eM<strong>il</strong>ton Av e r y, altro grande amico dell’artista, e opere ispirate alsoggiorno in Arizona negli anni 1937-38. Prosegue poi con una selezionemolto ampia, per la prima volta riunita in Italia, della primaserie completa dei P i c t o g r a p h s, che l’artista comincia a elaborarenel 1941, anno dell’attacco di Pearl Harbor e dell’entrata in guerradegli Stati Uniti. Sono infatti i Pictographs a collocare Gottlieb, insiemea pochi altri come Rothko, Arsh<strong>il</strong>e Gorky e Pollock, tra i pionieridi una nuova avanguardia americana. L’artista pone lo spettatoredi fronte a griglie in cui l’immagine è sezionata per simboli,dall’occhio alla mano ai geroglifici, inventati come traduzione diun’arte primitiva e di matrice mitologica, elaborata dallo studio degliindiani d’America e delle culture visive primitive.Formalmente, rappresentano uno sv<strong>il</strong>uppo distintivo dell’EspressionismoAstratto, la composizione Allover, nella quale l’operanon si basa su un nucleo narrativo centrale ma sulla sua distribuzioneuniforme fino a comprendere i bordi della tela. Nei primi annicinquanta, esaurita la serie dei Pictographs, Gottlieb sv<strong>il</strong>uppacomposizioni note come i Labirinti ei Paesaggi immaginari e come Mare emarea. Nella prima opera la grigliache ordinava i simboli dei Picto -graphs diventa protagonista, dominando<strong>il</strong> dipinto o facendosi trasparenteper rivelare tocchi di pennellonascosti nella profondità della tela.Nella seconda, la composizione sidivide in due zone con corpi “celesti”nella parte superiore e un immaginariopaesaggio sottostante, dipintocon vigore. Questi lavori con-basso, Burst, 1973. New York,[31-32] Sentinella, 1951 e, inquistano critica e pubblico facendo Gottlieb Foundation.raggiungere all’artista, a partire dallametà degli anni cinquanta, successo e fama.Nel 1956 la parte inferiore dei Paesaggi immaginari si stacca dalbordo del dipinto per diventare una forma fluttuante indipendenteall’interno di composizioni verticali note come Burst, senza dubbiole opere più conosciute di Gottlieb. Negli anni sessanta, nonostantela Pop Art si ponga in antitesi all’Espressionismo Astratto, lapittura di Gottlieb è percepita dalla critica come una profetica e vitalefonte dell’arte Minimale.In mostra anche una selezione dipiccole sculture, ideali tridimensionalidell’immagine cosmica imperantenell’arte di Gottlieb: opere incartone colorato affiancate, secondola cronologia, alle tematiche pittoricheche le hanno ispirate. L’esposizionesi chiude con una serie di telein cui l’esplosione si contrae, si congelain forme e colori più freddi, deiprimi anni settanta, poco prima dellasua scomparsa, nel 1974.


Tesori del Montenegro.Gli ex voto delle Bocche di CattaroBiblioteca Nazionale Marciana, fino al 6 gennaioLa mostra si propone di far conoscere una parte peculiare deitesori artistici del Montenegro, in particolare gli ex voto d e l-l’età barocca provenienti dalle Bocche di Cattaro e risalentiall’epoca in cui questa provincia era parte della Repubblica Ve n e t a .Il nucleo più interessante delle opere proviene storicamente dalSantuario della Madonna dello Scarpello presso Perasto: centinaiadi gioielli che riflettono l’opulenza di questa provincia e le diversecomponenti storiche e artistiche che la videro crocevia di popoli eculture e terra di frontiera tra Venezia e l’Impero Turco.Alcuni gioielli sono di estrema rarità come le croci, le decorazionie le insegne degli ordini di San Marco, del Santo Sepolcro odi Sant’Alessandro Newsky di cui in mostra è presente un esemplaredel XVIII secolo, l’unico che si conservi fuori dalla Russia.Dietro ai gioielli molto spesso si nascondono storie avventurose comeper la celebre perla barocca a forma di pera donata dalla vedovaGr<strong>il</strong>lo nel 1748 alla Vergine dello Scarpello a seguito della liberazionepropria e della figlia dalla fortezza di Scutari.Molti sono i gioielli masch<strong>il</strong>i esposti – fatto inconsueto perraccolte conservate in santuari – realizzati a Venezia, Ragusa onelle Bocche di Cattaro, tra essi anelli in oro, smalti e diamanti <strong>il</strong>cui possesso e provenienza sono inequivocab<strong>il</strong>mente documentati,oltre che da fonti archivistiche, anche da ritratti. Le gioie femmin<strong>il</strong>isono rappresentate da superbe collane, in oro e smalti, anelli,pettorine ed elementi da corsetto in argento e diamanti nonché dauna trentina di orecchini settecenteschi di pregevole fattura e danumerosi pendenti per lo più in f<strong>il</strong>igrana.La sezione dei gioielli ottocenteschi documentala moda nell’età in cui le Bocche di Cattaro,come tutta la Dalmazia, appartenevanoall’Impero Austriaco. Il gioiello piùpregevole di questo nucleo è una rarissimadecorazione m<strong>il</strong>itare dell’Ordinedel Sole e del Leone di Persia concessanel 1817 al perastino Simone Mazzarovich,diplomatico a Teheran e poiministro dello zar Alessandro I.Fiore all’occhiello della rassegna sono le oltre centosessanta lamined’argento inciso o sbalzato, datate dal 1660 al 1792, raffigurantiepisodi marinareschi e offerte alla Ve rgine per grazie ottenuteo scampati pericoli. Alcune sono veri e propri capolavori dell’arteorafa veneziana, altre sono prodotte in botteghe locali o incise daimarinai stessi; tutte però sono estremamente interessanti non soloper la loro valenza storica, devozionale o artistica ma anche comedocumento nautico e cantieristico in quanto vi si riconoscono benventidue diversi tipi di imbarcazione: acazie, brazzere, caracche, caravelle,tartane, galeoni, corvette,fregadoni, marc<strong>il</strong>iane, galere.[33-34] Ex voto opera dell’argentiereveneziano Zuan Battista Da Ponte e,in alto, placca dell’Ordine del Sole e delLeone di Persia.L’avventura del vetro.Un m<strong>il</strong>lennio d’arte venezianaMuseo Correr, fino al 25 apr<strong>il</strong>eDopo quasi trent’anni <strong>il</strong> Museo Correr dedica gli spaziespositivi a un prestigioso capitolo dedicato al vetro cheriprende, in maniera più specifica, <strong>il</strong> capitolo venezianodell’omonima mostra appena conclusasi al Castello del Buonconsiglioa Trento. Da quell’esposizione la mostra veneziana mutua unaparte dei materiali, aggiungendone però molti altri inediti, davveroimportanti, per celebrare adeguatamente <strong>il</strong> m<strong>il</strong>lennio e più distoria del vetro a Venezia e in laguna e la ricorrenza dei centocinquant’annidella nascita del Museo avvenuta nel 1861 grazie all’abateVincenzo Zanetti.Organizzata cronologicamente in quattro sezioni – vetri archeologici,vetro dal XV al XVIII secolo, vetro del XIX secolo, vetrodel XX secolo – e con oltre trecento opere esposte, la granderassegna ripercorre le tappe della straordinaria “avventura del vetro”a Venezia: dall’arrivo in laguna, in età classica, di vetri provenientida aree lontane, fino al connubio tra vetro e design che rappresenta<strong>il</strong> presente e <strong>il</strong> futuro della produzione vetraria muranese.Quanto <strong>il</strong> vetro sia connaturato a Venezia lo conferma la sezioned’apertura della mostra che presenta un’inedita sequenza di vetriantichi – capolavori frag<strong>il</strong>issimi, spesso di fattura raffinatissima –recuperati dai fondali della laguna e tra la sabbia dei canali dellacittà. Disseminati per casi fortuiti, per la caduta in mare dei carichio semplicemente per l’eliminazione di manufatti non più integri.Fanno parte di questa sezione anche i vetri archeologici della collezioneManca, che faranno mostra di sé non tanto con la funzione di“archivio di memoria” quanto come oggetti d’ispirazione per quellache sarà destinata a diventare un’attività simbolo di Ve n e z i a .Furono proprio queste forme ainfluenzare <strong>il</strong> <strong>gusto</strong> dei maestri vetraiveneziani per buona parte dell’Etàdell’Oro del vetro a Venezia,dal Quattrocento a tutto <strong>il</strong> Seicento,quando i vetri veneziani erano contesie copiati. A quest’importanteperiodo la mostra riserva una seriericchissima di capolavori.Poi l’evoluzione settecentesca con i fortunati nonché genialitentativi di proporre <strong>il</strong> vetro per quello che non è ma che, se lavoratocon maestria e ingegno, può suggerire materiali diversi comela porcellana senza dimenticare l’ingresso nella lavorazione dellacalcedonia e dell’avventurina.L’Ottocento fu un secolo ambivalentedove si susseguiranno decadenzae rinascita. La prima “favorita” anchedalla perdita di un ruolo politicodella Serenissima, la seconda stimolatadai nuovi st<strong>il</strong>i che, solcando[35-36] Vaso in vetro blu con segmenti dicanne policrome, 1847 e, in alto, vaso supiede in f<strong>il</strong>igrana a retortoli, seconda metàdel XVI secolo. Murano, Museo del Vetro.


l’Europa, contaminarono anche Venezia, e da una riflessione sullapassata grandezza. Si giunse così a rivisitazioni declinate al nuovo eper supportare questo “rinascimento” nasce <strong>il</strong> Museo del Ve t r o .Infine <strong>il</strong> Novecento, con <strong>il</strong> design che contamina e contagia laproduzione vetraria, indirizzandola verso nuovi lidi dove <strong>il</strong> vetronon è più oggetto d’uso ma opera d’arte, da godere e ammirare perle sue forme e colori. Proprio su questo nuovo fronte la mostra sisofferma con l’attenzione che <strong>il</strong> nuovo merita. Per la prima volta,ad esempio, si cercherà di ricostruire <strong>il</strong> Novecento secondo anchedei capitoli insoliti e rari con opere provenienti dalla Fucina degliAngeli di Egidio Costantini e un’altra dalla collezione di Carlo eGiovanni Moretti. Questa importante sezione, che non vuole assolutamenteritenersi esaustiva, mira piuttosto a tracciare le lineeidentificative di un secolo. La mostra espone anche altri esempi dimanifattura sempre legata al mondo vetrario: quelli appartenentialle collezioni Sarpellon, Dinon, Fuga e Panini, spaziando da un rarissimoerbario vitreo, a una raccolta diborsette di perline di vetro.Sorpresa nelle sorprese – in concomitanzacon l’edizione 2011 del Carnevaledi Venezia, dedicato all’Ottocento– verrà ad aggiungersi un’ulterioreselezione di più di un centinaiodi opere provenienti dalla collezioneMaschietto, per la prima volta presentatain città. Si tratta di figurinedi vetro, con maschere veneziane edella Commedia dell’Arte, deliziosi[37] Piastrina m<strong>il</strong>lefiori, 1846.Murano, Museo del Vetro.nudini femmin<strong>il</strong>i, costumi e soggetti di fantasia che dal 26 febbraio,insieme a una selezione di disegni ottocenteschi sul Carnevaledalle collezioni del Correr, troveranno spazio in uno dei sontuosiambienti al primo piano del Museo Correr.L’incanto dell’oro bianco.Porcellane dal Museo MartonFondazione Querini Stampalia, fino al 27 marzoStatuine, tazze e piattini, servizi da tè, caffè e cioccolata risalential Settecento e agli inizi dell’Ottocento tramandano <strong>il</strong>profumo di un’epoca passata, ricostruiscono <strong>il</strong> <strong>gusto</strong> del mondoche li ha ideati e prodotti, facendo assaporare la magia di untempo ormai lontano.Oltre duecento pezzi, veri capolavori di uso quotidiano dallemaggiori manifatture europee di porcellane e appartenenti al MartonMuzej di Samobor in Croazia, sono esposti nelle sale del museoaccanto alla già ricca collezione permanente e a preziosi oggetti provenientida importanti collezioni private come quella del triestinoGiovanni Lokar o di Richard Cohen di New Yo r k .Fondato nel 2003 dall’imprenditore Veliko Marton, <strong>il</strong> MartonMuzej conserva oltre m<strong>il</strong>le opere tra dipinti, arredi, argenti, orologi,vetri di Boemia e una ricchissima collezione di porcellane delSette e Ottocento: da Sèvres a San Pietroburgo, da Meissen a Parigi,da Vezzi a Doccia, con una pred<strong>il</strong>ezione per la produzione diVienna.[38-39] Manifattura di Vienna,Gruppo bucolico, 1760 circa e,a destra, Vasi olandesi,manifattura di Sèvres, 1761.Dalla collezione di porcellana viennesesi possono ammirare oggettidella manifattura austriaca dell’epocadi Du Paquier e del periodo diMaria Teresa, in cui la vita alla cortedella prima imperatrice donna delSacro Romano Impero raggiunse <strong>il</strong>suo apogeo pervasa dallo spirito deltardo barocco, del rococò e dell’iniziodell’<strong>il</strong>luminismo. La dutt<strong>il</strong>ità e lasquisitezza della porcellana eranoperfette per esprimere la festosità caratteristicadello st<strong>il</strong>e rococò: ne sonotestimonianza le splendide statuinedestinate al decoro degli interni edelle tavole settecentesche: veri e propri capolavori in miniatura.Dal nucleo di porcellane Vincennes-Sèvres sono esposti manufattiche coprono la produzione dagli esordi della manifattura diVincennes fino alla fine del XVIII secolo. Straordinario esempio èla Coppia di vasi olandesi del 1761, tra i pochi vasi dall’ingegnosodisegno concepiti per contenerefiori o piante. Straordinario è <strong>il</strong>loro colore di fondo, <strong>il</strong> raro petitvert, che si trova solo per pochianni intorno al 1760 e diversodal più famoso bleu céleste. Altratestimonianza della fabbrica realeè <strong>il</strong> Piatto del servizio donato da Luigi XVI all’arciduca Ferdinando,governatore della Lombardia, e alla moglie Maria Beatriced’Este, in occasione della loro visita a Parigi nel 1786.Particolare attenzione è poi posta sulla porcellana della ManifatturaImperiale di San Pietroburgo, oggi ancora poco conosciuta,ma di grande interesse per la sua rarità; una trentina di pezzi russiarricchiscono la mostra e tra questi un magnifico Rinfrescatoio perb i c c h i e r i, datato 1799-1802, che apparteneva al “servizio Württe m b e rg” realizzato per la gran duchessa Caterina Pavlovna e nellecui cartelle ovali sono raffigurati la fontana Bandusia di Tivoli e <strong>il</strong>ponte Salaro.Un nutrito gruppo di porcellane rappresenta la produzione dellaregina delle manifatture europee: Meissen. Per la prima volta siespongono fuori dalla sede originaria alcune porcellane settecenteschedella manifattura Ginori di Doccia: figurine, putti e vasellameda tavola. Una delle creazionipiù originali della fabbricatoscana è <strong>il</strong> decoro detto “abassor<strong>il</strong>ievo istoriato” i cuitemi decorativi sono in genereispirati alle Metamorfosi d iOvidio e ripresi da alcuneplacchette cinquecentescheappartenenti alla collezioneestense di Vienna o da medagliedel Soldani Benzi.[40] Tazza e piattino della manifatturaGinori di Doccia, 1760 circa.La mostra è un invito a entrare in un mondo di oggetti di raffinataqualità, creazioni uniche, in cui l’armonia e la ricercatezza diforme e decori, oltre all’inesaurib<strong>il</strong>e capacità creativa, danno originea prodotti di straordinaria eleganza e perfezione.


ARTI DECORATIVEA VENEZIAspeciale a cura di CINZIA BOSCOLO


provata onestà poteva iscriversi all’Arte dopo aver superato un accertamentoattitudinale. Il garzone, che ufficialmente doveva averedodici anni ma in realtà era più giovane, doveva seguire un apprendistatoche durava, aseconda del mestiere,da cinque a sette anni;successivamentediventava, per almenoaltri due o tre anni,lavorante. Sostenendoun nuovo e[47-48] Scuola veneta, La bottega del tagliapietra,XVIII secolo, Venezia, collezione Cassa di Risparmio.A sinistra, dettaglio del garzone.più impegnativo esame di ab<strong>il</strong>ità pratica – laprova d’arte – poteva conseguire <strong>il</strong> titolo dimaestro, con diritto di aprire bottega in proprioe tenere a sua volta garzoni e lavoranti.Il governo vig<strong>il</strong>ava affinché <strong>il</strong> rapporto tramaestri e operai fosse corretto, senza sfruttamentio ingiuste rivendicazioni. Si legiferava anche per evitare o limitareinquinamenti e per tutelare la salute di lavoratori e cittadini.Gli associati erano inoltre garantiti in ogni momento della lorovita, durante le malattie e in caso di morte; si pensava anche a vedovee orfani e, per salvaguardare l’impresa, si concedeva talora lalicenza anche alle donne.Alle maestranze specializzate era rigorosamentevietato emigrare perevitare la fuoriuscita dei segreti delmestiere e la conseguente compromissionedel mercato. Venivano inveceben accolti gli artigiani stranieriche dimostrassero capacità e periziaparticolari o che fossero detentoridi nuove conoscenze o inventori diprocedimenti inusuali. Il loro inserimentonella Repubblica era fac<strong>il</strong>itato[49] Specchiaro da GiovanniGrembroch, Gli abiti dei da concessioni di permessi, di spaziv e n e z i a n i. Venezia, Museo Correr. edificab<strong>il</strong>i e, talora, anche da agevolazionifiscali o da esenzioni da dazi.Ai confratelli di un’Arte spetta anche l’arredo artistico dell’altareo della cappella di loro concessione presso le varie chiese cittadineche vengono arricchiti con opere pittoriche, spesso commissionatea grandi artisti come Tintoretto o Palma <strong>il</strong> Giovane, e scultoree,o con la periodica esposizione di paliotti rivestiti di stoffe auroseriche,preziosi ricami, realizzazioni di oreficeria o di cuoi dorati.Le <strong>Arti</strong> contribuiscono inoltre a variare significativamente lastruttura urbanistica della città. Da un lato era necessario tutelare<strong>il</strong> normale svolgersi della vita cittadina preservando l’incolumitàdegli abitanti mentre, dall’altro, si doveva rispondere a specificheesigenze produttive quali la necessità di usufruire di ampi spazi odi abbondanza di acqua corrente. Esempi significativi sono lo spostamentoa Murano delle fabbriche di vetro per evitare <strong>il</strong> pericolodi incendi in una città all’epoca prevalentemente lignea e la dislocazionealla Giudecca delle concerie non solo per le sostanze inquinantiversate nei canali ma anche per le mefitiche esalazioni dellepelli scarnate e degli acidi ut<strong>il</strong>izzati.Anche nella toponomastica appare evidente la fierezza degli artigianiche danno <strong>il</strong> nome del proprio mestiere ai luoghi in cui hannolaboratori o botteghe: si va dal campo della Lana alla calle delloStampador, del Marangon, dei Fabbri; dalla corte Veriera al rio deiTintori; dalla salizzada degli Specchieri al sottoportego del Cuoridoro;dalla ruga degli Oresi al campiello del Remer.Dal punto di vista economico,Venezia ha sempre puntato suuna produzione sfarzosa basata su materie prime di alta qualità e suproduzioni esclusive, di cui diviene presto la prima grande fruitrice.Inizialmente tale produzione è finalizzata soprattutto alla venditaall’esterno della città, visto che presso la corte ducale predominauna certa semplicità; dal Trecento però comincia a crescere ladomanda interna di beni di lusso, documentata dall’emissione delleprime leggi suntuarie. La nomina di una specifica magistraturaaddetta “alle Pompe” si renderà però necessaria soltanto nel XVIsecolo, anche se è certo che spese eccessive per l’abbigliamento el’arredamento erano consuetudini precedenti. Nel 1466 un viaggiatoreboemo, Leo di Rozmital, descrive una camera da letto venezianastimata 24000 ducati (cifra corrispondente a 84 ch<strong>il</strong>ogrammid’oro), con pavimento d’alabastro, soffitto d’oro, lenzuolatessute d’argento e guanciali ornati di perle e gemme. L’enormitàdi tale cifra ci spiega come mai un decreto del 1476 imponga <strong>il</strong> divietodi spendere per l’abbellimento di una stanza più di 150 ducatid’oro. Il decreto non è comunque rispettato visto che nel 1492Jacopo di Porcia, nella sua operetta intitolata De Reipublicae Venetaeadministratione, affermerà che con le suppellett<strong>il</strong>i di casa di un venezianoqualunque, si può arredare una dimora regale.L’iconografia pittorica comprova la policromia delle lastre dimarmo e delle pietre semipreziose che rivestivano le pareti esternedei palazzi, talora ricoperti di fogliad’oro, e lo splendore dellechiese, rut<strong>il</strong>anti di luminosi mosaicivitrei. I riflessi cangianti,moltiplicati per effetto del riverberodell’acqua dei canali, suisoffitti degli interni, dell’ampiosalone centrale detto p o r t e g o,n e l-l’inf<strong>il</strong>ata delle stanze contigue –impreziosite di affreschi, distucchi trinati, di cassettoni[5 0 - 5 1] Il salone di Ca’ Zenobio e, asinistra <strong>il</strong> camino di Palazzo CornerSpinelli.smaltati e dorati, sbalzati e intarsiati– ne rendevano magica eirreale l’atmosfera. In tali ambienti,dai pavimenti leggiadried elastici, ovattati dai rivestimentidi tappezzerie e tendaggidi velluto, broccatello o damascodai raffinati decori al confrontodei quali persino gli arazzi sembranotroppo semplici, riscaldatida grandi camini di marmo scolpito,la luce, ottenuta con enorm<strong>il</strong>ampadari colorati di fiori,viene raddoppiata dalle molteplicispecchiere appese alle paretie intervallate da dipinti im-


[54-55] Andrienne, 1775 ca,Venezia, Palazzo Mocenigo. Inbasso, gondola del conte diColloredo.portanti, posti entro cornici plasticamente modellate e dorate.Per accrescere l’impatto sontuoso degli interni, si producono inmisura sempre maggiore mob<strong>il</strong>i di ogni tipo e dimensione, comemoretti, mensole, tavolinetti da muro, angoliere, credenzine, atti acontenere e a esporre una nuova e superflua oggettisticad’arredo dai fini puramente decorativi. Anche lamoda, sempre più ricca e fastosa, contribuisce adare forma agli elementi d’arredo: le vesti – resecostosissime all’inizio dall’impiego di grandi quantitàdi stoffe tinte con sostanze rare e, più tardi, dalletessiture dei complicati vellutialto-bassi, soprarizzi ebroccati –, impreziosite di ricamiin metallo nob<strong>il</strong>e, lustrini,canutiglie, borchie doratee merletti e poggianti susottostrutture che deformano lelinee anatomiche, richiedonosedie, divani e poltrone di determinateforme e dimensioni. I “panieri” e i [52-53] Mob<strong>il</strong>e diguardinfanti settecenteschi, rendendo rigonfi Ca’ Rezzonico e, ae voluminosi i fianchi, provocano infatti l’eliminazionedei braccioli. Anche <strong>il</strong> bisogno di rappresentazione delsinistra, un moretto.proprio potere personale è, soprattuttoin epoca barocca, determinantenella realizzazione di oggetti ricercatie lussuosi. Tra gli esempi piùvistosi sono da ricordare le imbarcazionidi rappresentanza, come <strong>il</strong> Bucintoroo le gondole “di casata”, sucui si riusciva a profondere in modospettacolare la ricchezza: non solooro ovunque, su legni e metalli, laccaturee pennacchi, ma anche rivestimentie lunghi strascichi serici.Se la tendenza allo sfarzo, allo “sciupiovistoso”, delle classi agiate venezianeviene tenuta sotto controllodalle leggi suntuarie del Magistratoalle Pompe, non è possib<strong>il</strong>e limitare l’aspirazione al bello e al sontuosoche persisterà in generale nelle produzioni artigianali veneziane,universalmente riconosciute come le migliori. Non è un casoche si parli di pannine “alla veneziana” (che nel Cinquecento surclassanoquelle “alla fiorentina”), di “rosso veneziano” per le tinture,di “punto Venezia” per merletti e ricami, di façon de Venise pervetri, r<strong>il</strong>egature e lacche, di opus veneticum per l’oreficeria, e persinodi petite Venise per i tovagliati.* parzialmente tratto da Doretta Davanzo Poli, Le arti decorative a Venezia,Bergamo, Edizioni Bolis, 1999.I camini di Venezia*GEROLAMO FAZZINI eANDREA PENSONel singolare spazio urbano veneziano e nella sua scenografiamonumentale vi sono elementi che spesso sfuggonoalla sguardo: i camini sono tra questi. Generalmenteappaiono come dei fatti accidentali e anomali nel ritmo architettonicomentre, al contrario, sono strutture funzionali rispetto a preciseesigenze. Svariatissimi nelle forme, caratterizzati nelle tipologie,innumerevoli nella quantità,rappresentano, nella multisecolarevicenda ed<strong>il</strong>izia veneziana,elementi indispensab<strong>il</strong>i esoluzioni originali a concreti bisogniper la salubrità della casaveneziana.Benché Boerio nel suo Diziona[56] Tre diverse tipologie di caminosullo stesso tetto.rio italiano veneziano definisca <strong>il</strong>termine camin come “luogo dellacasa o sia apertura o sia vanoper cui passa <strong>il</strong> fummo” e neelenchi le sue parti – fogher (focolare), napa (cappa), cana (gola), castelo (rocca o torretta) – a Venezia per camin si intende generalmentela struttura muraria al di sopra della linea di gronda.Nei secoli l’espulsione del fumo in tutte le abitazioni è semprestato <strong>il</strong> tormento dei mesi invernali: morire affumicato o dal freddo.In genere <strong>il</strong> problema veniva risolto con un foro nel tetto da cuiusciva però anche una notevole quantità di calore. A Venezia – cittàcostruita su 116 isole circondate da 176 rii – oltre a questo vi eranoanche altri due problemi: lasalsedine e l’umidità, specialmentenei periodi di nebbia. Laparticolare conformazione urbanisticadella città, che presentavaabitazioni vicinissime le unealle altre e di differenti altezze,esigeva quindi l’ideazione di unmanufatto che contemporaneamenteestraesse <strong>il</strong> fumo dall’abitazione,che abbattesse le scint<strong>il</strong>lea volte causa di furiosissimiincendi – le primitive abitazioniveneziane infatti avevano <strong>il</strong> tettoin paglia – e, particolare non secondario,che favorisse la circolazionedell’aria all’interno dell’abitazione.[57] Venezia altomedioevale in unaricostruzione dal codice Diplovataccio,Venezia, Biblioteca Marciana.Il camino veneziano funziona in modo molto elementare: <strong>il</strong> fumoprodotto dalla combustione è raccolto dalla cappa e convogliatonella canna fumaria fino ad arrivare al c a m i n poiché <strong>il</strong> fumo caldo,per legge fisica, tende a portarsi in alto. La parte superiore della cannaè tappata da una tettoietta per impedire alla pioggia di entrarenell’abitazione, <strong>il</strong> fumo è quindi costretto a uscire da fori laterali, ainf<strong>il</strong>arsi fra l’esterno della canna fumaria e uno schermo che ne circondala parte terminale e a uscire superiormente. È proprio la formadi questo schermo che determina le varie tipologie di camino.


[58-59] Camini a campana decorati nelMiracolo al ponte di Rialto diVittore Carpaccio, Venezia, Galleriedell’Accademia. A destra, camino diCa’ Vendramin Calergi a tre cannefumarie.Nel camino a C A M PA N A lo schermoche circonda la parte dellacana da camin si presenta a formatronco-conica con la sua basemaggiore rivolta verso l’altomentre la base minore poggia suuna serie di mensoline variamentesagomate che creano unaserie di varchi con la funzione dieiettori, per accelerare l’espulsionedel fumo e spegnere lescint<strong>il</strong>le. È la forma più classica[60-61] Camino concampana modellatae, destra, a campanaschiacciata.di c a m i n veneziano, molte volte rappresentatanei dipinti di grandi pittori di scuola veneziana,ed è certamente la più funzionale. Per testimoniarequanta cura i veneziani riservassero a questoparticolare le “campane”erano a volte decorate e affrescate,anche da rinomatiartisti quali Giorgione e Tiziano.Variazioni della formaa campana erano realizzate con l’accostamentodi tre canne fumarie con un unico schermo, comea Palazzo Vendramin Calergi, o con campanea volte modellate a coste come alle Zitelle.Alla modificazione dei gusti e a una maggior fac<strong>il</strong>itàcostruttiva si deve la realizzazione di caminia CAMPANA SCHIACCIATA in cui lo schermoe <strong>il</strong> vaso d’espansione che ricoprela parte terminale assumela forma tronco-piramidale; talvolta lasommità dello schermo assume una forma arcuata.Un’ulteriore evoluzione della forma acampana è <strong>il</strong> camino a forma di DADO, ancora dipiù semplice costruzione, in cui <strong>il</strong> vaso d’espansioneassume forma cubica o a parallelepipedocome si vede in una caratteristica visione diquesta tipologia di camini sulle case della Ca’ di Dio a Castello incui se ne contano ben nove.Fac<strong>il</strong>mente identificab<strong>il</strong>i sono i camini a FORCHETTA o a TRI-DENTE, largamente usati nella campagna veneta e importati in cittàda muratori provenienti dall’entroterra.Datare i camini non è fac<strong>il</strong>e; nemmeno l’analisidei materiali può aiutare poiché, contrariamentea quanto avviene oggi, nel passato tutto <strong>il</strong>materiale – particolarmente quello ed<strong>il</strong>izio –veniva recuperato e riusato. Forse l’unico caminche si può storicamente datare è quello dell’anticaZecca, oggi sede dellaBiblioteca Marciana, perchéprobab<strong>il</strong>mente progettato e costruito da JacopoSansovino con Vincenzo Scamozzi. Un limitetemporale è comunque dato dall’urbanizzazione[62-63] Il camino di Sansovino e Scamozzi sul tettodell’antica Zecca in Piazza San Marco e, in alto, unesemplare di camino a forchetta.a Venezia, che non avviene prima del IX secolo, e dal fatto che lecostruzioni in pietra sono una rarità fino al XI secolo.Preziose testimonianze dell’esistenza dei camini a Venezia sonole fonti storiche e le rappresentazioni pittoriche. Il documento piùantico data 1069 e riferisce che <strong>il</strong> Patriarca di Grado destinò unamodesta abitazione al Parroco di San S<strong>il</strong>vestro “cum tota sua cellaet domo, et caminatis cum suo solario et aliis caminatis” ma anchecronisti come Scivos e De Monacis annotano nel 1284 che, a causadel terremoto, si erano rovesciati quasi tutti i camini e così pureGiovanni V<strong>il</strong>lani scriveva nel 1384 “rovinarono infiniti fumajoli –ovvero camini – che ve ne avea assai e belli”.Tommaso Temenza, architetto e ingegnere della Serenissima,nella sua Antica pianta dell’inclita città di Venezia... annota: “non èper tanto irragionevole <strong>il</strong> credere [...] dopo gli accennati vastissimiincendi [... che] i veneziani siano stati gli inventori. Le disgraziefanno che gli uomini aguzzino l’ingegno [...] se non ritrovarsi notiziadi siffatti camini, anteriore alle nostre veneziane memorie, mipare più che una sufficiente prova”. Che <strong>il</strong> camin sia una costantedella struttura ed<strong>il</strong>izia veneziana appare inequivocab<strong>il</strong>e dal confrontodella pianta di Venezia di Jacopo de’ Barbari del 1500 conuna stampa di Pirro Ligorio raffigurante Roma nel 1552: innumerevolii camini visib<strong>il</strong>i a Venezia, completamente assenti a Roma.Infine, non si possono dimenticare quelle um<strong>il</strong>i e anonime figureche i camini hanno costruito e conservato: i mureri (muratori)e gli scoacamin (spazzacamini).Già nota nel XIII secolo, la Scuola dei mureri era una delle piùantiche; posta sotto la protezione diSan Tommaso Apostolo e San MagnoVescovo aveva l’altare nellachiesa di San Samuele e sede all’anagrafico3216 nella salizada omonima.Ancora oggi si può notare sullafacciata dell’edificio un bassor<strong>il</strong>ievocon i simboli dell’arte: martello,cazzuola e archipendolo e, sull’architravedi una porta, la scritta Scola deiM..., maldestramente cancellata dauna staffa in ferro. Come tutte leScuole, aveva la propria mariegola [64-65] La ex Scuola dei mureri e,che raccoglieva lo statuto, le leggi e in basso, uno spazzacaminoi doveri degli associati e la prova all’opera in un dipinto diCanaletto conservato a Madrid.d’arte, cioè l’esame finale per diventaremaestro murer, dopo anni di apprendistato,era proprio la costruzione di un camino.Gli scoacamin, fondamentali per la conservazione e <strong>il</strong> buon funzionamentodei camini, erano personaggi caratteristici, generalmentepiccoli e neri di fuliggine,che portavano a spalla i loro arnesida lavoro: una scaletta, una corda,un fascio di pungitopo e un peso.Nel 1661 a Venezia se ne contavanoottanta; provenienti dalla Val Brembana,dalla Savoia, dalla Valcamonica,abitavano in calle dei Scoacaminivicina a San Marco.* tratto da http://www.archeove.com/pubblic/camini/camini.htm


I pavimenti veneziani.I tappeti della SerenissimaTUDY SAMMARTINIFin da ragazzina la casa veneziana mi appare come una barcarovesciata dove <strong>il</strong> tetto trattiene o collega la struttura dell’edificioin un unico gioco di delicati equ<strong>il</strong>ibri. Mi è impossib<strong>il</strong>ecapire perché a Venezia non sia proibito usare quella materiasgradevole e purtroppo indistruttib<strong>il</strong>e, come la definisce G<strong>il</strong>lo Dorfles,denominata “cemento armato”. Inserire una struttura rigida inun equ<strong>il</strong>ibrio così armonico e affascinante provoca solo disastri, aggiungendoinoltre carichi eccessivi in posizioni sbagliate. Benedettii tiranti in ferro di antica memoria!Completano e sono parte integrante di questo sapiente gioco,tramandati da secoli, i sinuosi terrazzi in calce, stucco e marmisbriciolati che, elastici, si adattano all’ondeggiare delle travi e, riflettendola luce, creano un’atmosfera fluttuante.Il primo a parlare dei terrazzi è Francesco Sansovino, figlio diJacopo, nel 1581, elogiandone lemaestranze: “S’usano per le camereet per le sale comunemente, i suoli opavimenti, non di mattoni, ma diuna certa materia che si chiama terrazzo;la qual dura per lungo tempo,et è vaghissima all’occhio et polita...Et i maestri proprij et particolari diquest’arte, son per ordinario Forlani...”.Quella dei terrazzieri era considerataun’arte, perciò veniva gelosamentetramandata di padre in figlio,al punto che i discendenti ancoraoggi ne custodiscono i segreti.Il terrazzo – o pavimento alla veneziana– è <strong>il</strong> classico pavimento perinterni così descritto nella traduzionedi Vitruvio, pubblicata a Venezia[66] Terrazziere da GiovanniGrevembroch, Gli abiti deiveneziani. Venezia, MuseoCorrer.[67] Pavimento della sede dell’exBanca Commerciale.alla metà del Cinquecento, da Daniele Barbaro: “Sopra la travaturache sostiene <strong>il</strong> solaio si posano assi trasversali di una stessa qualitàdi legname per ottenere una rigidità costante nel tempo e di giustospessore, attenti che non cedano in mezz’aria facendo crepare <strong>il</strong>pavimento. Su questo piano si adagiano paglia e fieno affinché lacalce non guasti <strong>il</strong> legno. Il sottofondo è formato da una parte dicalce e due di mattoni o tegole pestati di fresco. Questo impastodeve essere spesso quanto una mano e battuto. Su questo letto vienesteso un secondo strato più sott<strong>il</strong>e, detto stab<strong>il</strong>itura, formato dategole finemente tritate e calcina in rapporto due a uno su cui sisparge la semina (le scagliette di marmo). Ma per le politure e spianamentisi piglia un pezzo di piombo, o di s<strong>il</strong>ice, di molto peso,spianato, e quello con funi tirato su e giù, di qua e di là, sopra <strong>il</strong>pavimento e spargendovi sempre della arena aspera e dell’acqua sispiana <strong>il</strong> tutto... e se <strong>il</strong> pavimento è con oglio di lino fregato rendeun lustro come fosse di vetro”.Poi nel Settecento i terrazzi si arricchiscono di decorazioni, speculariagli stucchi che ricoprono pareti e soffitti incorniciando gliaffreschi che d<strong>il</strong>atano lo spazio, probab<strong>il</strong>mente su disegno deglistessi artisti. Quest’abitudine prosegue nell’Ottocento. Persi i contenuti,la forma viene esaltata daun’accurata precisione tecnica comenegli impeccab<strong>il</strong>i pavimenti dellasede dell’ex Banca Commerciale Italiana,in calle Larga XXII Marzo, dovela precisione del disegno è ottenutausando le s a g o m e, cioè con l’uso ditirare degli spaghi da un punto all’altroe di adoperare forme in legnoo di metallo per ottenere un disegnopreciso e perfettamente simmetrico.In quest’ottica s’inserisce <strong>il</strong> magicotappeto creato alla Ca’ d’Oro dal barone Franchetti con le sue stessemani, come ci riferisce D’Annunzio, usando marmi antichi e ispirandosialla Chiesa di San Marco e di San Donato a Murano.[68-69] A sinistra le geometrie marciane ispiratrici dei disegni del pavimento dellaCa’ d’Oro, a destra, realizzato dal barone Franchetti in persona.Avvicinandoci ai giorni nostri, la separazione fra passato e presentediventa sempre più netta. Comunquei grandi maestri, deposto <strong>il</strong>linguaggio antico, ne sanno creareuno nuovo, anche usando gli strumentidi sempre. Su tutti emergeCarlo Scarpa, come possiamo ammirarein Piazza San Marco nel negozioex Olivetti e alla Fondazione ScientificaQuerini Stampalia.Riflessi di acqua, riflessi di luce,ecco le m<strong>il</strong>le pietruzze colorate dei[70] Il pavimento di Carlo Scarpadel negozio ex Olivetti.pavimenti veneziani. Nelle prime chiese troviamo i preziosi cromatismiorientali, frammenti luminosi che simboleggiano biblicamentela c a r i t a s divina della Gerusalemme Celeste. I maestri mosaicistidecorano questi luoghi sacri con tappeti musivi, trasformando porfidi,terrecotte e pietre dure in preziose coloratissime tessere, a creareelaborate figure geometriche, elementi vegetali e mitiche figure.Si fondono così reminiscenze del mondo romano, pagano, cristiano,bizantino e arabo. Riconoscib<strong>il</strong>e su tutte è l’influenza orientale, seguitaalla diaspora dei monaci e dei mosaicisti per le persecuzioniiconoclaste proclamate nel 726 dall’imperatore Leone III. Possiamoinfatti considerare <strong>il</strong> Mediterraneo come un grande lago in cui l’acquafunge più da ponte che da elemento separatore, dove Ve n e z i aappare come l’estremo lembo occidentale in cui è palpab<strong>il</strong>e la sovrapposizionee <strong>il</strong> legame tra le due sponde dell’Adriatico.Poche città hanno <strong>il</strong> priv<strong>il</strong>egio come Venezia di conservare uncorpus così ricco di pavimenti medioevali ancora in loco, sempre usati,giunti fino a noi nel rispetto dell’impianto originale, anche secontinuamente rinnovati secondo le tecniche e i gusti delle varieepoche. Solo la ricchezza delle opere d’arte della città ha fatto passarein secondo piano questi gioielli dimenticati. Alcuni risalgono


alle origini stesse di Venezia come <strong>il</strong> pavimento di Sant’Ilario equello inferiore di Torcello, che ricordano gli schemi dei pavimentidel mondo tardo romano di Antiochia, del Libano, di Grado e diRavenna a partire dal V secolo.A San Donato di Murano troviamo impresso nella navata centrale“Settembre 1141”, che ci permette di datare anche i pavimentidi San Marco e di SantaMaria Assunta a Torcello, <strong>il</strong> quale,per disegno e fattura, può essereconsiderato l’ultimo di questoperiodo, realizzato nella secondametà del XII secolo. Difattiriprende gli elementi a cerchiconcentrici inseriti in grandiquadrati di San Donato e SanMarco, a loro volta ispirati al pavimentodella Bas<strong>il</strong>ica di Santa [71] IN NOMINE DOMINI NOSTRI JESUSofia di Costantinopoli. Il pavimentodi San Donato poi è cosìè la scrittaCHRISTI ANNO DOMINI MCXLI MENSESEPTEMBRI INDICTIONE Vpavimentale a San Donato a Murano.splendido che Ruskin vi legge lepremesse del colorismo venezianoche sboccerà nelle pennellate di Tiziano.Solo nella seconda metà dell’Ottocento iniziano i primi studiscientifici dei pavimenti medioevali veneziani: nel 1873 Viollet-le-Duc ammira i restauri del pavimento della Chiesa di San Marco etra <strong>il</strong> 1888 e <strong>il</strong> 1892 Ongania pubblica La Bas<strong>il</strong>ica di San Marco inVenezia <strong>il</strong>lustrata nella storia e nell’arte da scrittori veneziani ad operadi Arrigo Boito. Anche se conosciamo poco o nulla delle maestranzesi può presumere che, lavorando in équipe, si spostassero da uncantiere all’altro. Di conseguenza osserviamo in alcuni pavimentiun disegno unitario e in altri discrepanze dovute all’esecuzione intempi successivi e a restauri poco ortodossi.Questi scint<strong>il</strong>lanti tappeti sono eseguiti con due tecniche abbinate.In opus sect<strong>il</strong>e (locuzione latinada sectus, participio passato di seco,taglio) è <strong>il</strong> pavimento o <strong>il</strong> rivestimentoparietale a lastre marmoreeanche di diversi colori, tagliate informe geometriche, quasi sempre arettangoli o anche per comporre figurein forme non geometriche; tal<strong>il</strong>astre erano chiamate dai romanicrustae. In opus tessellatum (locuzionelatina da tessella, tassello) è invece <strong>il</strong>pavimento a mosaico eseguito contasselli cubici di marmi coloraticomposti da preziose tessere a disegnigeometrici e figure allegorichedai significati arcani, misto di simbolipagani e cristiani a ricordare lenostre radici romane e bizantine.[72-73] Esempio di opus sect<strong>il</strong>e e,in basso, di opus tessellatum.Questi pavimenti, ispirati anche a disegni di tessuti, a guardarlicon attenzione, appaiono un concentrato di influenze orientali,occidentali e storiche e testimoniano l’evolversi del <strong>gusto</strong> in questacittà sospesa tra acqua e cielo. Un caso emblematico è la Bas<strong>il</strong>ica diSan Marco dove <strong>il</strong> monaco architetto, nel tracciare lo schema dellapavimentazione, credeva di apprestarsi a mettere in contatto cieloe terra ut<strong>il</strong>izzando forme, non solo bagaglio di un repertorio dellatradizione, ma evocando e rendendo parlanti figure proprie dellamistica cristiana. Nella pianta le quattro braccia della croce grecas’intersecano nel quadrato su cui gravita la cupola dell’Ascensione.È <strong>il</strong> fulcro dell’edificio dove la corrispondenza tra sommità e baserappresenta l’incontro tra cielo e terra. Per la mistica, <strong>il</strong> cerchio è losv<strong>il</strong>uppo del centro, <strong>il</strong> suo aspetto dinamico; <strong>il</strong> quadrato <strong>il</strong> suoaspetto statico. Il cerchio simboleggia <strong>il</strong> cielo, <strong>il</strong> quadrato la terra,dunque <strong>il</strong> paradiso terrestre. L’aspetto più sorprendente è l’armoniacon cui sono state pensate tutte le parti dell’edificio, la perfetta corrispondenzatra i mosaici delle volte e le geometrie pavimentali. Ilpavimento riproduce in simboli quello che <strong>il</strong> soffitto racconta configure e si dispone come una vera e propria cosmogonia rovesciatain cui <strong>il</strong> cielo si rispecchia. Proprio per questo <strong>il</strong> pavimento di SanMarco diventa simbolo della città – e come lei in continua evoluzione– ed è punto di riferimento per tutti gli altri.Nei documenti si parla poco dei pavimenti veneziani. Un casoeccezionale è costituito da Francesco Sansovino che, nel 1580, descriveSanta Maria dei Miracoli in questi termini: <strong>il</strong> suo rivestimentopolicromo appare ricchissimo “di finissimi marmi e di dentro<strong>il</strong> sim<strong>il</strong>e, per terra, per tutto”. Non appena la Rinascenza si famatura, le ricerche sui rapporti architettonici fanno sì che, quandolavorano artisti particolarmente sensib<strong>il</strong>i, gli edifici vengano costruiticon una precisa corrispondenza fra le parti. Per i pavimentiesterni alla funzione pratica di identificare uno spazio e di delimitarecon <strong>il</strong> disegno le differenti proprietà o la sacralità del sagrato,si aggiunge quella di proiettare a terra la facciata dell’edificio. Talesistema è ben leggib<strong>il</strong>e ancora oggi nella chiesa del Redentore diAndrea Palladio, dove i tre elementi costituiti dal pavimento esterno,dalla facciata edal pavimento internocombaciano, manon solo: <strong>il</strong> gioco coloristicodel presbiteriodisegna inpianta la strutturadelle absidi e della[74] La suggestiva proiezione a pavimento dellacupola e delle absidi della chiesa del Redentore.cupola e, anche attraverso<strong>il</strong> dislivellodi tre gradini, separaquesto luogo priv<strong>il</strong>egiatodalla navata ricoperta dagli usuali scacchi bianchi e rossi.Le pavimentazioni, proiezioni delle strutture architettoniche disegnatedagli stessi architetti, come alla Salute, di cui si conservanogli schizzi preparatori di mano del Longhena, sono <strong>il</strong> caleidoscopiodei marmi delle chiese rinascimentali e barocche in commesso (dal latinoc o m m i s s u s, participio passato di c o m m i t t e r e, congiungere) dove <strong>il</strong>piano è formato tutto di pietre che combaciano, diverse di colore,di forma e di dimensione. È Vasari che dà <strong>il</strong> nome di c o m m e s s o al pavimentomarmoreo a figure, come quello del Duomo di Siena.Guardando con attenzione questi pavimenti – che per me sonodei giardini di pietra – vi si possono leggere sia la storia dell’artesia dell’architettura dalle origini a oggi. Sono preziosi e hanno bisognodi continua manutenzione. Mi piange <strong>il</strong> cuore quando vedoi gioielli di San Marco calpestati da orde di barbari che dovrebberoprima di entrare indossare le pantofole, come fanno quando entranoin casa propria!


Intaglio ligneo e dorature.Una tradizione venezianaGIOVANNI CANIATO[75] Il coro ligneo della Bas<strong>il</strong>icadei Frari.Fra tardo Medioevo e primo Rinascimento gli intagliatori inlegno attivi a Venezia erano nell’ordine delle centinaia e ognichiesa, ogni Scuola e dimora patrizia accoglievano le loroopere: soprattutto crocifissi e composizioni sacre, ma anche gli stall<strong>il</strong>ignei dei cori e i soffitti riccamente decorati con volute e modanature.Schiere più o meno anonimedi artigiani-artisti, integrati da diversee complementari categorie –dai marangoni da case ai battioro, daifenestreri ai doratori – che hanno concorsonel tempo a trasformare Veneziain una delle capitali mondialidelle arti e della bellezza. Specializzazioniche ancor oggi si perpetuano,pur fra crescenti difficoltà, grazieagli ultimi artigiani ancora in attività,che hanno saputo conservarenella pratica quotidiana <strong>il</strong> “saper fare”trasmesso loro di generazione in[76] Il crocifisso della chiesa diSan Salvador a Venezia.generazione, mantenendo vive le tradizionali, talora arcaiche, tecnichee consuetudini di bottega.A differenza delle più pregiate sculture in pietra, la maggiorparte di queste opere dei secoli passati, trascorsa la moda del momentoo degradate dalle ingiurie del tempo, venivano ridotte a legnada ardere o riut<strong>il</strong>izzate per altri fini; quelle che sono giunte finoa noi sono spesso in precarie condizioni di conservazione, compromessedai tarli, rimodellate per nuove funzioni, snaturate da integrazionimoderne e strati di ridipinture,oppure private del tuttodella policromia e doratura originali.Anche se va detto che, in tempirecenti, notevoli sforzi sono staticondotti da privati e dalle Soprintendenzecompetenti per restaurarereperti giacenti in magazzini o soffitteo riscoperti nel corso di restauri:ultimo fra tutti <strong>il</strong> pregevole crocifissorinascimentale ritrovato nelcampan<strong>il</strong>e di San Salvador e presentatoal pubblico pochi mesi or sonodopo un accurato intervento di restauro.I reperti lignei giunti fino a noi sono fra l’altro in larga misuraprivi di attribuzione e tradiscono di regola la mano dell’artigianopiù che di un artista tout court; pur con significative eccezioni,individuate soprattutto grazie alle protratte indagini sulle fontiarchivistiche tardomedievali e rinascimentali condotte nell’ultimodecennio da Anne Markham Schulz.Fino al tardo Cinquecento gli intagliatori rappresentavano uncolonello (specializzazione interna) della citata arte dei marangoni dacase, la cui mariegola era stata approvata nel 1271 dall’ufficio dellaGiustizia Vecchia, organo competente in materia appunto di corporazionidi mestiere. I maestri dell’Arte potevano ingaggiare un[77] Insegna degli intagliatori,Venezia, Museo Correr.solo garzone per volta, mentreerano liberi di assumere un numeroindeterminato di lavoranti,che non potevano tuttavia essereforestieri (cioè non veneziani) se non si fossero previamenteiscritti nei ranghi dell’Arte.Fin dal 1445, nell’ottica protezionistica sempre perseguita dallaSerenissima, veniva ribadito <strong>il</strong> divieto d’importazione nella capitaledi manufatti intagliati, mentre un decreto del 1453 vietava lavendita di opere d’intaglio in luoghi che non fossero le botteghe degliintagliatori. Eppure la maggior parte dei componenti la categoriadegli intagliatori operanti in Venezia proveniva da fuori: lamaggioranza dal bergamasco, ma anche dalle Romagne, dal Friuli,dal m<strong>il</strong>anese e dai possedimenti veneziani nell’Adriatico orientale elungo le coste e isole dell’attuale Grecia.Nel 1564 <strong>il</strong> Consiglio dei Dieci, accogliendo la supplica di alcuniintagliadori – che lamentavano di non avere né Arte né regole,pur essendo al numero di oltre sessanta maestri – autorizzano la nascitadi un’autonoma corporazione, regolata da uno specifico statutoapprovato l’anno successivo, nonostante l’opposizione dell’artemadre dei marangoni: si stab<strong>il</strong>iva, fra l’altro, che solo i maestriiscritti all’Arte potessero assumere altri intagliatori e si ribadiva <strong>il</strong>divieto di importazione in Venezia di qualsiasi lavoro d’intaglioeseguito altrove.Nel pieno Settecento – epoca considerata per Venezia di ineguagliatosplendore nel campo delle arti, della decorazione, degliarredi e del rinnovamento ed<strong>il</strong>izio – è attestata in laguna l’attivapresenza di diverse migliaia di maestri, lavoranti e garzoni, inquadratinelle corrispondenti corporazioni di mestiere: riemergono lesecolari diatribe fra gli intagliatoriin legno e l’Arte madre dei marangoni da case, i quali “pretenderebberoche la nostra parte di lavoro fosse <strong>il</strong>puro e semplice intaggio, ma ciò èimpossib<strong>il</strong>e ad esequirne”, poiché <strong>il</strong>avori “si devono far a pezi, ora unboccon ora l’altro”. I marangoni all’epocaerano ancora ripartiti nei quattroprincipali colonelli da fabbriche, dasoaze, da rimessi e da noghera: i primi,[78] Gamba di tavolo intagliato. vale a dire i falegnami veri e propri,con 219 botteghe in attività, giungevanoa un migliaio di addetti (550 maestri, 342 lavoranti, 91garzoni), oltre ad alcune centinaia di “figli di capomaestro”.Vi erano 73 maestri da noghera, con 21 botteghe aperte, addettisoprattutto alla fabbricazionedi mob<strong>il</strong>i in legno massiccio; 50da soaze (corniciai, ma che fabbricavanoanche le finestrelle, lerelative guide o cornici e le gri -glie, cioè le persiane lignee, per ifelzi delle gondole), con 29 botteghe(oggi a Venezia si contanosulle dita di una mano). [79] Il felz della gondola.


[80] Decorazione di uno stipo inlegni policromi e avorio.Erano invece 25, sempre verso lametà del Settecento, le botteghe dimarangoni da remessi, che si occupavanoin particolare di impiallacciature– ma anche di intarsi, spesso inavorio o in altri materiali – con ben38 botteghe attive in città. La “provad’arte”, superata la quale <strong>il</strong> garzoneo <strong>il</strong> lavorante poteva conseguire laqualifica di maestro, consisteva nell’esecuzionedi un altarino d’ordine dorico, intarsiato in avorio, oppuredi uno stipo che “con una parola usurpata dal francese pressodi noi si chiama borò”.Per l’ormai da tempo autonoma corporazione degli intagliator<strong>il</strong>a “prova d’arte” per chi aspirava allo status di maestro prevedeva larealizzazione, partendo da un blocco di cirmolo, di motivi in cuidoveva – come prevedeva la mariegola – “entrar <strong>il</strong> grottesco, l’arabescoe la figura”, di cui si precisavano le caratteristiche: “grottescosi chiama quel lavoro ove vi entrano animali, bisse e sassi”, mentrel’arabesco prevede “un avviato di fiori e frutti” e la figura una testaa tutto tondo. Eppure, soprattutto nel corso del Seicento, verrà segnalatain più riprese l’inosservanza di questo necessario test d’ammissionee la conseguente diffusa presenza di giovani “che non sannofar lavoriero alcuno pertinente all’arte nostra”, <strong>il</strong> che “apportaancor gran vergogna all’arte tutta et alla città insieme”.Negli anni settanta del Settecento erano iscritti all’Arte 106 capimastri,203 lavoranti e 42 garzoni, i quali ultimi erano tenuti aeffettuare cinque anni di garzonato, mentre le botteghe attive incittà erano 30. I maestri della corporazione lamentavano la concorrenzasleale di altre categorie, che interferivano nella loro specializzazionee, in particolare, l’arrivo in laguna di molti todeschi, i quali“portano figure, picciole statue, grandi Cristi, tabernacoli d’intaglioe Santi, case di orloglio [orologi] e qualunque altra ordinazioneche gli viene ordinati numero quasi infinito, con pregiudiziosommo del povero nostro arte [sic] e suoi individui”.I dati relativi alla complementare categoria dei d o r a d o r i, c h eimpreziosivano con foglia d’oro o d’argento i manufatti lignei,confermano la diffusione del mestierenella Venezia tardo barocca, con33 botteghe attive in città per untotale di 64 maestri, 70 lavoranti e10 garzoni. Anche per loro la qualificadi maestro richiedeva <strong>il</strong> superamentodella “prova d’arte”, consistente“nello apparecchiare ingessatedue strisce di legno, una piana, concaval’altra, intagliate, con ornamenti,nel raschiare <strong>il</strong> gesso, indorarlee pulirle”.[81] Putto dorato.Intimanente correlati ai doradori erano gli artigiani che predisponevanola foglia preziosa, i quali ebbero quale sede l’eleganteedificio barocco addossato alla chiesa di San Stae, eretto ex novo all’iniziodel Settecento come si r<strong>il</strong>eva dall’iscrizione ancora in loco:Scola dell’Arte de’ tiraoro e battioro – 1711.La prolungata e spaventosa crisi economico-sociale subita daVenezia dopo l’abdicazione della Serenissima nel 1797, particolarmenteintensa nei successivi due decenni, provocò una decisa con-[82-83] Sculture del Bucintoroconservate nella sede venezianadella Banca d’Italia e, a sinistra,modello del Bucintoro.trazione un po’ in tutte le categorie artigiane, in primis fra quelle legatealla decorazione e al lusso; dalle centinaia di addetti del secoloprecedente intagliatori e doratori si riducono a poche decine nelcorso dell’Ottocento, non più tutelati dalla normativa corporativasoppressa da Napoleone nel 1807. Almeno fino alla metà del secolo,se non oltre, sopravvivono peraltro piccole botteghe individualio fam<strong>il</strong>iari ancora improntate alla tradizione corporativa del tardoSettecento, restie all’introduzione di ditte improntate a una razionaleorganizzazione del lavoro e all’introduzione di nuovi macchinari,come già avveniva in altre località italiane.Facendo un passo indietro nel tempo, all’epoca tardo-barocca, èopportuno accennare alla non secondaria presenza di intagliatori edoratori anche per le decorazioni di navi e imbarcazioni “da parata”o di rappresentanza. Se le leggi suntuarie e <strong>il</strong> divieto di “ostentazionedel lusso” – allora vigenti benché non sempre efficaci e dinon fac<strong>il</strong>e applicazione – avevano certamente ridotto le commesseprivate nell’allestimento delle centinaiadi gondole de casada, la ricostruzionedel Bucintoro dogale –l’ultimo della serie, varato nel 1728– aveva impegnato a lungo gran partedelle maestranze di ambedue lecategorie. Per offrire un solo possib<strong>il</strong>etermine di paragone è stato recentementecalcolato, grazie ad AlbertoSecco, che la foglia d’oro impiegataequivaleva a quella necessariaper la doratura degli intagli cheornavano i castelli di poppa e le poleneprodiere di oltre duecento vascellidi linea. Negli anni immediatamentesuccessivi, come documentatoda Virg<strong>il</strong>io Giormani, furono inoltre varati tre nuovi peatoni dogali riccamente decorati per lecerimonie di Stato, varati <strong>il</strong> 14apr<strong>il</strong>e 1734. Di questi repertinavali, in gran parte distruttigià in epoca napoleonica, rimangonooggi pochi frammenti e unraffinato modello coevo in scala,di proprietà privata.Sussiste ancora perfettamente integra, invece – unica nel suo genere,non solo in Italia – la peota Bucintoro realizzata a Venezia perconto dei Savoia nel 1730, a lungo ut<strong>il</strong>izzata sul Po dai sovrani quale“reggia galleggiante” e vera e propria “nave di Stato”. Un apparatodecorativo di soggetto navale, questo, di eccezionale r<strong>il</strong>evanza– anche perché realizzato negli stessi anni e dai medesimi intagliatorie doratori intervenuti sull’ultimo Bucintoro veneziano – per <strong>il</strong>quale sono da tempo in corso in Piemonte importanti interventi direstauro e progetti di valorizzazione,che ci si augura possanocoinvolgere in prospettiva anchele residue eccellenze artigianeche animano ancora Ve n e z i a .[84] Elemento decorativo della peotaBucintoro dei Savoia.


L’arte di far cassoni nuziali dipintitra XV e XVI secoloANNA GIULIA VOLPATOle camere, la sala, la loggia, ed <strong>il</strong> giardinodella stanza che abitate ad una sposa che aspetta <strong>il</strong> parentadoche dee venire a darle la mano: e ben debbo io “Simigliereifarlo; sì è ella forbita e attapezzita e splendente. Io per me non civengo mai, che non tema di calpestarla coi piedi: cotanta è la delicatezzade’ suoi pavimenti. Né so qual Principe abbi sì ricchi letti,sì rari quadri, e sì reali abbigliamenti” [Pietro Aretino, Lettere].Con queste parole Aretino elogiava nel 1538 la casa in fondamentadel Gaffaro di Andrea Odoni. Visitata alcuni anni prima daMarcantonio Michiel, l’abitazione ospitava tra i vari oggetti d’arte“casse, lettiera e porte dipinte da Stefano, allievo di Tiziano”. Il tripudiodi colori e d’immagini della casa veneziana del Rinascimentopuò essere dedotto grazie adocumenti grafici e d’archivio: imob<strong>il</strong>i erano dipinti, le paretivestite di panni, arazzi, spalliereistoriate e i tappeti scivolavanosopra gli arredi o si distendevanosotto i passi leggeri degli abitanti.La magnificenza degli interniera tale da rendere necessarial’emanazione di norme finalizzatead arginare lo sciupio vistosodei ceti agiati: nel 1476non potevano essere spesi più di[85] Interni veneziani del Cinquecento:dettaglio della Miracolosa guarigionedella figlia di Benvegnudo da SanPolo di Giovanni Mansueti, Venezia,Gallerie dell’Accademia.150 ducati per l’arredamento di ogni stanza e dal 1514 tre specialiProvveditori alle Pompe sorvegliavano <strong>il</strong> rispetto delle leggi.La cassa era <strong>il</strong> modulo fondamentaledell’arredamento veneziano ed eranosfruttate tutte le sue possib<strong>il</strong>i fatture.Poteva essere costruita in noce, inabete, in pino, ornata con le armidella casata, dipinta in tinta unica,[86-87] La Venere di Urbino di decorata con girali vegetali o istoriata;piccola o grande, poteva accoglie-Tiziano, Firenze, Uffizi e, inbasso, <strong>il</strong> dettaglio dei cassoni.re stoviglie, vestiti, tovaglie, cibo,libri, fungere da sed<strong>il</strong>e, contenitore osostegno di letti. Tra le innumerevolitipologie e destinazioni della cassa,solo quella nuziale ha suscitato interessetra gli storici dell’arte.A Venezia i realizzatori di questi contenitori furono i c a s s e l l e r i,attivi a Santa Maria Formosa fin dal X secolo. I cassoni nuziali, commissionatiin coppia in occasione di unioni per lo più patrizie, dovevanoospitare l’abbigliamento e i beni degli sposi. La loro funzionesi spingeva oltre a quella del mero oggetto di arredamento: quandol’unione matrimoniale era tutto fuorché ratificata, <strong>il</strong> cassone portatoin parata o esibito nel p o r t e g o durante le celebrazioni, simboleggiava<strong>il</strong> vincolo sociale e testimoniava l’ingresso della donna nellacasa del marito. I fronti dipinti con episodi tratti dalla letteraturaclassica e contemporanea, dalla Bibbia o dalla storia antica eranoveicoli di moniti morali e servivano da compendio di educazione[88-89] Cassone nuziale del XV secolo e, adestra, <strong>il</strong> particolare decorativo. Treviso,Museo Civico.sentimentale per gli sposi. Sistemati in camera da letto, i cassoni ricordavanodi rispettare la v i r t u s, di combattere la v o l u p t a s, di vivereall’insegna del buon comportamento nell’equ<strong>il</strong>ibrio armonico.L’esigua sopravvivenza di mob<strong>il</strong>i integri è in parte complice delmistero che avvolge i cassoni veneziani dipinti: le tavole istoriatedisperse nei musei sono quanto rimane degli arredi, <strong>il</strong> risultato dellosmembramento operato nel corso dei secoli dai proprietari deicontenitori. Mut<strong>il</strong>azioni e ridipinture impediscono <strong>il</strong> più delle voltedi comprendere l’identità dei committenti, evidenziata nei mob<strong>il</strong>iintonsi dalle araldiche delle famiglie congiunte raffigurate a<strong>il</strong>ati dell’arredo o in altri punti del cassone. Gli anonimi pannelliistoriati, creati dai pittori negli anni del loro apprendistato in bottega,subiscono ancor oggi le attribuzioni più disparate e persino ledinamiche di produzione risultano oscure.Dagli inventari della bottega di Apollonio di Giovanni e Marcodel Buono Giamberti si apprende che negli anni tra <strong>il</strong> 1446 e <strong>il</strong>1463, a Firenze, <strong>il</strong> prodotto terminato e pronto per la vendita eraceduto presso i laboratori dei pittori. A Venezia la pedante divisionedelle professioni rende complessa la formulazione di ipotesi intornoalla creazione e alla vendita dei cassoni dipinti. Se a Firenzesi attestano “felici” e frequenti invasioni di campo tra gli appartenentialle <strong>Arti</strong>, in laguna sono numerose le cause intentate tra gliiscritti e depositate presso la Giustizia Vecchia.Per la sua creazione, un cassone istoriato avrebbe avuto bisognodi almeno quattro figure professionali: un c a s s e l l e r per la costruzionedel contenitore, un d e p e n t o r per la raffigurazione delle storie dipinte,un i n t a i a d o r per i r<strong>il</strong>ievi decorativi, un indorador per la doratura degliornamenti. Le interferenze tra <strong>mestieri</strong> erano immancab<strong>il</strong>i: moltimanufatti esigevano diverse attività artigianali che, secondo leleggi delle arti, non potevano essere condotte da una sola maestranza;gli intromessi nell’altrui mestiere erano punib<strong>il</strong>i con un’ammendamonetaria. Le molte diatribe fecero capire a Provveditori e Giustizieriche <strong>il</strong> mantenimento della separazione delle mansioni, conriferimento alle attività di i n t a i a d o r i e d i p i n t o r i, era impossib<strong>il</strong>e: nel1459 permisero quindi ai due gruppi di esercitare entrambi i ruoliall’interno delle botteghe o in private commissioni. Agevolazioni eregolamentazioni meno ferree non bastarono a far cessare i contenziosiperpetrati da quanti vivevano nell’<strong>il</strong>legalità.Dopo aver permesso, seppure sotto stretta vig<strong>il</strong>anza, la collaborazionetra alcune arti, insorse <strong>il</strong> problema della vendita degli oggetti.Per scongiurare nuove cause, nel 1542 si permise ai c a s s e l l e r idi far istoriare le loro casse da pittori regolarmente iscritti, ma al finedi commerciarle soltanto fuori dal territorio cittadino. Poco tempodopo, sotto <strong>il</strong> controllo del gastaldo, fu concesso ai c a s s e l l e r i d ivendere casse già dipinte ai d i p i n t o r i stessi che le avrebbero smerciatenelle loro botteghe. Il luogo deputato alla vendita poteva subirealcune eccezioni: dalla vita del Tintoretto st<strong>il</strong>ata da Ridolfi, ap-


prendiamo che i pittori di “minor fortuna” erano soliti mercanteggiarearredi dipinti negli st<strong>il</strong>i degli artisti più famosi sotto le arcatedi Piazza San Marco, attività legale in questo luogo <strong>il</strong> sabato econcessa anche <strong>il</strong> mercoledì a San Polo. Possiamo dunque immaginareche se qualcuno avesse voluto acquistare una cassa dipinta conuna tinta unica o con una tonalità in grado di emulare un legno piùnob<strong>il</strong>e, <strong>il</strong> c a s s e l l e r non si sarebbe rivolto allabottega di un pittore, ma avrebbe adempiutoall’um<strong>il</strong>e mansione nel suo laboratorio.Intuiamo così la valenza dellaregola stab<strong>il</strong>ita nel 1542 per la qualei c a s s e l l e r i potevano vendere una cassagià dipinta in tale modo alla bottegadi un pittore che a sua volta terminaval’arredo con decorazioni più complesse e[90] Endimione dormiente,tondo di cassone di Cima daConegliano conservato allaGalleria Nazionale di Parma.traeva profitto dal lavoro completo.Se invece i c a s s e l l e r i c o m m i s s i o n a v a-no ai pittori una qualche decorazione,la cassa poteva essere commerciatada loro solo in territorio esternoalla città, al fine di non generare inut<strong>il</strong>i competizioni.Grazie alla norma del 1459 i r<strong>il</strong>ievi potevano essere creati daipittori, oppure dagli stessi i n t a i a d o r i; essi lavoravano abitualmentenella decorazione delle cornici da specchio e allo stesso modo avrebberopotuto realizzare le dorature delle parti in gesso applicate in unsecondo tempo agli arredi. La supposizione è rinforzata da una normativaemanata dai Provveditori di Comun e dai Giustizieri Ve c c h inel 1457 che ribadisce la netta separazione delle competenze degliartigiani e precisa l’esclusione dalla disposizione dei casseleri e delledonne addette alla doratura. In seguito a questa breve riflessione intornoalle normative delle <strong>Arti</strong> tra XV e XVI secolo pare correttoritenere che anche le botteghe dei pittori veneziani fossero legittimatee tutelate nella vendita in città degli arredi dipinti. In questaottica altrettanto chiara appare l’inclusione nel 1482 della figuradel c a s s e l l e r all’interno della b a n c a al fianco del f i g u r e r, del c o r t i n e r ed e l d o r a d o r: la collaborazione e la pari importanza dei quattro furonoriconosciute in base a una reale necessità.Il primo passo della genesi di un cassone dipinto avrebbe vistoun anonimo pittore o un suo garzone recarsi in calle della Casselleriaa Santa Maria Formosa per acquistare oppure ordinare un contenitoredi legno. Dopo aver fatto trasportare <strong>il</strong> cassone alla bottega,l’anonimo pittore avrebbe preso le misure della parte da istoriare,avrebbe creato l’apposito supporto e iniziato la realizzazionedel dipinto. Grazie alle numerose analisi di laboratorio compiutesulle tavole superstiti, apprendiamo che tra le metodologie che <strong>il</strong>pittore avrebbe potuto ut<strong>il</strong>izzare per la decorazione potevano esserepreviste: la dipintura diretta su tavola, l’uso di disegni preparatoridi repertorio, l’impiego della tecnica dello spolvero, la ripresadi modelli x<strong>il</strong>ografici. Esemplari di questa pittura ancora tutta dascoprire sono le due tavole con la Storia di Alcione e Ceice, realizzatedalla bottega di Vittore Carpaccio e oggi divise tra la National Gallerydi Londra e <strong>il</strong> Ph<strong>il</strong>adelphiaMuseum of Art.[91] Bottega di Carpaccio, fronte dicassone con Il ritrovamento di Ceice,Ph<strong>il</strong>adelphia, Museum of Art.Il <strong>gusto</strong> cinese negli arredi laccatiCLARA SANTINILa sesta decade del XVII secolo segna per l’intera Europa l’inesorab<strong>il</strong>eavvento della chinoiserie. Scocca l’ora delle laccheprovenienti dal “lontano Oriente”, destinate a suscitare unconsenso unanime, privo di cedimenti, anzi contrassegnato da impennatedi fanatico entusiasmo. È questa l’epoca dei cabinets des chinoiseries, sorta di Wunderkammer esotiche allestite inseguendo la bizzarraispirazione della moda orientale e straripanti di tesori. Sonopreziose lacche ma anche giade, bronzi, porcellane, tappeti in seta,che dai fastosi fondali laccati ricevono l’appropriata valorizzazione.Se può sembrare scontato che la vicenda inerente alla formazionedel <strong>gusto</strong> europeo per l’esotico, galvanizzato dai resoconti diviaggio di esploratori e missionari, coincida con l’incontenib<strong>il</strong>epassione per i manufatti laccati – una vera e propria mania che indussea un incremento esponenziale della domanda, al conseguenterapido cedimento qualitativo della produzione cinese e a una seriedi caparbi tentativi da parte europea di carpire <strong>il</strong> segreto delle “supreme”vernici orientali –, risulta del pari inevitab<strong>il</strong>e che, in Italia,le prime “contraffazioni” façon de la Chine avessero luogo a Venezia,dove la lacca aveva alle spalle una tradizione plurisecolare.Nel Sei e Settecento, infatti, i depentori alla cinese – come si facevanochiamare gli artigiani dediti alla pratica della laccatura,consci della natura imitativa del lorooperato – continuarono a servirsi,come per <strong>il</strong> passato, della vernice pereccellenza, la sandracca, per conferireai manufatti dipinti la tanto ambitalucentezza e la necessaria protezione.Risalgono addirittura al 1283i minuziosi decreti emanati dai GiustizieriVecchi – la magistratura prepostaal controllo dell’operato artigianale– che stab<strong>il</strong>ivano “che cofa-[92] La sandracca.ni, scrigni, tavole da pranzo, ancone, taglieri, coppe e catinelle d<strong>il</strong>egno i depentori dovevano consegnare al cliente inverniçate; per glioggetti rivestiti in cuoio poi la consegna era lecita solo dopo tregiorni dalla loro verniciatura.Pratica ornamentale già ampiamente accreditata a Venezia nelXVI secolo – ove l’incastonatura di materiali preziosi su superfici ligneesi configurava come traslitterazione in chiave lagunare dell’intarsio“alla certosina” di ascendenza moresca – l’insolito connubiolacca-madreperla s’impone nell’arredocome soluzione decorativa ricercatae di grande effetto al trapasso fraSei e Settecento. È questa la fase dellarigorosa osservanza dei canoni d<strong>il</strong>aconica impassib<strong>il</strong>ità cui soggiaccionole raffigurazioni orientali, dell’adeguamentoai motivi e alle formedelle lacche originali contempora-[93] Specchiera in legno intagliato decoratacon lacca policroma e madreperla intarsiata,fine XVII secolo, collezione privata.


nee, processo cui non fu estranea la suggestione esercitata da modelliolandesi e inglesi. Dal momento, infatti, che la Serenissimanon intratteneva rapporti diretti con i mercati del Levante, l’importazionedi manufatti laccati dall’Estremo Oriente doveva essere unfenomeno del tutto estemporaneo, mentre i consolidati legami delpatriziato veneziano con la Compagnia delle Indie Orientali lascianopresumere che le prime cineserie in lacca a giungere in lagunafossero proprio quelle anglosassoni d’imitazione. È inoltre verosim<strong>il</strong>eche nelle botteghe veneziane circolassero prontuari iconografici,come <strong>il</strong> popolarissimo Treatise on Japanning and Va r n i s h i n g che JohnStalker e George Parker diedero alle stampe a Londra nel 1688.L’influenza esercitata sull’ebanisteria veneziana dalle “contraffazioni”in lacca di marca continentale, inglesi in particolare, è del restocomprovata da una numerosa sequela di esempi. Il fatto poi chea Venezia molte delle dimore storiche dell’antico patriziato conservinoa tutt’oggi, con più frequenza di quanto non sia ragionevolecredere, arredi laccati di fattura inglese,costituisce un’ulteriore riprovadell’anglof<strong>il</strong>ia che pervase la civ<strong>il</strong>tàlagunare settecentesca. Paradigmatico,in proposito, <strong>il</strong> confrontofra un cassettone a ribalta datab<strong>il</strong>econ buona approssimazione attornoal 1710-1715 e un mob<strong>il</strong>e a due corpi,cronologicamente di poco successivo,entrambi conservati a Venezia,[94-95] Cassettone a ribaltaprodotto in Ingh<strong>il</strong>terra nel 1710ca e, a destra, mob<strong>il</strong>e a due corpiprodotto a Venezia nel 1730 ca.nella medesima collezione. Interamentecostruito in legno di quercia,<strong>il</strong> primo esemplare è senza alcundubbio di provenienza inglese: particolareinconfondib<strong>il</strong>e, fra l’altro, èla fattura di bocchette di protezionee maniglie in ottone. Inflessioni analoghe contraddistinguono <strong>il</strong>fantasioso repertorio decorativo del mob<strong>il</strong>e a doppio corpo, d’incontrovertib<strong>il</strong>efattura veneziana e collocab<strong>il</strong>e cronologicamenteentro <strong>il</strong> terzo-quarto decennio del XVIII secolo.Analogamente <strong>il</strong> sommesso impiantotimbrico, di un cupo verde lacca, è accesodai bagliori dorati di freschissime chinoiseriescui rapide ombreggiature a penna d’ocaconferiscono maggior risalto plastico. L’ut<strong>il</strong>izzoper i particolari decorativi della pastiglia,ottenuta facendo colare dal pennello,negli appositi tracciati e senza poter assolutamentericorrere a stecche per eventualicorrezioni, un fluido amalgama di gesso ecolla, si configura come una versione squisitamentecontinentale del taka-maki giapponese.Entro garbate parentesi narrative turbanti di <strong>gusto</strong> persianeggiantepacificamente convivono con parasoli e devoti cortigianiabbigliati secondo <strong>il</strong> <strong>gusto</strong> cinese, mentre un sole dai dardi inanellatibenignamente sorride. Ma a un’attenta analisi questa spensieratacontaminazione fra Oriente Vicino e Lontano, fluttuante entrouna rarefatta trama decorativa a capricciosi girali fitomorfi, sembrarivelare, rispetto alle d<strong>il</strong>igenti trascrizioni anglosassoni, un’inflessionenuova, lievemente ironica, già protesa ad affrancarsi dalla pedissequaimitazione della novella orientale.La progressiva emancipazione del d e p e n t o r e dal decoro “alla chinese”di stretta osservanza determina, nei primi del Settecento, un’evoluzionein senso comico della c h i n o i s e r i e, assorbita entro categorieornamentali di conio europeo e gradualmente “addomesticata”. Èquesto <strong>il</strong> momento irripetib<strong>il</strong>e dell’affabulazione creativa, di unaspigliata c o n t a m i n a t i o, per la quale mandarini e dame veneziane, fumatorid’oppio e guerrieri con vess<strong>il</strong>li Ming convivono con disinvolturain un contesto di particolari lagunari camuffati alla cinese.Nel casino di Alvise Zenobio sul Canal Grande si poteva ammirareun’intera “camera alla cinese”, mentre un sontuoso fornimentoin lacca verde smeraldo a cineseriedorate, che originariamentearredava un salone di PalazzoCalbo Crotta agli Scalzi, è oggimaestosamente “ricoverato” aCa’ Rezzonico. È <strong>il</strong> concetto delcontinuum ornamentale t i p i c a m e n-te settecentesco, ribadito dallaraffinatissima inf<strong>il</strong>ata di “camerealla chinese” che in antico si affacciavanosul rio di San Barnaba,lungo l’ala destra del primo[96-97] Il fornimento Calbo Crottanella Sala delle Lacche Verdi a Ca’Rezzonico e, a sinistra, la porta acineserie della Sala degli Arazzi.piano nob<strong>il</strong>e del museo. Del superbo complesso ornamentale facevanoparte sei battenti in “lacca veneziana”; ne rimane ancora in sit u un’unica smagliante reliquia: una porta inlegno di abete laccato su entrambi i lati ac h i n o i s e r i e s dorate, con particolari a r<strong>il</strong>ievo rifinitiin pastiglia. Entro duplici specchiaturescontornate da cornici applicate in legnodolce dorato, increspate da ariose r o c a i l l e s,galleggiano su liquidi isolotti frementi divagazioniorientaliste, intrise di luce e dalladinamica narrativa sempre mutevole, ma cosìgenuinamente veneziana da far addiritturapensare a un pregresso disegno tiepolesco.La vaga approssimazione prospettica, unitamente ai disarticolaticostrutti delle frag<strong>il</strong>issime “pagodine” dorate sugli sfondi, stannotuttavia a rappresentare <strong>il</strong> solitario portato di una Cina “di maniera”che nel l758, data cui è probab<strong>il</strong>e risalga l’intero complesso, si configuracome geniale sintesi di raffinato esotismo e bonaria quotidianitàespressiva. È questa la ricetta veneziana di una Cina dalle arg u-te inflessioni lagunari, garbatamente ironica, estremamente ripetitivanei soggetti e di maliziosa ispirazione popolaresca. Il dato è particolarmenteevidente per la pressoché <strong>il</strong>limitata varietà di manufatt<strong>il</strong>accati di piccole dimensioni, che costituivano una sorta di produzione“continuativa” della Serenissima e che venivano larg a m e n-te apprezzati anche oltre i suoi confini: dai servizi da toeletta conspecchierine munite di sostegni, a vassoi eguantiere, da alzate e centritavola fino allasterminata gamma di scrigni, tabacchiere,scatole e scatoline e agli accessori per <strong>il</strong> camino,dai servizi per profumi, per la tavola,per la scrittura e <strong>il</strong> gioco, alle custodie perocchiali, agorai, vasi e portavasi, orologi,cannocchiali e soprammob<strong>il</strong>i.[98] Specchiera da toeletta, M<strong>il</strong>ano, collezione S<strong>il</strong>va.


Il ferro a Venezia*ALESSANDRO ERVAS eGEROLAMO FAZZINIUsato fin dall’antichità per le sue caratteristiche tecnicheche in molti casi lo rendono insostituib<strong>il</strong>e, <strong>il</strong> ferro, malgradola scarsa resistenza alla corrosione in ambiente ma -rino, è storicamente un materiale assai ut<strong>il</strong>izzato anche a Venezia:nelle imbarcazioni e costruzioni navali, nelle opere architettonichesia nelle parti strutturali che in tutti quei manufatti che sono elementidecorativi.Tra le associazioni di arti e <strong>mestieri</strong> – dette a Venezia Scuole Minori– che regolavano <strong>il</strong> mondo del lavoro stab<strong>il</strong>endo rigide regoledi appartenenza e di controllo, la Scuola dei fravi (fabbri) era unadelle più numerose e antiche: se ne ha notizia già intorno all’annoM<strong>il</strong>le. Molte erano le specializzazioni lavorative: nel c a p i t o l a r e d e l1271 sono elencati oltre ai f r a v i veri e propri anche altre professionicome i c a l d e r e r i (calderai), i c o l t e l e r i (coltellinai, in seguito unitiagli s p a d e r i), gli strassa feri (ferrivecchi). Gli iscritti alla corporazioneerano in gran parte forestieri, soprattutto provenienti dal territoriom<strong>il</strong>anese, e si riunivano dapprimanella chiesa dei Frari e successivamentea San Moisè dove edificaronoun altare, davanti al quale tuttorasi conserva una lapide sepolcrale intitolataall’Arte. A fianco di questachiesa fissarono la loro sede, in unpiccolo edificio dove ancor oggi è riconoscib<strong>il</strong>eun bel cancello d’ingressoopera di Umberto Bellotto. Nel1773 l’Arte dei f r a v i contava a Ve n e-zia 224 botteghe con 573 iscritti tracapimastri, lavoranti e garzoni.[99] L’antica sede dell’Arte deifabbri in campo San Moisè.Diffic<strong>il</strong>e da produrre e da lavorare, <strong>il</strong> ferro è sempre stato unmateriale costoso; nel corso dei secoli, inoltre, è sempre stato ut<strong>il</strong>izzatocome materiale bellico: per uno Stato <strong>il</strong> possesso di minieree di luoghi di lavorazione era dunque una questione di vitale importanza.La Serenissima aveva miniere di ferro e di rame nelle zonemontane dell’agordino, dello zoldano, del bresciano e del bergamasco,fino ai confini del territorio m<strong>il</strong>anese dotate anche di fornie fucine per lavorare <strong>il</strong> metallo e realizzare sia prodotti finiti che sem<strong>il</strong>avoratiche venivano commercializzati sotto stretto controllodelle autorità. Le fabbriche di armi erano in particolar modo soggettea rigidi controlli sia nella qualità e nella quantità della produzionesia negli spostamenti degli armaioli stessi a cui era fattodivieto di espatriare.La Serenissima favoriva in molti modi l’immigrazione di artigianispecializzati dai territori della terraferma. A Venezia un casosingolare di immigrazione si ha con le maestranze lombarde e inparticolar modo con la comunità originaria di un paese, Premana, situatoin Alta Valsassina, sopra Lecco, nel cui territorio si trovavanominiere di ferro già usate in epoca romana. Da questa zona provenivanoartigiani che praticavano i <strong>mestieri</strong> di fabbro, di calderaio o dicoltellinaio attivi anche all’interno dell’Arsenale marittimo, ma soprattuttoin officine e botteghe sparse in tutto <strong>il</strong> contesto cittadino.L’apice di questa presenza viene raggiunto nel 1769 con 139 botteghepremanesi a Venezia, di cui 108 officine da fabbro o calderaio.Ancora oggi, le ultime bottegheo ditte di fabbri e coltellinai rimastea Venezia e dintorni, sonobuona parte di oriundi premanesi,tra queste la storica bottegaTenderini al ponte del Soccorsoin fondamenta Briati a Dorsodurodocumentata dal 1682.Le fucine veneziane non eranoparticolarmente ampie e servivanoper la produzione del necessarioper la vita civ<strong>il</strong>e. A dimostrazione della loro grande diffusionerimangono in città molti toponimi come la calle dei Fabbri,riva del Ferro, calle del Calderer, calle delle Ancore. Il fatto che,malgrado le severe leggi antincendio della Serenissima, le fucinenon siano state trasferite altrove, come avvenuto a Murano con i vetrai,indica come fosse necessaria la presenza di queste botteghe direttamentenel cuore del tessuto urbano.Una passeggiata con sguardo attento tra lecalli permette di mettere a fuoco una infinitàdi oggetti in ferro normalmente trascurati,come i tiranti per i campanelli con irinvii (piccole leve sagomate) che servivanoa far suonare la campanella dentro l’appartamentotramite un f<strong>il</strong>o metallico; oppure lebandelle dei portoni, che a Venezia hannouna forma caratteristica, o la varietà di grate,inferriate, lampioni, strumenti in ferro per porte e finestre, serramenti,maniglie, cardini.Quello che colpisce è la cura dell’esecuzionee la raffinatezza del disegno.Come l’ebanisteria e l’oreficeriaanche la produzione fabbr<strong>il</strong>e venezianaè un mondo di oggetti raffinati.Le inferriate veneziane trovano <strong>il</strong>loro parallelo st<strong>il</strong>istico nel merletto,<strong>il</strong> disegno si sv<strong>il</strong>uppa sempre in due[102-103] Dettaglio di grata e, inbasso, le possenti inferiate delFondaco dei Tedeschi.[100-101] Bottega di fabbro a Castello ainizio Nocevento e, in basso, tirante percampanello.dimensioni, lo spessore del materialeimpiegato è quasi irr<strong>il</strong>evante ai finidella composizione. Certo le rostredel Fondaco dei Tedeschi, con <strong>il</strong>loro spessore possente danno senzadubbio un’impressione di forza, comepure la porta della Zecca, oraporta d’ingresso della BibliotecaMarciana, tuttavia <strong>il</strong> disegno si sv<strong>il</strong>uppasempre senza quegli interventidi deformazione plastica o di tridimensionalitàche possiamo ritrovarea Vienna o a Praga o la ridondanzadelle opere francesi ricche di fogliame e decorazioni applicate.Le opere in ferro nascevano con le architetture e ne riprendevanogli schemi geometrici nei disegni, in questo modo i manufattisi “fondevano” con <strong>il</strong> contesto.Anche dal punto di vista tecnico le opere veneziane rispondevanoa criteri di semplicità costruttiva, con l’uso di elementi modulariuniti tra loro da fascette sagomate, i collarini. Cambiamenti


[104-105] Le inferiate dellePrigioni a Palazzo Ducale e, asinistra, <strong>il</strong> cancello dell’Arsenale.sostanziali si r<strong>il</strong>evano a partire dalXIX secolo con l’introduzione dimotivi geometrici e decorazioni inpiombo. Persino l’intreccio delle inferriatecosiddette “alla galeotta” ètipico di Venezia. L’esempio più imponentedi questa tecnica sono senzadubbio le inferriate delle Prigioni,un lavoro mastodontico per l’epoca,sia per la quantità di materiale impiegato,sia per l’impegno fisico necessarioagli artefici nel costruirle.Un esempio singolare di inferriataesterna è la Porta di Terra dell’Arsenale,unica apertura verso la città, ridisegnata nel XVII secoloa scopo celebrativo, protetta da una possente ma elegante chiusurain ferro e bronzo. La presenzastessa di certi tipi di materialidiventa evocativa di unchiaro messaggio di potenza,esaltato dal portone in ramesbalzato. Tutte le parti principalidel monumento sono costruite con materiali fondamentali per lacostruzione delle armi. Il rame infatti serviva per fabbricare <strong>il</strong> bronzodei cannoni. E non poteva essere altrimenti: la potenza di unoStato si manifesta anche palesando la disponib<strong>il</strong>ità di materie primee la capacità di lavorarle. L’Arsenale nei secoli tra <strong>il</strong> XV e <strong>il</strong>XVII fu <strong>il</strong> più grande complesso industriale d’Europa.Al Museo Storico Navale è ben visib<strong>il</strong>e l’uso del metallo nelleimbarcazioni di vario genere, dalla galea alla gondola, senza contarepoi tutte le navi moderne e le corazzate, costruite interamente inmetallo a partire dal XIX secolo. Tutte le barche tradizionali eranodotate di ferri di prua con lo scopo di decorare, oltre che proteggeredagli urti, la parte frontale dello scafo e ogni imbarcazione aveva– e ha tuttora – la sua tipologia diferro prodiero. Il più celebre è <strong>il</strong> ferroda gondola o d o l f i n (delfino) le cuidimensioni e forme sono cambiatenel tempo e si sono evolute parallelamentea questa imbarcazione che perle famiglie nob<strong>il</strong>i era l’equivalente diuna carrozza. La gondola aveva funzionedi rappresentanza e nel XVIIsecolo fu soggetta alle leggi suntuarieche ne limitarono lo sfarzo. I fer-[106] Antichi ferri da gondola.ri, da alti, decorati e dorati, si ridusserodi dimensione e rimasero in ferro “satinato”, cioè pulito conpietre abrasive e sabbia, in modo da mettere in evidenza <strong>il</strong> vero coloredi questo materiale sim<strong>il</strong>e all’argento. L’introduzione dell’acciaioinossidab<strong>il</strong>e nel secondo dopoguerra ha comportato la repentinascomparsa dei tradizionali metodi di fabbricazione così i ferrihanno subito cambiamenti formali per essere adattati alle macchineut<strong>il</strong>izzate per fabbricarli o per sveltirne la produzione. In questomodo sono stati però eliminati importanti particolari che facevanodei vecchi feri da prova delle vere e proprie opere d’arte.*tratto da http://www.archeove.com/pubblic/ferro/ferro.htmL’uso del ferro nell’OttocentoELISABETTA POPULINdell’architettura italiana con le nuove tecnologiecostruttive ottocentesche, legate all’uso del ferro, evidenziò<strong>il</strong> ritardo tecnologico ed economico nel quale versava <strong>il</strong> L’approccionostro paese all’epoca dell’Unità. Mentre l’impiego delle leghe metallichein Europa incontrava, già da tempo, tre grandi campi diapplicazione quali ponti, ampie coperture vetrate e strutture portantidegli edifici multipiano, in Italia l’adozione dei nuovi materialiveniva spesso celata dall’opulenza rassicurante delle forme storichee classicheggianti e trovò quasi esclusiva applicazione nellegrandi gallerie cittadine e nelle stazioni ferroviarie.Il dibattito architettonico italiano, per molto tempo, si concentrònella ricerca eclettica di uno st<strong>il</strong>e “nazionale” nel quale la borghesianascente ricercava la propria identità. Fu così che l’introduzionedelle nuove tecnologie avvenne in modo assai lento rispettoagli altri paesi europei e nel caso veneziano, in particolare, ciò si verificòsotto la dominazione austriacaad opera di capitali stranieri. In questoperiodo <strong>il</strong> tessuto urbano subì unfondamentale stravolgimento doposecoli di totale immob<strong>il</strong>ismo; l’arrivodella ferrovia a Santa Lucia e la creazionedel primo ponte translagunare,inaugurato dall’arciduca Ferdinandod’Austria l’11 gennaio 1846, iniziaronol’inarrestab<strong>il</strong>e metamorfosi delsistema degli accessi in laguna dalversante occidentale, ribadito poi dalfascismo con la creazione nel 1933del ponte automob<strong>il</strong>istico del Littori o , ora chiamato della Libertà.[109-110] La lapide ricorda che nel1837 fu demolito un ponte in seguitoall’interramento del rio de le Colonne,come testimonia <strong>il</strong> ninzioletto.A destra, l’elegante ringhiera in ghisadel ponte della Malvasia.[107-108] L’arrivo del treno aVenezia e, in basso, <strong>il</strong> nuovo pontetranslagunare del 1933.Gli austriaci misero in atto un sistematico progetto di pedonalizzazionedi Venezia mettendo mano al tessuto cittadino con sventramentiviari e creazione di numerosi rio terà (canali interrati trasformatiin strade), con l’erezionedi vari ponti in ferro e, inparticolare, dei due nuovi attraversamenti,in Canal Grande, all’Accademianel 1854 e agliScalzi nel 1855 che garantivanola percorrib<strong>il</strong>ità pedonale dell’interacittà. La città cambiò volto, oltre che nell’assetto viario einfrastrutturale, anche nei più minuti elementi d’arredo urbano,quali le lampade per l’<strong>il</strong>luminazione pubblica a gas, le fontane inghisa, le ringhiere dei rivi e dei ponti.I due grandi ponti ottocenteschi in ferro sul Canal Grande vennerosempre percepiti come estranei alla tradizione veneziana per <strong>il</strong>


materiale impiegato, tanto che, in particolare quello dell’Accademia,per la sua più priv<strong>il</strong>egiata ubicazione, venne definito dalla popolazione“l’orrido gabbione bislungo”, retaggio della dominazioneaustriaca da dimenticare, e quando negli anni trenta furono sostituitientrambi per vetustà dall’ingegnere comunale EugenioMiozzi, nessuno protestò.[113-114] Il ponte in ghisa agli Scalzi e,a destra, la coesistenza del vecchio pontecon <strong>il</strong> nuovo progettato da Miozzi.[111-112] Il ponte dell’Accademia realizzatoin ghisa nel 1854 dalla fonderia Nev<strong>il</strong>le.Le due strutture sul Canal Grandevennero realizzate entrambedalla Fonderia Nev<strong>il</strong>le che, nell’Ottocento,fu l’indiscussa protagonista dell’architettura del ferroin laguna e che contribuì in modo fondamentale alla modernizzazionedell’arredo urbano veneziano. I Nev<strong>il</strong>le, originari di Essen inGermania, erano proprietari a Venezia, a San Rocco nel sestiere diSan Polo, della “Priv<strong>il</strong>egiata e Premiata Fonderia Veneta” che avevasede in un’area di circa 14000 metri quadrati, compresa tra l’absidedell’omonima chiesa e <strong>il</strong> rio delle Sacchere, zona che, sino all’iniziodel 1850, era stata adibita a maneggio per cavalli. La ditta, divenutain seguito “Enrico G<strong>il</strong>berto Nev<strong>il</strong>le & Co.”, era seconda soloall’attività dell’Arsenale e della Manifattura Tabacchi e risultavala prima, nel genere, in Veneto. Si occupava di trasformare la materiagrezza, che giungeva direttamente al porto di Venezia principalmentedall’Ingh<strong>il</strong>terra come lo stesso carbone per alimentare iforni che arrivava, in crescenti quantitativi, soprattutto da Newcastle.Scaricato in porto dalle navi,<strong>il</strong> combustib<strong>il</strong>e veniva poitrasportato con p e a t e, imbarcazionicapienti da trasporto, sinoal cuore della città storica. Vi s t ii carichi di carbone – coke inglesee carbon dolce – sempre più[115-116] Il ponte del Ghetto realizzatodalla Fonderia Nev<strong>il</strong>le come evidenzia<strong>il</strong> dettaglio a destra.imponenti di cui necessitava laditta Nev<strong>il</strong>le, vennero inviatepiù volte alla direzione dellastessa missive per contenerne le quantità, sino a quando, nel 1879,la commissione antincendi comandò perentoriamente di trasferire aoltre otto metri di distanza dal muro dell’Archivio di Stato ai Frari,depositario della preziosa documentazione della storia della Serenissima,<strong>il</strong> deposito di carbone della fonderia.La ditta Nev<strong>il</strong>le monopolizzò per vent’anni l’intera produzionedel ferro in città in quanto, sino al 1867, rimase l’unica che fondevae trasformava la materia grezza all’origine, mentre varie eranole officine per la lavorazione del prodotto finito. Successivamente,da un censimento effettuato dalla Camera di Commercionel 1895, la presenza di fonderie ammontava già a una quindicinadi imprese, visto che tale attività si era fortemente rafforzata nelperiodo post-unitario. Alcune di queste imprese si limitavano asemplici officine fabbr<strong>il</strong>i, mentre altre si misero in diretta concorrenzacon i Nev<strong>il</strong>le.Le fonderie erano luogo di lavoro esclusivamente masch<strong>il</strong>e e vedevanola presenza di varie specializzazioni quali fonditori, modellisti,fabbri da fuoco, meccanici, tornitori, calderari e facchini. Vi s<strong>il</strong>avorava tutti i giorni non festivi, dieci ore e mezza d’inverno, undicie mezza d’estate. Il salario, nelle fonderie Nev<strong>il</strong>le, variava a secondadel merito degli operai ed era compreso giornalmente tra 2fiorini a 70 soldi per gli operai, da nulla a 35 soldi per i garzoni. INev<strong>il</strong>le con lo svizzero Stucky, fondatore del grande mulino allaGiudecca, i tedeschi Herion e Junghans, sempre titolari di stab<strong>il</strong>imentiindustriali nella medesima isola, e altri industriali provenientidal nord, costituirono <strong>il</strong> corpo vivo di quella coraggiosa imprenditoriastraniera, approdata a metà Ottocento in laguna, cheimpresse un’accelerazione inarrestab<strong>il</strong>e all’allora stagnante economiacittadina.Alla fine dell’Ottocento <strong>il</strong> settore del ferro a Venezia risultavaormai saturo e per vincere la concorrenza si pensò di attivare produzioniindustriali alternative, specie nel settore navale. All’iniziodel secolo successivo, i Nev<strong>il</strong>le, dopo oltre cinquant’anni di valenteattività, decisero, data la concorrenza, di ritirarsi mettendo definitivamentela società in liquidazione. Nel 1905 <strong>il</strong> Comune diVenezia acquistava – per un totale di lire 267.797,92 – l’interaarea della loro fonderia, provvista di vari immob<strong>il</strong>i di pertinenza,mentre un gruppo di coraggiosi imprenditori, tra cui <strong>il</strong> conte GiuseppeVolpi, si dichiarò disponib<strong>il</strong>e a r<strong>il</strong>evare l’attività trasferendolaalla Giudecca per volgere la produzione in ferro al campo dellecostruzioni navali. Venne così costituita la SAV I N E M ( S o c i e t àAnonima Veneziana Industrie Navali e Meccaniche) diretta dall’ingegnerGiovanni Carraro, che era stato <strong>il</strong> liquidatore della FonderiaNev<strong>il</strong>le. Di questa importantetestimonianza produttivadella Venezia dell’Ottocento èrimasta attualmente solo traccia nella toponomastica della calle dela Fonderia a San Rocco.I Nev<strong>il</strong>le si dedicarono a un’attività incessante e creativa cheandava oltre l’erezione dei due ponti in Canal Grande all’Accademiae agli Scalzi e di gran parte di tutti i ponti in ferro veneziani;nel 1855 arrivarono a proporre la costruzione di un grande stab<strong>il</strong>imentobagni, nel 1857 un progettodi mercato, nel 1859 sperimentaronouna macchina per ricavare acquadolce da quella salsa, sino a proporresistemi di rifornimento per l’acquapotab<strong>il</strong>e in città prelevandola direttamentedal S<strong>il</strong>e.[117-118] Disegno di un elemento decorativoper ponte in ferro e, in alto, <strong>il</strong> ninzioletto aricordo della sede della Fonderia Nev<strong>il</strong>le.


La lavorazione dei metalli preziosiMICHELA DAL BORGOdelle arti veneziane legate alla lavorazione di pietree metalli preziosi è da ricondursi, come ormai assodato,a Bisanzio, meta priv<strong>il</strong>egiata dei mercati medievali. L’origineBen presto però l’estro artistico e la capacità professionale degli artigian<strong>il</strong>agunari – sia locali che immigrati – diedero frutti propri,ricercati in tutta Europa per la loro bellezza e perfezione: lavori inf<strong>il</strong>igrana, identificati come opus veneciarum oppure opus veneticum,appaiononegli inventari di numerosi tesori, di proprietà ecclesiasticao di sovrani, sin dal XIII secolo.L’Arte degli oresi ottenne <strong>il</strong> riconoscimento giuridico dallo Statoveneziano nel 1233, anno in cui <strong>il</strong> capitolare fu ratificato dallaGiustizia Vecchia. Il controllo statualesulla corporazione era esercitatonon solo attraverso le tradizionalimagistrature con competenza sulle<strong>Arti</strong> – Giustizia Vecchia e M<strong>il</strong>izia daMar – ma anche dagli uffici dellapubblica Zecca, sia per quanto riguardavala materia prima ut<strong>il</strong>izzata,sia per la buona qualità del prodottofinito. Una determinata quantitàdei metalli preziosi giunti a Veneziaera, per legge, destinata alloStato (un quarto del totale nel XIVe XV secolo); <strong>il</strong> rimanente, dopo l’opportuna valutazione, potevaessere venduto a privati, con una regolare asta da tenersi nella zonarealtina, centro delle transazioni commerciali. Parimenti, ogni oggettoprodotto dagli oresi doveva essere valutato in Zecca: se ritenutodi buona lega e di pregevole fattura lo Stato apponeva <strong>il</strong> propriomarchio – <strong>il</strong> San Marco in forma di leone in moleca – accantoal punzone proprio dell’artigiano, obbligatorio per gli oresi di tuttolo Stato e dato in nota, cioè registrato, presso gli officiali deputatialla bolla nella Zecca della Dominante.Per volere del Maggior Consiglio dal 1331 le botteghe degliorefici si concentrarono dapprima nella zona di Rialto: nella rugaGranda per la vendita di oggetti di notevoli dimensioni, nella rugaMinore o ruga degli Anelli per i gioielli veri e propri – permanetuttora <strong>il</strong> toponimo ruga degli Oresi –; un negozio era poi presentein ogni sestiere, per comododella popolazione. Per questaprobab<strong>il</strong>e ragione, anche l’altarededicato al patrono, Sant’AntonioAbate, fu eretto nella vicinachiesa di San Giacomo di Rialto,tra <strong>il</strong> 1599-1605, in campoRialto Nuovo, la sede stab<strong>il</strong>edella scuola, poi restaurata alla[120] La chiesa di San Giacomo aRialto.[119] Insegna dell’Arte degli oresi,Venezia, Museo Correr.fine del secolo XVII e oggi sededi alcuni uffici del Magistratoalle Acque: le iniziali S.O. presentisulla lunetta in ferro battutosopra <strong>il</strong> portone d’entrata e <strong>il</strong> soffitto affrescato della sala capitolaredi epoca barocca testimoniano l’antica destinazione d’uso.[121] Il corno dogale, <strong>il</strong> gioielloveneziano per eccellenza.L’Arte degli oresi e gioiellieri comprendeva artigiani esperti inmolteplici tipologie di manufatti. Di norma i garzoni – che potevanoessere veneziani, sudditi della terraferma e anche forestieri,trattandosi di una corporazione aperta – erano accettati dai 7 ai 18anni e, dopo cinque anni, passavano alla qualifica di lavorante perulteriori due anni. La divisione in quattro colonelli ( s p e c i a l i z z a z i o n i )principali – gli oresi propriamente detti cioè argentieri e gioiellieri,i diamanteri da duro per <strong>il</strong> taglio e lalavorazione dei diamanti, i d i a m a n t eri da tenero per le altre pietre preziose,i gioiellieri e ligadori da falso p e roro e argento di bassa lega e le pietredure – non esaurisce l’estrema varietàdelle lavorazioni, come chiaramentetestimonia una decisione delcapitolo dell’Arte del 1693 che precisavale diverse prove pratiche che <strong>il</strong>lavorante doveva sostenere per divenire capomaestro. Oltre all’obbligogenerale di dimostrare una perfetta capacità – “bona et perfettacognitione” – nella valutazione della lega in oro e argento presentenelle verghe sem<strong>il</strong>avorate, attraverso un procedimento particolarechiamato t o c c a, sono ben vent<strong>il</strong>e prove d’arte elencate. Ad esempio“per quelli che lavoran di ligar gioiealla francese: un anello quadro conpietra meza gropida (a ottaedro), largadi fazza scoperta con l’onghiella;per quelli che lavoran d’argento digrosso: un piede di coppa; per quelliche lavoran di bottoni: un ferro abuovolo con una rosettina et far unbotton dal detto ferro; per quelli chelavoran di ceselo: una pace con unCristo morto con cherubini e fiori;per quelli che lavoran granate: unagranata lavorata a melon et una afazzetta; per quelli che smalta et dipinge:un fior al natural dipinger”.Tipicamente veneziani, oltre alla decorazione a f<strong>il</strong>igrana importataa Venezia dal centro Europa, sono i manini anticamente dettientrecosei, catenelle composte da minuscoli anelli in oro zecchino elargamente esportate. L’attività orafa fu fiorentissimasino al XVIII secolo: accantoall’oggettistica sacra – pissidi,calici, reliquiari destinati adabbellire gli altari delle chieseveneziane – al vasellame e manufattid’uso comune e decorativoper le case, vi era un’enorme produzionedi generi voluttuari, inabbondanza usati dalle gent<strong>il</strong>donne(ma anche gli uomini nondisprezzavano anelli, cinture e[122] La decorazione a cesello inargento dorato sulla legatura delBreviario Grimani conservato allaBiblioteca Marciana.[123] Ciondolo devozionale in oro esmalti del XVI secolo.catene preziose) per arricchire vesti e acconciature, spesso – o meglio,quasi sempre! – in contraffazione alle innumerevoli leggi contro<strong>il</strong> lusso emanate dai Provveditori alle Pompe.Le altre corporazioni di mestiere veneziane che lavoravano oro


[124] La Scuola dei battioro a SanStae.e argento erano i tira e battioro e ibattioro alemanni. I primi si unironoin un’unica Arte nel 1596, riservandoladapprima ai soli veneziani esudditi, in seguito aprendola anchead artigiani “d’estero Stato” d a l1720, con un periodo di garzonatodi cinque anni, uno di lavoranzia d idue anni e obbligo della prova praticaper ottenere la qualifica di capomaestro.I tiraoro lavoravano <strong>il</strong>metallo, forgiato in forma c<strong>il</strong>indrica,tirandolo, attraverso apposite f<strong>il</strong>iere,sino a renderlo della sottigliezzadi un capello; i battioro i n v e-ce lo riducevano in forma di flessib<strong>il</strong>e lamella, di larghezza variab<strong>il</strong>e,ut<strong>il</strong>izzando “due ruote di azzale poste una contro l’altra”, p a s-sando attraverso le quali l’oro restava “schizatto e batudo”.I due colonelli erano tra loro nettamente distinti: nel 1753 i Provveditoriin Zecca stab<strong>il</strong>irono definitivamente “che ad alcuno non si<strong>il</strong>ecito <strong>il</strong> far <strong>il</strong> tira oro e batti oronello stesso tempo et in una stessacasa, ma bensì chi tira l’oro el ’ a rgento non possi batterlo e ch<strong>il</strong>o batte non possi tirarlo”. La lavorazionedel metallo a foglia era[125] Francesco Griselini, Arte delBatti l’Oro, Venezia 1768.invece prerogativa dei b a t t i o r oa l e m a n n i, provenienti anche dall’estero,riunitisi in corporazioneattorno al 1582-83. L’ a r t i g i a n o ,dopo aver separato le vergelle d’oro con fogli di carta pergamena o“pelle divina”, ricavata dall’intestino cieco di buoi e montoni, avvolto<strong>il</strong> tutto con una doppia guaina di pergamena cucita e più spessa– a Venezia chiamati f r a t e l l i – , sottoponeva <strong>il</strong> pacchetto ottenutoa una serie di battiture con martellidi peso decrescente, sino a ottenerefoglietti di infinitesimale spessore,raccolti poi separatamente tra duecopertine lignee, come un libricino. Imetalli preziosi così lavorati eranodestinati ad avere ut<strong>il</strong>izzazioni diverseda parte di altre corporazioni dimestiere: così i tira e battioro r i f o r n i-vano gli artigiani tess<strong>il</strong>i (i testori) che, intrecciando alla seta i f<strong>il</strong>i o lelamelle, creavano tessuti particolari edi gran pregio, vanto dell’industriaserica veneziana e largamente esportatiin Europa e in Oriente, mentre ibattioro alemanni provvedevano “a tutele dorature et arg e n t a t u r e ”e s e g u i-te dagli indoradori e dai cuoridoro c h eerano specializzazioni interne dell’Artedei d e p e n t o r i.[126-127] Portella del Bucintoro decorata confoglia d’oro e, in alto, particolare del ganzo,tessuto tipicamente veneziano con tramesupplementari in oro e argento.Umberto Bellotto.Un artista tra ferro e vetro*MARINO BAROVIER eCARLA SONEGO[128-129] La Pescheria di Rialto e, inbasso, la cancellata di v<strong>il</strong>la Adele alLido di Venezia.Affermatosi per i suoi caratteristici lavori in ferro battuto,Umberto Bellotto (1882-1940) ottenne un certo consensoanche nel mondo dell’arte vetraria dove si distinse per interpretazionimolto personali. Figlio di un fabbro ferraio, fin dal1902 subentrò al padre nella conduzione della bottega artigiana,specializzandosi nel lavoro fabbr<strong>il</strong>e.A partire da questi anni,avviò numerose collaborazionicon architetti attivi nel capoluogolagunare e riconducib<strong>il</strong>i auna cultura eclettica come AmbrogioNarduzzi, Giulio Alessandrie Domenico Rupolo. Varicordato anche <strong>il</strong> pittore CesareLaurenti al quale, tra l’altro, sideve, con Rupolo, la progettazionedella Pescheria di Rialto a Venezia (1906-07), opera nellaquale fu impegnato lo stesso Bellotto.Cancellate, ringhiere e fanali in ferro battuto vennero ampiamenteimpiegati in laguna a corredo di architetture di stampo storicistico– come la Pescheria – o in alcuni casi ispirati al Liberty,come molti dei v<strong>il</strong>lini, che furonocostruiti al Lido di Venezia. Forse, apartire da queste commissioni, gliinteressi di Bellotto si allargaronoallo studio degli interni e ai complementid’arredo in ferro come lampadarie bac<strong>il</strong>i, che lo portarono a sperimentarel’impiego di questo materialeinsieme ad altri, come <strong>il</strong> vetro,la ceramica e <strong>il</strong> cuoio. In particolare, all’inizio del primo decenniodel secolo egli conseguì, proprio con Cesare Laurenti, <strong>il</strong> brevettoper “Connubi di ferro e vetro”.Presente già dal 1903 alla Biennale di Venezia con opere sporadiche,tra cui nel 1909 si segnalano dei tripodi portavasi in ferro,nel 1914 Bellotto riscosse un notevole successo alla manifestazioneveneziana con un’ampia personale a lui dedicata. La “Mostra” – sottolineavaallora Antonio Fradeletto – “si distingue per alcuni tratticaratteristici; l’armonia e la corrispondenza organica dell’ambientecon gli oggetti che vi sono radunati;la trattazione genuina e signor<strong>il</strong>ea un tempo del rude metallo;le vaghe alleanze di questo conaltri e diversi materiali, specie con laceramica e col vetro. Connubio attraentedi forza e di frag<strong>il</strong>ità”.Nelle foto d’epoca che <strong>il</strong>lustrano l’evento,insieme a “vasche, tripodi,supporti, alari, inferriate, piatti, co-[130] Mostra individuale di UmbertoBellotto alla Biennale del 1914.


fani, sed<strong>il</strong>i, ecc.”, si nota la presenza di calici e appliques in vetro edi alti steli in ferro che sostengono coppe, anch’esse in metallo lavorato,dalle quali fuoriescono, timidamente, coppe in vetro. Sonoquesti i primi esempi, presentati al grande pubblico, dell’uso delvetro da parte dell’artista; uso che egli impiega per dar vita a operedi stampo eclettico, ispirate agli st<strong>il</strong>i storici (si vedano ad esempioi calici), e a quei tripodi che, con successive elaborazioni, diventerannola nota distintiva della sua produzione come “Connubiodi ferro e vetro”.Per la Biennale del 1914 egli ut<strong>il</strong>izzò <strong>il</strong> vetro trasparente ed èpossib<strong>il</strong>e ipotizzare che la maggior parte dei “connubi” del periodosia stata realizzata ut<strong>il</strong>izzando soffiati eseguiti con tale materia.Questi vengono posti a conclusione di una struttura in ferro battuto,più o meno complessa, che si compone di un elemento verticaleinserito in un piedistallo. Il sostegno assume forme diverse, a secondadei casi, e regge una montatura metallica nella quale sono sistemati<strong>il</strong> vaso o la coppa in vetro. Per l’occasione Bellotto si avvalsedei maestri della Fratelli Toso, storica azienda che si distinguevaper un repertorio abbastanza tradizionale di vetri muranesi, ma chepartecipò alla stessa Biennale esponendo opere tutt’altro che consuetesu disegno dell’artista norvegese Hans Stoltenberg Lerche.Presumib<strong>il</strong>mente affascinato da alcune di quelle opere, intornoal 1920, <strong>il</strong> veneziano disegnò degli oggetti vitrei che si rifanno alletecniche impiegate da Lerche. È<strong>il</strong> caso, ad esempio, del vaso invetro azzurro con doppia strozzaturae con f<strong>il</strong>amenti vitrei applicati,quasi sospeso sopra unastruttura in ferro battuto decoratasull’asta dal leone marciano(1920 circa), eseguito ancorauna volta con la Fratelli To s o ,con cui <strong>il</strong> fabbro lavorò più volte.Ma egli intrattenne rapporti[131-32] Vasi su strutture in ferrobattuto: a sinistra in vetro trasparenterealizzato nel 1920 e, a destra, in vetroa “piume di pavone” del 1914.di collaborazione soprattuttocon la fornace dei Barovier coni quali, forse, era già entrato incontatto prima della guerra. Lofarebbe pensare la struttura inferro battuto con la sfera vitreadecorata con motivo a “piume di pavone” del 1914 circa.Dal primo dopoguerra la produzione di “connubi” andò via viacaratterizzandosi per una ricerca raffinata sulla materia e sul coloreper la realizzazione degli elementi vitrei. Si assistette perciò a unsempre maggiore impiego della tecnica “a murrine” ut<strong>il</strong>izzata perimpreziosire e dare forma ai vasi ealle coppe da includere nella composizione.Così, ad esempio, alcuni vasivennero impreziositi da semplici“murrine circolari” o dalle “murrinea stella” di avventurina dovuti all’ab<strong>il</strong>itàdei Barovier. A queste si associarono,talvolta, supporti modellatidal maestro del ferro con l’inserimento,nel sostegno verticale, di tipichefigure masch<strong>il</strong>i piegate su sestesse o slanciate verso l’alto.[133] Dettaglio di un vaso in vetrotrasparente decorato da murrine eposto su una struttura in ferrobattuto, 1920 circa.[134-135] Vasi e “Connubi in ferro evetro” esposti alla prima Biennale diarti decorative di Monza nel 1923 e, adestra, paravento e cancelli esposti allaBiennale di Venezia del 1924.L’attività di Bellotto continuò aessere documentata anche nellebiennali veneziane postbelliche(1920, 1922, 1924, 1932) a cuisi aggiunse, dal 1923, la prestigiosavetrina delle biennalimonzesi (1923, 1925, 1927).L’artista partecipò alle varie rassegnesia con lavori in ferro battuto(cancelli, cancellate ecc.),sia con “Connubi di ferro e vetro”– sporadicamente solo conoggetti in vetro – insieme aiquali si videro anche opere in ceramica,cuoio e stoffe. La qualitàdei manufatti suscitò discordantipareri critici. Fin dal 1922 cifu chi, come Gino Damerini,espresse perplessità sui risultatidell’impiego del ferro in associazione con vetro e maioliche, sottolineandocome tali proposte non “raggiunge[ssero], talora, l’equ<strong>il</strong>ibriodesiderab<strong>il</strong>e”. Sulla stessa scia è anche <strong>il</strong> parere di Roberto Papiniin occasione della prima Biennale di Monza nel 1923. Tu t t a-via, durante quest’ultima manifestazione, in cui Bellotto ebbe unasala personale con ben 54 pezzi e fu insignito del Gran Diplomad’Onore per i “ferri battuti in connubio col vetro”, altre voci si levaronoin suo favore come quelle di Raffaele Calzini o di RaffaelloGiolli. In particolare Giolli notava che “quando [...] <strong>il</strong> paradossalefabbro veneziano, dopo aver alleggerito <strong>il</strong> ferro, con la sua stravagantelavorazione, e dopo essersi creati apposta dei vasi vitrei ricchidi colori vivaci e robusti, combina ferro e vetro, mettendo un vasodi vetro su un sostegno di ferro, nessuno certo ci trova a ridire”.Inoltre, <strong>il</strong> veneziano Guadagnini ricordava come Bellotto avesse“una fama che ha varcato frontiere e oceani. I lavori di questo cesellatoredel ferro, si trovano anche in America, nella Grecia, in Egittoe suscitano ovunque calda ammirazione. [Egli] è anche un ricercatoree, fissando in forme nuove i fantasmi elaborati, sa mantenereviva e fresca la sua arte, sa realizzare con sorprendente efficacia e disi n v o l t u r a ” .Indipendentemente dalle posizioni dei vari critici, tale testimonianzasottolinea come la linea seguita dal veneziano riscuotesse ungrande successo di pubblico. A conferma di ciò vanno ricordati anchei tentativi fatti da alcuni maestri muranesi di riproporre in chiavepersonale l’associazione del ferro col vetro. Nella stessa Biennaledel 1923 la Vetreria <strong>Arti</strong>stica Barovier aveva presentato “la nuovadecorazione del vetro soffiato combinato a fuoco col ferro battuto”con la collaborazione dei fabbri Cardin e Fontana di Venezia per glielementi metallici. L’esperimento però non ottenne i risultati sperati,tanto che lo stesso Giolli, confrontando l’opera di Bellotto conquella dei Barovier notò come essi “fa[nno] <strong>il</strong> contrario: lavora[no]<strong>il</strong> ferro come se fosse vetro finto, a ricamini, sghiribizzi e riccioli, epoi te l’inchioda[no], con delle viti di vetro di finto ferro”.Il catalogo della mostra del 1923 non fa menzione degli artigianiche eseguirono i manufatti in vetro inseriti nel lavoro di Bellotto.A ragione si può ritenere però che la maggior parte di essi siastata realizzata proprio dalla Vetreria <strong>Arti</strong>stica Barovier per l’eccezionalequalità esecutiva dei vetri “a murrine” e per <strong>il</strong> loro straor-


[137-138] Vasi del 1927: a sinistra vetrotrasparente su struttura in ferro battuto e,a destra, vetro con bolle incluse.dinario cromatismo. Caratteristico è inoltre l’uso di particolari tipidi “murrine” già presenti in altre realizzazioni della fornace ma, inquesto caso, combinate con una maggiore libertà per potenziarnel’aspetto coloristico, che viene spesso rimarcato dalla presenza di unbordo nero alla sommità del vaso.Sempre in occasione della stessaBiennale si videro anche dei vasi,ideati da Bellotto – interamente invetro, perlopiù a “murrine” – a testimonianzadel sempre maggiorecoinvolgimento dell’artista verso unsettore che, pur non essendo specificatamente<strong>il</strong> suo, esercitava su di luiun notevole fascino. Egli continuòsu questa strada sv<strong>il</strong>uppando ulteriormentela ricerca nonostante alcunecritiche tacciarono <strong>il</strong> suo lavoro di [136] Vaso “a murrine”, 1923 ca.manierismo, tanto che una sua importantepersonale (con più di cinquanta opere) fu ospitata dallaBiennale di Venezia nell’anno seguente: <strong>il</strong> 1924.L’artista partecipò poi anche alla seconda edizione della Biennaledi Monza del 1925 presentando insieme a dodici cancelli inferro battuto, anche “lampade pens<strong>il</strong>i, tripodi con connubi di ferroe vetri eseguiti [...] nelle fornaci dell’IVAM”. Per la successiva edizionedella mostra monzese nel 1927 “<strong>il</strong> mago” – come veniva anchechiamato – si avvalse invece dei maestri della Pauly presentando,tra l’altro, vetri eseguiti su suoi modelli insieme a “supporti inferro battuto con vetri”. Lanuova produzione dimostròla svolta operata anche per farfronte alle mutate esigenzedel <strong>gusto</strong>. Così si poteronoapprezzare vasi e calici in vetrosoffiato con una materiatrasparente – spesso con coloritenui e inclusione di bolle– caratterizzati da combinazionie sovrapposizioni di elementigeometrici semplicicome la sfera, <strong>il</strong> cono, <strong>il</strong> c<strong>il</strong>indro.Per sottolineare la giuntura tra le parti egli impiegò inoltre finituree, talvolta elementi decorativi come rostri, anelli e spirali, dicolore contrastante priv<strong>il</strong>egiando <strong>il</strong> blu e <strong>il</strong> nero, quasi a evocare ancorala presenza figurativa del ferro battuto.All’inizio del decennio successivo, nel 1933, altre sue opere sividero sulle pagine della rivista L’artista moderno a corredo di un articolosulla Mostra d’arte e artigianato ferroviario di M<strong>il</strong>ano. Oltrealle ceramiche erano <strong>il</strong>lustrati anche dei vetri che verosim<strong>il</strong>menterappresentano gli ultimi esempi del lavoro del “mago”. Sono vetridove la forma si fa più morbida e viene elegantemente accompagnatada es<strong>il</strong>i finiture in vetro opaco, <strong>il</strong> cui esito appare come elaborazionedi un d é c o ormai attardato. Si chiude così la parabola diun artista che, nato in un ambiente artigiano, grazie al talento, seppeconiugare <strong>il</strong> suo bisogno di ricerca con i gusti dell’epoca senzarinunciare alla sua originalità, spaziando dal ferro al vetro.* tratto da Forme moderne, n. 4, Roma, Iuno Edizioni, maggio 2010.Miniature di vetro: le murrineGIOVANNI SARPELLONÈpossib<strong>il</strong>e far stare in un dischetto di vetro di tre m<strong>il</strong>limetridi diametro i ritratti di Vittorio Emanuele II, Garibaldi eCavour? L’incredib<strong>il</strong>e risposta è sì. L’autore di questa prodezzafu Giacomo Franchini che, lavorando al fuoco della lampadausata dai perlai veneziani, fra <strong>il</strong> 1845 e <strong>il</strong> 1863 realizzò una serie dibacchette di vetro (o “canne”,come si dice a Murano) chein tutta la loro lunghezzaracchiudevano un ritratto.L’arte di fabbricarecanne di vetro contenentiun disegno è vecchia di[139-140] Murrine con iritratti di VittorioEmanuele II e GiuseppeGaribaldi realizzate daGiacomo Franchini ametà Ottocento.oltre trem<strong>il</strong>a anni; essa raggiunse <strong>il</strong> suo momentodi massimo splendore nei due secoliattorno alla nascita di Cristo, per opera deivetrai di Alessandria d’Egitto e di Roma,che erano in grado di preparare canne conuna grande varietà di colori e disegni, chetagliavano poi a fettine e saldavano le une alle altre sotto l’azionedel fuoco, riuscendo così a fabbricare piattini, ciotole e anche vasettidi grande bellezza.L’introduzione nel lavoro di fornace della canna da soffio (versola prima metà del I secolo dopo Cristo) fece cadere in disuso questogenere di lavorazione, che riappare solonel XIX secolo per opera dei vetrai muranesi.Fabbricare una canna di vetro contenenteun disegno in tutta la sua lunghezza nonè cosa molto diffic<strong>il</strong>e se ci si serve di unostampo aperto nel quale pressare una massadi vetro preventivamente raccolta sulla puntadi un’asta di ferro. Con questo sistema si[141] Stampo per canna fanno canne con decori semplici, generalmentea forma di stella o ruota dentata, chem<strong>il</strong>lefiori.sono comunemente chiamati “m<strong>il</strong>lefiori”.Un secondo metodo per fare una canna più complessa consistenel disporre assieme più canne semplici e con queste formare un disegno;riscaldando molto lentamente <strong>il</strong> nuovo c<strong>il</strong>indro così formatosi ottiene una nuova canna. Il terzo sistema di lavoro è molto piùdiffic<strong>il</strong>e: a un primo nucleo di vetro caldo attaccato alla punta diun’asta di ferro, si aggiunge dell’altro vetro direttamente preso dalcrogiolo, sagomandolo secondo la forma voluta, e costruendo <strong>il</strong> disegnofinale un po’ alla volta.Il merito della reintroduzione delle canne a m<strong>il</strong>lefiori nel lavorodei vetrai muranesi spetta a Domenico Bussolin che, nel 1838,produsse una serie di canne molto eleganti. Poco dopo, GiovanniBattista Franchini ne riprese l’esempio e dettevita ad alcune centinaia di nuove canneelaboratissime e raffinate che usava poi perfabbricare sp<strong>il</strong>le, pendenti,manici di posa-[142-143] Canne m<strong>il</strong>lefiori,di fronte e in sezione.


[146] Ponte di Rialto di GiacomoFranchini. Il diametro dellamurrina è 7 mm: un quarto diquesta immagine.[144-145] Boccetta a murrine m<strong>il</strong>lefoglie di GiovanniBattista Franchini e, in basso, press papier di PietroBigaglia.te. Con pezzetti di queste canne Pietro Bigagliafece nel 1844-45 i primi fermacarte, subito imitatidalle cristallerie francesi. Lo straordinario èche Giovanni BattistaFranchini era un perlaioe lavorava quindi nonin una fornace muranese,ma con gli strumentipropri della suaarte: una fiamma alimentatadal grasso animaledi una lampada e rafforzata da un getto d’aria, usando piccolequantità di vetro rifuso. Il figlio Giacomo, facendo tesoro dell’esperienzadel padre, si dedicò a una impresa incredib<strong>il</strong>e: prepararedelle canne contenenti non solo disegni di vario genere, ma addiritturadei ritratti. Cominciò nel 1845 con <strong>il</strong> volto di una fanciulladi nome Angelina (la sua fidanzata?) e con una veduta del pontedi Rialto tanto suggestiva quanto esatta nei minimi particolari.Continuò poi, nel 1848, con <strong>il</strong> ritratto di Pio IX, e successivamente,nel 1860, con quello del primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II;seguì quindi una piccola galleria di ritratti dei personaggi <strong>il</strong>lustridel tempo, che comprendeva quelli di Cavour, Garibaldi, NapoleoneIII e dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria.Ciò che stupisce, e che si direbbe impossib<strong>il</strong>ese non fosse invece reale, è la dimensionedei lavori di Franchini: <strong>il</strong>ponte di Rialto è un ovale di 7 m<strong>il</strong>limetridi diametro; del ritratto diVittorio Emanuele sono conservati alcuniesemplari che arrivano a 3-4 m<strong>il</strong>limetri.Il “segreto” di queste miniatureè semplice da svelare: sta nella particolaritàdelle canne di vetro che,quando sono ben riscaldate in manierauniforme, possono essere stirate senza che <strong>il</strong> disegno in essecontenuto si deformi pur diventando sempre più piccolo.Giacomo Franchini raggiunse con <strong>il</strong> suo lavoro livelli di perfezionecui nessun altro arrivò. Egli non fu comunque l’unico in questoparticolarissimo settore dell’arte vetraria. Vincenzo Moretti,tecnico vetrario della vetreria Salviati (e in seguito della CompagniaVenezia-Murano), verso <strong>il</strong> 1870 si dedicò con passione allostudio dei frammenti degli antichi vetri romani che in quei tempivenivano riscoperti negli scavi archeologici finché, nel 1878, riuscìa imitarli alla perfezione, lavorando in fornace con <strong>il</strong> vetro direttamenteprelevato dal crogiolo. Essi furonopresentati all’Esposizione Internazionaledi Parigi di quell’anno e ottenneroun grandissimo successo. Fu inquell’occasione che l’abate Vi n c e n z oZanetti, fondatore del Museo Vetrariodi Murano e animatore della rinascitavetraria ottocentesca, usò la parola“murrini” per indicare quegli oggetti,[147] Vaso murrino diVincenzo Moretti, 1881 ca.richiamandosi ai vasa murrina di cui parla Plinio <strong>il</strong> Vecchio nellasua Historia Naturalis. Da allora, a Murano, ma poi in tutto <strong>il</strong> mondo,come “murrini” sono chiamati quei vetri che tecnicamente vengonodetti “vetro-mosaico”, così anche “murrine” sono dette le fettinetagliate da una canna contenente un qualsiasi disegno.Chi volle ritentare l’impresa di Giacomo Franchini fu LuigiMoretti, figlio di Vincenzo, che fra <strong>il</strong> 1888 e <strong>il</strong> 1894, dette vita auna nuova serie di ritratti che comprendonoquelli di Umberto I, Cristoforo Colombo,del Kaiser Guglielmo I e un volto di Madonna.I suoi lavori, pur pregevolissimi,sono meno accurati di quelli di Franchiniper <strong>il</strong> diverso metodo di lavoro seguito.Egli, infatti, componeva a freddo <strong>il</strong> disegnoaccostando sott<strong>il</strong>i cannelle colorateche, legate con un f<strong>il</strong>o di rame, venivanopoi lentamente riscaldate fino al di Colombo.[148] Luigi Moretti, ritrattopunto di rammollimento e infine stiratein una lunga canna del diametro desiderato.Anche nella famosa vetreria degli <strong>Arti</strong>sti Barovier si produsserobellissime murrine. Dopo alcuni lavori di Giovanni, eseguiti attornoal 1880, le opere più belle furono realizzate dal di lui nipoteGiuseppe negli anni fra <strong>il</strong> 1910 e 1915. Egli interpretò nel vetro <strong>il</strong>nuovo st<strong>il</strong>e Liberty, eseguendo una notevole varietà di coloratissimifiori, ora isolati e ora riuniti in eleganti mazzetti. Giuseppe Barovierera un maestro vetraio di altissimo livello e fu quindi per luiovvio adottare nella fabbricazione delle murrine la tecnica più confacentealla sua arte; formava la canna stendendo progressivamentestrisce di vetro prelevate direttamente dal crogiolo e modellandolefinché erano ancora calde: un lavoro di grande maestria che immediatamentesi apprezza osservando la complessità e la bellezza dellemurrine realizzate. Il capolavoro di GiuseppeBarovier resta comunque la “murrinadel pavone” che riassume la raffinatezzaartistica e la perizia tecnica di questomaestro vetraio che continua a essere ricordatofra i maggiori. Essa fu presentatanel 1913 all’esposizione dell’Opera Bev<strong>il</strong>acquaLa Masa e valse al suo esecutorel’appellativo di “mago dell’arte vetraria”.Con le murrine liberty di Giuseppe Barovier si conclude un ciclonella storia di questi minuscoli capolavori: negli anni successiviesse cessano di essere oggetti in sé compiuti e vengono semprepiù concepite e ut<strong>il</strong>izzate come elementi decorativi in oggetti divetro soffiato; le ut<strong>il</strong>izzarono gli stessi Giuseppe e Benvenuto Barovierprima e successivamente Ercole, i Fratelli Toso nella loro infinitaproduzione di vetri m<strong>il</strong>lefiori e tanti altri ancora fino ai giorninostri. Bisognerà poi aspettare <strong>il</strong> 1989 per ritrovare a Murano unvetraio desideroso di cimentarsi in questa affascinante arte: saràMario Dei Rossi che, terminata la sua attivitàin fornace, creerà una nuova, bellissima seriedi murrine con volti, fiori, animali ealtri disegni ancora. L’antica arte rivive.[149-150] La murrina col volto della Giuditta diKlimt realizzata da Mario Dei Rossi e, in alto,la murrina del pavone di Giovanni Barovier.


Fiori di perleTUDY SAMMARTINIdelle perle di conteria si espande in tutto <strong>il</strong> mondo grazieall’intenso commercio dei veneziani e raggiunge unaL’usotale popolarità che, malgrado la Repubblica cerchi di proteggerela sua produzione, già nel1526 <strong>il</strong> muranese Plinio del Sole ottiene<strong>il</strong> priv<strong>il</strong>egio di produrre perle aParigi, Vincenzo Bussone d’Altare e<strong>il</strong> mantovano Tommaso Bartoli installanoforni a Rouen nel 1594 e nel1605 l’Università di Medicina diMontpellier entra in possesso delpreziosissimo ricettario Segreti di ve -tri e di smalti comp<strong>il</strong>ato nel 1536certamente a Murano.Mentre l’uso d’intercalare perlepreziose e di vetro è antichissimo, findal Trecento si eseguono ricami inr<strong>il</strong>ievo con perle, conchiglie e baccheusando f<strong>il</strong>i d’oro e d’arg e n t o .A n c h ein Ingh<strong>il</strong>terra, verso la seconda metà del Seicento, troviamo ricamicon perline a r<strong>il</strong>ievo, di gran moda nel periodo degli Stuart; si trattadel cosiddetto stump work, un ricamo tridimensionale a tecnicamista dove la scena centrale è ricamata a punto ad asola, mentre leperline di vetro montate su f<strong>il</strong>o metallico formano fiori colorati lavoratia r<strong>il</strong>ievo che danno una profondità prospettica alla scena.L’esasperata ricerca di realismo, l’amore del dettaglio, la rappresentazionedi animali e in particolare di insetti e fiori, sono collegatida un lato a simbolismi di sapore esoterico e dall’altro allescoperte scientifiche e ai viaggi verso nuovi mondi del Cinque eSeicento. Le composizioni sono ricavate da stampe di soggetto biblico,da libri di disegni per ricamo stampati a Venezia e in Germania,da erbari e da bestiari. Questa tecnica raggiunge <strong>il</strong> suo massimosplendore dal 1650 al 1680 e non stupisce dunque di trovareesempi di stump work conservati al Victoriaand Albert Museum di Londra. Questo effettodel ricamo a r<strong>il</strong>ievo è particolarmenteevidente in un coperchio di cestino, datab<strong>il</strong>everso la seconda metà del Seicento:la scena è incorniciata da ciuffi di fiori coloratiin r<strong>il</strong>ievo montati su f<strong>il</strong>o di rame. Le[152-153] Cestino inglese dimetà Seicento decorato astump work e, a destra,dettaglio dei fiori di perle.[151] Margaritero da GiovanniGrevembroch, Gli abiti deiveneziani, Venezia, MuseoCorrer.foglie e i fiori formati da perline minuscolesono tessuti a telaio come pure le perleche ricoprono le bacche a rappresentarefrutta esotica. Il perfettostato di conservazionedell’oggetto fa pensareche fosse conservato sotto vetro, come unacosa già molto preziosa al tempo dell’esecuzionee da trattare quindi con la massima cura.Nell’Ottocento, grazie alle scoperte archeologiche, <strong>il</strong> <strong>gusto</strong> perl’antico si rinnova e trova modo di esprimersi anche con le conterie.Durante tutto <strong>il</strong> secolo, la produzione di fiori di perle soddisfauna nuova moda, i fiori non sono più la parte ornamentale di un ricamoma sono eseguiti a parte comeoggetti a sé stanti. La loro lavorazionediventa un’industria vera e propria,un settore delle conterie. Il Pasquatoricorda che “le sorelle Dorigofanno per incarico di una casa pariginacorone mortuarie che costituisconouna novità del genere e hannoanche un’importanza sociale: le sorelleper prime avevano dato l’impulsoa un ramo vetrario industrialeche portò e porta grande vantaggio a tante povere operaie”.Accanto a lavori destinati alla commercializzazione vi sono oggetticreati in perline a scopo devozionale. Ne è un esempio <strong>il</strong> quadrettocon l’immagine di GesùBambino, la cui cornice è in perlinericamate, mentre i fiori, lavorati separatamente,sono applicati. In unacasa di Pellestrina è conservata sottouna campana di vetro una Madonnacol Bambino in legno, vestita distoffa preziosa ricamata, entro unosfondo a nicchia vegetale, formata da[155] Baldacchino processionaledella chiesa dei Santi Giovanni ePaolo realizzato con conterie.[154] Cuscino decorato conapplicazione di fiori di conterie.ramoscelli in perline di vetro policrome.Altro esempio di tecnica mistache ricorda lo stump work è un exvoto del 1904 dedicato alla Madonnadell’Apparizione, patrona di Pellestrina,da parte di un marinaio dell’isola; si tratta di un piccolo altarein r<strong>il</strong>ievo, decorato a mosaico di perle colorate su cui l’immaginedipinta della Madonna emerge da una nuvola di fiori rossi.Fino agli anni trenta la produzione di fiori continua a essere fiorente,malgrado <strong>il</strong> calo delle esportazioni di conterie ma, dopo la SecondaGuerra Mondiale, la tradizione di confezionare fiori di perledecade a causa del cambiamento nel <strong>gusto</strong> e per <strong>il</strong> diffondersi dell’industrializzazioneche porta anche le donne a preferire <strong>il</strong> lavoro infabbrica. Solo poche anziane nelle isole, soprattutto a Burano, fannosopravvivere l’antica arte tramandata da madre in figlia. Neglianni sessanta Maria Porro Paleologo ebbe modo di conoscerne alcunee di farsi insegnare quest’antica arte. Con la figlia Gabriella iniziaallora un’attività commerciale per la produzione di fiori e alberidi Natale, esportati anche negli Stati Uniti. Di quest’iniziativa fupartecipe anche Nella Lopez y Royo Sammartini che, col tempo, èriuscita a far rivivere <strong>il</strong> mondo dei fiori di perle con una tecnica tuttapersonale. I colori e le forme dei suoi fiori s’ispirano a quelli delsuo giardino ma anche alle nature morte dei pittori fiamminghi.Tra le sue dutt<strong>il</strong>i mani le perle si trasformano in sculture di luce daim<strong>il</strong>le colori. Ogni petalo e ogni foglia prende r<strong>il</strong>ievo e volume diventando,grazie alla sua fantasia,rose d’oro e d’argento, ramidi bacche rosse, fiori di ghiaccio,campanule e giacinti in un tripudiodi colori.[156] Mazzo di iris, convolvoli, rose egiunchiglie realizzato da Nella Lopez yRoyo Sammartini nel 1984.


[157-158] Impiraresse a Castellonegli anni sessanta e, a destra, unfiore di conterie.Come lei stessa ha spiegato, per farequesti fiori si parte dalla s e s s o l a, anticocontenitore di legno a forma discatola, riempita di perle che le scaltremani delle i m p i r a r e s s e con ab<strong>il</strong>evelocità inf<strong>il</strong>ano su f<strong>il</strong>i di ferro sott<strong>il</strong>i.All’inizio i lavori venivano fattiavvalendosi di incorniciature di ferroriempite orizzontalmente o verticalmentecon f<strong>il</strong>i di perle, sfumati neicolori, secondo i fiori prescelti. Con<strong>il</strong> passare del tempo, dalla metà circadell’Ottocento, la lavorazione deifiori viene semplificata, adottando un altro metodo. Si separano findall’inizio, lungo <strong>il</strong> f<strong>il</strong>o, perle in numero esatto per l’a n i m a della foglia;poi a seconda della forma del petalo si dispone <strong>il</strong> f<strong>il</strong>o in semicerchiconcentrici a formare una spirale e si fermasia nella parte alta che in quella bassa conuno o più giri, a seconda dell’effetto voluto,petalo dopo petalo, tono dopo tono.Composto <strong>il</strong> fiore, esso viene fissatoallo stelo insetato su di un lungoferro, così sboccia nel fiore voluto.Oggi la tradizione dei fiori di perle ètenuta in vita con successo dalla nipote diNella, Giovanna Poggi Marchesi.Tavoli veneziani alle corti imperiali*ROBERTO DE FEOAlla caduta del dominio napoleonico la vice-capitale delRegno Italico, Venezia, con tutto <strong>il</strong> suo territorio, passavaper la seconda volta alla corona austriaca. Il nuovo regimecomportò ben pochi cambiamenti effettivi all’interno dell’assettoartistico locale, sovrinteso dall’Imperial Regia Accademia di Belle<strong>Arti</strong>. In laguna <strong>il</strong> <strong>gusto</strong> neoclassico, che già da qualche decennioaveva dettato la comune grammatica del mondo occidentale, si eraimposto a fatica e solamente dagli ultimi anni del XVIII secolo, superandoquella tenace corrente rococò che aveva dato al mondo venezianola sua ultima splendida e autonoma stagione artistica, soprattuttograzie ai Tiepolo e alla loro scuola. I mutamenti politiciin atto: la caduta della Serenissima per opera di Bonaparte nel1797, la prima dominazione austriaca (1797-1806), la successivafrancese (1806-1814) e l’avvio del secondo governo asburgico videroessenzialmente un unico faro br<strong>il</strong>lare, quasi sempre a distanza,sulle “<strong>Arti</strong> Sorelle”: Antonio Canova.Durante <strong>il</strong> secondo decennio dell’Ottocento, e oltre, Veneziaversava in uno stato di depressione economica causata dai precedentiblocchi navali ed epidemie di peste e tifo che <strong>il</strong> nuovo governodel Regno Lombardo Veneto non era riuscito a risanare. È sullabase di queste premesse che <strong>il</strong> presidente dell’Accademia conteLeopoldo Cicognara, in occasione delle quarte nozze dell’imperatoreFrancesco I d’Austria con Carolina Augusta di Baviera nel novembre1816, chiese e ottenne di poter convertire <strong>il</strong> tributo richiestoal territorio veneziano – diecim<strong>il</strong>azecchini – in commissionidi opere d’arte.L’iniziativa non avrebbe ottenutoesito positivo se anche Canova, con gesto munifico, non avessefornito <strong>il</strong> marmo della Musa Polimnia. Cicognara ottenne, pure tramiteCanova, che i migliori allievi e artisti dell’Accademia eseguisserouna serie di opere allusive alle nozze e alla funzione dibuon governo dei sovrani austriaci. Un volume in folio, edito nel1818 in due edizioni con tiratura limitata di 602 esemplari e intitolatoOmaggio delle Provincie Venete alla Maestà di Carolina AugustaImperatrice d’Austria, raccolse le incisioni tratte dalle opere.I manufatti dovevano servire per decorare l’appartamento dellanuova sovrana alla Hofburg e comprendevano, oltre alla P o l i m n i a,pitture di Giovanni De Min, Francesco Hayez, Lattanzio Querena edi Liberal Cozza, vedute di Giuseppe Borsato e Roberto Roberti; lesculture Chirone ammaestra Ach<strong>il</strong>le di Rinaldo Rinaldi e <strong>il</strong> G i u r amento di Annibale di Angelo Pizzi con la collaborazione di BartolomeoFerrari; due vasi ornamentali modellati, con leggere varianti,sul famoso antico Vaso Borghese; due are di Bartolomeo Ferrari ispiratealle due basi di candelabro del Museo Archeologico Nazionaledi Venezia, già in collezione Grimani; lavori di oreficeria del vicentinoBartolomeo Bongiovanni. Chiudeva <strong>il</strong> cospicuo nucleo un sontuosotavolo ideato da Borsato, presentato nell’O m a g g i o con questeparole: “Tavola di smalti e bronzi [...] Si limita <strong>il</strong> presente lavoro adoffrire sopra un piano di Smalti variamente lavorati e contesti ciòche rimane ancora di puramente indigeno della veneta arte vetraria:e piacerà riconoscere come possano imitarsi le preziose e peregrineproduzioni della Natura e le più belle pietre ornamentali. Il d<strong>il</strong>igentemeccanismo della ruota pose ogni solerzia nella minutezza eprecisione degli intagli di tali materie durissime; acciò più appariscentee decorativo riuscisse quest’omaggio veramente nazionale, laToreutica e la Scultura vi hanno aggiunto col mezzo della fusione edel cesello i r<strong>il</strong>ievi in bronzo, che sorreggono la tavola, prestandosivicendevolmente soccorso le più nob<strong>il</strong>i arti inventrici e le meccanichediscipline. Il lavoro di smalti e vetrificazioni è stato eseguitonelle Officine del Sig. Benedetto Barbaria di Venezia. L’ i n v e n z i o n eè del Sig. Giuseppe Borsato, Professore nella R. Accademia di Venezia;i bronzi fusi e cesellati sono opera del Sig. Bartolomeo Bongiovannidi Vicenza, e le meccaniche concessioni e l’insieme del Sig.Giacomo Bazzani di Venezia meccanista stipettaio”.Si deve a Giuseppe Dala l’incisione che <strong>il</strong>lustrava <strong>il</strong> pezzostraordinario, riportandone l’esatta intitolazione: Tavola contesta diSmalti legati in oro e argento sorretta da un Tripode di Bronzi dorati.Una seconda versione, realizzata daMarco Comirato, fu inclusa nell’Ope -ra ornamentale, famoso volume apparsoin due diverse edizioni nel1831 che raccoglieva <strong>il</strong> meglio dellacreatività decorativa di Borsato.Benché l’immagine sia stata riprodottain numerosissime pubblicazionisul mob<strong>il</strong>e ottocentesco, <strong>il</strong> tavolovero e proprio risultava disperso fino[159] Roberto Roberti, La corteaustriaca al ponte di Rialto, 1817.[160] Incisione di Giuseppe Dalache raffigura <strong>il</strong> tavolo di Borsato.


a che una fortunata serie di indaginiha permesso invece di appurareche, passato in eredità alnipote di Francesco Giuseppe,l’arciduca Francesco Ferdinando(Graz 1863 – Sarajevo 1914), <strong>il</strong>mob<strong>il</strong>e fu destinato a una saladel castello boemo di Konopiste,dove si trova tuttora.Grazie a due acquerelli del1826, eseguiti da JohannStephan Deker, siamo in gradodi visualizzare l’ambientazioneoriginaria alla Hofburg sia deidipinti di Borsato che di Robertinella camera da letto dell’imperatriceche del tavolo, sistematonell’adiacente Sittzimmer.[163-165] La decorazione bronzea deltripode e, a destra in alto, quella invetro del piano, fedele all’incisione, afianco, di Giuseppe Dala inseritanell’Opera ornamentale chepresentava <strong>il</strong> meglio della produzionedecorativa di Giuseppe Borsato.Il tavolo, a un esame diretto, si rivela di squisita fattezza, quasiunico nel suo genere. Pochi anni prima, infatti, esattamente nel1811, quando era l’aqu<strong>il</strong>a napoleonica a dominare l’ex Serenissima,fu infatti prodotto un primo tavolo, certamente su disegno del Borsato,<strong>il</strong> cui artefice era stato quel Benedetto Barbaria già ricordato,figlio di Giorgio e discendente da una famiglia di vetrai muranesi.Si tratta di una curiosità artistica e tecnica: un bureau la cui strutturaaustera, prof<strong>il</strong>ata in bronzo doratocome le zampe leonine, è totalmenterivestita in lamine di pasta vitreavenata a imitazione del raro legnoa c a j o u, con <strong>il</strong> piano superiorerettangolare rivestito di broderie d i[166] Il bureau disegnato daBorsato per Napoleone.[161-162] Il castello di Konopiste inBoemia e, in basso, la Sittzimmerdella Hofburg in cui si riconosce nelcerchio <strong>il</strong> tavolo disegnato da Borsato.[167] Disegno acquerellato,conservato al Museo Vetrario diMurano, del motivo ornamentaledel tavolo realizzato nel 1811.perline in diversi colori, formanti unfittissimo mosaico che al centro presenta<strong>il</strong> disegno di un medaglionecon la lettera N. Al di sotto è estraib<strong>il</strong>e,grazie a due pomoli, un piano interno <strong>il</strong> cui fondo in lastre dipasta di vetro verde acqua, turchese e bianca, è suddiviso in specchiaturegeometriche. Ai lati, quattro finti cammei triangolari conarmi, scudi e figure allegoriche delimitano una fascia esagonale incastonatada vetri calcedonei e trasparentidalle forme prismatiche; gliangoli sono scanditi da quattro finticammei con Vittorie e da due medaglioniin altor<strong>il</strong>ievo, rispettivamentecon l’aqu<strong>il</strong>a dell’Impero Francese econ la Corona Ferrea del Regno Italico.Al centro, contornato da unaghirlanda d’alloro dalla quale si irradianocinque fasce di raggi, è incastonatoun grosso cammeo biancoo p a l i n e di vetro con <strong>il</strong> prof<strong>il</strong>o dell’imperatore. Intorno corre la scrittaG A L L O R U M I M P E R AT O R-I TA L I A E R E X. In origine esso era provvistoanche di due girandoles con due bugie ciascuna, montate su piccolecolonne imitanti <strong>il</strong> lapislazzulo, purtroppo perdute. Al Museo Vetrariodi Murano si conserva un foglio acquerellato che chiaramentedeve venire riconosciuto come preparatorio per la realizzazionedel piano interno del tavolo, anche se, rispetto a quest’ultimo, presentadelle varianti nella distribuzione dei diversi elementi vitrei.Relegato nei depositi del Mob<strong>il</strong>ier nationalparigino, fu espostoalla Malmaison per la prima volta nel 1867; <strong>il</strong> table-secrétaire dite deVenise figurò come omaggio della città lagunare a Napoleone. Ritornònella dimora di Giuseppina dal 1908 al 1970, per esser poitrasferito nel limitrofo Château de Bois-Préau in occasione di unamostra, e rientrare alla Malmaison sino al 1984. Da allora è conservato,in una teca di vetro, nel Musée Napoléon I del Castello diFontainebleau.La preziosa quanto virtuosistica opera fu portata personalmentedal muranese Barbaria a Parigi nell’agosto del 1811, per esserepresentata inizialmente in qualità di “dono” all’Imperatore, e fuoggetto di un dettagliato rapporto, preteso dalla Garde-Meuble, daparte dell’architetto Brogniart e del mosaicista Belloni, chiamati ariferire “sur le mérite et la valeur de ce meuble, l’emploi qu’onpourrais en faire dans la décoration de quelqu’un des Palais Impériaux...”.Belloni, che comp<strong>il</strong>a quasi quattro pagine sulla questione,anche per giudicare cosa e quanto di quel manufatto potesse essertenuto a modello di eventuali future produzioni, considerò frag<strong>il</strong>ee antieconomico <strong>il</strong> finto legno acajou in pasta di vetro, fac<strong>il</strong>mentedeperib<strong>il</strong>e <strong>il</strong> piano di perline, molto interessanti (per montaggioe varietà) le finte pietre preziose e i cammei del piano interno,tuttavia frag<strong>il</strong>i e senza protezione adeguata. Infine l’imperatore,“S.M.I. protecteur, et promoteur de l’increment des arts, et del’industrie”, <strong>il</strong> quale “ne reçoit rien à titre de présent”, per non esserevincolato a obblighi personali, <strong>il</strong> 24 marzo 1812 “a daignéagreer l’hommage de ce meuble, et que d’après ses intentions, <strong>il</strong> estaccordé à M. Barbaria, a titre de gratification pour cette ouvrage,une somme de vingt m<strong>il</strong>le francs”. A dire <strong>il</strong> vero, <strong>il</strong> muranese,quando gli era stato chiesto quanto credesse di ricavarne, aveva domandatoben 36000 franchi.Si liquidava così l’imprenditore che, offrendo un oggetto particolaredi sua produzione (in fondo più un mirab<strong>il</strong>e che un mob<strong>il</strong>e diuso pratico), presumeva di veder giungere dalla casa imperiale, inanni di depressione economica, nuove commissioni per la sua ditta.Un secondo tentativo è quello che circa cinque anni dopo, ritornatia Venezia gli Austriaci, Barbaria avrebbe intrapreso con l’altrotavolo, quello appunto realizzato per l’Omaggio delle Provincie Venete. Certamente la presentazione del mob<strong>il</strong>e alla casa imperiale au-


striaca mirava ugualmente a dimostrare quanto le fornaci muranesifossero in grado di produrre in un’epoca in cui erano i cristalli diBoemia a detenere la palma. Neppure questo tentativo ebbe successo,dal momento che “smalti e vetrificazioni” di tale natura nonvennero più realizzati per molti anni. Accortamente le critichemosse dagli esperti francesi al bureau del 1811 furono ben tenute amente quando si trattò di ritentare l’impresa per <strong>il</strong> nuovo monarca:si eliminarono così l’impiallacciatura in finto legno acajou e <strong>il</strong>piano in perline, <strong>il</strong> fondo con le imitazioni delle pietre preziose fuprotetto da un cristallo sollevab<strong>il</strong>e grazie a due manici in forma diserpenti e inoltre si optò per una forma circolare su tre gambe.Il piano dell’esemplare oggi a Konopiste è tempestato di semisfereturchesi e di quaranta “gemme” prismatiche in diverse vetrificazioni,tutte di colori differenti, lungo <strong>il</strong> bordo. Al centro, attorniatoda una ghirlanda di quercia ocra su campo nero, <strong>il</strong> medaglionein finto opale, a sua volta incorniciato da una ghirlanda d’alloroposata su una raggiera, presenta in finti rubini le iniziali intrecciateC e A dell’imperatrice. Tre vittorie alate in bronzo dorato si unisconosotto al piano con le code-girali esi appoggiano con gambe curv<strong>il</strong>ineedal piede caprino su un’impostatriangolare, sorretto da tre cavallimarini in bronzo, adagiati su un altrobasamento decorato da palmettedorate. Manca, rispetto all’incisioned e l l ’O m a g g i o, l’anfora in “purenblauen venetianischen Glassperlen”che si trovava al centro del primo basamentoe che può esser stata alienatao distrutta negli anni a venire. Finivacosì es<strong>il</strong>iato e dimenticato, eproprio nella terra dei cristalli boemi,quel che si voleva proporre quale strumento di propaganda dell’altoartigianato veneziano e della grande vetreria muranese.* parzialmente tratto da <strong>The</strong> Burlington Magazine, giugno 2001.Venezia e la magia dell’oro biancoELISABETTA DAL CARLO[168] Dettaglio delle vittorie alatein bronzo dorato del tavoloconservato a Konopiste.Il Settecento è l’epoca in cui <strong>il</strong> lungo itinerario artistico dellacittà lagunare si sta concludendo in una stagione confusa, maricca e creativa. Una Venezia in declino, che resta tuttavia ancorauno dei centri intellettuali e artistici più br<strong>il</strong>lanti d’Europa. Ein questo vivace m<strong>il</strong>ieu culturale la squisita bellezza della porcellanaincarna <strong>il</strong> senso della moda e dello st<strong>il</strong>e: <strong>il</strong> <strong>gusto</strong> del secolo.Il nuovo materiale, così prezioso da essere detto “oro bianco”,diventa oggetto di culto tra la raffinata società veneziana. Dopo l’aperturadella manifattura di Meissen nel 1710 e la conseguente diffusionedell’arcanum, la porcellana dura sostituì nell’arte della tavolal’uso della maiolica, dell’argento, del peltro e della porcellanaorientale. Della “malattia della porcellana” ne sono una testimonianzai magnifici servizi che Meissen realizzò per le grandi casateveneziane, tra le più straordinarie opere di tutta la produzione dellafabbrica sassone: i servizi per i Cappello, i Foscari, i Morosini, iGrimani, solo per citarne alcuni.Ma soprattutto Venezia è stata la sola città a ospitare nel Settecentoben tre manifatture, quelle di Giovanni Vezzi, degli Hewelkee di Geminiano Cozzi, manifatture che hanno segnato un capitoloimportante nella storia della porcellana europea in termini di felicitàinventiva e di iniziativa imprenditoriale. E Venezia fu anche laprima città italiana e la terza in Europa, dopo Meissen e Vienna, aospitare una fabbrica di porcellane, che produrrà oggetti di paribellezza a quelli usciti da Meissen: la Casa Eccellentissima Vezzi.La sua origine è legata alla storiadella fabbrica viennese di Du Paquier,per la presenza dello smaltatoree decoratore Christoph ConradHunger, proveniente da Meissen, <strong>il</strong>quale, dopo aver svelato l’arcanum aVienna, scappa in laguna e stipulaun contratto con Giovanni Vezzi <strong>il</strong> 5giugno 1720. Giovanni, figlio primogenitodel ricco orafo Francesco,investe cinquantam<strong>il</strong>a ducati perprodurre porcellane. Hunger viene[169-170] Teiera della manifatturaVezzi del 1720 e, a sinistra, del1720-27; entrambe sonoconservate a Ca’ Rezzonico.nominato Fabriciere Principale: con <strong>il</strong> suo ricco bagaglio di esperienzee facendo arrivare <strong>il</strong> caolino clandestinamente dalla Sassonia,riesce a portare la manifattura Vezzia un immediato successo. La Giudeccane ospita la prima sede, spostatapoi nella parrocchia della Madonnadell’Orto, in un edificio sullalaguna che ancora oggi conserval’antico nome di Casin dei Spiriti.I tre anni successivi alla partenza dello smaltatore dalla cittàlagunare nel 1724 rappresentano <strong>il</strong> periodo di massimo splendoredella fabbrica ma, a causa dei debiti contratti da Giovanni e al ritirodei finanziamenti da parte del padre, la Casa EccellentissimaVezzi chiude nel 1727, per volontà del vecchio Francesco, preoccupatodel crescente passivo. Da antichi documenti risulta peròche a quella data rimasero a Giovanni Vezzi oltre trentam<strong>il</strong>a pezzinon finiti, probab<strong>il</strong>mente decorati e messi in vendita dallo stessoVezzi fino al 1740 circa, quando risulta che Giovanni concluse leultime vendite. Sette anni di vita, nei quali la Casa EccellentissimaVezzi crea splendidi oggetti, una produzione limitata, costituitaessenzialmente da tazzine, piattini,teiere e qualche rara caffettiera. La pasta èdi ottima qualità, di color bianco puro, cremao leggermente grigiastro, sempre moltotrasparente, ricoperta da una vernice lucente,che si avvicina a quella di Meissen avendoin comune la materia di base, <strong>il</strong> caolinosassone. Il marchio è costituito dal nome“ Venezia”, intero o abbreviato, in azzurro sottovernice,in rosso, a volte in oro, talvolta incisonella pasta.[171-172] Il marchio della manifattura Vezzi e, inalto, una tazza a campana del 1723 conservata aCa’ Rezzonico.


Tra gli oggetti più caratteristicidella Casa Vezzi, sonoda ricordare le teiere globularie ottagonali, le tazzinealte a campana e le chiccherealla cinese senza manico. Variesono le decorazioni: cineserie,disegni geometrici, ornatia bassor<strong>il</strong>ievo, soggettidella Commedia dell’Arte,armi nob<strong>il</strong>iari, paesaggi, tutti motivi trattati con vivacità e originalità,<strong>il</strong> cui fascino nasce dall’incontro del mondo orientale con <strong>il</strong> sensoestetico della Serenissima. Agli inizi la tavolozza era limitata all’azzurrosottovernice, poi si arricchisce con <strong>il</strong> rosso ferro, l’azzurrocupo, <strong>il</strong> rosa antico, <strong>il</strong> cremisi, <strong>il</strong> verde prato, <strong>il</strong> seppia, <strong>il</strong> giallo e <strong>il</strong>viola. L’oro brunito, di alta qualità, tende al colore degli zecchini.L’influenza dell’arte orafa, comunea tutta la prima porcellana europeae presente nella casa Vezzi, famigliadi orefici, si rivela nel <strong>gusto</strong>delle superfici lavorate a r<strong>il</strong>ievo esbalzate. Giovanni continua l’artedel padre nella nuova materia,creando così quelle opere che sarannodefinite da Geminiano Cozzi “pezzi da museo”.Conseguenza del successo della porcellana Vezzi è la produzionenel 1738 nelle fornaci muranesi dei fratelli Giovanni Andrea ePietro Bertolini di vetro lattimo a imitazione della porcellana.Dopo la chiusura di Vezzi, nel 1728 i Cinque Savi alla Mercanziae i Deputati alla Camera del Commercio emettono un proclamaove promettono priv<strong>il</strong>egi a chiunque si impegnasse a dare vita anuove fabbriche di porcellana e maiolica. Grazie a queste nuove fac<strong>il</strong>itazionigovernative, incoraggiando sudditi volonterosi si dimenticala fine disastrosa della Casa Eccellentissima Vezzi. Fra coloroche accolgono la proposta è da ricordare Giovan Battista Antonibon,che nel 1728 apre una fabbrica di terraglie a Nove di Bassano,destinata a diventare, con <strong>il</strong> figlio Pasquale, una delle piùproduttive fabbriche di porcellana italiane.Anche i coniugi sassoni Nathaniel Friedrich e Maria DorotheaHewelcke ottengono nel 1757 una privativa dalla Repubblica venetaper produrre porcellane a Udine, conl’obbligo di marcare i manufatti con lalettera V di Venezia. La produzionepare sia iniziata solo dopo <strong>il</strong> loro trasferimentoin laguna nel 1761, doverealizzano vasellame da tè e qualcherara scultura in una pasta dura, grigiae traslucida, realizzata con caolino diTretto, località vicino a Vicenza. Latavolozza è caratterizzata da un rossoruggine e da un bruno rossiccio,uniti a tocchi di porpora, rosa, verde[173-174] Tazze del 1720-27 dellamanifattura Vezzi appartenenti a unacollezione privata veneziana. In basso, vasobiansato del 1727 circa conservato allaFondazione Querini Stampalia.[175] Piattino della manifatturaHewelcke del 1762-63.[176-178] La fabbrica Cozzi da GiovanniGrevembroch, Gli abiti dei veneziani, Venezia,Museo Correr. In basso a sinistra, una cioccolatieradel 1760-65 e <strong>il</strong> marchio della manifattura Cozzi.e giallo. Pochi pezzi si possono attribuire a questa fabbrica, ma idue coniugi hanno <strong>il</strong> merito di essere riusciti a creare una porcellanasim<strong>il</strong>e alla sassone, ut<strong>il</strong>izzando caolino veneto.Nel 1765 <strong>il</strong> banchiere modenese Geminiano Cozzi, già socio degliHewelcke, richiede gli stessi priv<strong>il</strong>egi concessi ai coniugi sassoni,assicurando di poter trovare, a differenzadei Vezzi, <strong>il</strong> caolino in territorio veneziano, aTretto. I Cinque Savi alla Mercanzia e <strong>il</strong> Senatogli concedono <strong>il</strong> priv<strong>il</strong>egio di vent’annie un aiuto finanziario. La ditta Cozzi sorge nella fondamenta di CanalRegio, nella parrocchia di San Giobbe, e lavora già dal 1764.Geminiano Cozzi, dopo l’esperienza con gli Hewelcke e grazie ancheall’aiuto di operai provenienti dalla manifattura Antonibon diNove, diventa <strong>il</strong> più importante fabbricanteveneziano di porcellana. La ditta ha un successostraordinario, fornitrice esclusiva deipalazzi della nob<strong>il</strong>tà e della ricca borg h e s i aveneziana, è anche richiesta dalle numerose“botteghe da caffè”, che svolgono un ruoloimportante nella vita della Serenissima.La porcellana di pasta dura presenta una colorazione leggermentegrigia e una vernice br<strong>il</strong>lante, quasi bagnata, con una doraturaottenuta dalla fusione degli zecchini. Il vasellame da tavola èmarcato con un’ancora color rosso ferro, raramenteazzurra, mentre gli oggetti più eleganti recanol’ancora in oro; le figure e i gruppi non portanoquasi mai marca. Parte della decorazione deipezzi deriva dalla tradizione figurativa del Settecentoveneziano: molto successo hanno i servizi ornatia paesaggi tratti dalle tele di Zais, di Zuccarelli e di MarcoRicci. E ancora cineserie, decorazioni a bersò, graziosi motivi florealie decori araldici. I colori più usatisono <strong>il</strong> rosso ferro, <strong>il</strong> violetto, un azzurrointenso, un verde smeraldobr<strong>il</strong>lante, un verde marcio e <strong>il</strong> colorpulce. Nella scultura, sia bianca chepolicroma, compaiono personaggi[179-180] Manifattura Cozzi,zuccheriera, 1770 e, in basso,tazzina, 1775-80.orientali, eleganti figurine vestitealla moda con domino e bauta, lemaschere della Commedia dell’Artee soggetti galanti.La produzione è vastissima: servizida tè, cioccolata e caffè, servizida tavola, antipasto e dessert, sculturee galanterie che accompagnanonei gesti quotidiani l’ultima generazionedella Serenissima. La stessa Repubblica si serve del vasellameCozzi per le cerimonie ufficiali. Sarà proprioGeminiano a preparare i servizi per i festeggiamentiin occasione dell’elezione dell’ultimodoge Lodovico Manin nel 1789, “serviti”che segnano la fine della splendida stagionedella porcellana veneziana, anche se i fornidella fabbrica si spegneranno definitivamentesolo nel 1812.[181] Manifattura Cozzi, moretto portaprofumo.


L’arte dei cuoridoroCAMILLO TONINI eDIANA CRISTANTEesser l’arte in se di gran bellezza, & molto d<strong>il</strong>ettevoleda vedere, e ancor di grandissimo guadagno per“Percoloro, che la fanno: percioché questa si chiama l’Artedell’oro”. [L. Fioravanti, Dello specchio di Scientia Universale, 1572]Il Museo Correr possiede una ricca e diversificata collezione dicuoridoro, una raffinata decorazione del cuoio di cui Venezia diventauno dei centri di produzione d’eccellenza dopo aver appreso questaparticolare arte dalla Spagna e dall’Oriente. Il cuoio per le suequalità di resistenza e isolamento eraut<strong>il</strong>izzato anche come supporto ornamentaleper realizzare arredi comespalliere, paraventi, sovraporte,drappi, tappeti da tavolo o come rivestimentoper cuscini, sedie, cassoni,custodie di diverse fogge, perfino[182-183] Cuscino in cuoio doratodel XVII secolo. In basso, per scudi come le famose “rotelle” diGiovanni Grevembroch, Palazzo Ducale, oppure, in ambitoFabbricatore di cuoia d’oro.religioso, per paliotti d’altare.La decorazione del cuoio, attraverso le tecniche di doratura, l’usodi punzoni e la stesura di lacche e vernici, viene precisamente codificatada Leonardo Fioravanti nel suo trattato Dello specchio di Scien -tia Universale, edito a Venezia nel 1572, nel capitolo “Dell’arte de’corami d’oro e sua fattura”, ma è già documentata in laguna dal XVsecolo come attività ben radicata. La pelle conciata veniva bagnata,battuta, levigata, tagliata a misura,asciugata, brunita e ricoperta di collaper ricevere le foglie metalliche.Comunemente per i parati venivastesa una foglia d’argento invece dellaben più costosa foglia d’oro, e brunitafino a renderla particolarmentelucida. Il disegno veniva riportatocon una tecnica affine alla x<strong>il</strong>ografia:poteva essere impresso usando unavernice scura o, soprattutto a partiredal Cinquecento, creando un r<strong>il</strong>ievo a pressione. La superficie metallicaveniva quindi coperta da una vernice resinosa color oro (meccatura),a risparmio se si volevano zone argentee, e a seguire una sapientepunzonatura con piccoli ferri “quadrati, a occhio di gallo, spinapesce,e altre sorti” veniva a creare un chiaroscuro tatt<strong>il</strong>e. A questopunto si poteva procedere a una decorazione cromatica, con laccheo pigmenti coprenti con leganteoleoso, la quale, specialmentenel Settecento, prevedel’impiego di una diversificatagamma di colori. A questo propositomagistrali risultano i paliottidella veneziana chiesa del[184] Frammento di cuoridoro datappezzeria del XVIII secolo. Redentore attribuiti al valentepennello di Francesco Guardi.Gli elementi iconografici più diffusi si ispiravano al repertoriotess<strong>il</strong>e: fiori e frutta naturalistici o st<strong>il</strong>izzati si intrecciano a formaremazzi, ghirlande, festoni spesso con la presenza di animali, put-[185-186] Due esempi di cuoridorodel XVII e XVIII secolo.ti o stemmi; nel Seicento si affermaanche <strong>il</strong> <strong>gusto</strong> per la decorazione agrottesca, ma a Venezia permane neltempo anche una forte suggestioneverso motivi di matrice orientale.Nei paliotti spesso la parte centraleè occupata da una scena figuratacontornata dagli ornati vegetali.L’assemblaggio delle pelli avvenivaper cucitura, mentre a partire dalla seconda metà del Seicentosi procedeva più comunemente con l’incollaggio sovrapponendonei bordi. Il ricordo di questa fiorente attività rimane ancora vivo nellatoponomastica di Venezia, che testimoniale zone dove maggiormenteoperavano queste botteghe: vi ritroviamo<strong>il</strong> ponte, la calle e <strong>il</strong> sottoportegodei Cuoridoro come riportatodal Tassini.I maestri cuoridoro facevano parte dell’Arte dei pittori comeappare nell’insegna del 1729 attribuita alla scuola di Antonio Balestraconservata al Museo Correr. Nel XVI secolo in Venezia eranooperanti ben settanta botteghe, con una produzione che rendevacentom<strong>il</strong>a ducati annui: inequivocab<strong>il</strong>e attestazione di come la cittàlagunare fosse diventata <strong>il</strong> centro principale in Italia per questa artesuntuaria. Tra <strong>il</strong> XVI e <strong>il</strong> XVII secolo le pareti dei palazzi venezianisi ricoprivano di questi preziosi cuoi e ancora oggi si ha lapossib<strong>il</strong>ità di apprezzare ambienti così decorati nella Sala delle Magistraturealle leggi in Palazzo Ducale, che a giudicare dalla presenzanelle murature di ganci doveva largamente ospitare questiparati, e a Palazzo Vendramin Calergi.Nel corso del Settecento cominciò ad affermarsi l’uso della cartada parati che portò a un rapido declino questa arte; GiovanniGrevembroch ricorda che attorno agli anni sessanta del secolo lebotteghe a Venezia si erano ridotte solamente a sette. Alla fine dell’Ottocentosopravviveva un solo artigiano sul quale Agostino Sagredoriponeva la speranza che “potrà forse far rivivere i cuoi dorati”.Contemporaneamente si affermava un nuovo interesse storicoamatoriale per questa antica arte con una ricerca di questi rari e costosiparati che portò anche a una breve stagione di produzione dicarte per arredo a imitazione dei cuoridoro.In questo stesso periodo <strong>il</strong> Museo Correr creò la sua collezioneattraverso donazioni e oculati acquisti di frammenti di parati, paliotti,cuscini, realizzando un raro e prezioso repertorio. La cospicuacollezione è stata recentemente valorizzata da un attento e pazientelavoro di restauro – eseguito da Lucia Castagna – di cui unaparte è stata esposta a Istanbul nel2009 nella mostra Venezia e Istanbulin epoca ottomana, per testimoniare ifitti rapporti commerciali e culturalitra le due capitali. Anche la saladedicata ai cuoridoro nella sezione“<strong>Arti</strong> e Mestieri” del Museo Correr èstata rinnovata consentendo di apprezzarepienamente la varietà e labellezza di questo materiale.[187] Turco rappresentato in un cuoridoro.


L’arte del merletto*DORETTA DAVANZO POLIArte tutta femmin<strong>il</strong>e – poco nei disegni e mai nella vendita– è quella dei merletti che vanta un’origine assolutamenteveneziana. Pur senza conoscere la storia o l’arte, masemplicemente girando per la città e osservando la sua architettura,le guglie e le polifore traforate, se ne intuisce la ragione. Se deipizzi a fuselli, derivati dalla tessituradi arazzi o passamani, permangonodubbi sul luogo d’origine, perquanto riguarda quelli ad ago, generatidall’evolversi di un particolaretipo di ricamo sf<strong>il</strong>ato, unanimementese ne stab<strong>il</strong>isce l’inizio nella cittàlagunare, nella seconda metà del XVsecolo. Non nasce, come raccontano le leggende tardo-ottocentesche,in ambienti proletari quale evoluzione delle reti da pesca, sucui l’imbrigliarsi di alghe fantastiche avrebbe generato i primitividecori, bensì come espressione artistica di aristocratica sensib<strong>il</strong>itàfemmin<strong>il</strong>e. Alle “nob<strong>il</strong>i et virtuose donne”, tra cui si annovera anchequalche dogaressa, educate fin da piccole alle femmin<strong>il</strong>i “opreleggiadre”, sono infatti dedicati i numerosissimi modellari. Si trattadi libri di disegni per pizzi e ricami, pubblicati nel Cinquecento,in cui si dà per scontata la conoscenza delle tecniche di esecuzionedei vari punti, spesso indicati con termini dialettali. Tra i piùimportanti si ricordano, per <strong>il</strong> merletto a tombolo (dal nome delcuscino imbottito a forma di rullo su cui poggia l’opera realizzataa fuselli) Le pompe della metà del secolo e, per <strong>il</strong> merletto ad ago,Splendore delle virtuose giovani di Jeronimo Calepino del 1563 e Co -rona di Cesare Vecellio del 1591.Solo in un secondo tempo, quandoda raffinata manifestazione dicreatività di dame colte e garbate diventaindispensab<strong>il</strong>e accessorio dimoda sia femmin<strong>il</strong>e che masch<strong>il</strong>e,insostituib<strong>il</strong>e simbolo di stato socialeelevato, <strong>il</strong> merletto si diffonde nelleclassi meno abbienti come fonte diguadagno. L’aumento della richiestada parte del mercato ne renderà infattinecessaria un’org a n i z z a z i o n eproduttiva su vasta scala che sarà[188] Finestrelle della Bas<strong>il</strong>ica diSan Marco sim<strong>il</strong>i a merletti.[189-190] Giovanni Grevembroch,Lavoratrice di punto in aria e,in basso, merletto a punto in aria.concentrata prima presso istituti di educazione e ricovero, ospizi perorfane e penitenti e, dagli inizi del XVII secolo, a livello paleoindustriale,su intere isole della laguna. La lavorazione a Pellestrina dimerli a fuselli, è documentata fin dal 1609 nelle Relazioni dei podestàdi Chioggia, nel cui dipartimento era compresa l’isola. L’ a b i-lità nell’ago delle buranelle è invece ricordata, a metà del XVIII secolo,da Grevembroch, che ne lamentacomunque la decadenza.Nonostante la concorrenzadei fuselli fiamminghi, i merliveneziani di seta, d’oro, d’argentoe neri si esportano in tuttaEuropa, ma è soprattutto nelpunto in aria che Venezia trionfa. Il suo punto tagliato a fogliame adaltor<strong>il</strong>ievo, chiaroscurato e tridimensionale, sontuoso nello svolgersisinuoso dei tralci vegetali carichi di fiori e frutta fantasiosamenteorientali, è così diverso, prezioso e ambito alla corte di Luigi XIVda indurne <strong>il</strong> ministro Colbert, poco dopo la metà del Seicento, afar espatriare in Francia alcune maestranze veneziane, che in brevetempo insegneranno i segreti dell’arte alle colleghe d’oltralpe. Tuttaviaanche un tanto r<strong>il</strong>evante atto di pirateria artigianale, con conseguenzegravissime per l’economia veneziana, pur turbando la Serenissima,che emetterà proclami di morte per i fam<strong>il</strong>iari delle fuoriuscitein caso di un loro mancato o non immediato rientro, nonporterà al riconoscimento del merletto come Arte o mestiere.Malgrado la richiesta internazionale di tale specialità manifatturierae gli importanti riscontri economici, alle merlettaie non saràmai concesso di riunirsi in corporazione ma vengono fatte rientrarenell’Arte dei m a r z e r i, che organizza sia la consegna della materiaprima, <strong>il</strong> refe, sia <strong>il</strong> ritiro e la vendita del prodotto finito. Alle donnesarà proibita anche la vendita portaa porta, esclusiva di ambulantimaschi, soprattutto chioggiotti. Intantola moda reclama merletti semprenuovi, ora più matericamente inconsistentie meno pomposi st<strong>il</strong>isticamente,con cui ottenere effetti[191-192] Merletto a “punto neve”e, a sinistra, a punto Venezia coninserto a punto Burano.spumeggianti su vesti e acconciature.Venezia lancia <strong>il</strong> punto rosa, r i s u l-tato del rimpicciolimento dei decoribarocchi, che miniaturizza, quasi disintegrandoliin una miriade di spruzzi in r<strong>il</strong>ievo, nel punto neve.Nel secondo quarto del Settecento la continua richiesta di innovazioniporta all’invenzione del punto Burano in cui <strong>il</strong> prevalere dellarete del fondo sull’opera rende le trine particolarmente vaporose.Mai quanto però i merli di seta dettib i o n d i, sia semplici che mescolati conoro e argento, realizzati a fuselli maanche a telaietto (f i l e t) . La crisi delsettore nell’ultimo quarto del XVIIIsecolo – dovuta al semplificarsi dellemode che dall’Ingh<strong>il</strong>terra si diffondein tutta Europa e che porta a una drasticariduzione dell’uso dei merletti – si accentuerà con la Rivoluzionefrancese che elimina totalmente, e non solo dall’abbigliamento,ciò che è stato per secoli un aristocratico status symbol. S o s t i t u i t oin seguito dai merletti di produzione industriale, quello venezianodovrà attendere la riscoperta delle arti minori e <strong>il</strong> movimento A r t sand Crafts che, a metà Ottocento, ancora una volta dall’Ingh<strong>il</strong>terra,si propagherà ovunque. A Burano, grazie al senatore Fambri e allacontessa Marcello, sotto l’egida dellaregina Margherita, nel 1872 vieneaperta, con maestranze miracolosamentesuperstiti, una scuola che per meritodella severa professionalità con cui ègestita giunge a superare per qualità eperfezione la produzione del passato.[193] Manifesto celebrativo della Scuola dimerletti di Burano.


La produzione di sete e velluti*DORETTA DAVANZO POLISe antichi manoscritti fanno risalire la tessitura auroserica venezianaa un’origine greca datab<strong>il</strong>e verso la fine dell’XI secolo,in realtà l’arte della seta nella città lagunare ha sicuramentepiù lontane radici bizantine. I mercanti veneziani hanno da semprelibero accesso a Costantinopoli dove è documentato l’acquistodi vesti e tessuti serici fin dal IX secolo, assicurandosi poi l’esclusivadella vendita di tali prodotti di lusso alle due fiere annuali org a-nizzate dai Franchi a Pavia. Dalla Cronaca del diacono Giovanni siapprende come, accanto a una produzione di seta greggia, si sia sv<strong>il</strong>uppataa Venezia anche la tessitura della stessa, seppur limitata aintrecci semplici. Sicuramente più complessa, non solo nei decori,ma anche nelle armature, la tecnica ut<strong>il</strong>izzata da Antinope, “professoreperitissimo dell’Arte de’ Panni di seta broccati, tanto schiettiche con oro et argento, arabescamente delineati”. Al seguito di EnricoIV imperatore d’Occidente, in visita a Venezia sotto <strong>il</strong> dogadodi Vitale Falier tra <strong>il</strong> 1084 e <strong>il</strong> 1096, gli fu chiesto di realizzare unastoffa preziosa per Polissena Michiel, gent<strong>il</strong>donna di cui l’imperatoreera innamorato. Approntare <strong>il</strong> telaio adatto allo scopo, ordirloe tessere <strong>il</strong> telo significò rivelare, agli artigiani locali che lo aiutarono,fondamentali e fino ad allora sconosciuti procedimenti cheprodussero ovviamente positivi sv<strong>il</strong>uppi nell’arte serica veneziana.Le stoffe del periodo si caratterizzano ancora per l’uso della porporaquale materia tintoria, per una sobria gamma cromatica, per la rigiditàstatica della struttura compositiva, a circoli o a rosette, cui siaggiungono talora nuovi motivi sassanidi.Al 1265 risale <strong>il</strong> capitulare samiteriorum, conservato all’Archiviodi Stato di Venezia, che in tale data viene riformato, attestando cosìuna sua preesistenza. Samiterisono i tessitori di sciamiti, i prestigiositessuti serici caratterizzatida un rapporto di sei f<strong>il</strong>i(hexamitos) su cui si basano le armatureche li costituiscono. Lostatuto, oltre alle consuete normecorporativistiche, forniscenumerosi dati tecnici attinentiad altre specialità tess<strong>il</strong>i, all’epocaevidentemente fondamentali.Vi si citano larghezze, lunghezze,numero complessivo di f<strong>il</strong>i di[194-195] Insegna dell’Arte dei tessitoridi seta, Venezia, Museo Correr e, inbasso, <strong>il</strong> ritorno di Marco Polo.ordito e numero di portate. In tale data è vietato mescolare le fibre,per esempio <strong>il</strong> lino con la seta, pena la distruzione della pezza.Nel 1269 ritornano a Venezia dal loro primo viaggio in Cina ifratelli Polo, portando mercanzie e manufatti di quei luoghi lontani,tra cui sicuramente dei tessuti. Nicolò, padre di Marco, era probab<strong>il</strong>mentemercante di stoffe seriche, abitando in contrada SanGiovanni Crisostomo, localitàad alta concentrazione di artigianie mercanti della seta chenella chiesa omonima avevanoun altare. Se dunque motivi (fitoe zoomorfi) e forse anche dettaglitecnici cinesi si diffondonoin città nella seconda metà del XIII secolo, nel primo quarto delsuccessivo ci si avvale altresì dei decori e dei metodi nuovi dei tessitor<strong>il</strong>ucchesi. Giunti tra <strong>il</strong> 1307 e <strong>il</strong> 1320 in gran numero, stanziatisiun po’ ovunque in città e perfettamente integrati con gli artigian<strong>il</strong>ocali, costoro contribuiscono in maniera sostanziale alla fiorituradell’arte serica cittadina e, forse, è collegata al loro arrivo laproduzione anche a Venezia delle mezze sete.Divisa nei quattro colonelli di f<strong>il</strong>atoi, tintori, tira e battioro, testori o samiteri, da quest’ultimo settore, nel 1347, si separa quello deiveluderi, testimoniando con ciò <strong>il</strong> grande sv<strong>il</strong>uppo della suddetta tipologiache, raramente citata in precedenza, diventerà la stoffa lussuosapiù richiesta nel secolo successivo: dai semplici samiti p<strong>il</strong>losiai delicati zetanini velutadi (sciamiti e rasi vellutati), inizialmentecon decori molto semplici come rigature,quadrettature o teorie regolari di tondiniaurei, come quelli che compaiono nella sontuosaveste della Salomè danzante dei mosaicimarciani.Per salvaguardare la qualità dei prodottiviene istituita la Corte del Parangon, unufficio in cui le pezze delle varie tipologietess<strong>il</strong>i – sciamiti, lampassi e velluti –, realizzatesecondo le regole e con i migliorimateriali, vengono confrontate con quelledi volta in volta prodotte, prima della loro[196] Salomè, Bas<strong>il</strong>ica diSan Marco.esposizione e vendita. Nel 1366 si nomina anche un’apposita commissionedi vig<strong>il</strong>anza sull’Arte della seta che è già largamente diffusae in continuo sv<strong>il</strong>uppo. Si costituisce successivamente anche <strong>il</strong>Sazo, un’istituzione con <strong>il</strong> compito di controllare le tinture e di segnarecon la bolla in piombo di San Marco le stoffe tinte a regolad’arte. Particolari norme prescrivono come produrre con <strong>il</strong> chermes,quel peculiare colore definito appunto cremisi e in seguito noto comescarlatto o rosso veneziano. Le cimose verdi, con un f<strong>il</strong>o d’oro alcentro, indicheranno immediatamente all’acquirente che tale preziosocolorante è stato ut<strong>il</strong>izzato e in che percentuale; la rigaturabianca nel mezzo segnalerà infatti la sua presenza solo in ordito.Se all’inizio del Trecento la decorazione è ancora legata a unastruttura compositiva ordinata, ripetitiva negli schemi e nei motividecorativi, nella seconda metà del secolo si assiste a una progressivaperdita della simmetria e dell’equ<strong>il</strong>ibrio a vantaggio di unarappresentazione vivace e realistica: gli animali sono disegnati involo o in corsa come se stessero per gettarsi con impeto sulla predao per sfuggire terrorizzati a un agguato. Elementi di collegamentopreferiti sono tralci contorti, alberelli piegati dal vento e palmetteagitate. Nel 1450, ribadendo la proibizione ai samiteri di tesserevelluto operato, si parla di pello taiado e di pello riçado suso insieme,alludendo alle tecniche del velluto tagliato e riccio, costituenti, seabbinate, <strong>il</strong> celeberrimo soprarizzo.Si conferma ai soli veluderi la facoltàdi produrre <strong>il</strong> velluto operato, dettoafigurado, di cui la specialità più diffusain tale secolo sembra esserequella definita a inferriata, così denominatanel XIX secolo per le evi-[197] Velluto a inferriata, seconda metà delXV secolo.


[198] Velluto alto-basso esoprarizzo su teletta d’oro.denti analogie con le ornamentazioni delle cancellate di ferro battuto.Il decoro, al quale collaborano artisti noti come Jacopo Bellinie Pisanello o meno noti come Jacopo da Montagnana, è influenzatoda elementi st<strong>il</strong>istici orientali quali la foglia frastagliata arricciatae la palmetta chiomata, e accostamenti cromatici vistosi. Ilmotivo della pigna si alterna a quello della melagrana e del fiore dicardo, collocato al centro di corolle pol<strong>il</strong>obate cuspidate, rese inmodo graficamente lineare e disposte in teorie parallele orizzontali.Il disegno si evidenzia nello spessore del velluto esclusivamenteper un’es<strong>il</strong>issima prof<strong>il</strong>atura, come scavata, in raso. Oltre a tale tipologia,detta a camino, che può essere impreziosita con broccaturee allucciolature d’oro e d’argento, si ritrova anche a Venezia quelladetta a griccia, in rosso su luminoso fondo d’oro, con grande troncosinuoso recante una grossa corolla pol<strong>il</strong>obata con fiore di cardo oelemento sim<strong>il</strong>are posto al centro.Altra specialità tutta veneziana è l’alto-basso o controtagliato.Solitamente di intenso colore rosso cremisi, <strong>il</strong> decoro, che si evidenziasulla superficie vellutata perla differenza di spessore del pelo,consiste in rosette concentriche, inseguito alternate in verticale a coronearaldiche sostenute dal riunirsi didue rami contorti. Tale velluto, cherimarrà apparentemente uguale nelcorso di quattro secoli, diventa statussymbol delle più alte categorie socialie politiche: con esso infatti si confezionanole stole di senatori e procuratoridella Repubblica. Nella secondametà del Cinquecento si andrannopreferendo anche tessuti diversi:lampassi, damaschi e broccatelli, permanendo, tra tutti i tipidi velluto, <strong>il</strong> soprarizzo.[199-200] Il velluto alto-basso era prodotto esclusivamente per le cariche più altedello Stato ed era ut<strong>il</strong>izzato soprattutto per le stole come dimostra <strong>il</strong> Ritratto diPietro Barbarigo di Bernardino Castelli conservato a Ca’ Rezzonico.Le stoffe d’arredamento, che proprio in tale periodo inizierannoa differenziarsi nettamente da quelle da abbigliamento, mantenendodimensioni modulari di ampio respiro, sono maggiormente legatenel decoro alle altre arti decorative di cui accolgono gli spuntipiù vari. L’ornamentazione si evolve da strutture reticolate, a magliepiù o meno grandi, costituite da tralci d’acanto, di quercia e divite, con al centro un’anfora con mazzo di fiori, a teorie rimpicciolitedi ramoscelli compositi, fiori e animali. Tra la fine del XVI secoloe l’inizio del successivo, lo spazio compositivo si riempie dielementi fitomorfi e geometrici, come le mazze e gli esse, di rapportomodulare ridotto, disposti in una sorta di horror vacui movimentatodal loro disporsi zigzagante e dal ripetersi di mutamenti direzionali.Il tulipano e altri generi botaniciorientali, di nuova importazione,invadono i tessuti, la cui decorazione,più o meno realistica, ècaratterizzata comunque da un notevoledinamismo compositivo. Lestoffe da parato, legate al pomposost<strong>il</strong>e del mob<strong>il</strong>io, sono ideate “perservir da scenario”, per armonizzaregli stucchi e le cornici con gli affreschie i terrazzi. Rivestono, oltre chele pareti, anche pedane da letto, testieree baldacchini, schienali e sedutedi divani, sedie e poltrone, tendaggie mantovane.La solennità decorativa barocca, la fragorosa ma gagliarda sintoniadi forme e colori è ben rappresentata nei tess<strong>il</strong>i dalla raffinatapolicromia, dai decori caratterizzati da fiorami involuti, da frondeggiaturearricciate e da larghi ciuffi di piume. Durante <strong>il</strong> XVIIsecolo, in città si assiste a un apparente decadimento della produzioneserica perché si dimezza <strong>il</strong> numero effettivo di pezze fabbricatea causa della scomparsa di tipologie ordinarie, ma si raddoppianoquelle operate, impreziosite di oro e argento. Quindi, pur diminuendola quantità delle stoffe, aumenta <strong>il</strong> fatturato annuo complessivo.Tale situazione permane fino al 1712, dopo di che <strong>il</strong> declinorisulta davvero inesorab<strong>il</strong>e. Le stoffe di lusso in questione sonoi ganzi, tessuti serici individuab<strong>il</strong>i per la preponderanza di metallinob<strong>il</strong>i e per un decoro complesso nell’alternanza di elementiarchitettonici e botanici.La salvaguardia della qualità a tutti i costi, sostenuta con lapromulgazione continua di leggi severe e vig<strong>il</strong>anza costante, inun’epoca di innovazioni e di consumi, andrà a scapito dell’imprenditorialità,che si ritrova inqualche modo imprigionata, maa vantaggio della concorrenzastraniera. Va ricordata comunquel’opera dei fratelli Cavenezia,straordinari tessitori di cuirimangono campioni firmatinelle collezioni dei Musei CiviciVeneziani, e di Pietro d’Avanzoche nel 1763 ottiene <strong>il</strong>permesso di aprire un’accademiadi disegno e tessitura.[201] Il raso broccato a elementifloreali del salotto rosso dellaFondazione Querini Stampalia.[202-203] Stoffa per abbigliamento dellamanifattura Cavenezia e, in basso,motivo bizantineggiante in vellutosoprarizzo della tessitoria Bev<strong>il</strong>acqua.L’invenzione del telaio Jacquard agli inizi dell’Ottocento darà <strong>il</strong>colpo definitivo all’arte, che riesce tuttavia a sopravvivere fino alnostro secolo grazie alle manifatture di Mazorin, Martinoli, Trapolin,Rubelli e Bev<strong>il</strong>acqua. Questi ultimi,assieme a Mariano Fortuny e aisuoi velluti stampati, riporteranno,all’inizio del Novecento, l’arte sericaagli antichi splendori.* questo e <strong>il</strong> precedente articolo sui merletti sono parzialmente tratti da DorettaDavanzo Poli, Le arti decorative a Venezia,Bergamo, Edizioni Bolis, 1999.


Mariano Fortuny: la seduzionedell’arte decorativaCLAUDIO FRANZINIEclettico, transdisciplinare per antonomasia, Mariano Fortuny,influenzato dallo spirito e dalla vita veneziana in unafusione armonica di acqua e cielo, arte e s<strong>il</strong>enzio, ha percorsodiverse “narrazioni” costituite da forma, luce e colore.Dotato di una straordinaria curiosità e vitalità in un sovrapporsidi molteplici esperienze ciò che emerge dall’opera di Fortuny èl’espressione formale di materie riplasmatee rimodellate con intuizionioriginali, tra la conoscenza dellearti del passato e la sperimentazionedelle tecniche, in un meravigliosoequ<strong>il</strong>ibrio tra sapere antico e modernitànovecentesca. Una sorta di sognodi un’altra epoca. Il suo processocostitutivo procede con la convinzionee la sicurezza che l’unità delsuo fare è data dai materiali ut<strong>il</strong>izzatiin quel determinato momento,nell’assidua ricerca di applicazioni erelazioni tra linguaggi diversi.[205] Disegno di brevetto per stoffaplissettata e ondulata, 1909.[204] Autoritratto fotografico diMariano Fortuny y Madrazo.In questa traiettoria singolare e discontinua, e per certi versianomala, Fortuny, nella progettazione, nella creazione e nel brevettodi diversi oggetti (grafica, applicazioniscientifiche o produzioni seriali)si colloca come una sorta diprotodesigner, sulla scia dell’esperienzadi fine Ottocento ricca di fermenticulturali e dibattiti destinati a rivalutarela qualità creativa, la manualitàartigianale, l’arte decorativa,ma più in generale l’arte applicata.Le istanze di progresso nell’impiegodi nuovi sistemi produttivi, artigianali ma connotati da una nuovae forte espressione artistica, sorte soprattutto in Ingh<strong>il</strong>terra dalleidee di John Ruskin e riprese da W<strong>il</strong>liam Morris fondatore delgruppo Arts and Crafts, s’indirizzavano innanzitutto a una riqualificazionedi carattere funzionale ed estetico e crearono le premesseal movimento Art Nouveau che si sv<strong>il</strong>uppò in vari paesi con caratteristichediverse. In Italia in particolare, giova ricordarlo, questeinfluenze arrivarono in modo frammentario, quando ormai le spinteArt Nouveau in Europa erano già in declino, e solo nel 1902 all’Esposizionedelle <strong>Arti</strong> Decorative di Torino raggiunsero un momentodi confronto tra manufatti di carattere regionale e desideridi st<strong>il</strong>izzazione nazionale. Nonostante gli sforzi, queste creazionid’arte applicata risultarono degli eclettismi individuali poco supportatida produzioni di industrie artistiche o Scuole di <strong>Arti</strong> e Mestieri,quest’ultime promosse da istituzioni pubbliche nazionali chemiravano allo sv<strong>il</strong>uppo di tradizioni popolari di un paese che avevaraggiunto una sua unità in tempi relativamente recenti.In questo contesto Venezia si offrì con una peculiarità carica disignificati che vanno ricercati in un programma per la città, fortementeperseguito dagli intenti di forze culturali e sociali che pur inun ambito d’immaginazione figurativa e artistica, vollero connotareun’idea di Venezia come luogo mistico e simbolo della bellezzae del fasto. Fu un percorso inevitab<strong>il</strong>e: un numero r<strong>il</strong>evante di artisti,artigiani e piccoli imprenditori dagli inizi del Novecento sinoagli anni trenta conversero fattivamente, in una paradossale “innovazioneconservatrice”, in un accostamento ideale di “ricostruzionesimbolica”, di bellezza effimera e scenografica, a volte ambigua econtraddittoria.Trasferitosi nella città lagunare nel 1889, proveniente da Parigi,dove compie la sua formazione, Mariano Fortuny y Madrazocompleta gli studi artistici frequentando l’Accademia di Belle <strong>Arti</strong>entrando così in contatto immediato con <strong>il</strong> m<strong>il</strong>ieu intellettuale eculturale veneziano che da lì a breve tempo porterà all’istituzionedella Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia. Conosce i pittoriCesare Laurenti, Mario de Maria, Ettore Tito, i critici e letteratiAntonio Fradeletto, Pietro Selvatico, Pompeo Molmenti, AngeloConti, ma anche Ugo Ojetti, <strong>il</strong> barone Giorgio Franchetti,Hugo von Hofmannsthal, Gabriele D’Annunzio, l’attrice drammaticaEleonora Duse. Uomo profondamente colto e sensib<strong>il</strong>e, Marianoin questi anni si consacra ad attività che gli sono congeniali, inuna continua alternanza di interessi tra pittura, <strong>il</strong>luminotecnica,scenografia e teatro.Alla fine dell’Ottocento Marianoprende possesso di uno studio: la soffittadi un imponente edificio gotico,<strong>il</strong> Palazzo Pesaro Orfei nelle vicinanzedi campo San Beneto, che diverrànel corso degli anni prima laboratorioe poi la sua residenza definitiva.Al di là delle esperienze pittoricheche lo portano a progettaredecorazioni murali e vetrate per edifici,opere mai realizzate, Fortuny si[206-207] Laboratorio all’ultimopiano di Palazzo Pesaro degliOrfei e, a sinistra, pubblicità conpiantina della sua manifattura.confronta anche con la grafica e lacartellonistica; nel febbraio del 1898disegna <strong>il</strong> nuovo frontespizio dellarivista di letteratura e arte Il Marzocc o diretta da Enrico Corradini; nel1899 crea un’a f f i c h e p u b b l i c i t a r i aper un azienda che produce un burrospeciale da tavola, “Tenuta di Sirchera”in provincia di Cremona. Nelcampo del design <strong>il</strong>luminotecnico,tra <strong>il</strong> 1900 e <strong>il</strong> 1906, progetta e brevettalampade ad arco, lampade adiffusione di luce indiretta e sistemicomplessi di <strong>il</strong>luminazione per lescene teatrali e miscelatori per la regia<strong>il</strong>luminotecnica (ciò che ora vienecomunemente chiamato mixerluci) che verranno per molti anniimpiegati in innumerevoli teatri di[208-209] Mariano Fortuny con l’elettricistaGiachetti nel 1906 in un teatro parigino e,in alto, la lampada a luce indiretta ediffusa ideata da Mariano.


[211] La collezione di tessutiantichi del padre di Mariano.tutta Europa. O ancora altre sue frag<strong>il</strong>i e delicatelampade di diverse fogge, Cesendello,Sherazade, Saturno, quest’ultima creata per<strong>il</strong>luminare le sale da gioco dell’Hotel Excelsiordel Lido di Venezia negli anni venti. Sonolampade a sospensione in garza di setasostenute da una struttura metallica o in legno,dove la trasparenza della seta permette <strong>il</strong> passaggio di una lucesoffusa e ovattata che proietta nell’ambiente i disegni decorativi,stampati a mano con motivi orientali.Disegna e brevetta personali marchi d’impresa in Italia, Franciae Germania nel 1909, nel 1911, nel 1912, nel 1928 e nel 1933,brevetti che successivamente verranno estesi a molti altri paesi. Trai suoi progetti vi sono anche mob<strong>il</strong>i, librerie e cassettiere con chiusurea scomparsa, che se nascono forse per ricerche più private edesigenze personali, sono anch’esse brevettab<strong>il</strong>i e riproducib<strong>il</strong>i. Neglianni trenta disegna un cavalletto mob<strong>il</strong>e a più ripiani circolari,dotato di una lampada a luce indiretta, diffusa e orientab<strong>il</strong>e daadottarsi per pittori e restauratori, e nel 1945 deposita un brevettoper un “Cavalletto per pittura con telaio porta quadri mob<strong>il</strong>e edequ<strong>il</strong>ibrato”. Senza dubbio però, le idee e le sperimentazioni di Fortunyche offrono maggiori spunti d’interesse e che investono fortementeanche la decorazione legata alle arti applicate, sono quellerelative alla produzione di tessuti e abiti.Agli esordi delle creazioni tess<strong>il</strong>i,siamo nel 1906-1907, <strong>il</strong> “dispositivoteorico” di Mariano funziona per reminiscenzed’immagini, per sovrapposizionedi racconti, ricordi e documentidelle collezioni tess<strong>il</strong>i del padree della madre Cec<strong>il</strong>ia, con i libridi repertazione archeologica (scavi diEvans e Mosso a Creta) e la culturadell’antico. Un esame dei disegni edei motivi tess<strong>il</strong>i, rivela infatti fonti d’ispirazione della cultura greca-minoica,dei motivi decorativicopti, del Medio Oriente – Persia,Turchia, Bisanzio – e dell’arte ispano-morescafino all’Estremo Oriente(Cina, Giappone); le stesse fogge di[210] La lampada Cesendello ideata dopo <strong>il</strong> 1909.[212-213] Due motivi decorativi diFortuny per la stampa su tessuto.[214] L’atelier Fortuny all’Esposizione diParigi del 1911.scialli, abiti e costumi ne rafforzanol’idea. I p a t t e r n decorativi dei K n o s s o se dei D e l p h o s, delle a b a y a s e delled j e l l a b b a, dei b o u r n o u s e delle tuniche,delle casacchine e delle mantelle, dei teli e delle stoffe d’arredoin seta, velluto e cotone, sono concepiti dall’artistain strettissima correlazione con leforme e i colori degli abiti e dei tessuti aiquali sono destinati; a volte arricchiti, per iD e l p h o s, da accessori come cinture, perline inpasta vitrea, cordoncini o per gli scialli K n o s -s o s, da fermagli spiraliformi in metallo.Il successo che lo accompagna è conclamato in molte esposizionidi tutto <strong>il</strong> mondo e numerosi saranno i premi, le medaglie e i riconoscimentiche gli verranno assegnati come, ad esempio, in occasionedell’Esposizione delle <strong>Arti</strong> Decorativeal Pav<strong>il</strong>lon de Marsan delLouvre a Parigi nel 1911, nel 1923 aBarcellona, nel 1925 a Madrid e infineall’Esposizione delle <strong>Arti</strong> Decorativee Industriali Moderne di Parigi,sempre nel 1925.Nella sua fastosa eleganza Fortuny è molto conservatore, ma ènel suo essere d e s i g n e r, piuttosto che rientrare nelle classificazioni dist<strong>il</strong>ista, di creatore di moda, che si riafferma <strong>il</strong> forte ruolo d’innovazioneche egli presenta in questo campo. Nonostante nella creazionedella maggior parte dei motivi decorativi vi sia la tendenza a volgerelo sguardo al passato, nel progettare le sue creazioni egli è anchemolto attento al <strong>gusto</strong> contemporaneodell’epoca. Prova inconfutab<strong>il</strong>esono alcuni disegni per matricida stampa di segno geometrico, alcunidi derivazione Jugendst<strong>il</strong> o altriancora di st<strong>il</strong>izzazione floreale giapponeseo di motivi provenienti dalCentro America e dall’Oceania, tuttoraestremamente moderni. Le ma-[215] Matrice per stampa.trici costituiscono indubbiamente un c o r p u s eccezionale e rappresentanoun autentico “dizionario” del linguaggio artistico di Fortu n y, assolutamente indispensab<strong>il</strong>e per comprendere le modalitàdella sua ricerca e più in generale del suo operare. Altrettanto r<strong>il</strong>evanteè l’impiego della fotografia per gli studi e i progetti. Fortunysi affida a questo mezzo meccanico per costituire un poderoso repertorioiconografico da dove attingere ispirazione per i modelli decorativiche via via elabora e compone in maniera quasi maniacale.Il paradigma della ricerca fortunyana si può ricercare in quattropunti fondamentali: la rivisitazione dell’antico, la st<strong>il</strong>izzazione deimotivi iconografici, l’arte della decorazione a impressione grazie all’impiegodi preziosi tessuti e delle rare materie coloranti, e infine,la sua affascinante concezione d’interazionecromatica del colore. In un’armoniosa intonazionedi tinte e sfumature, accentuatedalla creazione di giochi luminosi e riflessi,artefici di pure emozioni l’artista-artigianoci restituisce i colori della sua tavolozza dipittore trasmigrati sulle sete e sui velluti.Vi è più di una “sensazione”: in queste“narrazioni” Fortuny sembra voler ribadire<strong>il</strong> suo attestarsi su posizioni anteriori almoderno design formulando un ideale di negazione della sintesi hegeliananon contro <strong>il</strong> moderno ma, nello spirito di Schopenhauer,come sua “macchina” fondante, o essere, comeafferma Sergio Polano, “artista più cheprogettista delle arti applicate, nella necessitàdell’ornamento”. E nella lettura dellasua opera vi sono dei segni più che tangib<strong>il</strong>idi tutto ciò.[216-217] Abito Delphos e, in alto, telo di velluto.


Le arti decorative alla Biennale.La nascita del Padiglione Venezia*GIOVANNI BIANCHIInaugurato in occasione della XVIII Esposizione Biennale Internazionaled’Arte del 1932, <strong>il</strong> Padiglione Venezia viene costruitolo stesso anno su progetto dell’architetto Brenno DelGiudice in quella zona dell’isola diSant’Elena che si presenta naturalmentecome lo spazio più adatto adaccogliere i nuovi padiglioni dellaBiennale. Nello stesso anno vengonoinfatti costruiti, sempre nella stessaarea e su progetto di Del Giudice,anche quelli della Polonia e dellaSvizzera. I tre padiglioni, a cui se neaggiungeranno altri due nel 1938,sono parte integrante di un unicoprogetto ideato dall’architetto venezianoe <strong>il</strong> Padiglione Venezia risultaessere l’elemento centrale e di raccordodel complesso.Secondo <strong>il</strong> capitolato d’appalto, <strong>il</strong> padiglione era composto daun corpo centrale di forma semicircolare collegato a due sale laterali.Sul corpo centrale si aprivano tre porte d’ingresso e quattro grandifinestroni. Le pareti internedella galleria, dove erano ricavategrandi nicchie di dimensionidiverse, erano finite a marmorinolucidato a caldo. La galleria ele sale laterali erano <strong>il</strong>luminateda lucernari coperti da un velariodi tela bianca. La facciata erabianca, realizzata in marmorino[218-219] Il plastico dell’interaarea espositiva della Biennale e <strong>il</strong>dettaglio dei padiglioni: dasinistra a destra la Svizzera, le<strong>Arti</strong> Decorative e la Polonia.[220-222] Il corpo centrale del padiglionee, a sinistra, la vasca e i p<strong>il</strong>astri.tirato a caldo, mentre lo zoccolo,i contorni e le soglie delle ported’ingresso erano in pietra d’Istria.Il padiglione era completatoda una grande scalinata semicircolaree da una vasca in posizionecentrale delimitata da p<strong>il</strong>astri.Oggi <strong>il</strong> Padiglione si presentasnaturato rispetto alla formaoriginaria: la vasca e i p<strong>il</strong>astrisono stati demoliti mentre la costruzionedel padiglione del Bras<strong>il</strong>enel 1964, proprio di fronte,ne occlude la visione.La nascita del Padiglione Venezia, diversamente dai padiglioninazionali, è strettamente legata alla fervida e instancab<strong>il</strong>e attivitàdell’Istituto Veneto per <strong>il</strong> Lavoro che, alla fine degli anni venti, inun’ottica di promozione e di r<strong>il</strong>ancio delle arti decorative, proponeall’allora Segretario Generale della Biennale Antonio Maraini di inserirenel programma espositivo della XVII Esposizione BiennaleInternazionale d’Arte del 1930 una mostra dedicata all’oreficeria.La proposta viene accettata e per la prima volta alla Biennale vieneallestita un’esposizione “speciale” d’arte decorativa, che riscuotelarghi consensi. Alla fine del 1930, visto <strong>il</strong> successo ottenuto dallaMostra Internazionale dell’Orafo e dopo colloqui tra Maraini e <strong>il</strong>Presidente dell’Istituto Veneto per <strong>il</strong> Lavoro Beppe Ravà, <strong>il</strong> Presidentedel Consiglio Provinciale dell’Economia di Venezia invia allaPresidenza della Biennale un rapporto relativo alla possib<strong>il</strong>ità diistituire saloni internazionali di arti decorative e industriali in concomitanzacon l’Esposizione Biennale d’Arte di Venezia.Alla Biennale viene chiesto di contribuire alla realizzazione dell’iniziativaconcedendo i “locali”, occupandosi del loro parziale arredamentoe gestendo l’ufficio vendite. L’iniziativa doveva essereattuata a partire dal 1932 in occasione della XVIII EsposizioneBiennale d’Arte, dove si sarebbero dovuti organizzare due “saloni”d’arte decorativa e industriale: uno di vetri d’arte, merletti e ricami(dal I° maggio al 15 agosto) e uno di stoffe e smalti (dal 25 agostoal 31 ottobre). I saloni sarebbero stati organizzati dall’IstitutoVeneto per <strong>il</strong> Lavoro e sarebbero stati finanziati da vari enti sostenitoridell’iniziativa.Per la Biennale decidere di inserire nel suo programma espositivodei saloni internazionali d’arte decorativa significava sconfinarein un territorio di pertinenza dal 1923 dell’EsposizioneInternazionale delle <strong>Arti</strong> Decorativee Industriali Moderne di Monza –nota dal 1930 come la Triennale –, che dallasua quinta edizione del 1933 avrebbe trasferitola sua sede a M<strong>il</strong>ano, nel Palazzo dell’Arteappositamente costruito su progetto[223] Il Palazzo delle<strong>Arti</strong> a M<strong>il</strong>ano, sededella Triennale.di Giovanni Muzio nel parco Sempione. Giànel 1930, quando in seno alla Biennale si erao rganizzata la Mostra Internazionale dell’Orafo,erano sorti problemirelativi ai rapportitra le due istituzioni. In realtà proprio<strong>il</strong> successo della mostra determinò la decisionedella Biennale di “considerare l’opportunitàdi rendere stab<strong>il</strong>e una sezione di artedecorativa, con particolare riferimento ai generidi produzione veneziana, pur conservando<strong>il</strong> carattere internazionale proprio dellaBiennale”, come si legge nella presentazionedi Maraini al catalogo della XVIII BiennaleInternazionale d’Arte del 1932.[224] Il catalogo dellaBiennale del 1932.La decisione rientra in un preciso programma di rinnovamentoe ampliamento della programmazione dell’Ente e l’edizione del1932 avrebbe dovuto segnare <strong>il</strong> “r<strong>il</strong>ancio” della Biennale che infattiorganizzò anche la prima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.Ricorda Maraini che la XVIII Biennale sarebbe stata, difatto, la prima esposizione organizzata “sotto l’intera responsab<strong>il</strong>itàdel Comitato d’Amministrazione dell’Ente Autonomo” e da questaedizione la sezione d’arte decorativa doveva divenire un appuntamentofisso nel programma espositivo (e così sarà fino al 1972).Presa la decisione di organizzare i saloni d’arte decorativa, allafine di maggio del 1931 inizia a concretarsi anche l’idea di costruireun padiglione stab<strong>il</strong>e per l’arte decorativa. Nel gennaio del1932, una volta appurato che alla costruzione del nuovo padiglioneavrebbero contribuito vari enti (tra cui l’Istituto Veneto per <strong>il</strong>Lavoro), la Biennale decide di dare <strong>il</strong> via ai lavori iniziando una ve-


[226-227] Il logo dell’Alveare e, inbasso, la galleria con le nicchieespositive.[225] La costruzione del padiglionedelle <strong>Arti</strong> Decorative.ra e propria gara contro <strong>il</strong> tempo:<strong>il</strong> padiglione doveva essereterminato entro la prima metàdi apr<strong>il</strong>e poiché la Biennale sarebbestata inaugurata alla fine dello stesso mese. Tutte le scadenzevennero rispettate e la mostra venne regolarmente inaugurata.Come la Biennale, anche la mostra d’arte decorativa, curata dall’IstitutoVeneto per <strong>il</strong> Lavoro, è organizzata per inviti a una seriedi ditte, nei quali si sottolinea che “la Mostra si vuole limitata a pochipezzi sceltissimi che costituiscano veri e propri esempi d’arte, iquali, all’infuori di qualsiasi concetto industriale, rispondano essenzialmenteai criteri generali informatori della nostra EsposizioneInternazionale d’Arte pura, e rappresentino i risultati della ricercadi nuove espressioni artistiche. Siamo sicuri ch’Ella vorrà corrispondereall’attesa della Biennale inviando quanto Ella giudichimigliore dell’opera Sua e riservandoci di prendere accordi particolariintorno allo spazio che Le sarà riservato”.Per non dare adito a critiche da parte della Triennale la mostradoveva mantenere un prof<strong>il</strong>o veneziano – non a caso la sede si chiameràPadiglione Venezia – pur conservando <strong>il</strong> carattere internazionaleproprio della Biennale: viene infatti strutturata in modo cheda una “dimensione” esclusivamente veneziana si arrivi a una aperturainternazionale. Tre sono le sezioni in cui si articola l’esposizione:mosaici, merletti e ricami, vetri; tutti generi riconducib<strong>il</strong>i allaproduzione artistica locale. Se i mosaici risultano esclusivamente“veneziani”, con i merletti e ricami si raggiunge una dimensionenazionale (artisti, scuole e ditte di Venezia ma anche di Bologna,Roma, Cantù, Rapallo) che viene posta a confronto con la produzioneirlandese. Il carattere internazionale si riscontra in modo evidentenella sezione dei vetri – la più importante – dove la produzionenazionale (in prima linea i vetri veneziani) è presentata accantoa quella dell’Austria, della Cecoslovacchia, della Germania,della Francia e della Svezia.L’allestimento è affidato al gruppo veneziano dell’Alveare che,formatosi alla fine degli anni venti,era composto dai giovani architettiAngelo Scattolin, G<strong>il</strong>do Va l c o n i ,Virg<strong>il</strong>io Vallot e si dedicava prevalentementealla consulenza e all’assistenzaagli artigiani ai quali venivanoofferti disegni e progetti per rinnovarenelle forme la produzione diarte decorativa. Il gruppo costituivadi fatto l’Ufficio <strong>Arti</strong>stico dell’IstitutoVeneto per <strong>il</strong> Lavoro che promuovevacon forza lacooperazione fra l’artistae l’artigianoavendo come scopoquello di “fondere earmonizzare le materieprime, l’ingegnodegli artisti, laperizia dell’artigianoveneto che ha le più luminose tradizioni, <strong>il</strong> tutto animato dallo spiritonuovo”.A testimoniare l’esistenza in questi anni di organizzazioni “veneziane”– sempre riferib<strong>il</strong>i all’Istituto Veneto per <strong>il</strong> Lavoro – benstrutturate nell’ambito della gestione e della produzione di arte decorativa,si ricorda che per l’allestimento fu coinvolto anche <strong>il</strong>Gruppo Veneziano <strong>Arti</strong> Decorative che si era costituito a Veneziaintorno al 1930 per volontà dell’Unione Fascista degli Industriali,la Federazione degli <strong>Arti</strong>giani e naturalmente l’Istituto Veneto per<strong>il</strong> Lavoro. Scopo del gruppo era “assicurare, con la collaborazione diun rappresentante di ciascuno dei principali rami delle arti decorative,una continuità di criteri artistici e di st<strong>il</strong>e nell’ambiente venezianoe nel <strong>gusto</strong> moderno dell’esercizio di quell’arte complessa,delicata e modernissima, ch’è l’arredamento della casa, inteso nelsuo significato più estensivo”. Il Gruppo Veneziano <strong>Arti</strong> Decorativeera dunque strutturato in modo che vi fosse un “autorevole” rappresentanteper ognuno dei principali rami delle arti decorative:Paolo Venini per vetri artistici e lampadari, Checchin per vetri ecristalli, Giovanni Anfod<strong>il</strong>lo per i mob<strong>il</strong>i d’arte, Giovanni Pasinettiper la decorazione, Nicodemo Cecolin per ferri e metalli in genere,Luigi Bev<strong>il</strong>acqua per stoffe e velluti, Arturo Chiggiato per lestoffe stampate Fortuny. E, inoltre, Umberto Rosa per l’oreficeria,Crovato per i pavimenti: tutti artisti che collaboravano abitualmentecon l’Istituto Veneto per <strong>il</strong> Lavoro.La nascita del Padiglione Venezia, che sarà attivo fino al 1972,testimonia la decisa volontà delle istituzioni locali di operare a favoredella città. Gli obiettivi di tutelare e incentivare la produzioneartistica dell’artigianato e delle piccole industrie locali – mettendolaa confronto con quella nazionale e internazionale – e dipuntare al r<strong>il</strong>ancio qualitativo dei prodotti veneziani, evidenzianocome la classe dirigente della città lagunare fosse pronta e disponib<strong>il</strong>ea investire energie e capitali a favore di un settore produttivocapace di rivelarsi ancora vivo e competitivo.* tratto da Giovanni Bianchi, “Il Padiglione Venezia, uno spazio allaBiennale per le arti decorative veneziane” in Quaderni della donazioneEugenio Da Venezia, n. 14, Venezia, Fondazione Querini, 2005.Scuola d’Arte di Cortina: difenderela tradizione con l’innovazioneIRENE POMPANIN eTIZIANA PIVOTTISono trascorsi ben 164 anni dal quel lontano 1846, quando l’Italianon era ancora unita e a Cortina un sacerdote della ValBadia, tale don Cipriano Pescosta, con l’aiuto della MagnificaComunità d’Ampezzo pensò di aprire una scuola di disegno. Nascevain tal modo la Scuola d’Arte.Passano gli anni e nel 1874, mentre gli impressionisti espongonoper la prima volta a Parigi, gli studenti dell’Istituto inizianoa frequentare corsi industriali per l’intaglio e la f<strong>il</strong>igrana. Il legamecol contesto economico e sociale della realtà ampezzana divienesempre più forte e, due anni dopo, apre la sezione di falegnameria,di mosaico in legno e intarsio: è <strong>il</strong> preludio ad anni di intensa attività.A rendere la scuola professionale completa e in linea con <strong>il</strong> <strong>gusto</strong>del tempo contribuisce la memorab<strong>il</strong>e visita nel 1881 di Mister


Coddington di Londra, presidente dell’Oriental Club, disposto asvelare <strong>il</strong> fascino della nuova tecnica di intarsio in metallo, <strong>il</strong> tarkashi.Nel 1882 si assiste a una ridefinizione del piano di studi chefavorisce le attività di carattere tecnico-pratico, mantenendo i laboratoriper la lavorazione del legno, la tornitura e l’intarsio. Lascuola va acquistando in tal modo una fisionomia ben definita finchénel 1888 è già completamente organizzata secondo un propriostatuto e un organico piano di studi. Bisognerà attendere lo scalporede Les demoiselles d’Avignon di Picasso, perché nel 1908 venganoistituiti i corsi di ricamo e cucito, e successivamente, nel 1935,si apra una sezione femmin<strong>il</strong>e di maglieria, tessitura e ricamo.Dal 1846 a oggi l’Istituto ha operato fornendo all’economia localele maestranze e le più alte professionalità per <strong>il</strong> settore della lavorazionedel legno; negli anni, infatti, la Scuola d’Arte ha rappresentatola “bottega”, la sede della formazione di falegnami, artisti,architetti, donne e uomini che di arte e mestiere si sono cibati ehanno imparato a progettare e realizzare, immaginare e forgiare, osservaree creare. Numerosi, inoltre, sono gli stage professionali perstudenti, anche stranieri, che la scuola ha organizzato nei propri laboratorie presso aziende del settore arredamento, che hanno consentitoloro di operare in diretto contatto con i tecnici del ramo. Lascuola, sin dalla sua nascita, si è rivelata quindi luogo del sapere vicinoalla quotidianità e, allo stesso tempo, radicato nel pensiero enell’azione della comunità; è stata funzionale alle esigenze del territorio,che presenta una marcata vocazione artistico-artigianale,specie nell’ambito del legno; a rafforzare tale sinergia sono poi inatto rapporti di collaborazione con associazioni artigiane locali edella provincia.Proprio <strong>il</strong> connubio tra scuola e impresa, istruzione e lavoro, hasuggerito la strada da intraprendere per cogliere nella riforma dellascuola l’occasione per rinnovare e r<strong>il</strong>anciare l’offerta formativadell’Istituto d’Arte che, da quest’anno, si presenta nella nuova vestedi Liceo <strong>Arti</strong>stico: scelta obbligata alla luce di quella specificitàartistica che la scuola ha storicamente sv<strong>il</strong>uppato e consolidato. Ilpiano di azione concordato consiste in tre mosse che permettano dicostituire e garantire a Cortina un percorso unitario di istruzionedagli 11 ai 19 anni, quale originale Polo artistico, unico nella Provinciadi Belluno.Nella scuola media annessa al Liceo <strong>Arti</strong>stico, che rappresentauna realtà importante nell’istruzione secondaria di primo grado, èstato potenziato lo studio delle discipline artistiche così da proporreun percorso propedeutico al liceo, con l’auspicio che vi sia la possib<strong>il</strong>itàdi conservarla e r<strong>il</strong>anciarla come “Scuola Media delle <strong>Arti</strong>”benché a Cortina vi sia già un’altra scuola media.Nell’ambito dell’autonomia scolastica si vorrebbe inoltrerafforzare <strong>il</strong> numero delle ore di laboratorio attraverso una gestionediversa e trasversale delle materie umanistiche e linguistiche.Infine, si pensa di ottimizzare l’attività laboratoriale del biennioproponendo <strong>il</strong> progetto “Arte e design in laboratorio”, strutturatoin moduli pomeridiani facoltativi, con tematiche inerenti aldesign del prodotto artigianale, permettendo così di perseguiretutte le fasi di studio: dall’idea alla progettazione, dalla realizzazionealla presentazione. Aperto anche agli studenti di terza media,<strong>il</strong> laboratorio avrebbe le caratteristiche di un campo d’azione aperto,flessib<strong>il</strong>e, ideale luogo del saper pensare e saper fare, dove glistudenti sarebbero messi nella condizione di affrontare problemi ericercare soluzioni concretamente realizzab<strong>il</strong>i.<strong>Arti</strong> Decorative: per saperne di più...•MARINO BAROVIER, ROSA BAROVIER MENTASTI, ATTILIA DORIGATO, Ilvetro di Murano alle Biennali. 1895-1972, M<strong>il</strong>ano 1995.•GIOVANNI BIANCHI, “Il Padiglione Venezia, uno spazio alla Biennale perle arti decorative veneziane”, in Quaderni della donazione Eugenio Da Venezia, n. 14, Venezia, Fondazione Querini Stampalia, 2005.•GIOVANNI CANIATO, Con <strong>il</strong> legno e con l’oro. La Venezia artigiana degli intagliatori, batt<strong>il</strong>oro e doratori, Verona 2009.•MICHELA DAL BORGO, “L’arte del battioro” in I <strong>mestieri</strong> nella tradizione popolare veneta, Quaderni del Lombardo-Veneto, Padova, s.d.•DORETTA DAVANZO POLI, Le arti decorative a Venezia, Azzano San Paolo(BG) 1999.•DORETTA DAVANZO POLI, Il merletto veneziano, Novara 1998.•DORETTA DAVANZO POLI, Seta & oro, Venezia 1997.•DORETTA DAVANZO POLI eSTEFANIA MORONATO, Le stoffe dei veneziani,Venezia 1994.•MANLIO CORTELAZZO (a cura di), Cultura popolare del Veneto. <strong>Arti</strong> e <strong>mestieri</strong> tradizionali, M<strong>il</strong>ano 1989.•ELENA FAVERO, L’arte dei pittori in Venezia e i suoi statuti, Firenze 1975.• Forme moderne, rivista di storia delle arti applicate e del design italianodel XX e XXI secolo, Roma 2010.•SILVIA GRAMIGNA eANNALISA PERISSA, Scuole di arti, <strong>mestieri</strong> e devozione aVenezia, Venezia 1981.•GIOVANNI GREVEMBROCH, Gli abiti de veneziani di quasi ogni età con d<strong>il</strong>igenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII, copia anastatica del manoscritto del1754-1760, Venezia 1981.•DOMENICO GUADAGNINI, Le industrie caratteristiche delle tre Venezie e laprima mostra biennale internazionale delle arti decorative di Monza, Venezia1923.• Le insegne delle arti veneziane al Museo Correr, Venezia 1982.•NELLA LOPEZ Y ROYO SAMMARTINI, Fiori di perle a Venezia, Venezia 1992.•FABRIZIO MAGANI (a cura di), Canova e l’Accademia. Il maestro e gli allievi, Treviso 2002.•ANTONIO MANNO, I <strong>mestieri</strong> di Venezia. Storia, arte e devozione delle corporazioni dal XIII al XVIII secolo, Padova 1995.•GIUSEPPE MORAZZONI eMICHELANGELO PASQUATO, Le conterie veneziane,Venezia 1953.•MARCO MULAZZANI, I padiglioni della Biennale di Venezia, M<strong>il</strong>ano 1988.•MARIABIANCA PARIS (a cura di), Manufatti in cuoio conservazione e restauro,M<strong>il</strong>ano 2001.•PIERO PAZZI (a cura di), Contributi per la storia dell’oreficeria, argenteria egioielleria, Venezia 1996.•FILIPPO PEDROCCO, La porcellana di Venezia nel Settecento. Vezzi, Hewelcke,Cozzi, Venezia 1998.•ANDREA PENSO, Camini di Venezia, Venezia 1989.•GIUSEPPE MARIA PILO, Francesco Guardi. I paliotti, M<strong>il</strong>ano 1983.•SERGIO POLANO, “Fortuny e l’arte applicata. Necessità dell’ornamento”,in Fortuny nella Belle Époque, M<strong>il</strong>ano 1984.•ELISABETTA POPULIN, Il ponte dell’Accademia a Venezia. 1843-1986, Venezia1998.•CLARA SANTINI, Le lacche dei veneziani. Oggetti d’uso quotidiano nella Venezia del Settecento, Modena 2003.•GIOVANNI SARPELLON, Miniature di vetro. Murrine 1838-1924, Venezia1990.•FRANCESCO STAZZI, Le porcellane veneziane di Geminiano e Vincenzo Cozzi,Venezia 1981.•FRANCESCO STAZZI, Porcellane della Casa Eccellentissima Vezzi. 1720-1727,M<strong>il</strong>ano 1967.•GIUSEPPE TASSINI, Curiosità veneziane, ovvero origini delle denominazionistradali di Venezia, ristampa, Venezia 1970.•CAMILLO TONINI, Frammento di cuoridoro da tappezzeria, in Venezia e l’Islam. 828-1797, catalogo della mostra, Venezia 2007.


Il Palladio che non c’è a VeneziaANTONIO FOSCARICanaletto, <strong>il</strong> grande vedutista veneziano, ha avuto l’intuizioneper primo. Dipingendo un quadro – la famosa telafatta su commissione di un intellettuale raffinato quale eraFrancesco Algarotti – in cui rappresenta, come fosse realmente costruito,<strong>il</strong> Ponte di Rialto progettatoda Palladio, affiancatoda due altre superbe opere palladianeerette in Vicenza, <strong>il</strong> Palazzodella Ragione e <strong>il</strong> PalazzoChiericati, ci ha offerto una immagineastratta, un “capriccio”si sarebbe detto allora, di comesarebbe potuta essere Venezia sePalladio avesse potuto costruirepiù di quanto non gli era statoconcesso di fare.Per avere una idea più distinta sull’impatto che l’architetturapalladiana avrebbe potuto avere sulla immagine di Venezia, è necessarioperò seguire un criterio diverso. Bisogna portare l’attenzionesui progetti incompiuti e su quelli irrealizzati che <strong>il</strong> grandearchitetto vicentino ha elaborato per la capitale della Serenissima.Sono molti. A cominciare dalla ricostruzione della chiesa patriarcaledi San Pietro di Castello che Palladio, in un primo momento,aveva concepito come un tempio a pianta centrale preceduto da duealtre “fabbriche” esemplate sul modello dei templi gemelli di Pola;e, in un secondo momento – sotto la pressione dei due autorevolipatrizi che si erano impegnati a finanziare l’opera: Daniele eMarcantonio Barbaro –, aveva progettato come tempio “ornato”sulla sua facciata da sei colonne corinzie d’ordine gigante.Non meno impressionante sarebbe stata, in Venezia, la costruzionedella facciata della chiesa di Santa Lucia, voluta da LeonardoMocenigo. Se questa fosse statarealizzata, sarebbe apparsa sullariva del Canal Grande – nelbiancore della pietra d’Istria,esaltato in questo caso dalla lucemeridiana – la “forma” inaspettatadell’arco trionfale erettoquindici secoli addietro inAncona per rendere onore all’imperatoreTraiano. Ma non facciata della chiesa di Santa Lucia.[229] Progetto palladiano per lasarebbero state queste le operepiù imponenti concepite per Venezia da Palladio.Il Convento della Carità (quello in cui oggi sono ospitate leGallerie della Accademia) sarebbe stato – se fosse stato compiutamenterealizzato <strong>il</strong>progetto palladiano– la costruzione piùgrande per mole e[230] Planimetria del Convento palladiano dellaCarità con l’aggiunta di un tempio rotondo sulla suatestata settentrionale prospiciente <strong>il</strong> Canal Grande.[228] Canaletto, Capriccio: unprogetto di Palladio per <strong>il</strong> ponte diRialto con edifici di Vicenza, 1760circa, Parma, Galleria Nazionale.per imponenza dellacittà. E si sarebbe attestatoal CanalGrande (secondo la[231] Elaborazione di un disegno palladiano ditestata di una “piazza dei latini”.mia ipotesi) con un tempio rotondo esemplato sul modello delPantheon. Che se poi un altro tempio rotondo fosse sorto sul medesimoasse, sull’altra sponda del Canal Grande – secondo <strong>il</strong> programmatenacemente sostenuto da Marcantonio Barbaro nel corsodel dibattito per la costruzione del tempio votivo del Redentore –,su questa via d’acqua, che è la principale arteria della città, si sarebbematerializzato un evento architettonico che avrebbe avuto unimpatto sulla percezione della forma della città non inferiore aquello che avrebbe avuto <strong>il</strong> Ponte di Rialto, se questo fosse stato costruitoseguendo <strong>il</strong> modello audace proposto da Palladio.Quella che ha immaginato <strong>il</strong> Canaletto è una metafora di particolareefficacia, dunque, ma davvero insufficiente a esprimerecompiutamente la visione che Palladio aveva maturato per la capitaledella Repubblica. Egli infatti non si è limitato a concepire interventiche avrebbero coinvolto <strong>il</strong> Canal Grande; ma anche opereche avrebbero investito<strong>il</strong> cuore stessodella città, in ambitorealtino non menoche nell’ambito marciano.Ai piedi delPonte di Rialto –sulla sua sponda meridionale– avevaimmaginato si potesserealizzare una“piazza dei latini”,circondata da dueordini di logge, entrola quale si sarebbero potuti celebrare eventi e dare spettacoli,che avrebbero coinvolto <strong>il</strong> popolo veneziano non meno che l’oligarchiache governava la città.Ancora più clamorose sono le proposte palladiane per <strong>il</strong> foromarciano, per l’ambito cioè in cui si concentra <strong>il</strong> potere politico dellaRepubblica e con <strong>il</strong> quale Venezia ha sempre inteso dare al mondol’immagine più pregnante di sé. Assecondando un programmadi Marcantonio Barbaro che, divenuto Procuratore di San Marco,era intenzionato a r<strong>il</strong>anciare <strong>il</strong> processo di r e n o v a t i o del “foro” marcianoavviato negli anni del dogado di Andrea Gritti, Palladio avevaprogettato la costruzione di un palazzo imponente al centro dell’areadi Terranova quella, per intenderci, su cui sorgevano quei magazzinitrecenteschi che sono stati rasi al suolo da Napoleone perrealizzare quei modesti giardinetti che oggi si dicono “reali”. Unprogetto che Palladio, seguendo <strong>il</strong> procedimento mentale del Barbaro,non esita adampliare quasi a dismisura,fino a occuparel’intero sedimedell’area assai ampiadi Te r r a n o v a .[232] Progetto per la costruzione di un palazzopubblico nei due lotti centrali dell’area di Terranova.Palladio segue peròquesta iniziativa dell’autorevoleProcuratoredi San Marco“con la mano sinistra”, per così dire. Perché tutto <strong>il</strong> suo cuore e lasua mente sono impegnati, in quelle medesime settimane, nell’audaceproposito di dare nuova forma al fulcro stesso del potere poli-


tico della Repubblica, all’unica fabbrica in Venezia che in concreto,e ufficialmente, si poteva allora definire “Palazzo”: <strong>il</strong> Palazzo Ducale.Nella formulazione di questo progetto giungono a maturazionenel modo più compiuto molte idee da lui esplorate nel corso di moltianni di lavoro indefesso e appassionato: la concezione di un edificiopubblico – una bas<strong>il</strong>ica – che ha al suo piano terreno una piazzacoperta; l’idea di una fabbrica di pianta quadrata circondata dacolonne su tutti i suoi lati (p e r i p t e r a, avrebbe dunque detto Palladio);l’idea non meno clamorosa del dispiegamento di una serie dicolonne di ordine gigante che avrebbero dovuto rappresentare – invirtù della loro stessa spettacolare misura – l’autorità sovrana dellemagistrature che in questo Palazzo sono insediate, e governano loStato da Terra non meno che l’impero marittimo di Ve n e z i a .[233] Ipotesi ricostruttiva del progetto palladiano per Palazzo Ducale.Le chiese palladiane che sorgono sull’isola di San Giorgio e sull’isoladella Giudecca – quelle chiese che costituiscono una speciedi fondale, o di scenografia, del bacino di San Marco per chi a essosi affaccia dalla piazzetta e dal molo – altro non sono dunque,nella purezza delle loro forme e nella loro limpida bellezza, cheuna sorta di eco del pensiero, dei pensieri, che Palladio aveva maturatoper dare nuova forma al centro stesso della città. Per una seriecomplessa di ragioni – non ultima quella finanziaria, particolarmenter<strong>il</strong>evante in anni che di poco seguono lo scontro navalecon l’Impero ottomano che si era concluso a Lepanto e che sonotormentati dal perdurare di pest<strong>il</strong>enze gravissime –, la Signoriaveneziana non è disponib<strong>il</strong>e, o non è in grado, di raccogliere leproposte di Palladio.Il bisogno di rinnovamento che <strong>il</strong> grande architetto aveva saputoesprimere con così sorprendente energia creativa si insinua comunquee permane nella coscienza dei componenti più responsab<strong>il</strong>idella classe di governo della Serenissima; e di lì a poco si esprimerà– entro un Palazzo che rimane immutato nella sua forma esterna– nel dispiegamento di un apparato decorativo ricco di figurazioninelle quali Venezia condensa le sue memorie e riversa i suoisogni di grandezza. Bastano pochi anni però perché gli ammaestramentiofferti da Palladio – o anche solo gli stimoli indotti dalle sue“provocazioni” – producano i loro effetti. Nell’ambito del foro marcianosi avvieranno di lì a poco i lavori di completamento della LibreriaMarciana (con la costruzione di quella sua “testata” meridionalenella quale andranno a insediarsi gli uffici delle tre Procuratiedi San Marco) e la costruzione di tutto <strong>il</strong> lato meridionale della piazza,lungo <strong>il</strong> quale saranno costruite le nuove imponenti residenzedei Procuratori; le cosiddette “procuratie nuove”. Ma Palladio muorenel 1580 (non sappiamo dove, non sappiamo come) e nulla vedràdi questa nuova stagione culturale, che è stato lui stesso – con la suacreatività, con <strong>il</strong> suo entusiasmo – a promuovere.Venezia-San Paolo città espressionisteFRANCESCO GOSTOLI[234] San Paolo del Bras<strong>il</strong>e in unoschizzo di Francesco Gostoli.San Paolo 15 settembre 2010. Arrivo alle cinque del mattino.Fa freddo, anche se la temperatura non è bassa. Qua e là i restidella notte. I vagabondi sotto le coperte addossati ai muri,qualcuno riesce ancora a discutere con se stesso.Il mio accompagnatore parla solo portoghese. Con lui riesco atrovare un buon compromesso d’intesa nella lingua spagnola. Ha <strong>il</strong>compito di condurmi in auto all’Università di Alfenas dove sonostato invitato ad aprire un seminario sulla produzione della conoscenzacontemporanea e i linguaggi che la esprimono. Sono statoinvitato e ci vado come architetto.La macchina corre veloce suuna strada di scorrimento chetaglia una favela (forse è Heliopolis).Volumi accartocciati bassi,fatti di terra, cartone, lamiere,pezzi di cemento. Volumiche mangiano <strong>il</strong> terreno collinarecome enzimi, senza soluzionedi continuità fino ai piedi delle torri. Una a fianco all’altra, una dietrol’altra, grigie, ad altezza variab<strong>il</strong>e, con dei fori rettangolari dovenon s’affaccerà mai nessuno. Non c’è un albero. La luce dell’albafa <strong>il</strong> resto. San Paolo mostra subito la sua immagine dura. Un uppercut deciso alla bocca dello stomaco. Una città dalle molteplicidimensioni, dove non c’è un centro o più centri, né periferie o partiurbane monofunzionali.È come entrarein un luogo checambia la sua rappresentazionee isuoi spazi a secondadei punti di vista ele mete che li condizionano.Ogni puntodi vista offre opportunitàche non [235-236] Veduta area del parco Ibirapuera di Sanavresti mai sospettato.Un parco con un lago e am-Paolo e, in basso, uno scorcio del lago.pi spazi coperti, articolati, doveincontri gente che discute, passeggia,gioca, canta o lavora.Av e n u e alberate con larghe sediper le persone che vanno a piedie fiumi di macchine che non sifermano mai. Quartieri di casetirate a lucido tra vialetti s<strong>il</strong>enziosi che fanno <strong>il</strong> verso allo st<strong>il</strong>e colonialeportoghese o vie dove gliedifici se ne inventano di tutti icolori, alcuni con dettagli affattoscontati, oppure luoghi dovesembra di stare a Saint Ger-[237] Quartiere residenziale a SanPaolo.


main. Poi di colpo ti affacci daldecimo piano di un appartamentoe rivedi i piccoli volumiche arrancano fino alle torri grigiedelle residenze. San Paolo èun luogo dove dimensioni e punti di vista molteplici coesistononell’istante in cui guardi una via, una piazza, un edificio, la genteche passa, o entri in un bar. Una città dove tutte le razze del pianetasi mescolano in culture che esprimono venti m<strong>il</strong>ioni di abitantidistribuiti su un’area che ha <strong>il</strong>suo lato maggiore lungo duecentoch<strong>il</strong>ometri. Lo spazio-tempo ha velocitàcontrastanti. In questo SanPaolo è sim<strong>il</strong>e a Venezia, altra cittàche non ha un’unica dimensione, uncentro, una razza, una cultura, mainfiniti centri, molteplici dimensioni:tante le razze e le culture degliuomini che l’hanno costruita e resa[240-241] Area pedonale mercato e,a destra, un ponte in centro città.[238-239] Contrapposizione tra alto ebasso: a sinistra torri ed edifici bassi aSan Paolo e, in basso, schizzo delprogetto di Francesco Gostoli per laBiennale: ingresso del padiglioneitaliano all’Arsenale di Venezia.[242-243] La sede dell’UniversitàFederale di Alfenas e, a destradibattito tra studenti.quel fenomeno urbano che è. Entrambefenomeni espressionisti sucui è necessario riflettere per delinearele utopie che inventerannole città del XXI secoloe le loro architetture. Larelazione paradossale e veraallo stesso tempo tra questidue luoghi cessa quando vedoche a San Paolo la gente vive la città, la usa; mentre a Veneziale persone si limitano a visitare, a consumare, rendendo la città unguscio vuoto: un luogo a tempo.Si può andare in macchina, in autobus, in bicicletta, o a piedi esi vivono quattro città differenti. Scesi dal taxi, negli occhi i luoghiappena attraversati, ci si trova in una piazza o in una via che non harapporto dimensionale con ciò che si è appena attraversato, anche segli spazi sono compresenti e in relazione. Mentre proseguo la miacorsa in macchina, m’accorgo che <strong>il</strong> sole sta sorgendo a ovest! Miviene da sorridere, penso allo spazio curvo e agli aerei che annullanoi luoghi che attraversano, mescolando tempo e spazio. Il mio accompagnatoremi offre un caffè, poi inizio a mettere in ordine appuntie parti di testo della relazione che dovrò tenere fra qualche ora.Alfenas è una città media a quattrocento ch<strong>il</strong>ometri da San Paolonello stato di Minas Gerais. Intorno, colline coltivate a caffè finoall’orizzonte. A poca distanza, un lago artificiale con un perimetrodi circa m<strong>il</strong>le ch<strong>il</strong>ometri che produce energia. Le costruzionisono basse, corrono lungo le vie che salgono e scendono dirittecome a San Francisco, i loro colori sono decisi: bianco, azzurro, giallo,rosso come la terra delle colline. Anche qui qualche torre residenzialee i quartieri popolari che hanno la logica delle favelas, anchese mi fanno notare che nonci sono cartoni o lamiere. L’UniversitàFederale ha un campusgrande rispetto alla città che loospita. Gli edifici sono recenti,alcuni interessanti. Le sue eccellenzesono la Facoltà di Farmaciae quella di Chimica. C’è unronzio costante di studenti chela popolano giorno e notte. Lasera si fanno corsi per gente chedurante <strong>il</strong> giorno lavora. Con un pass è possib<strong>il</strong>e studiare anche dinotte. Al di là della giovane età deidocenti di f<strong>il</strong>osofia, storia, medicinache incontro, si respira un’aria fattiva.Di gente che si mette in discussione,inquieta, che vuole dare rispostealle questioni poste da una societàcomplessa e in crescita: tre m<strong>il</strong>ionidi posti di lavoro nel 2009.Il Bras<strong>il</strong>e ha tinte forti, <strong>il</strong> rosso della terra, <strong>il</strong> blu intenso delcielo, <strong>il</strong> giallo, <strong>il</strong> viola e l’amaranto dei fiori sugli alberi delle colline,<strong>il</strong> verde intenso delle piante di caffè. I bar o le trattorie di SanPaolo hanno interni disegnati, dettagli piacevoli, alcuni di pregio,anche se i materiali usati non sono costosi. Alcune parti della cittàsono scure, abbandonate. Vagabondi si mescolano alla folla delmercato giapponese, vicino alla metropolitana. La persona che miaccompagna mi stringe <strong>il</strong> braccio quando attraversiamo la piazzacon persone che discutono a voce alta, ha timore di essere coinvoltanella rissa.Dopo aver visitato l’attualesede della Facoltà progettata daV<strong>il</strong>lanova <strong>Arti</strong>gas, una delle immaginidi San Paolo la colgo visitandola v<strong>il</strong>la liberty, sede storicadella Facoltà di Architetturae oggi usata per stage di spe-[244-245] Esterno e interno dellaFacoltà di Architettura di San Paoloprogettato da Joao Batista V<strong>il</strong>lanova<strong>Arti</strong>gas.cializzazione. Due spazi completamentedifferenti. La prima d<strong>il</strong>atata,totalmente aperta, una sfida strutturale con i volumi liberiarticolati che si compenetrano, la seconda contenuta, dettagli a tuttotondo, stucchi e decori eleganti. Entrambe, però, fatte per esserevissute dalle persone, che sono individui e collettività al tempostesso. Entrambe hanno nel seme un’idea di città differente che coesiste.Ecco, qui accade che una buona architettura o un buon edificioesprimano una visione urbana, un’idea o un’utopia di città. Ciòche spesso manca nelle architetture che si stanno realizzando in Europa.Architetture ancora legate all’unica funzione che blocca glispazi, architetture che alla fine mettono in discussione ben poco.Architetture in cui manca una strategia politica che tenti di prefigurarele funzioni, le relazioni e le culture di cui hanno bisogno ledonne e gli uomini del nostro tempo.


Progetto “Sulle Ali degli Angeli”.Il restauro dei mosaici della CupolaETTORE VIOIrestauri delle sette giornate della Creazione procedono secondo<strong>il</strong> programma che ne prevede la fine nel giugno 2012. Si sta r<strong>il</strong>evandolo stato originale dell’apparato musivo che mostra tuttala sua preziosità tecnica, laspeciale modalità iconograficadella rappresentazione e una forteluminosità accentuata dalcontrasto tra i fondi e le figureche di fatto era ignorato. Ora gliinterventi hanno superato <strong>il</strong> primoanello dal basso, <strong>il</strong> più ampio,e sono in corso nel secondo,mentre sono già individuate learee che presentano distacchi e[246] Tracciatura delle aree piùproblematiche della sommità dellacupola.saranno oggetto di speciali consolidamenti nell’area della calotta cherichiederanno più tempo rispetto a quanto previsto inizialmente.Va ricordato che i mosaici della bas<strong>il</strong>ica non servirono esclusivamenteall’edificazione e all’ammaestramento dei fedeli ma erano,con i marmi e gli arredi preziosi, l’espressione visib<strong>il</strong>e dell’ambizionedella Serenissima di essere la rinnovatrice dell’Impero Romanodi matrice cristiana. Infatti lo sv<strong>il</strong>uppo artistico della città lagunarerestò per secoli condizionato dal modello di Costantinopoli.La scelta della chiesa dei Santi Apostoli, quella imperiale di Costantinoe Giustiniano, come modello per la terza San Marcoespresse <strong>il</strong> programma artistico e politico di Venezia.La decorazione musiva dell’atrio avvenne dopo la IV crociatache pose Venezia alla guida della città madre e sua erede. Poichél’interno della bas<strong>il</strong>ica era ornato dall’ampio programma iconograficodel XI e XII secolo con scene tratte dalla storia salvifica delNuovo Testamento, all’atrio venne riservato <strong>il</strong> ciclo Vetero Testamentario,tratto dai primi due libri della Bibbia quello della Genesie dell’Esodo. Le scene della prima cupola, quella della Genesi,vennero probab<strong>il</strong>mente ultimate tra <strong>il</strong> 1220 e <strong>il</strong> 1225 e costituirono<strong>il</strong> via al grandioso programma dell’atrio.Nell’Ottocento lo storico dell’arte Johan Jakob Tikkanen riconobbeche le <strong>il</strong>lustrazioni della Genesi dell’atrio concordassero finnei dettagli con le miniature di un codice tardo antico, detto Bib -bia Cotton. Questo codice sarebbe stato donato al re di Ingh<strong>il</strong>terraEnrico VIII da due vescovi greci di F<strong>il</strong>ippi. Nel XVIII secolo eranella biblioteca di sir Robert Cotton che nel 1731 fu danneggiatada un incendio. Il codice era composto da 165 fogli di pergamenacon 300 <strong>il</strong>lustrazioni miniate. Si salvarono solo 150 frammenti, oggial British Museum. Nel XVIIsecolo erano state fatte copie dialcune miniature che confermanol’importanza assoluta deglioriginali e ne consentono in partela ricostruzione.Il codice è uno dei più antichi[247] La cupola della Creazione nelnartece della Bas<strong>il</strong>ica di San Marco.manoscritti biblici che ci siano stati tramandati e fu miniato nel Vo VI secolo, si ritiene a Costantinopoli o ad Alessandria. Le miniatureseguono pedissequamente <strong>il</strong> testo biblico nelle loro immaginispecialmente nella cupola della Creazione. Per approfondire <strong>il</strong> significatoiconografico delle immagini,va precisato che <strong>il</strong> Dio creatorenon è come quello dell’Antico Testamento,ma piuttosto come <strong>il</strong> Logos,la Parola, che era fin dal principio eper la quale tutto è stato creato comeè scritto nell’incipit del Vangelodi San Giovanni. Dio nei mosaiciappare come un Cristo Giovane, appunto<strong>il</strong> Logos fatto uomo. Le rappresentazionimostrano un Dio eternoche non invecchia ed è quindigiovane, che nell’aureola ha la croce,[248-249] Cristo raffigurato nelsettimo giorno della Creazione e,in basso, l’atrio di San Marco.ed è quindi <strong>il</strong> Cristo, sintesi estremadella Santissima Trinità, che al verticedella Creazione è completatadallo Spirito di Dio che si libra comecolomba sulle acque. Il Cristo in trono alla fine del settimogiorno, è rappresentato nella Maestà di Dio Creatore. Fu decisivo <strong>il</strong>conc<strong>il</strong>io di Nicea del 325 d.C., che innalzò a dogma la dottrina delleconsustanzialità di Cristo con <strong>il</strong> Padre.È interessante esaminare la trasmigrazione delle immagini dell’anticocodice tardo-romano nei mosaici dell’atrio di San Marco. Disicuro <strong>il</strong> codice, o una copia, erano a Venezia dopo la IV crociata efurono ut<strong>il</strong>izzati per la mosaicatura nel XIII secolo e in specie perquella della cupola della Genesi. È da ritenersi assolutamente certoche non vi fosse interpretazione da parte del magister musivaris, e ancheche non vi fosse stata libertà per <strong>il</strong> miniaturista del codice poichéin quei primi secoli fu di certo sotto <strong>il</strong> controllo di una guidateologica. È fac<strong>il</strong>e ritenere che vi sia stata identità tra <strong>il</strong> modello ela sua riproduzione musiva e che per le precedenti considerazioni imosaicisti di San Marco non sarebbero stati capaci, né si sarebberopermessi di interpretare un codice tardo antico e le sue descrizionisforzandosi di essere fedeli all’originale. Dal confronto con altre cupolerisulta chiaro che le altre, decorate nella seconda metà del XIIIsecolo, sono figlie dello st<strong>il</strong>e che stava mutando da bizantino in gotico.Successivi restauri che portarono a modificazioni hanno resopiù diffic<strong>il</strong>e valutare l’originario operato dei mosaicisti. Tuttavia irestauri, anche per le decisioni del Senato di Venezia, che fin dal1265 imposero <strong>il</strong> rispetto di scene e scritte dei mosaici più antichi,sono da considerarsi sim<strong>il</strong>i e fedeli all’originale. Se si esclude lamancata ripetizione dei fondi azzurri delle miniature, trasformati inoro nei mosaici, tutto l’apparato musivodell’atrio ci restituisce, fin neidettagli, l’espressione artistica paleocristianadella Bibbia. Magnificae importante testimonianza musivadel XIII secolo, di valore incalcolab<strong>il</strong>eper averci trasmesso le immagini e<strong>il</strong> pensiero dell’epoca protocristianadei libri della Genesi e dell’Esodominiati in un codice tardoantico andatoperduto.


“Missione Fortuny”: inizia <strong>il</strong> restaurodel Teatro delle FesteCINZIA BOSCOLODa gennaio prossimo inizierà, al Museo di Palazzo Fortuny,l’intervento di restauro sul modello del Teatro delle Festerealizzato dalle ab<strong>il</strong>i e ingegnose mani di Mariano Fortuny,figura eclettica e geniale, che operò a Venezia da fine Ottocentoa metà Novecento.Mariano Fortuny y Madrazo nasce aGranada nel maggio del 1871 in un ambientein cui si respira arte: <strong>il</strong> padre, MarianoFortuny y Marsal, era infatti un apprezzatopittore mentre la madre, Cec<strong>il</strong>ia deMadrazo, discendeva da una famiglia checontava generazioni di pittori. Rimasto orfanoa soli tre anni, Mariano si trasferiscecon la madre a Parigi dove inizia queglistudi pittorici che proseguirà poi a Ve n e z i a ,città in cui si trasferirà diciottenne nel1889 e che sarà la sua definitiva residenza:qui infatti scompare nel 1949 all’età di settantottoanni a Palazzo Pesaro degli Orfei,oggi imprescindib<strong>il</strong>mente legato alla sua figura e conosciuto comePalazzo Fortuny.Il nome di Mariano è celebre per lo più per la sua attività in ambitopittorico e tess<strong>il</strong>e: le stoffe, i tessuti stampati e i modelli di abbigliamentosono conosciuti in tutto <strong>il</strong> mondo quali sinonimo dieleganza, buon <strong>gusto</strong> e raffinatezza. I suoiabiti D e l p h o s, lunghe tuniche in seta plissettataideate con la moglie Henriette, sono <strong>il</strong>prodotto più emblematico e celebre del suolaboratorio, un m u s t che ogni signora allamoda del tempo – sia essa Sarah Bernhardt oEleonora Duse – dovevaassolutamente possederee indossare. EMariano non si limitavaalla semplice realizzazionedell’abito; lastessa attenzione, la stessa classe e accuratezzala dedicava anche alla realizzazione della scatolain cui l’abito veniva riposto e spedito.Ma quello che forse è meno conosciuto è <strong>il</strong> Mariano Fortunyscenografo e inventore di dispositivi <strong>il</strong>luminotecnici per <strong>il</strong> teatro.Sua è l’idea di realizzare la Cupola, un complesso sistema per liberarela scenografia teatrale dalle rigideimpostazioni teatrali attraversol’uso della luce indiretta e diffusache troverà applicazione nei maggioriteatri tedeschi. È in quest’ambitodi interessi che nel 1912 Marianoprogetta a Parigi, assieme a GabrieleD’Annunzio e all’architettoLucien Hesse, un teatro che dovevasorgere all’Esplanade des Invalides,[250-252] MarianoFortuny, Autoritratto.In basso, abito Delphos eRitratto della SignoraHenriette.[253] La cupola pieghevolerealizzata da Fortuny e installataal teatro Kroll di Berlino.concepito in una scena e una salacoperta da un’unica enormecupola in tela che desse la sensazionedi trovarsi in un anticoteatro greco all’aperto. Il progettodi quello che D’Annunzio battezzò Teatro delle Feste non fumai realizzato ma nell’atelier di quella che fu la casa-laboratorio-fucinadi Mariano – e che oggi è <strong>il</strong> Museo di Palazzo Fortuny – se neconserva <strong>il</strong> modello realizzatodalle stesse mani dell’artista. Unmodello pensato e realizzatoprobab<strong>il</strong>mente per se stesso eper chi quella casa frequentava:le sue dimensioni infatti – tremetri di larghezza per circa duesia di altezza che di profondità –non permettevano di movimentare<strong>il</strong> manufatto poiché non vi erano, e non vi sono nemmeno ora,accessi sufficientemente ampi attraverso cui farlo passare. Su questomodello, esempio della creatività e dell’ingegno di MarianoFortuny, <strong>Venice</strong> Foundation ha deciso di concentrare le proprie forzeed energie per finanziarne <strong>il</strong> restauro attraverso <strong>il</strong> progetto diraccolta fondi “Missione Fortuny”.Forti dell’ultima, fortunata esperienza di micromecenatismodel “Gleam Team”, <strong>il</strong> progetto per <strong>il</strong> finanziamento del restaurodelle dorature del soffitto della Saladel Maggior Consiglio di PalazzoDucale, <strong>Venice</strong> Foundation lancianuovamente la sfida di riuscire amettere insieme, attraverso piccole egrandi quote, quanto necessario per<strong>il</strong> restauro del modello del Teatro del -le Feste. Il progetto originale di Fortuny,D’Annunzio e Hesse del 1912proponeva infatti un teatro per <strong>il</strong>grande pubblico; noi vogliamo che[254-255] Il modello del Teatro delleFeste e, in basso, l’atelier di MarianoFortuny dove è conservato.[256-257] Lo spaccato del modellinoe, in basso, l’interno.anche <strong>il</strong> finanziamento del restaurodel modellino venga dal “grandepubblico”, che sia un progetto allaportata di tutti affinché, a prescinderedalle proprie possib<strong>il</strong>ità economiche, chiunque possa sentirsipartecipe e orgoglioso di poter contribuire al recupero di questaparte del nostro patrimonio storico e artistico.Se con <strong>il</strong> progetto “GleamTeam” proponevamo di adottarevirtualmente <strong>il</strong> restauro di unmetro quadrato di soffitto dellaSala del Maggior Consiglio a PalazzoDucale ora, per <strong>il</strong> Te a t r odelle Feste, proponiamo di contribuireal suo restauro prenotando – sempre virtualmente – <strong>il</strong> proprioposto a teatro. E come tutti i teatri anche <strong>il</strong> nostro ha una serie ditipologie di posti a cui corrispondono diverse entità di donazione.


GFA. Poltronissima Gold € 150B. Poltronissima € 100C. Poltrona € 70D. Palco Centrale € 50E. Palco Laterale € 40F. Tribuna € 30G. Loggione € 10Ogni persona o società che aderirà all’iniziativa e invierà lapropria donazione a favore del restauro del modello del Teatro delleFeste avrà la possib<strong>il</strong>ità di personalizzare <strong>il</strong> posto prenotato con <strong>il</strong>proprio nome, oppure potrà donarlo a un’altra persona, o dedicarloalla memoria di qualcuno, oppure rimanere anonimo. Non c’è limitenel numero dei posti che si possono prenotare: uno, due, tre,cinque, dieci, cento, quello che si vuole. Le liberalità a favore delprogetto “Missione Fortuny” si raccolgono sulconto corrente no. 000600032884intestato a THE VENICE INTERNATIONAL FOUNDATIONpresso Unicredit Private Banking, f<strong>il</strong>iale di Feltre(cin F abi 02008 cab 61114)coordinate IBAN: IT56 F 02008 61114 000 6000 32884codice BIC SWIFT: UNCRITM1O20e sono fiscalmente detraib<strong>il</strong>i perché <strong>Venice</strong> Foundation ha ottenuto<strong>il</strong> riconoscimento della personalità giuridica di diritto privatoai sensi dell’articolo 12 e seguenti del Codice Civ<strong>il</strong>e e dell’articolo14 del DPR 24.7.1977 no. 616. Le erogazioni liberali per restaurodi opere d’arte vincolate effettuate da S O C I E T À sono quindi integralmentededucib<strong>il</strong>i dal reddito d’impresa mentre le erogazion<strong>il</strong>iberali effettuate da PERSONE FISICHE rientrano nella normativa relativaalla detrazione per oneri.<strong>Venice</strong> Foundation ha già destinatoai fondi per <strong>il</strong> restauro delmodello del Teatro delle Feste iproventi raccolti durante dueappuntamenti estivi che hannocoinvolto i nostri associati: la[258-260] La mostra Lunica allestitanel portego di Ca’ Rezzonico e, adestra, Lucio Dalla e Marco Alemannointerpretano brani ispirati alla luna.In alto, la distribuzione virtuale deiposti nel Teatro delle Feste.EGDCBAEFserata del 26 giugno dedicataalla luna – in occasione dell’inaugurazionea Ca’ RezzonicoGdella mostra Lunica con fotografiedi Marco Alemanno e dipintidi Giorgio Tonelli – a cui hagenerosamente e amichevolmentepartecipato Lucio Dallasostenendo e promovendo l’iniziativae la cena annuale dei socidel 28 agosto. Ma quanto raccoltonon è sufficiente e c’è bisognodell’aiuto di tanti micromecenatianche perché <strong>il</strong> progetto“Missione Fortuny” non s<strong>il</strong>imiterà a restaurare <strong>il</strong> modellodel Teatro delle Feste ma finanzieràanche <strong>il</strong> recupero di altreopere di Mariano conservate al Museo di Palazzo Fortuny: <strong>il</strong> preziosoalbum Disegni Te a t r o, una straordinaria e unica raccolta dischizzi riguardanti gli studi e le applicazioni sceniche e <strong>il</strong>luminotecnicheda lui progettate; <strong>il</strong> ciclo pittorico che decora le paretidell’atelier realizzato dal 1920 al 1943 come una sorta di “giardinoincantato” animato da figure femmin<strong>il</strong>i e allegoriche, pavoni eanimali esotici inscritti tra architetture decorate con motivi florealie a grottesca; trenta matrici per stampa su tess<strong>il</strong>e che rappresentanoun vero “dizionario” ornamentale del linguaggio di Fortuny,indispensab<strong>il</strong>e per comprendere <strong>il</strong> significato della sua ricerca.Ecco perché contiamo su voi tutti. Grazie della vostra generositàche, ne siamo certi, non mancherà di sostenerci anche in questanuova affascinante avventura.Gleam Team: concluso <strong>il</strong> restauro...ma non la raccolta fondiCINZIA BOSCOLO[261] L’album Disegni Teatro diMariano Fortuny che sarà restauratocon <strong>il</strong> progetto “Missione Fortuny”.Nel tardo pomeriggio di sabato 22 maggio, nella splendidacornice della Sala dello Scrutinio a Palazzo Ducale, èstata presentata la conclusione del restauro delle doraturedel soffitto della Sala del Maggior Consiglio alla presenza delSindaco di Venezia, avvocato Giorgio Orsoni; del direttore deiMusei Civici Veneziani, professor Giandomenico Romanelli e delprofessor Wolfgang Wolters, storico dell’arte e uno dei massimiesperti di Palazzo Ducale.Il lungo e minuzioso restauro, realizzato dal laboratorio di FiorenzaCivran in circa un anno e mezzo, è stato finanziato interamenteda <strong>Venice</strong> Foundation attraverso <strong>il</strong> “Gleam Team”, un progettodi micromecenatismo in cui sono stati offerti in “adozione” icirca 1350 metri quadrati dell’intero soffitto, suddivisi idealmentein tre fasce a cui corrispondevano donazioni di diverso importo:200 Euro per <strong>il</strong> settore Oro nella parte più esterna del soffitto,300 Euro per <strong>il</strong> settore Incenso nella parte mediana e 400 Euro per<strong>il</strong> settore Mirra nellaparte centrale.Il progetto “GleamTeam”, lanciato da<strong>Venice</strong> Foundation afine ottobre del[262] La Sala delMaggior Consiglio aPalazzo Ducale.


[263] La decorazione del soffitto della Sala del Maggior Consiglio.2008, ha riscosso un eccezionale – e forse insperato e inaspettato –successo: a oggi risultano “adottati” oltre 450 metri quadrati, piùdi un terzo dell’immenso spettacolare soffitto. La risposta dei socie degli amici, vecchi e nuovi, di <strong>Venice</strong> Foundation è stata straordinariae emozionante. Il tam tam mediatico e <strong>il</strong> passaparola hannodiffuso così ampiamente la nostra iniziativa – in principio definitaironicamente “vendita a metro di Palazzo Ducale” – che siamostati contattati da una miriade di persone che da totali sconosciutisono immediatamente diventati ottimi amici di Ve n i c eFoundation. Persone che hanno apprezzato <strong>il</strong> coinvolgimento e lapartecipazione diretta ma anche la trasparenza e la concretezza dell’iniziativa.Persone che si sono sentite orgogliose di partecipare econtribuire a un così importante intervento di recupero del patrimoniostorico e artistico di Venezia, città che appartiene a tutto <strong>il</strong>mondo. Persone che hanno favorevolmente accolto l’idea di personalizzarevirtualmente <strong>il</strong> pezzetto di soffitto adottato col proprionome, con quello di una persona cara, con quella di qualcuno chenon c’è più, ma anche con la scelta dell’anonimato.Ma <strong>il</strong> “Gleam Team” non si è ancora concluso, ci sono ancoranovecento metri quadrati da adottare perché la verifica e la manutenzionedelle dorature del soffitto va fatta sistematicamente econtinuamente. <strong>Venice</strong> Foundation non “archivia” mai le opereche restaura, ne segue e ne verifica costantemente lo stato e interviene,anche a distanza di anni, per tutelarne la loro integrità. Leliberalità di partecipazione al progetto “Gleam Team” – Euro 200per <strong>il</strong> settore Oro, Euro 300 per <strong>il</strong> settore Incenso ed Euro 400 per<strong>il</strong> settore Mirra – si raccolgono sempre sulconto corrente no. 000600032884intestato a THE VENICE INTERNATIONAL FOUNDATIONpresso Unicredit Private Banking, f<strong>il</strong>iale di Feltre(cin F abi 02008 cab 61114)coordinate IBAN: IT56 F 02008 61114 000 6000 32884codice BIC SWIFT: UNCRITM1O20Il 22 maggio, per l’inaugurazione del nuovo soffitto, eranopresenti a Palazzo Ducale oltre duecento persone. Dopo i discorsidi rito, che hanno sottolineato ed evidenziato l’importanza delprogetto “Gleam Team” e <strong>il</strong> ringraziamento a tutte quelle personeche a vario titolo lo hanno reso possib<strong>il</strong>e, i presenti hanno assistitoalla proiezione del f<strong>il</strong>mato – prodotto da <strong>Venice</strong> Foundation incollaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia e <strong>il</strong> laboratoriodi restauro di Fiorenza Civran e realizzato da ControcampoProduzioni – che documenta le vicende storico-artistiche della Saladel Maggior Consiglio, <strong>il</strong> suo splendido apparato iconografico edecorativo e le varie fasi e procedure del restauro.L’ufficialità e la formalità della cerimonia lascia poi spazio allacuriosità: tutti, naso all’insù, a cercare di individuare sul soffitto <strong>il</strong>proprio pezzetto. Tante le sorprese,a volte anche commoventi.I ragazzi del Liceo GinnasioStatale Eugenio Montale di SanDonà di Piave scoprono nel lorouna civetta che nella simbologiaclassica identifica la sapienza ela chiarezza di idee: quale migliorauspicio per degli studenti!Una mamma ha gli occhi lucidiperché nel metro quadrato dedicato al figlio recentementescomparso c’è <strong>il</strong> leone marciano, immagine a cui era legatissimo.Ma la commozione lascia presto spazio all’allegria: in cort<strong>il</strong>e diPalazzo Ducale Luigino Cassan de La Dogaressa Catering ha preparatoun delizioso buffet per festeggiare e brindare tutti insiemealla gioia per questo nuovo grande traguardo raggiunto, una gioiache, per molti, si replicherà di lì a poche ore in quel di Madrid...Premio <strong>Venice</strong> Foundatione finanziamenti alla cena dei sociCINZIA BOSCOLODopo un violento acquazzone tipicamente estivo, che hacompletamente stravolto i piani organizzativi, la cenaannuale dei soci di <strong>Venice</strong> Foundation, prevista nel frescodel giardino di Ca’ Rezzonico, siè svolta nello stupendo Salone daBallo. La serata è <strong>il</strong> consueto momentodi incontro tra i nostri associatie l’occasione in cui vengonoconsegnati <strong>il</strong> Premio <strong>Venice</strong> Foundation“Cotisso” alla Generosità e ifinanziamenti per gli interventi direstauro. Quest’anno <strong>il</strong> Premio –giunto ormai alla sua quarta edizione:in precedenza era stato conferitoa Renato e Maria S<strong>il</strong>via Scapinello, a[264] Gli studenti del liceo Montaleall’inaugurazione del soffitto.[265-266] Il cotisso e, a sinistra, glistudenti premiati dal SindacoGiorgio Orsoni.Roberta Coen Camerino e a Dan<strong>il</strong>o Mainardi – è stato assegnato alLiceo Ginnasio Statale EugenioMontale di San Donà di Piaveper <strong>il</strong> contributo al progetto“Gleam Team” per <strong>il</strong> restaurodelle dorature del soffitto dellaSala del Maggior Consiglio diPalazzo Ducale.Per iniziativa di Roberta Privato, docente di Storia dell’Arte, èstata attivata all’interno del liceo una raccolta di fondi da destinareal progetto di <strong>Venice</strong> Foundation a cui hanno partecipato sia glistudenti che <strong>il</strong> personale docente e non. In breve, con una donazionedi circa cinquanta centesimi a persona, sono riusciti a mettereinsieme quanto necessario per “adottare” un metro quadrato disoffitto. Una sorta di micromecenatismo nel micromecenatismononché un grande esempio davvero ammirevole di sensib<strong>il</strong>ità e attaccamentoal nostro patrimonio. Ma i ragazzi, i docenti e <strong>il</strong> personaledi questa scuola non si sono fermati solo a questo. Si sono or-


ganizzati, sono venuti a Venezia e hanno visitato Palazzo Ducaleper conoscere direttamente <strong>il</strong> luogo e <strong>il</strong> capolavoro che avrebbe beneficiatodella loro donazione. E poi sono andati oltre: hanno r<strong>il</strong>anciatol’idea della piccola raccolta e, autotassandosi con quote dauno o due Euro sono riusciti a raccogliere quanto necessario peraderire alla <strong>Venice</strong> Foundation come soci e si sono iscritti.Il Consiglio di Amministrazione di <strong>Venice</strong> Foundation, suproposta dell’ingegner Paolo Cantarella, ha accettato all’unanimitàdi premiare questo gesto così importante e significativo, auspicandoche <strong>il</strong> loro esempio possa essere di monito e di esempio per altrigiovani. A ricevere dalle mani del Sindaco Giorgio Orsoni <strong>il</strong> “Cotisso”– anche quest’anno generosamente donato dall’Angolo delPassato di Giordana Naccari – un’emozionata piccola delegazionedel liceo tutta al femmin<strong>il</strong>e formata dalla professoressa Privato, arteficedell’iniziativa, dalla preside professoressa Marisa Dariol enaturalmente da alcune studentesse.La serata è poi proseguita con laconsegna dei finanziamenti per i restauriche <strong>Venice</strong> Foundation sta sostenendo.A una commossa DanielaFerretti, direttore del Museo di PalazzoFortuny, <strong>il</strong> Vice Presidente di<strong>Venice</strong> Foundation, avvocato FrancescoMolinari, ha consegnato la gigantografiadi un assegno bancariodi 38000 Euro a conferma dell’impegnoiniziale di <strong>Venice</strong> Foundationa sostenere <strong>il</strong> progetto “MissioneFortuny”, ampiamente <strong>il</strong>lustrato apagina 49.Infine Franca Coin, Presidente di<strong>Venice</strong> Foundation, ha consegnato <strong>il</strong>contributo di 100.000 Euro per <strong>il</strong>proseguimento del restauro dellaCupola della Creazione nella Bas<strong>il</strong>icadi San Marco all’avvocato GiorgioOrsoni che, smessi per qualcheminuto i panni di Sindaco di Venezia,ha ricevuto la donazione nellaveste di Primo Procuratore di SanMarco.Contact: <strong>il</strong> nuovo sodalizio tra<strong>Venice</strong> Foundation e Master MaBACFRANCESCO CASARIN[267-268] Daniela Ferretti e, asinistra, Giorgio Orsoni ricevono icontributi per i restauri.Da quattro anni mi occupo del coordinamento del MasterMaBAC, doppio master universitario di secondo livelloin Management dei Beni e delle Attività Culturali, organizzatoda Università Ca’ Foscari Venezia, in collaborazione conÉcole Supérieure de Commerce de Paris ESCP Europe, una dellerealtà più affermate nella formazione manageriale a livello europeo.In questi anni sono stato, quindi, un testimone priv<strong>il</strong>egiato di comequesto corso di formazione abbia dimostrato la sua attualità nelsaper formare prof<strong>il</strong>i professionali capaci di gestire i molteplici bu -[269] La lezione inaugurale a Ca’Foscari del MaBAC 2010-2011.siness legati al sistema delle arti e della cultura, grazie al contributodi docenti e di professionisti che hanno garantito un costante allineamentodei contenuti del corso ai processi innovativi del management della cultura.Sin dalla nascita, MaBAC ha fatto appello a personalità di spiccodel mondo artistico culturale e i nostri diplomati, a oggi circaottanta, occupano ruoli chiave all’interno di istituzioni internazionalicome Palazzo Grassi, la Réunion des Musées Nationaux e l’Operade Paris, solo per citarne alcuni. Ciò a testimonianza di quantosia r<strong>il</strong>evante e consolidato <strong>il</strong> rapporto che è venuto stab<strong>il</strong>endosinegli anni con realtà europee nostre partner e interlocutrici priv<strong>il</strong>egiate,con le quali coltiviamo scambi e aggiornamenti continui.È con particolare onore, però, che custodisco <strong>il</strong> legame con <strong>Venice</strong>Foundation. L’associazione ha dimostrato sin dal 2007, infatti,una grande disponib<strong>il</strong>ità nell’accogliere gli studenti del MasterMaBAC, contribuendo a un esclusivo e sostanziale arricchimentodel loro percorso di formazione,nonché a un prezioso confrontoprofessionale e umano. Ogni anno,con grande entusiasmo, laPresidente Franca Coin ha raccontatoe condiviso con gli studenti,italiani, francesi e di moltealtre nazionalità, la sua esperienzalegata a <strong>Venice</strong> Foundation,imprimendo un ricordo caricodi quell’ottimismo tipico di chi nei progetti investe con <strong>il</strong> cuore.Per questa ragione, per far sì che i nostri professionisti del futuropossano assim<strong>il</strong>are e far proprio quello spirito di determinazionee di condivisione di valori insito nei credi di questa istituzione veneziana,Master MaBAC-Università Ca’ Foscari ha ritenuto importanteunirsi a <strong>Venice</strong> Foundation per dar vita a Contact, l’associazionedegli ex studenti. Con Contact, si intende proporre una sinergiatra una realtà post universitaria di alta formazione e un’associazioneculturale di indiscutib<strong>il</strong>e prestigio, dando così inizio a unacollaborazione preziosa per entrambi i m<strong>il</strong>ieu, vicini per sensib<strong>il</strong>itàe interesse comune nei confronti del patrimonio artistico e culturale,della sua conservazione e valorizzazione. Contact sarà condivisionedi interessi, ma soprattutto condivisione di progetti. Si dialogherà,nei fatti, insieme, di micromecenatismo, peculiarità di <strong>Venice</strong>Foundation, iniziando a cooperare per un progetto comune.Un progetto fatto di scambio e di idee, legato alla salvaguardia ealla mise en valeur del patrimonio, in cui la conservazione del nostropassato e lo sguardo appassionato verso <strong>il</strong> futuro condivideranno <strong>il</strong>medesimo cammino.I sostenitori di <strong>Venice</strong> Foundational 26 novembre 2010Acqua Minerale San BenedettoDaniela AlemagnaGiovanni e Michela AlliataFiorella AlvinoVittorio e Alessandra ArduiniAriston CaviAssicurazioni GeneraliAssicurazioni Generali AgenziaVenezia CentroBanca d’ItaliaBanco di BresciaBruno e Rosalba BarzellottiAnnabella BassaniManfredi e Nally Bellati


G<strong>il</strong>berto e Maria Laura BenettonGabriella BerardiMargherita BergamascoPatrizio e Miuccia BertelliLuciano e Giancarla BertiGiovanni BettaninDan<strong>il</strong>o e Laura BiralGigi BonAimone e Michela BonsiFrancesca Bortolotto PossatiSandro BoscainiCinzia BoscoloMaria Laura BoselliBraccoDiana BraccoBrandino e Marie Brandolini d’AddaEnnio e Giorgia BrionBulgari ItaliaMona Burdett FisherFerdinando BusinaroLuisa CanalPaolo e Clara CantarellaMarco e Maria Grazia CappellettoMaria Carmen Carpinelli FredellaCasinò Municipale di VeneziaLuigino CassanAlessandro Cecchi PaoneIleana Chiappini di SorioRomeo e Annamaria ChiarottoGlorianda CipollaGiuliana Coen CamerinoFrancesco CoinPiergiorgio e Franca CoinRoberto e P<strong>il</strong>ar CoinFausto ComiottoConsorzio Venezia NuovaCarlalberto e Marylène CornelianiSerena Corvi MoraEmanuela Croce BonomiD StudioLucio DallaMita De BenedettiHélène de Prittwitz ZaleskiArnaldo Della RovereNereo e Giustina DestroFrancesca DonatiCarla D’Orazi SpagnaRoberta DroulersGerolamo e Roberta EtroFlavia FaccioliBarbara FalcomerAnnacarla FalconiMichele e Cristina FantinFerrari Fratelli Lunelli TrentoAngelo e Sergia FerroAlberto FestaFinagolfFondazione Berti per l’ArteFondazione CoinPaola ForniAndrea e Simona FrattiniFreeportMarisa FumagalliGiancarlo e Gaia FolcoGalleria ForniRita GallianiIleana GarbagnoliGiulio ed Elzbieta GhirardiMaria Vittoria GhirardiGrafiche QuattroGrand Hotel et de M<strong>il</strong>anGian Claudio e Anna Maria GregoriVittorio e Marina GregottiFranco e Rosanna GrosoliMario GuadalupiS<strong>il</strong>via GuidiYasunori GunjiMirella HaggiagHausbrandt Trieste 1892Hotel Bauer GrünwaldHotel Caesar AugustusMania HruskaIRCAMatija KelmanLaetitia KeyLaboratorio Chimico Farmaceutico SellaLa Dogaressa CateringDavid e Marie-Rose LandauL’Angolo del PassatoAleramo LanzaRiccardo LanzaLanza e BaucinaPaolo LenardaMario e Gloria LevoniLiceo Ginnasio Statale EugenioMontalePompeo e Vanda LocatelliGino e Francesca LunelliAlissia MancinoLucia MangiameliAlessandra MarcoraSergio MarinMatteo MarzottoUmberto e Gemma MarzottoMasi AgricolaAldo e Marina MaugeriGiovanni e Rosangela MazzacuratiFrancesco e Cec<strong>il</strong>ia MerloniMetakomPaola MianaFrancesco e Annamaria MolinariMontblancGianni MontiLuigi e L<strong>il</strong>iana MoscheriGiordana NaccariAu<strong>gusto</strong> e Giovanna NepiNew WorldBrigitte OetkerGiorgio e Manola PandiniFrancesco e Gigi PassiGuido e Anna PaulatoGuido e Paola PennisiAndrea e Carolyn PettenelloOrestina Piontelli GardellaManuela PivatoMauro e Lorenza PizzigatiCarlo e Laura PoggioPomellato EuropaPradaVincenzo ProfazioDario e Annarosa PrunottoElisa Poletto SabbionRoberta PrivatoW<strong>il</strong>liam RatoffJuan RibasCesare e L<strong>il</strong>iana RiminiRossana Sacchi ZeiAugusta SadaSaf<strong>il</strong>oGiancarlo SalveminiRoberto e Mat<strong>il</strong>de SalviatoGiancarlo e Diana SantalmassiCarlo e Miretta SarassoRenato e Maria S<strong>il</strong>via ScapinelloIsabella SeragnoliDino SesaniPaolo e Patrizia SignoriniRoberto SpadaMarina TabacchiVittorio e Tatiana TabacchiFranco TagliapietraMatteo e Bebe TamburiniTecap Studio<strong>The</strong> Performance <strong>The</strong>atreSalvatore e Paola TrifiròGino e Franca TrombiUnicredit Private BankingG<strong>il</strong>berto e L<strong>il</strong>li ValleGiuseppe e Daniela VeronesiSandra VezzaLaura V<strong>il</strong>laniGraziano e Ornella VisentinAdriana VistosiRomain ed Hélène ZaleskiAngelo e Giovanna ZanariaMartino e Susi ZanettiMarco ZannierAngelo e Marisa Zegna diMonterubelloFrançois-Jerome ZiesenissGiovanni Z<strong>il</strong>lo Monte X<strong>il</strong>loGianfranco ZoppasConsigli per la lettura•MARIA IDA BIGGI, Ma Pupa, Henriette. Le lettere di Eleonora Dusealla figlia, Venezia, Mars<strong>il</strong>io, 2010, € 38,00.La corrispondenza fra Eleonora Duse e la figlia Enrichetta MarchettiBullough costituisce una fonte originalissima per comprendere la figura e lapersonalità dell’attrice nei primi anni del Novecento e, in particolare, durante la Grande Guerra. Le lettere, nella stragrande maggioranza inedite, permettono la conoscenza approfondita della Duse come madre e comedonna nei numerosi contatti con intellettuali italiani ed europei dell’epoca.•DARIA BIGNARDI, Un karma pesante, M<strong>il</strong>ano, Mondadori, 2010, €18,50.Sostenuto da una scrittura ironica e tagliente ma capace di scaldarsi perdare vita a personaggi indimenticab<strong>il</strong>i, l’autrice getta uno sguardo insolito e br<strong>il</strong>lante sui nostri ultimi trent’anni ed è insieme la storia di una donna spietata con se stessa ma teneramente frag<strong>il</strong>e, allegra, materna, tantodolorosamente vicina all’autenticità della vita che si ha l’impressione di conoscerla almeno quanto conosciamo noi stessi.•EDOARDO BONCINELLI, Lettera a un bambino che vivrà cent’anni. Come la scienza ci renderà (quasi) immortali, M<strong>il</strong>ano, Rizzoli, 2010, €18,00.Da sempre l’uomo sogna di vincere <strong>il</strong> tempo e oggi è la scienza a far sembrare possib<strong>il</strong>e tutto ciò: grazie agli enormi progressi di biologia e medicina,per i bambini che nascono ora sarà normale vivere fino a cent’anni. L’ a u t ore offre tutte le informazioni necessarie per capire le implicazioni (non solofisiche ma anche etiche, psicologiche e f<strong>il</strong>osofiche) degli scenari, talvolta fantascientifici, che ci troveremo a vivere. E fornisce gli strumenti per orientarein modo consapevole le scelte che saremo chiamati ad affrontare.•GIORGIO CELLI, Le piante non sono angeli. Astuzie, sesso e inganni delmondo vegetale, M<strong>il</strong>ano, Baldini Castoldi Dalai, 2010, € 17,50.Le piante non si muovono, non pensano, vegetano... E se non fosse così? Unviaggio tra sorprese e curiosità alla scoperta di comportamenti vincenti nella lotta m<strong>il</strong>lenaria per la sopravvivenza. Ma l’autore si spinge oltre. Rielaborando le idee di grandi naturalisti del passato avanza ipotesi e domande su un’ipotetica “intelligenza” delle piante poiché in natura “l’intelligenza” è un concetto molto più elastico di quanto siamo pronti a capire.


•CATERINA FALOMO, Quando c’erano i veneziani, Venezia, StudioLT2, 2010, € 15,00.Com’era Venezia e com’è oggi? Attraverso i racconti di molti veneziani, na -ti e/o vissuti a Venezia, <strong>il</strong> libro vuole descrivere i profondi mutamenti diuna città che ha visto nel corso di circa cinquant’anni dimezzare la propriapopolazione. Con questo libro si vuole far riflettere veneziani e non suiprofondi cambiamenti di una città che si è talmente aperta al mondo da di -menticarsi dei propri cittadini.•ANTONIO FOSCARI, Andrea Palladio. Unbu<strong>il</strong>t <strong>Venice</strong>, Baden, LarsMüller Publishers, 2010, € 39,90.Come avrebbe dovuto essere la facciata della chiesa patriarcale di Veneziao quella di Santa Lucia? Come interpretare <strong>il</strong> complesso architettonico chePalladio pensava di costruire ai piedi del ponte di Rialto? Qual era <strong>il</strong> suoprogetto per Palazzo Ducale a Venezia? Per rispondere a queste domandel’autore parte dal presupposto della contemporaneità dell’azione d’architet -to di Palladio con la realtà storica in cui egli opera e da quello della cen -tralità di Venezia nella vita sociale e politica del Veneto, nel Cinquecento.•GIORGIO GIANIGHIAN ePAOLA PAVANINI, Venezia come, Venezia,Gambier & Keller, 2010, € 15,00.Venezia suscita nel visitatore intelligente e interessato, dopo la prima am -mirata meraviglia, una serie di stupori e interrogazioni: come si reggono ca -se e palazzi nell’acqua? perché <strong>il</strong> tessuto urbano, così denso, è interrotto datanti campi e corti? e perché in ogni campo e corte si trova una vera da poz -zo? Scopo di questo libro è offrire risposte semplici ma fondate e serie, allaportata di tutti, da 9 a 99 anni.•GIULIO GIULIANI, Venezia. Cartoline inedite, con <strong>il</strong>lustrazioni diLucio Schiavon, Venezia, Studio LT2, 2010, € 15,00.Si dice che Venezia affondi, che si spopoli, che soffochi per i troppi turisti.E a guardarla in fretta è fac<strong>il</strong>e credere che davvero si stia trasformando inun museo. Queste pagine raccontano <strong>il</strong> vero volto della città e le dieci carto -line “dal futuro” allegate dimostrano che la città è pronta a diventare unadelle metropoli più autorevoli e moderne dell’Europa. Le dighe, le torri, <strong>il</strong>gigantesco sasso tra acqua e acqua non sono che i segni del suo nuovo rina -scimento, fatto di idee, di scelte coraggiose, di nuovi st<strong>il</strong>i di vita.•FABIO ISMAN, I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeolo -gia in Italia, M<strong>il</strong>ano, Skira, 2009, € 19,00.M<strong>il</strong>ioni di reperti, autentici tesori, scavati clandestinamente; centinaia dimigliaia di siti archeologici violati e devastati; decine di migliaia di tom -baroli, intermediari e grandi mercanti indagati e sotto processo: la Gran -de Razzia si è consumata a partire dagli anni settanta. Sulla base di in -terviste e documenti giudiziari viene ricostruito <strong>il</strong> massimo saccheggio d’ar -te e cultura dell’ultimo secolo. Alcune vicende, inedite, sono degne di un th -r<strong>il</strong>ler o di un “giallo”. E restano ancora fittissimi misteri.•DANILO MAINARDI, Il cane secondo me, M<strong>il</strong>ano, Cairo Editore,2010, € 16,00.Intelligente, sensib<strong>il</strong>e, affettuoso, allegro. Sono solo alcuni degli aggettiviche possono definire <strong>il</strong> cane. Ce ne sarebbero molti altri perché i cani sonodotati di personalità multiforme e, forse, non sono ancora stati compiuta -mente compresi. Il volume somma le riflessioni dello studioso ai racconti del -la sua vita con i cani, o meglio, dei cani della sua vita, ripercorrendo lastoria naturale e culturale della specie a partire dal progenitore lupo, pri -mo accolto nella famiglia umana, lontanissimo capostipite delle oltre quat -trocento razze canine. Sorprendente è poi la scoperta della raffinata intera -zione che <strong>il</strong> cane sa imbastire col suo più caro nemico: <strong>il</strong> gatto.•MARCO PANARA, La malattia dell’Occidente. Perché <strong>il</strong> lavoro non vale più, Roma-Bari, Gius. Laterza & Figli, 2010, € 16,00.Il lavoro vale sempre meno e non riesce più a garantire <strong>il</strong> tenore di vita chesi credeva conquistato per sempre. La tecnologia sostituisce <strong>il</strong> lavoro umanocon le macchine e la globalizzazione trasferisce industrie e società in paesiin cui <strong>il</strong> lavoro è a basso costo. Gli effetti sono perversi: la ricchezza si trasferisce dai paesi occidentali consumatori ai paesi emergenti produttori; dall’altra nei paesi industrializzati la ricchezza prodotta si sposta dal lavoro al capitale nelle mani di gruppi ristretti mentre la grande maggioranzavede <strong>il</strong> proprio reddito crescere marginalmente, fermarsi o diminuire. A questo si somma <strong>il</strong> problema del precariato e la progressiva riduzione delle garanzie dello stato sociale. Poiché <strong>il</strong> lavoro non è più <strong>il</strong> modo per costruirsiun futuro migliore, gli effetti sono profondi anche sui valori e sui meccanismi sociali: prevale l’individualismo, la protezione dei propri interessi vistiin contrapposizione con quelli collettivi, e peggiora la qualità stessa dellademocrazia, che fa sempre più fatica a trovare la somma di interessi individuali nella sintesi del bene comune.•ADRIANO VIANELLO, Il progetto di Bach e Mozart, Venezia, StudioLT2, 2010, € 9,00.Testo teatrale sulla ribellione, ultima e insopprimib<strong>il</strong>e risorsa per ogni uomoche voglia cambiare la condizione della propria vita, è la storia di due internati in una clinica psichiatrica che hanno arbitrariamente preso i nomidi Bach e Mozart e che da anni dedicano la loro vita alla realizzazione diun folle e metafisico progetto: Bach, costretto su una sedia a rotelle, vuoletrasformarsi in un dio, Mozart vuole trasformarsi in donna, per poi volareinsieme in cielo. È l’impossib<strong>il</strong>ità a realizzare un sim<strong>il</strong>e sogno e l’ostinazione con la quale i due lo perseguono a destare l’interesse dei medici e a creareuna fortissima tensione che culminerà in un doppio finale a sorpresa.•LUCA ZAIA, Adottare la terra (per non morir di fame), M<strong>il</strong>ano, Mondadori,2010, € 17,00.Ci sono due modi per occuparsi dell’agricoltura in Italia: alla guida delministero, muovendosi con astuzia e ab<strong>il</strong>ità nella giungla delle istituzionie della burocrazia, oppure, come ha fatto l’autore, viaggiando tra i contadini, conoscendo i produttori e i loro territori, parlando la loro lingua. Illibro vuole mostrare come e perché siamo immersi da sempre in una ricchezza immensa ma del tutto sottovalutata, quasi ignorata: quella del mondoagricolo e dei suoi prodotti.Mostre & Esposizioni a Veneziaelencate per data di chiusura e sede espositivala redazione non è responsab<strong>il</strong>e delle variazioni dei programmi• Tesori del Montenegro.Gli ex voto di Perasto e delle Bocche di Cattarofino al 6 gennaiotutti i giorni 9-17, chiuso 25 dicembre e 1 gennaioBiblioteca Nazionale Marciana, San Marco 7, tel. 041-2407211Approfondimento a p. 9• Le <strong>Arti</strong> di Piranesi.Architetto, incisore, antiquario, vedutista, designerfino al 9 gennaio: da mercoledì a lunedì 10:30-18:30, chiuso 25dicembre e 1 gennaioFondazione Cini, Isola di San Giorgio, tel. 199199111Approfondimento a p. 7


• Adolph Gottlieb. Una retrospettivafino al 9 gennaio: da mercoledì a lunedì 10-18, chiuso 25 dicembrePeggy Guggenheim Collection, Dorsoduro 701, tel. 0 4 1 - 2 4 0 5 4 1 1Approfondimento a p. 8• Tony Cragg in 4D. Dal fluire alla stab<strong>il</strong>itàfino al 9 gennaioda martedì a domenica 10-17, chiuso 25 dicembre e 1 gennaioCa’ Pesaro Galleria Internazionale d’Arte ModernaSanta Croce 2076, tel. 041-5209070Approfondimento a p. 2AUTUNNO A PALAZZO FORTUNY• Nuala Goodman. Gardens• Alberto Zorzi. Unicum. Gioielli e argenti 2000-2010• Giorgio Morandi. S<strong>il</strong>enzi• Mariano Fortuny. La seta e <strong>il</strong> velluto• Marco Tirelli• Giorgio Vigna. Altre nature• Luca Campigotto. My W<strong>il</strong>d Placesfino al 9 gennaiotutti i giorni 10-18, chiuso 25 dicembre e 1 gennaioMuseo Fortuny, San Marco 3758, tel. 041-5200995Approfondimenti da p. 3 a p. 6• Collettiva Giovani <strong>Arti</strong>stidal 19 dicembre al 23 gennaio: da mercoledì a domenica 10:30-17:30, chiuso 25 dicembre e 6 gennaioFondazione Bev<strong>il</strong>acqua La Masa, Galleria di Piazza San Marco, SanMarco 71/c, tel. 041-5237819Tradizionale appuntamento di fine anno, nella Collettiva 2010 espongo -no ventinove giovani artisti e dieci grafici emergenti – scelti tra gli oltre225 che avevano presentato un progetto – tutti di età compresa tra i 18 e i35 anni e che hanno scelto di vivere nell’area del Triveneto, pur provenen -do da tutta Italia ed Europa.• L’incanto dell’oro bianco. Porcellane dal Museo Martonfino al 27 marzo: da martedì a domenica 10-19Fondazione Querini Stampalia, Castello 5252, tel. 041-2711411Approfondimento a p. 10• L’avventura del vetro. Un m<strong>il</strong>lennio d’arte venezianafino al 25 apr<strong>il</strong>e: tutti i giorni 9-17; dal 1° apr<strong>il</strong>e 10-18chiuso 25 dicembre e 1 gennaioMuseo Correr, San Marco 52, tel. 041-2405211Approfondimento a p. 9• I Vorticisti: artisti ribelli a Londra e New York. 1914-1918dal 29 gennaio al 15 maggio: da mercoledì a lunedì 10-18Peggy Guggenheim Collection, Dorsoduro 701, tel. 0 4 1 - 2 4 0 5 4 1 1Per la prima volta viene presentata in Italia una mostra – composta dacirca ottanta opere tra quadri, stampe, sculture, fotografie – interamentededicata al movimento che nacque in Ingh<strong>il</strong>terra agli inizi del Novecento.Caratterizzato da uno st<strong>il</strong>e figurativo astratto che coniugava forme dell’era meccanica con l’energia suggerita dal vortice, <strong>il</strong> Vorticismo emerse aLondra in un momento in cui la scena artistica inglese era scossa dall’avvento del Cubismo francese e del Futurismo italiano. Pur assim<strong>il</strong>ando elementi da questi due movimenti, <strong>il</strong> Vorticismo definì un proprio st<strong>il</strong>e, caratterizzandosi come un breve ma cruciale movimento modernista neglianni della prima Guerra Mondiale.• Lino Tagliapietradal 12 febbraio al 22 maggio: da martedì a domenica 10-18Istituto Veneto di Scienze, Lettere e <strong>Arti</strong>, Palazzo FranchettiSan Marco 2842, tel. 041-2407711Una grande mostra dedicata al più noto e apprezzato artista vivente delvetro muranese, vero ambasciatore dello st<strong>il</strong>e veneziano nel mondo. Per laprima volta in Italia verrà presentata una monografica con oltre centoopere esposte, molte delle quali saranno installazioni create appositamenteper l’occasione, per documentare in modo completo l’intero percorso del maestro dagli esordi negli anni sessanta a oggi.<strong>Venice</strong> FoundationCa’ Rezzonico, Dorsoduro 3144 – 30123 Veneziatel. & fax 041-2774840e-ma<strong>il</strong> veniceinter@tin.itwww.venicefoundation.orgProgetto editoriale, editing, impaginazione e ricercaiconograficaCinzia BoscoloCorrezione bozzeElena Colella con Mara ZanetteStampaGrafiche QuattroSanta Maria di Sala (Venezia)© Copyright 2010 <strong>Venice</strong> FoundationTutti i diritti riservati.Le immagini nn. 44, 69 e 85 sono pubblicate suconcessione del Ministero per i Beni e le AttivitàCulturaliTutti i numeri della News Letter sono disponib<strong>il</strong>i escaricab<strong>il</strong>i gratuitamente in formato pdf dal sitowww.venicefoundation.org/italiano/newsletter.htmlLa News Letter di <strong>Venice</strong> Foundation è realizzata grazieal generoso sostegno e contributo di Renato e MariaS<strong>il</strong>via Scapinello e delle Grafiche Quattro di SantaMaria di Sala (Venezia).Per i contributi, la <strong>Venice</strong> Foundation ringraziaMarino Barovier, Giovanni Bianchi, Cinzia Boscolo,Giovanni Caniato, Francesco Casarin, Franca Coin, DianaCristante, Michela Dal Borgo, Elisabetta Dal Carlo,Doretta Davanzo Poli, Roberto De Feo, Alessandro Ervas,Gerolamo Fazzini, Antonio Foscari, Claudio Franzini,Francesco Gostoli, Andrea Penso, Tiziana Pivotti, IrenePompanin, Elisabetta Populin, Tudy Sammartini, ClaraSantini, Giovanni Sarpellon, Carla Sonego, Cam<strong>il</strong>lo Tonini,Ettore Vio, Anna Giulia Volpato.Per la collaborazione si ringrazianoMario e Paola Bev<strong>il</strong>acqua, Bolis Edizioni, Riccardo Bon,Don Natalino Bonazza, Alexia Boro, Sara Bossi,Massim<strong>il</strong>iano Cadamuro, S<strong>il</strong>vano Candeo, Elena Casadoro,Maria Rita Cer<strong>il</strong>li, Fiorenza Civran, Serena Concone,Alberto Craievich, Antonio e Anna Dei Rossi, CarmenDonadio, Daniela Ferretti, Debora Ferro, Giorgia Gallina,Elisabetta Longhi, Lisa Marra, Andrea Pattaro, PieroPazzi, F<strong>il</strong>ippo Pedrocco, Sandra Rossi, Michela Scib<strong>il</strong>ia,Alessandra Schiavon, Federica Scotellaro, Mark E. Smith,Chiara Squarcina, Michela Stancescu, Anna Zemellae gli uffici stampa di Fondazione Bev<strong>il</strong>acqua La Masa,Fondazione Cini, Fondazione Musei Civici di Ve n e z i a ,Fondazione Querini Stampalia, Peggy Guggenheim Collection.Referenze fotograficheArchivio <strong>Venice</strong> Foundation nn. 64, 117, 224; NallyBellati nn. 266, 268; Ca’ Foscari n. 269; S<strong>il</strong>vano Candeon. 264; Antonio Dei Rossi n. 150; Fondazione Cini nn. 22-28; Fondazione Musei Civici di Venezia nn. 4-21, 35-37,54, 182, 184-187, 204, 208-211, 214, 217, 250-253,262, 263, 271; Fondazione Querini Stampalia nn. 38-40,174; Claudio Franzini per Museo di Palazzo Fortuny nn. 3,212, 213, 254-257, 261, 267, 272; Laboratorio FiorenzaCivran (Mario Pollesel) n. 2; Liceo Ginnasio Statale EugenioMontale n. 265; Parrocchia di San Salvador n. 76; AndreaPattaro nn. 258, 259; Peggy Guggenheim Collection nn. 29-32; Piero Pazzi nn. 33, 34; Elisabetta Populin nn. 109,110, 115, 116; Procuratoria di San Marco nn. 246-248,270; Mark Smith nn. 41, 50-53, 59, 62, 75, 78-80, 102,122, 123, 155, 201-203; Francesco Turio Böhm n. 96;Mara Zanette nn. 56, 60, 63.Le altre immagini sono state gent<strong>il</strong>mente fornite dagli autorioppure tratte da pubblicazioni in commercio o da siti web.Chiuso redazionalmente <strong>il</strong> 2 dicembre 2010.


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