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2 - The Venice International Foundation

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L’ARTE DEL GUSTO


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>Luoghi dell’anima,paesaggi del gustoFRANCA COINIfamosi diecimila passi al giorno per la salute del corpo e dellamente li divido tra Venezia e Asolo, nel senso che non faccio apiedi i sessanta chilometri che dividono le due città tra automobili,motorini, autocarri e distese di capannoni sempre più fatiscenti,ma ho il privilegio di scegliere percorsi veneziani e percorsiasolani. Preferisco ora, per una volta, raccontare delle passeggiate difine settimana “asolando”.Vedo orti curati da meravigliosi vecchi, con strutture paragonabiliai migliori disegni di pura architettura, con una precisione dilinee, di colori, di intercalari traterra e piante di grande bellezzaartistica, vedo l’evoluzione dellestagioni attraverso i tempi dipreparazione della terra e la tecnicadell’uomo in armonia conl’evoluzione del seme e la crescitadelle piante: piselli, pomodo-[47-48] Gli orti asolani.Pagina 13: Seguace di Pietro Longhi, ri, patate, fagiolini, melanzane,Convito in casa Nani, 1755 ca. come la crescita della più straordinariaopera d’arte, connubioVenezia, Ca’ Rezzonico.ideale tra natura e uomo.La potatura delle varie specie, il taglio delle siepi, la cura dell’ulivo,la raccolta delle olive, i campi di fiori spontanei crudelmentefalciati per proseguire la continuazione delle specie animali.La nascita dei pulcini, i cani da guardia, meticci piccoli di solito,quelli grandi, e di razza, nelle ville più importanti, che al miopassaggio irrompono abbaiando ma con la coda accattivante.Profumi di acacia in fiore, lillà che diventano pini, cipressi, magnolie:è sorprendente vedere queste forme di alberi severi e precisi,avvolti da glicini gonfi invadenti fino alle sommità, forti duranteun solo soffio di primavera, per poi in autunno riprendere iloro verdi cupi, intensi ma per niente sofferenti, anzi felici, perquesto avvolgimento primaverile.E poi ci sono due oche: una più piccola tutta spennacchiata, lapiù grande cattivissima che appena mi vede si lancia gelosa controla sua compagna e mi guarda aggressivacon il becco aperto o lalingua fuori emettendo un gridointimidatorio mentre cerca discacciare la più piccola. Capiscoperò che mi aspettano e che iorappresento probabilmente un“passaggio” che interrompe la [49] Incontro con le oche.lenta monotonia della loro breveesistenza. Appena riesco timidamente a passare un po’ di radicchioattraverso la rete, si calmano e, a modo loro, mi salutano. Da sempresono affascinata dalle storie di oche di Konrad Lorenz.Poi, verso il Foresto Vecchio, un enorme, secolare noce con tuttele sue vicissitudini di vita scavate nel tronco, mi riempie di serenitàed è con piacere che lo tocco come una scultura, una sculturadella vita che resiste anche all’incendio, scatenatosi chissàquando al suo interno e che comunque i suoi rami hanno respintoL ’ A R T E D E L G U S T Ocrescendo più rigogliosi che mai.Il mio luogo dell’anima è Asolo. È solo qui ad Asolo che riescoa far emergere le mie energie, energie che Venezia difficilmenteprodiga: Venezia piuttosto le consuma. Asolo conserva la storia dellamia famiglia e le attuali “giovani radici” per un mio nuovo percorsodi vita.È qui che ho incontrato gli amici de La Gola, mitico giornalesull’arte del gusto, era l’anno 1983. Oggi 2005 ritrovo gli stessiamici e più giovani cultori, con gli stessi rinnovati valori. Allora ilcomitato di redazione de La Golaera composto da nomi eccellenticome Umberto Eco, GianniSassi, Antonio Porta, FrancescoLeonetti, Carlin Petrini,Nanni Balestrini, Gianni EmilioSimonetti. Ora Manlio Brusatin,insieme a Lucio Salogni,Augusto Le Lievre, Federica Luser,è il Vate Continuatore diquel leggendario progetto e, comesempre, mi sento rassicurataquando scopro che un mio pensiero,una mia sensazione, vengonocondivisi da qualcuno che[50] La copertina del primo numero deLa Gola.stimo. Mi hanno fatto scoprire i menù asolani di sempre, la Trattoriada Marcello a Milies, antico borgo romano, tutto a base di tarassaco,era aprile; a maggio, ai Cerniei di Pagnano d’Asolo i carletti,le tagliatelle della Madonna con i rustegoti e i germogli dipungitopo.Da sempre penso che l’arte del gusto faccia parte delle nostretradizioni italiane, da nord a sud, da est a ovest. Finora la missionedella <strong>Venice</strong> è stata orientata verso il gusto dell’arte, insieme abbiamocercato di stimolare, aiutare a capire, restaurare quando eranecessario, coinvolgere i giovani ad avvicinarsi al bello, alle tradizioni,sia con le opere d’arte conservate nei Musei Civici, sia con lamusica al museo, con le piccole mostre di nicchia, con le letture suopere d’arte, su argomenti specifici per aiutare a capire ed entraremeglio nei meandri, a volte misteriosi, degli artisti anche contemporanei.La condivisione con i soci della <strong>Venice</strong> dei numerosi progettiavviati e conclusi in accordo con i Musei Civici ha fatto emergereun’importante considerazione: il bisogno per la comunità dicondividere la fede in un ideale senza immediati vantaggi né economici,né politici, né di potere: la partecipazione è totalmente disinteressata.E cosa c’è di meglio che condividere questi valori intorno a unatavola dove c’è arte e amore, dove l’importanza del colore diventainevitabile, quasi ovvia, dove i frutti della terra sono legati all’evolversidelle stagioni, dove l’oste ha il piacere di offrire le specialitàdel luogo e il progetto è completo: dalla coltivazione alla pazienteattesa della fragranza maturata, al gusto di assaporare la perfettaarmonia dei cibi, del luogo, degli amici.Lo slancio disinteressato, la dedizione e la pulizia morale sonoalla base di ogni programma che possa portare a qualche risultato.Allora recuperiamo dalla tradizione anche qualche lusso per il piaceredel corpo oltre a quello dell’anima. Da sempre uno dei mieiprogetti è stato quello di portare al museo il meglio: oltre al Gustodell’Arte... l’Arte del Gusto.14


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>Il cibo nella pitturaALDO ANDREOLO[51] Pittura rupestre diAltamira.Non è mia intenzione, con questo articolo, avventurarmiin una rigorosa indagine iconografica sul cibo. Mi limiterò,pertanto, a una sorta di viaggio visivo nel mondodel cibo di tipo rapsodico e quindi non necessariamente esaustivo,con qualche salto cronologico, anche notevole, e qualche preferenzapersonale nella scelta delle opere. Vorrei soffermarmi, cioè, nontanto sugli esiti più o meno estetizzanti del cibo “in posa”, quantosulle implicazioni simboliche e comportamentali connesse al cibo eal rituale della tavola.Andando a ritroso nel tempo, addirittura nella preistoria, troviamoesempi sorprendenti di rappresentazioni zoomorfe. Le pitturepaleolitiche di Altamira e di Lascauxci mostrano immagini di bisonti,cinghiali, cavalli e cervi realizzatecon un’immediatezza e unnaturalismo, che non hanno nulla dainvidiare ai dipinti degli impressionisti.Qualcuno potrà obiettare chetale materia esula dal nostro assuntotematico ma non dobbiamo dimenticareche, per quei nostri antenatiche vivevano dei prodotti spontanei della natura, ma soprattutto dicaccia, quegli animali rappresentavano virtualmente il loro cibo. Inrealtà quelle pitture preistoriche avevano esclusivamente una funzionemagica. L’artista paleolitico, che ancora non concepiva un’esistenzaultraterrena e agiva in maniera puramente pragmatica,pensava, rappresentando sulla roccia un bisonte o un cavallo “comefossero vivi”, di possederli realmente. Era una sorta di trappola che“catturava” l’animale prescelto.Tuttavia, quando si parla di cibo in pittura, si pensa immediatamentea quel genere artistico, nato nel tardo Rinascimento, chesi è soliti chiamare “natura morta”. Il termine è una traduzione impropriadall’olandese still-leven (natura immobile), da cui sono derivatele definizioni in lingua tedesca Stilleben e inglese still life. Ifrancesi, invece, con nature morte, si sono allineati agli italiani. Nellanatura morta il mondo inanimato degli oggetti, dei fiori e dellafrutta, che nella pittura dei secoli precedenti, dominata quasi esclusivamentedall’iconografia religiosa e mitologica (e quindi dalla figuraumana), appariva come componente marginale, diventa protagonistaassoluto dell’opera pittorica.È nel Seicento, soprattutto nei Paesi Bassi, che il genere trovaparticolare fortuna. In alcune nature morte, che raffigurano delletavole imbandite, il virtuosismo illusionistico raggiunge talvoltarisultati sorprendenti. Sarebbe un errore, tuttavia, leggere questeopere in chiave esclusivamente mimetica. In realtà queste tavolenascondono allusioni e simbologie che possono sfuggire a una osservazionesuperficiale. Anzitutto bisogna pensare che la messinscenaritratta dal pittore si ricollega inconsciamente agli antichiriti, diffusi in tutta l’area mesopotanica e mediterranea, della preparazionedell’altare per l’offerta propiziatoria dei cibi migliori alladivinità.Nel nostro caso la scelta degli elementi della composizione è inveceindicativa di una realtà economica e sociale alla quale anchel’artista in fondo apparteneva. Sono soprattutto le opere dei pittoriL ’ A R T E D E L G U S T O[53-54] Arcimboldo, Vertumnus.Skokloster (Svezia), Castello. In basso,Caravaggio, Canestra di frutta.Milano, Pinacoteca Ambrosiana.dei Paesi Bassi a rivelare l’opulenzadi una società borgheseprotestante, che aveva trovatonel commercio la fonte dellapropria ricchezza. Si vedano, adesempio, le Tavole imbandite diFloris van Schooten, Pieter Claesz,Clara Peeters ma anche diAndrea Benedetti, pittore italianooperante ad Anversa.[52] Pieter Claesz, Tavola imbandita.Nel panorama della pittura del secolo precedente non si puòignorare l’opera, del tutto anomala, ancorché estremamente seducente,di Giuseppe Arcimboldi, noto come Arcimboldo, autore diquelle bizzarre teste antropomorfe, composte di fiori, frutti, ortaggi,pesci e animali, che avevano entusiasmato i regnanti d’Europa.Per la verità anche i moderni storici dell’arte hanno subìto il fascinodi quella singolare pittura, nella quale hanno creduto di scopriresorprendenti anticipazioni del surrealismo. La sua opera più celebreè forse il Vertunno, cioè Vertumnus,il dio romano delle stagioni.Si tratta, ancora una volta,di un insieme di fiori, verduree frutti di tutte le stagioni,disposti in modo da formare unatesta, anzi un ritratto. Un ritrattoimperiale, per la verità, perchésotto quelle “mostruose”sembianze si cela il ritratto diRodolfo II. Che a chiunque sarebbeparso irriverente ma non aRodolfo II che, anzi, l’apprezzòmoltissimo, come del resto tuttoquello, che usciva dalle manidi Giuseppe Arcimboldi.Quando si parla di “natura morta”non si può ignorare l’opera diMichelangelo Merisi, noto comeil Caravaggio. La sua Canestra difrutta della Pinacoteca Ambrosianadi Milano rappresenta l’esitofinale, il più stupefacente eperfetto, di quel gruppo di opererealizzate a Roma prima del ciclo delle Storie di San Matteo per lachiesa di San Luigi dei Francesi, nelle quali si rivela, inaspettatamente,il realismo potentemente drammatico dell’artista.Di tutt’altra natura sono invece le opere di Jean-Siméon Chardin,pittore francese del Settecento. Chardin è il poeta della vitaumile e silenziosa delle cose, ch’egli riesce a raffigurare con un linguaggioapparentemente sobrio e castigato, in realtà ricco di valenzepittoriche.Ma il cibo non sempre è visto come oggetto di contemplazioneestetica. Esso è anche fonte di azioni individuali e collettive, conseguentialla preparazione e all’assunzione del cibo stesso, come possiamovedere in opere quali il Mangiatore di fagioli di Annibale Carracci,i Mangiatori di piselli di Georges de La Tour, caravaggista francesearistocratico e un po’ misterioso, le Nozze di contadini di PieterBruegel il Vecchio, detto anche “Bruegel dei contadini” e i Man-15


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>[55] Pieter Bruegel il Vecchio, Nozzedi contadini, 1568. Vienna,Kunsthistorisches Museum.giatori di patate di Van Gogh.Numerose sono le opere che sonostate dedicate, nel corso deisecoli, al tema dell’Ultima cena.Pur nella diversità delle interpretazioni,appare evidente cheogni artista ha tenuto conto soprattuttodel valore simbolicodella consumazione del pastoeucaristico, piuttosto che impegnarsinella rappresentazionerealistica del pane e del vino. Fra le tante Cene, le più celebri, siapure per motivi diversi, sono il Cenacolo di Leonardo, dove arte escienza s’intrecciano strettamente, e il Convito a casa di Levi [vedischeda a p. 43] – in origine un’Ultima cena –, che è la celebrazione,in chiave puramente edonistica, di una società, quella veneziana delCinquecento, giunta all’apice del suo splendore.Mi sia concesso, a questo punto, un salto cronologico fino all’Ottocento,esattamente nell’anno 1863. È l’anno in cui EdouardManet espone al Salon des Refusés a Parigi Le déjeuner sur l’herbe,un dipinto rivoluzionario chediventerà un punto di riferimentoper tutti quei giovani artistiche, rifiutando la pitturaaccademica e il lavoro negli studi,preferiranno operare en pleinair dando vita alla grande stagioneimpressionista. Fra questi[56] Edouard Manet, Déjeuner surl’herbe. Parigi, Musée d’Orsay.Cézanne, la cui opera pittorica èstata determinante per la nascitadel cubismo ed è alla base ditutta la pittura moderna.Vorrei concludere questa – ovviamente incompleta – perlustrazionenel mondo delle immagini create dagli artisti per celebrare ilcibo e i riti della tavola, ricordando due opere, estremamente diversefra loro ma, a mio avviso, ugualmente importanti.La prima è la Vucciria, il grande dipinto di Renato Guttuso dedicatoal famoso mercato di Palermo,interpretato dall’artistacome “una grande natura morta[57-58] Renato Guttuso, Vucciria,1974. Palermo, Palazzo ChiaramonteSteri. A fianco, Andy Warhol,Campbell’s Soup Can, 1965. NewYork, Museum of Modern Art.cibo è ormai diventato un prodotto dellameccanizzazione industriale, un oggetto seriale,che l’arte del nostro tempo ci riproponenella sua asettica perfezione.con in mezzo un cunicolo entrocui la gente scorre e s’incontra”.La seconda è la Minestra in scatolaCampbell’s di Andy Warhol,esponente della pop-art, divenutaun’autentica icona del nostrotempo. Quest’opera ci induce auna mortificanteconsiderazioneecioè cheanche ilL ’ A R T E D E L G U S T OCibi da vedere, colori da gustareL’estetica del ciboAVE APPIANONella sua rappresentazione artistica, quando cioè non èconsiderato per il suo valore alimentare, per i suoi contenuticalorici, per il suo aspetto dietetico, biologico oquant’altro ancora, il cibo costituisce la dichiarazione più eclatantedella meraviglia che esso innesca passando attraverso i sensi, prestandosia diventare soggetto o dettaglio dell’opera d’arte per estendersi,espandersi, completarsi e trionfare nella fruizione come fattoestetico globale.Considerare questo aspetto del cibo ci permette di tracciare unpercorso nell’arte da un punto di vista inconsueto, quello della rappresentazionedel gusto, o meglio delle sinestesie gustative e olfattiveevocate attraverso l’immagine, le forme visive, i simboli e i coloripresenti in numerosissime espressioni figurative – nelle varieepoche storiche e in diversi contesti culturali e sociali – essendol’arte l’espressione umana potenzialmente più coinvolgente sul pianopercettivo.Transitando dall’interesse compositivo a quello semantico, aquello della più sottile e catturante seduzione sensoriale nell’analisidi numerose opere comprese tra il Medioevo e la nostra contemporaneitàcontenenti particolari commestibili o composizioni di alimenti,si giunge a comprendere il senso più profondo del cibo e lesue implicazioni che nell’opera assumono potenzialità narrative esimboliche. Il cibo si presta con facilità a coniugarsi alla Bellezza,quindi al piacere e alla vanitas; il bello diventa squisito e raffinato,dolce e zuccherino, delicato e prelibato e, con le sue forme seduttive,approda alle rive delle più sensuali metafore di fantasia dove incontrale contaminanti e ineluttabili tracce del tempo. Quando il ciboviene rappresentato crudo, nell’iridescenza dei colori delle sue sostanzenaturali, rende esplicito ilrapporto dell’uomo con lo spiritodella natura, con la verginitàdelle forze native incontaminate,quando viene raffigurato cottocostituisce la testimonianza diun processo culturale, di una sapienzaempirica sedimentata.[59] Maarten van Cleef, Interno concucina. Verona, Castelvecchio.Come ha osservato Claude Lévi-Strauss nel saggio Il crudo e il cotto(1966) a proposito degli Indiossudamericani, il significato dei miti di una società è spesso fondatosu un codice i cui elementi sono di tipo gastronomico, regolatinel loro funzionamento da coppie dicotomiche come crudo/cotto,fresco/putrido, in quanto “la cottura compie la trasformazione culturaledel cibo, come la putrefazione ne è la trasformazione naturale”.Sia esso pasto sacro a base di gamberi di fiume, fichi, castagnee formaggio sul tavolo di un’Ultima Cena o allegoria di fecondità emito della primizia in certe nature morte seicentesche, o figura dicontemplazione nelle tavole imbandite con sucreries e suggestionibarocche da gustare con lo sguardo, sia esso crudo o cotto, cibo davedere o colore da gustare, esso contiene valenze simboliche sedimentate(culturalmente depositate) e superficiali (determinate dalcontesto pittorico) che lo definiscono come segno e quindi come16


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>[60] Clara Peeters,Tavola imbandita,Madrid, Prado.elemento fortementecomunicativo.Anche le tipologiedi consumo delcibo si fondano suuna questione socialeprofondamente connessa alle condizioni ambientali e agli stili divita della società, ai suoi riti e ai suoi miti, e altrettanto intimamentecollegata alla relazione natura-cultura. Come osserva Barilli“non meno che una qualsivoglia esperienza estetica o opera d’arte,un pasto può rientrare nelle coordinate di un gusto classico, o barocco,o semplice-rurale, o sofisticato-decadente, e così via”; a comporrela sinfonia, il contesto totalizzante, “non entrano solo gli ingredientimateriali del cibo, bensì molti altri elementi di accompagnamentopiù o meno esterno. Contano senz’altro la qualità dell’arredo,il desco, le posate, la stanza, le persone che partecipano alpasto, l’aria che vi si respira, le emozioni che esso suscita”. E RolandBarthes ha chiarificato infatti che “l’alimento riassume e trasmetteuna situazione, costituisce un’informazione, è significativo;ciò vuol dire che esso non è semplicemente l’indice di un insiemedi motivazioni più o meno coscienti, ma che è un vero e proprio segno,cioè l’unità funzionale di una struttura di comunicazione”.L’arte ci insegna che il cibo è meraviglia da mangiare con gliocchi prima ancora che oggetto da gustare con il palato o nutrimentoda assimilare per il corpo. È in tale prospettiva che le vivanderaffigurate nei banchetti o le imbandigioni alimentari neidipinti di natura morta rivestono il ruolo di protagonisti visivi odi motori narrativi che attivano un processo di trasformazione dallarappresentazione all’illusione sensoriale fino a provocare emozionee desiderio.Come avevano già meticolosamente precisato all’inizio dell’OttocentoAnthelme Brillat-Savarin, intellettuale gastronomo, eGeorges Auguste Escoffier, maestro d’arte culinaria ed esponente dispicco della Belle Epoque, e come è condiviso dalle estetiche contemporanee,un pasto, un cibo, un alimento possono diventare unfatto estetico, corredato dall’atmosfera creata intorno ad esso, dallostile di desinare e dalla personalità dei partecipanti.Ad esempio, tra le numerose nature morte con cibo disposto,particolarmente allegoriche e appetibili sono quelle di Georg Flegel(1566-1638), maestro di riflessi e trasparenze, tra cui la Natura mortacon fagianella arrostita, aringa e cipolle, olive, mela, limone, panee vino, con reminiscenze simboliche che appartengono a un tessutoculturale profondo e trasmettono un globale atteggiamentomoraleggiante nascosto nell’apparenza. E ancora quelle di NicolasGillis (1611) e diFloris van Dijck(1622), nelle quali lacaratteristica specificaè quella di esporreL ’ A R T E D E L G U S T Oalimenti adatti a qualsiasi ora del giorno, in una composizione apparentabileal soggetto di natura morta con desserts. La frugalità deicibi, accostati fra di loro, contrasta con l’eleganza dell’apparato dibicchieri, coppe, brocche e tovaglie che rivelano uno status sociale ricercatoe prestigioso. I piatti con frutta, pasticci, noci, sucreries hannoun ruolo di cerimoniale gastronomico fatto di piccoli assaggi orchestratiin linea circolare intorno al formaggio, che riveste un ruolocentrale non solamente per la posizione ma soprattutto per la moleottenuta per sovrapposizione piramidale delle forme, da quellapiù giovane in basso a quella piùstagionata in alto; inoltre le traccelasciate dal coltello indicano,con grande virtuosità e realismo,l’attenzione e la riverenza rituale[62-63] Il formaggio nelle Naturemorte di Floris van Dijck e, sotto, diNicolas Gillis.con cui va consumato il formaggiotagliato a scaglie.Il formaggio, presente nellesacre mense medioevali, sempreaccanto al pane e al vino, costituiscefrequentemente il protagonistavisivo delle tavole baroccheed è veicolo di significatiallusi più profondi. Consideratosoprattutto nella concezioneprotestante un piatto da digiuno,nella simbolica cristiana il formaggio aveva valore di piatto dell’immortalità,poiché a base di latte, emblema dell’eucarestia (lattedivino secondo Tertulliano), e perciò cibo adatto a disabituare all’usodella carne; inoltre, per le sue caratteristiche digestive (confermatenel Regimen Sanitatis Salernitanum del XII secolo) è annoveratotra i piatti di fine pasto. Per queste ragioni il suo consumo moderato,accompagnato da fragole e ciliege (considerati frutti paradisiaci),frutta secca, uva e pane in piccoli assaggi mangiati lentamente,lo fa diventare un cibo austero e discreto, idoneo a prepararel’anima all’umiliazione. In questi dipinti, i resti di un frugale pastosi costituiscono come metafore di meditazione nella preparazionedel corpo e della mente alla purificazione dell’anima attraversola ritualità della preghiera, e d’altro canto si dispongono a de-metaforizzarsise essi stessi sono assunti a testimonianza del rito silenziosodel “pregar mangiando”.Facendo un grande passo nei secoli, l’artista islandese Erró(Gudmundur Gudmundsson), dissacrante e critico dei consumi dimassa, dipinge negli anni sessanta una serie di grandi tele intitolateL’appétit est un crime tra le quali Foodscape, in cui rappresenta gliabbondanti riferimenti culturali di un “paesaggio alimentare”odierno, una pingue e bulimica visione del cibo consumistico. Lafitta texture è un tragico horror vacui che nasconde i termini di unapericolosa vanitas, ottenuta conl’accumulazione di vivande preconfezionate,coloratissime e seduttive.In essa ancora trionfa ilformaggio nella sua veste più vistosamentedecorativa, a pezzi,[61] Georg Flegel,Natura morta. Praga,Galleria Nazionale.[64] Erró (GudmundurGudmundsson), Foodscape, 1962.Stoccolma, Museo di Arte Moderna.17


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>rondelle e fettine, testimonianza ossessiva, ironica e beffarda, delleabitudini nutritive compromesse dal benessere, che hanno trasformatoquell’alimento simbolico in cibo ornamentale.Cibi e sapori, colori e odori in connessione diretta con il pensiero,assumono una fisicità concreta che riaffiora costantementeanche nell’opera di Salvador Dalí, sollevando nella mente relazioniparadossali in cui l’alimento si smaterializza per diventare elementocosmico altamente spirituale. Egli trasforma il formaggio in aladi farfalla, alludendo al passaggio dallo stato ammoniacale dellafermentazione alle levità celestiali attraverso il lavoro dei vermi chetrasformano alchemicamente la materia e si tramutano in esseri alati.Nella follia delle sue ossessioni surreali, Dalí in fondo non fa cherivalorizzare, trasfigurandole, quelle connotazioni spirituali propriedi un alimento fortemente evocativo derivato dalla sua vetustaquanto longeva tradizione culturale. Tutto ciò non fa che confermarela persistenza di una matrice estetica affacciata alla nostracontemporaneità e capace di guidare i travasi e le suggestioni percettivetanto amate nell’arte di ogni tempo.Cosa dipingere per cena?I capolavori conviviali di VeroneseMICHELE DI MONTESe c’è un pittore che ha fatto di quella che potrebbe giustamentesembrare soltanto una battuta spiritosa una domandaperfettamente seria questi è certo Paolo Veronese. Per ragionidi metodo e attitudine personali non meno che per circostanzestoriche tanto contingenti quanto fortunate. Tutto il percorso,purtroppo non lungo, della sua operosa carriera è infatti punteggiatodalla realizzazione di sorprendenti capolavori “conviviali”, secosì possiamo chiamarli, che sono altrettante pietre miliari dellapittura veneta e italiana del XVI secolo: dalla giovanile Cena in casadi Simone della Galleria Sabauda di Torino alle grandiose Nozzedi Cana del Louvre, dal cosiddetto Convito a casa di Levi delle Galleriedell’Accademia di Venezia fino al tardo Cenacolo di Santa Sofia,oggi a Brera. Al punto che l’immagine stessa dell’artista, quellapiù canonica e diffusa, ha finito per associarsi pressoché indissolubilmentea quelle altrettanto vulgate – dai manuali alle cartoline– delle suegrandi “cene”, monumentali,sfarzose,corrusche, opulente.Destino d’associazionefatale, forse,ma non per questocompletamente meritatoo comunquedel tutto veridico,come diremo.Difficilmente, peraltro, si sarebbe potuto resistere alla tentazionedi trovare negli spettacolari conviti veronesiani la perfetta siglavisiva di un Rinascimento festoso, carnale, non poco vanesio e piuttostocrapulone, di una joie de vivre tutta mondana di cui il Caliarisarebbe stato l’interprete più consentaneo. Ritratto di un’epoca alquantologoro, se mai veramente credibile, ma che è rimasto unaL ’ A R T E D E L G U S T O[65] Nozze di Cana, 1562-63. Parigi, Louvre. [66] Nozze di Cana, particolare deicomoda etichetta da riutilizzare un po’ meccanicamente in luogo dipiù approfondite e differenziate analisi. Certo è che Veronese ha dedicatoun interesse e un’attenzione non comuni all’universo convivialee gastronomico, universo tutt’altro che caotico, anzi altamentee finemente formalizzato – nel Cinquecento non meno e anchepiù di oggi – nelle pratiche e nei costumi, nei ruoli, nei cerimoniali,finanche negli aspetti tecnici di più minuto dettaglio, dall’allestimentodegli spazi al trattamento degli avanzi. Tutte coseche persino lo storico erudito può seguire e registrare con notevoleprecisione negli affollati e variopinti banchetti di Paolo.Nell’Italia del XV e del XVI secolo, dove fiorente attecchisce lafilologia umanistica, prima, e una trattatistica teorica e tecnica semprepiù specializzata, poi, anche la gastronomia – che, giusta il nome,vuol presentarsi come “scienza” – vanta un pedigree classico diantica memoria, non diversamente da altre più nobili discipline.Soprattutto a Venezia, come al solito, si stampano e si ristampano iclassici de re coquinaria: da Ateneo a Columella ad Apicio. In unasorta di ideale continuità con tali illustri precedenti si sviluppa nelCinquecento una ricca letteratura specialistica, che mentre ratificala differenziazione di generi editoriali mira pure a proporsi non piùsolo come ricettario o regola dietetica, ma più ambiziosamente comemanuale d’etichetta, più o meno autorevolmente normativa, comegalateo ed estetica, persino, del nobile desinare. Chi abbia la pazienzadi compulsare questi compendi, farraginosi formulari, di sicuroben poco appassionanti, come quelli dei vari Messisbugo, Panunto,Scappi, Cervio – per non citare che i più noti – troverà assiemealla descrizione di strumenti e stoviglie, consigli e prescrizioniculinarie, memorie analitiche di memorabili festini, anche lapedante distinzione dei diversi ruoli di una pletora di inservienti,ognuno con le proprie mansioni, le proprie responsabilità e addiritturacon i propri titoli d’onore e privilegio, gelosamente rivendicati,per quanto patetici possano sembrare oggi al lettore moderno.Sono questi attori e comparse, in sgargianti livree, ad aggirarsitra i tavoli delle cene veronesiane, indaffarati nell’espletamento deicompiti loro assegnati: vivandieri, credenzieri, coppieri, scalchi,trincianti, maestri di tavola; tutto secondo una liturgia complessaquanto significativa. Qui Veronese più che inventare a capriccio,come talvolta si dice, ricostruisce e mette in scena parti e contrassegniche dovevano essere riconoscibili dai suoi committenti e spettatori.Molti dettagli nei suoi teleri conservano un genuino valoredocumentario, anche solo che sitratti del particolare di un abbigliamentoo della foggia di unasuppellettile. In questo senso sipuò riconoscere che i conviti dipintidal Caliari ci restituisconoun vivido riflesso degli usi e deicostumi, del gusto – si direbbepropriamente – del suo tempo.Ma qui sta pure il limite dellalavoranti.metafora speculare, che insistesull’idea del pittore fantasiosoma in sostanza fedele coreografo dei costosi svaghi dell’aristocraziaveneziana. Perché non va dimenticato che i pranzi e le cene imbanditidal Caliari non sono immagini di cronaca, ma innanzitutto scenedi storia sacra. Ciò spiega quegli aspetti, notevoli e decisivi, cheben poco quadrano con lo stereotipo dello spensierato cantore del18


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>[67-68] L’opulenza delle Nozze diCana (a fianco) in contrapposizionealla sobrietà della Cena in casa diSimone (in basso), conservata allaPinacoteca di Brera a Milano.magnifico Rinascimento. A cominciaredal fatto che tutti questifestini sono ben poco occasionedi pasciuta ilarità; dove anzi,al contrario, non c’è nulla da ridere,e ben a ragione, giacché èproprio in queste circostanze conviviali che Cristo annuncia corampopulo, e più o meno velatamente, la propria morte imminente, suscitandoreazioni diverse e imbarazzanti. Questo è infatti il temacentrale, il vero basso ostinato delle cene veronesiane, a Cana comea Betania. Tema drammatico e persino squisitamente drammaturgico,teatrale in senso tecnico: quello della problematica agnizionedel Messia proprio da parte di coloro che ebbero il privilegio dicondividere la sua mensa. Si sarà notato, a questo proposito, che ilfasto e la pompa riguardano piuttosto le case degli ospiti e le lorodotazioni, mentre l’unico vero cenacolo, in senso strettamente iconografico,dipinto da Paolo – quello per la chiesa veneziana di SantaSofia, oggi a Brera – si presenta assai più intimo e sobrio. Allostesso modo, dove Cristo è a tavola, mancano le favolose portate ele peregrine creazioni d’arte culinaria di cui leggiamo nei trattati,ma non certo per carenza di fantasia né di scrupolo filologico. Anzi,il particolare realistico si fa strumento di fedeltà al soggetto. Così,al banchetto nuziale di Cana (sia nella tela del Louvre sia in quelladi Dresda) riconosciamo confetti e “cotognate”, servite come sideve nelle loro scatoline rotonde di balsa, proprio perché, secondoquanto richiede il dettato del testo evangelico, il miracolo del vinoavviene quando il pranzo volge al termine e, come si dice ancoraoggi, si è ormai “alla frutta”.Insomma, se le pitture di Paolo Veronese sono specchio del gustodi una società, come ripete una letteratura pigra, lo sono inquanto speculum morale – quale vuol essere sempre, d’altronde, lapittura religiosa – che non risparmia un’istanza critica e a trattipersino severamente ironica. Che poi questa non vada disgiunta dalpiacere dell’invenzione e dalla facondia di una descrizione meticolosaè cosa perfettamente plausibile e pienamente compatibile, comelo era in fondo, in tempi diversi e con diverso spirito, per ilcaustico retrogusto che un Petronio poteva lasciare al fondo dellasua impareggiabile coena Trimalcionis. Qui si tratta in realtà di fineretorica, di retorica figurativa che non disdegna e anzi abilmente siserve delle risorse dell’ornatus. E se è solo un caso che l’ornatus retoricocondivida la sua etimologia con l’antica arte di allestirepranzi e banchetti, allora ci troviamo di fronte a un caso specialmentefortunato.L ’ A R T E D E L G U S T OIl caffè letterario e il mondo di ieriDANILO REATOAdifferenza di altre bevande, consumate in un rito più intimoe familiare, il caffè ha costruito, fin dai suoi primiesordi, dei luoghi pubblici, presto diventati famosi e latazzina della negra bevanda arabica si è così fusa col destino degliindividui e dei popoli.In questo rito collettivo, all’inizio un po’ fenomeno di costume,frutto di esotiche rivisitazioni orientali,un po’ sentita esigenza da partedi una nuova cultura, ben dispostanei confronti di un pubblico più vastoe desiderosa di diffondere i lumidella Ragione al di fuori delle paludatee stantie accademie, il caffè halasciato un’importante traccia delsuo trionfale passaggio in tutte leprincipali città europee, anche invirtù delle sue recondite prerogative,presunte o reali che siano, bensintetizzate da un aforisma di Montesquieu:“Il caffè rende molte personestupide temporaneamente capaci di azioni sagge”. Quanta veritào quanta fantasia nascondano queste parole non sta a noi dirlo,visto che la storia segue il suo corso e le sue pagine sono ben squadernatedavanti ai più esigenti occhi indagatori, ma indubbio èl’apporto culturale legato a quell’importante creazione che va sottoil nome di caffè letterario.Il caffè è il luogo ove si scambiano i saperi, si incrociano le viteprivate coi destini collettivi, si mescolano i racconti dei grandiprotagonisti della letteratura, della politica e dell’arte. Al caffè sidecide il destino di una nazione, come a Parigi durante la RivoluzioneFrancese e le teste di molti protagonisti vengono consegnate,dopo animate discussioni, allapurificatrice e insensibile lamadella ghigliottina; al caffè unOttocento impettito, in guanti,cilindro e marsina, passa indenneattraverso rivoluzioni epocalie decide il trionfo di una società[70-71] Giuseppe Bernardino Bison,Caffè dei Servi a Milano, 1835 ca.Roma, Fondazione Praz.In basso, Henri de Toulouse-Lautrec,Ballo al Moulin Rouge, Filadelfia,collezione privata.[69] Incisione di fine Settecentoche riproduce la Coffea Arabica.votata, nel suo estremo esorcismo,all’edonismo più sfrenatofra lustrini e acrobatiche esibizionidi ballerine di french cancan,come nel variopinto caleidoscopiodella tavolozza, crepitantedi vita, di Toulouse Lautrec.E ancora nuovi orizzonti artistici si aprono fra caustiche polemicheall’assenzio e la musica ritrovavigore ed esulta alla riscopertajoie de vivre: “libiam ne’ lieticalici/che la bellezza infiora/ela fuggevol ora/s’inebri a voluttà”– come canta l’Alfredoverdiano e intanto il secolo si lasciamorire in un languido e19


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>struggente “addio del passato” di melodrammatica memoria. Alcaffè un grande Impero vede tramontare la sua stella e pensa nostalgicamenteai fasti irripetibili del “mondo di ieri”.E Venezia, in tutto questo, che ruolo ha avuto? Le prime notiziesul caffè giungono nella città lagunare attraverso i bàili di Costantinopoli,una specie di ambasciatori della Serenissima, che incuriosisconoassai con le loro relazioni parlando di questa prodigiosa bevanda,chiamata in arabo qahwah, che, fra le altre prerogative, avevala capacità di tener svegli e di favorire la conversazione coi suoibenefici effetti eccitanti e stimolanti. Quale miracolosa invenzioneper un popolo che sul gusto della ciàcola, dovuto a un insano e incontenibilemorbìn, ha costruito la sua fortuna teatrale e letteraria!A Venezia il caffè trovò subito una facile diffusione e infatti sifa risalire al 1683 l’apertura della prima bottega in piazza San Marcosotto le Procuratie Nuove. Nell’arco di soli settant’anni le bottegheerano già diventate duecentosei e il Senato fu costretto a intervenirecon la legge del 4 ottobre 1759 per limitarne la troppovertiginosa diffusione, incaricandoal contempo i Savi allaMercanzia, magistratura prepostaalla vigilanza sulle merci, ditrarre i maggiori profitti dall’abbondantevendita dell’apprezzatanegra bevanda. La fortunadel caffè è naturalmente legataal nuovo ruolo assunto all’internodella società venezianacorrotta e libertina. Centro di[72] Scuola del Longhi, La bottegadel caffè. Venezia, Ca’ Rezzonico.vita mondana, ritrovo abituale dell’aristocrazia, ma pure del borghese,la bottega è il luogo dove il cicaleccio delle maschere si intrecciacon le amorose vicende di timidi amanti, ma è anche luogodi diffusione della cultura, palestra di riflessione e di dialogo, che,nei nuovi fermenti della tradizione illuministica, finirà per soppiantarei salotti letterari, infatti qui gli intellettuali tenevano banco,si può ben dire, insieme alla redazione delle prime gazzette.Al caffè Florian, inaugurato il 29 dicembre 1720, aveva fissa dimorae distribuiva la sua Gazzetta Veneta il conte Gasparo Gozzi. Ilcaffè e l’illuminismo avevano siglato il trionfo di una nuova civiltàche avrebbe presto scosso il mondo intero con una ventata di inimmaginabilirivoluzioni. Come ben sintetizza Pompeo Molmenti ètutto un mondo che trascorre la sua vita tra quei tavolini parlanti:“Quante cose hanno veduto e udito le pareti dei caffè veneziani, dovesi potrebbe rintracciare la storia della vita intima della città […]singolare, dove il commercio, la maldicenza, gli amori ordisconoancora le loro tele, dove restano ancora nell’aria un po’ di profumodella vecchia ilarità veneziana eun po’ di piacevolezza di spiritodei nostri nonni”.È questo solo un piccolo frammentodi una storia complessa,un fenomeno ai giorni nostriforse difficile da comprendere inquesta era post-moderna, dove ilocali storici vanno del tutto[73] Italico Brass, Al Florian.Venezia, Archivio Caffè Florian.L ’ A R T E D E L G U S T Oscomparendo o versano in gravidifficoltà e sulle loro ceneri fioriscononuovi templi gastronomici,frutto di effimeri miti giovanili,che hanno ridotto peròl’Europa a pura e semplice coloniaamericana. Il “mordi e fuggi”,i ritmi stressanti del viverequotidiano hanno eliminato labellezza della degustazione privatadi sapori che abbisognanodi tempi più lenti, in mezzo alcalore di tanta gente e quelle necessariepause, per concedersi ai[74] Il Café Beaubourg a Parigi.piaceri della vita, alla riflessione e alla fantasia ora non fanno piùtendenza. Nell’era del fashion café, dove l’importanza è avere il proprioquarto d’ora di gloria, che non si nega a nessuno, non c’è tempoper chansons de regret et nostalgie, perché bisogna sfilare a tutti icosti sulla passerella fra l’indifferenza delle nuove dottrine del bonton, per bene apparire in società e nuove filosofie, baciate da una famacaduca, proliferano nell’etere come funghi dopo un acquazzone.L’inchiostro della Storia asciuga in fretta – è stato scritto – maicome nell’ultimo scampolo di secolo è stato vero e ne vediamo oggiquotidianamente le nefaste conseguenze. Le buone idee, come ibuoni vini, hanno bisogno di decantare; le grandi riflessioni nasconodall’osservazione diretta dei propri simili, delle loro abitudini,dall’anatomia degli stili di vita, ma c’è ancora tempo per guardare?Tavolini e comode poltrone hanno lasciato il posto a banconicon alti e vertiginosi sgabelli; la sacra ritualità che coniughi il buongusto dell’arredamento con la comodità non abita più qui. Nei gestida automa del barista nel preparare l’espresso non c’è più quellamagica sacralità, necessaria alla preparazione di un buon caffè. Ricordatele raccomandazioni di Pasquale Lojacono, l’uomo in lottaperenne coi fantasmi reali e fittizi,creatura partorita della fervidafantasia di Eduardo De Filippo?Il rito è morto, così come ilfilosofo caffettiere di goldonianamemoria, ma poi c’è ancora tempoper ascoltare le riflessioni dellagente, per lanciare nuove utopie,per partorire originali formeartistiche in un caffè dove lagente passa in fretta e semprepiù disattenta in quel freneticoballetto imposto dal meccanicofunzionalismo odierno?[75] Caricatura di Eduardo DeFilippo in Questi fantasmi.Il commediografo Luigi Sugana – epigono del buon “papà Goldoni”,fervente frequentatore delle botteghe da caffè e studioso delfenomeno della vita notturna veneziana – ci offre la cartolina di unmondo che ormai nostalgicamente sta diventando sempre più, ancheper noi che l’abbiamo conosciuto e amato, il “mondo di ieri” edè la giusta chiusa per questa nostra divagazione su un frammentodel passato veneziano: “Il caffè pel veneziano è la casa, gli amici, iconoscenti, gli ospiti che colà vi trova, il complemento amato dellasua famiglia [...] poiché, sta nel carattere nostro amare, se non tenacemente,almeno subito e vastamente”.20


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>La Caffetteria Barbarigo alla QueriniScuola Alberghiera in un MuseoUna caffetteria, a Venezia, dentro un luogo di cultura: sonomolti ormai i musei che ne hanno una, ma la CaffetteriaBarbarigo è qualcosa di più dell’ambiente accoglienteprevisto dai nuovi standard museali e la Fondazione Querini Stampaliaè un museo, ma non solo. Radicata nella realtà veneziana daquasi un secolo e mezzo, costituisce infatti, con l’insieme delle sueattività, un esemplare punto d’incontro, di scambio e di sperimentazionedi diverse discipline e differenti saperi. In questa prospettivaè nata l’idea della caffetteria, frutto della collaborazione fra l’IstitutoAlberghiero Barbarigo di Venezia, dal quale prende il nome,e la Fondazione: per la prima volta in Italia una scuola professionalegestisce il servizio di ristorazione all’interno di una strutturaculturale.Nello spirito della Querini Stampalia, attenta alla formazionein tutti i suoi aspetti, la Caffetteria Barbarigo si propone sia cometerreno di crescita professionale per gli studenti della scuola veneziana,con programmi di stageestivi, sia come laboratorio discambi formativi con altri istitutialberghieri italiani e stranieri.Da questa rete, che mettein contatto circa ottanta scuolenazionali e trecentosessanta europee,prendono avvio gli incon-[76] La sala interna della caffetteria.tri gastronomici a tema, a cadenzamensile, dove chef di paesi diversi, affiancati da studenti,propongono i sapori della terra da cui provengono. Può così capitaredi poter gustare piatti tipici della tradizione scandinava, comedi quella turca, polacca, portoghese o assaporare ricette della tradizioneregionale italiana eseguite secondo l’antica maniera.Anche la collocazione della caffetteria all’interno del Palazzonon è casuale: risponde a criteri di funzionalità e ricopre allo stessotempo un ruolo simbolico coerente con il progetto culturaledella Fondazione. Fa infatti da cerniera tra gli spazi ridisegnati apiano terra da due maestridell’architettura del nostrotempo: si apre sul giardinodi Carlo Scarpa, fra i piùsuggestivi di Venezia, ed ècollegata internamente allacorte coperta, fulcro delsuccessivo intervento di[77-78] Il giardino realizzato da CarloScarpa e la corte coperta, ideata da MarioBotta, sono gli elementi architettonici chedelimitano l’area della caffetteria.Mario Botta. Anche nel segno architettonico,che sapientemente innestail nuovo sull’antico, risultaevidente la vocazione della FondazioneQuerini Stampalia: indagareil passato e custodirlo, cogliendoL ’ A R T E D E L G U S T Oinsieme le proposte più avanzate della contemporaneità.Nell’istituire la Fondazione nel 1868, il conte Giovanni Queriniaveva disposto per testamento che il cinquecentesco palazzo difamiglia, nei pressi di Campo Santa Maria Formosa, ne ospitasse lasede. A un primo, radicale adeguamento, realizzato tra gli anni cinquantae sessanta dal veneziano Carlo Scarpa, è seguita negli anninovanta, a opera del ticinese Mario Botta, la riorganizzazione degliedifici limitrofi, acquisiti nel frattempo. Ed è Botta che ha predispostol’allestimento della caffetteria nella nuova ala, sul passaggiofra il giardino di Scarpa e la corte coperta, snodo ed elemento unificatoredell’intero complesso.La corte intercetta i percorsi di servizio del Palazzo: intorno aessa, con la caffetteria, si articolano ingresso, biglietteria, guardaroba,bookshop, gli accessi alla Biblioteca, alla Casa Museo, aglispazi per mostre, corsi, conferenze, al futuro auditorium. Nella suaduplice veste, funzionale e rappresentativa, la corte è anche una sortadi piazza, aperta alla città.Al pubblico della Fondazione Querini Stampalia, ai visitatorioccasionali, a chi semplicemente desideri gustare una pausa in unambiente non comune, la caffetteria offre ogni giorno i suoi servizidi ristorazione. Uno spuntinoveloce o un pranzo di lavoro, uncocktail, una cena, una serataletteraria diventano così l’occasionedi un’esperienza speciale,un viaggio fra architettura contemporaneae sapori del mondo.Luogo di convivialità e di comunicazionefra diversi tipi dipubblico, la Caffetteria Barbarigoè una piacevole tappa di un [79] Il cortile esterno.percorso di conoscenza: le culturesi incontrano anche sulle strade del gusto.La “paninoteca” di Pompeii sapori di duemila anni fa*ENZO D’ERRICOAvete un mese di tempo, uno solo. Altrimenti se ne riparleràchissà quando, ammesso pure che se ne riparli. Perché,vi piaccia o meno, Pompei non ce la fa a mettere inmostra tutti i suoi tesori. Mancano i fondi, scarseggiano i custodi.E quindi anche l’antica osteria di Porta Nocera, che per la primavolta verrà aperta al pubblico il 27 maggio, scomparirà di nuovodopo il 26 giugno. Imprigionata dietro una lastra ondulata dialluminio. La stessa, forse, che ne ha sempre celato l’ingresso, impedendoai turisti di sbirciare uno degli angoli più suggestivi fra itanti che ritraggono la vita quotidiana della città sepolta dal Vesuvioil 24 agosto del 79 d.C.Il piccolo “miracolo” archeologico è soltanto una delle mille sorpreseriservate dal progetto De Gustibus, messo a punto dal sovrintendentePietro Giovanni Guzzo con la dottoressa Anna Maria Cia-* Articolo pubblicato nel Corriere della Sera del 3 maggio 2005. Pergentile concessione.21


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>rallo, responsabile del Laboratorio ricerche applicate. L’iniziativapunta a restituire i sapori del tempo attraverso il recupero di ingredientie ricette dell’età imperiale. Ricette che si basavano essenzialmentesu materie prime coltivate negli orti a ridosso dell’anfiteatropompeiano: erbe, ortaggi, frutta, assieme a piante utili in farmaciae profumeria.Molti di questi prodotti, rielaborati secondo i dettami dell’epoca,sono in vendita all’interno degli scavi per consentire ai visitatoridi tuffarsi nel passato anche col gusto e l’olfatto.Ma non basta assaggiare il garum, la salsa di pesce ricavata dallacolatura di alici, o centellinare i fichi conservati nel miele, perbanchettare alla maniera degli antichi romani: bisogna mettere piedealmeno una volta fra le rovine dell’unica osteria strappata allacoltre di cenere e lapilli che ricoprì Pompei.Benvenuti allora, duemila anni dopo, nella trattoria di via Nocera,a due passi dalla porta che accoglieva in città gli abitanti dell’entroterrasarnese epoco lontano dall’anfiteatrodove sidisputavano le sfidetra i gladiatori. Tuttolascia supporreche qui si rifocillasseroi mercanti stanchidel viaggio o[80-81] Porta Nocera a Pompei e, in basso, affrescocon scena di libagione su di un triclinio.quanti avevano appenaassistito aicombattimenti nell’arena.L’impiantoL ’ A R T E D E L G U S T O[82] Il sito della caupona,l’antica osteria di Pompei.architettonico racconta anche dello spirito imprenditoriale cheanimava i pompeiani: questa struttura, infatti, all’origine era probabilmenteun’abitazione privata che, in seguito, fu ristrutturatadai proprietari e adibita a luogo di ristoro.La taverna si divide in due grandi sale con sei grandi triclini dipietra, quattro dei quali hanno alcentro un tavolino di piperno su cuiandavano poggiate le vivande. La secondastanza si apre su un piccoloorto dove, presumibilmente, venivanocoltivati gli ortaggi ed era possibilechiacchierare nelle giornate disole bevendo un calice di vino. Insomma,per avere un’idea del posto, mescolate la struttura d’unamoderna paninoteca (sostituendo i triclini in pietra con le attualipanche di legno) e quella d’una classica osteria di campagna: d’accordo,sarà pure una bestemmia archeologica, ma vi servirà a orientarel’immaginazione.Attenzione, però: non siamo dentro una bettola qualunque,bensì in un ristorante. E anche di buon livello. Lo dimostrano icomfort che offriva alla clientela. A cominciare dal laconicum, unastanzetta accanto alla cucina che fungeva da piccolo bagno termale,per finire con il vano affrescato che si trova nell’ingresso, adibitoplausibilmente allo stesso uso. D’altronde, che gli affari andasserobene è confermato dal grande banco di cottura, destinato aospitare la brace su cui poggiavano i treppiedi con le pentole colmedi pietanze, e dal forno nel quale si cuoceva il libum.“I piatti che venivano serviti erano senza dubbio meno elaboratidi quelli preparati nelle case patrizie– spiega Anna Maria Ciarallo, responsabiledel Laboratorio ricercheapplicate –; mancava certamenteuna spezia preziosa come il pepelungo, ad esempio. Inoltre, le porzionierano più ridotte e il serviziomeno teatrale rispetto ai banchettiallestiti nelle abitazioni delle famigliericche. Basta pensare a come Petroniodescrive la cena di Trimalcioneper rendersi conto di quanto il cibo,ma ancora di più la scenografia aesso legata, fosse una delle discriminantisociali”.I viandanti che prendevano postosui triclini consumavano soprattutto zuppe di cereali, legumi, uovae formaggi. Roba che gli schiavi nemmeno sognavano: a loro,infatti, venivano dati soltanto alimenti dal forte potere energeticocome olive secche, frutti intinti nel miele, pane raffermo e vino diterza scelta.“L’osteria di via Nocera ci offre uno spaccato di vita quotidianamolto importante – sottolinea il sovrintendente Giovanni Guzzo –ma purtroppo dopo un mese saremo costretti a chiuderla; non abbiamoscelta. Ci sarebbe bisogno di 125 milioni di euro per riportarea un decente stato di conservazione l’intera area degli scavi, checopre circa 500.000 metri quadrati. E, con i tempi che corrono, perfinoparlarne sembra un’utopia. Meglio accontentarsi, non crede?”.Il salotto buono del cioccolatoELENA BIANCOMai nessun cibo ha avuto nel tempo destinazioni più differenti:da bevanda divinamente evocativa degli sciamani,a merenda per bambini a consolazione per intellettualiisterici di morettiana memoria. Nato dalle mani e dalle alchimiedell’uomo è l’alimento più trasversale che esista: percorre tuttele epoche, i paesi, soddisfa tutti i gusti, si acquista a tutti i prezzi,si mangia a tutte le età e in tutte le occasioni.Oggi, parlando del cioccolato, si adotta un linguaggio aulico,come per un fatto di cultura, si parla di fave e di cru, di varietà edi ibridi, di Maya e Atzechi, di degustazioni e abbinamenti. E comeogni oggetto a cui si possa ricondurre una tradizione, una storia,ha subìto un restyling marketingoriented, da banale leccornia araffinato oggetto di culto da esibiresolo con chi sia in grado diapprezzare la sottile differenzafra un “Cubano” dal potentesentore di tabacco e canna dazucchero e un “Tanzanie” fruttatoe aggressivo.Quindi il cioccolato escedalle cucine, dalle pasticcerie,dalle drogherie ed entra ufficial-[83] Pietro Longhi, La cioccolata delmattino. Venezia, Ca’ Rezzonico.22


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>mente nei salotti, meglio se colti e raffinati, per essere declinatonelle sue mille implicazioni storiche, per soddisfare le mille fantasiosevelleità che menti brillanti e palati allenati ai più arditi accostamentisanno trovare.In altre parole è ufficialmente il momento del cioccolato, e ilmaître chocolatier Giuseppe Faggiotto ha fatto della civiltà del cioccolatouno stile di vita che persegue con convinzione feconda: unasorta di vocazione, dall’apprendistato in Sicilia da giovanissimo, allastorica pasticceria Peratoner diPordenone di cui è il patron, fino allemassime estrinsecazioni della suaricerca, la “Confraternita del cioccolato”e il concept shop.A metà fra la setta segreta e il gironedei golosi, la confraternita con sede aPordenone in sei anni, nonostante[84] Giuseppe Faggiotto, maîtrechocolatier.una discrezione degna del più esclusivoclub londinese, ha raggiunto iquattrocento soci, sparsi in tutti ecinque i continenti con adepti persinoin Giappone, negli Emirati Arabi, in Australia. Nel cuore storicodella città friulana Faggiotto hatrovato la summa del suo lavoro, dellesue capacità e dei suoi desideri. Daquesto seducente salotto di un’anticadimora, con le travi a vista e gli arredidi sapore orientale, i tavolini indiani,i numerosi tappeti e i divanidamascati, partono le seduzioni piùintriganti a tema cioccolato. In que-[85-86] L’insegna dellaConfraternita del cioccolato e, afianco, il salotto degli incontri.sto luogo fuori dal mondo,microcosmo dove realizzaresogni e desideri, rientra tuttoquello che può essere connessoal cioccolato, come lespezie, i vini e i liquori, alcunidesueti come il “SangueMorlacco”, il tè e le tisane (ottima la rosa canina per accompagnarele degustazioni di cioccolato), i sigari. Faggiotto anima le serateriservate a un pubblico di pochi fortunati, solo su prenotazione,offrendo ai “confratelli” proposte, spunti, a volte golose follie.La più azzardata è il cioccolato con il pesce, la più classica la degustazioneguidata in abbinamento a vino, distillati, sigari, addiritturabirra. Vi è sempre la possibilità di trovare vere chicche, comele 241 tavolette di Araguani proveniente dalla piantagione diun ministro Venezuelano, poi dismessa e quindi assolutamente pezziunici, oppure di vedersi offrire una cioccolata calda con uvettasultanina bianca ricoperta di cioccolata e tartufata (il miglior abbinamentonella degustazione, secondo Faggiotto), servita in tazze diporcellana (il miglior materiale per porosità e scambio termico),una diversa dall’altra, provenienti da una fantastica collezione chevanta oltre trecentocinquanta pezzi dal Settecento agli anni quaranta,di origine fiorentina, cinese, provenzale, inglese.L ’ A R T E D E L G U S T OLa cultura entra nel salotto anche in forma più “tradizionale”,ospitando autori per la presentazione delle loro opere (sono già passatiCamilleri, la Venturi, Manfredi) e con il “teatro da caffè”, spettacolocon mimi e attori abbinato alla degustazione, di grande successo.Attenendosi però strettamente al prodotto, la degustazionepuò essere accompagnata da un video di circa un’ora, sul cacao, apartire dall’impollinazione, dalla raccolta delle cabosse, gli scrigniche contengono i semi, alle grandi famiglie di cacao, il Criollo piùpregiato e raro, il Forastero molto diffuso e molto acido e il Trinitario,ibrido dai due precedenti, di ottima qualità, fino alla lavorazione.Tutte le condizioni sono dunque ottimali per una correttadegustazione che presuppone di essere rilassati, in un locale luminosoa non più di 20° C, di non aver fumato o mangiato da un paiod’ore, di non avere profumi forti addosso, di apprezzare prima la lucentezzae il colore, poi la persistenza odorosa, quindi la croccantezza,infine di metterlo in bocca e testarne la consistenza, la fusione,l’equilibrio grasso – dolce – amaro – acido, la persistenza aromatica,quindi di dare un voto.Ma la seduzione del cioccolato di Faggiotto è emotiva, colpiscei sensi prima ancora della mente, la vista prima ancora che l’olfatto,il tatto e il gusto. Per questo motivo, questo maître fecondo, pasticceredell’anno 2002 al Grand Prix di Barcellona del 2003, hacoronato studio e sperimentazione con realizzazioni che sembranomaterializzare alcuni sogni infantilimai dimenticati, come la fontana dicioccolato che troneggia nella suapasticceria, una vera e propria vascain cui cade una cascata di cioccolatosciolto che ipnotizza chi lo guardacon il suo colore caldo e traslucido,con la consistenza fluida con cui ricoprele balze della struttura, con imille rivoli sotto i quali mettere undito diventa un gesto automatico.Oppure come la macchina per fare la[87] La fontana di cioccolato. crema di cioccolato spalmabile, ametà fra tecnologia e tentazione, sirenache irretisce dall’esterno con profumi irresistibili e attira nelpiccolo prezioso concept shop a fianco della pasticceria. Qui le milleforme e colori dei cioccolatini realizzati da un uomo che ama farele cose per divertimento catturano l’occhio: gli utensili di cioccolato(viti, bulloni, tenaglie), i gioielli, gli anelli studiati su montatureche evitano che la pietra (di cioccolato) si sciolga a contattocon la pelle, presentati in scatole che nulla hanno da invidiare aquelle di gioielleria.[88-89] La riproduzione di utensili e anelli in cioccolato.23


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>Contrappunto a questo latoemotivo e sensoriale del cioccolato,è il lungo bancone a temperatura eumidità costanti. La lunghezza apparesmisurata e percorrendolo conlo sguardo si fa un viaggio nella culturadi questo prodotto, partendodalle tavolette di cru, cioccolato derivatoda una sola provenienza dellapianta, dai nomi esotici e le caratteristichestupefacenti: indonesianospeziato e floreale, Papuasia fresco eprofumato, Ecuador amaro e aromatico,Santo Domingo, vinoso e fruttato.A seguire i cioccolatini da degustazione,quelli ripieni e le praline,in cui si esplica la professionalitàe le capacità del maître chocolatier,dai sentori più semplici ai più sorprendenti,cannella, tabacco, zenzero, peperoncino, caffè, marzapane,anice stellato.Dolce, ma non troppo, aromatico con equilibrio, sempre e comunqueevocativo, a volte dell’infanzia, a volte di un passato lontanonel tempo e nello spazio: qualunque sia il rapporto personaleche si ha con il cioccolato, dal compassato gradimento alla golositàsfrenata, una visita da Beppe Faggiotto rappresenterà sempre unascoperta, perché in lui convivono e si esteriorizzano tutte le innumerevolisfaccettature che questo prodotto può assumere, ed è effettivamentemolto difficile non lasciarsi sedurre almeno da una diesse, a meno che sfortunatamente – come diceva magistralmenteGuy De Maupassant – non si abbia “la bocca sciocca […] perché siè ghiotti come si è artisti, come si è istruiti, come si è poeti”.Esegesi del TiramisúMANLIO BRUSATIN[90] Il bancone di esposizionedella produzione Peratoner.L ’ A R T E D E L G U S T ONel trionfo della cucina gasata, sifonata ed espansa introdottadopo la nouvelle cuisine dal barocco spagnolo (e forsedall’estetica decostruttivista) il tiramisú ha comunque,per chiunque e dovunque, trionfato unificando ora gusti globalima soprattutto italiani fin dai tempi dell’unità d’Italia. Benchéle ricette del tiramisú siano quasi infinite e alcune assolutamentedisgustose, benché le sue origini oscure siano del tuttochiare per la confusione di varitentativi di appropriazione indebita,è giusto fare chiarezza esoprattutto proporne un’interpretazioneautentica, le cui discussioninacquero in seno algiornale La Gola (annate 1983-84) senza però lasciarne traccevisibili.La sua preparazione e diffusionein età moderna si deve ai trevigianiAlfredo Beltrame e [91] Uno dei primi numeri de La Gola.GiuseppeMaffioli e nei luoghi da essi frequentati (El Toulà o Da Alfredo).Ma Giovanni Comisso è stato per chi scrive l’interprete letterarioe anche il testimone della ricetta del tiramisú, nei sui soggiorniasolani, nella foresteria del maestro Malipiero, poco primadel suo addio definitivo ma non definitivo.La nonna di Giovanni Comisso, discendente del contino OdoardoTiretta, amico e imbattibile rivale di Giacomo Casanova, era addiritturauna devota del tiramisú (anzi originariamente tirame-pausa-su)come lei ha sempre chiamato così questo dessert, che era lasua esclusiva cena invernale (anche l’ultima).Il tiramisú nacque concordemente nella marca Trevigiana, allorasotto il dominio austriaco, dove il piacere del caffè e della cioccolataera veneziano ma le materie prime provenivano soltanto daVienna, capitale di quel territorio che allora come oggi è chiamatoLombardo-Veneto. L’altro ingrediente il formaggio chiamato mascarponeo mascherpone (probabilmente dal lombardo mascherpa chevuol dire ricotta) proveniva invece da Abbiategrasso ma anche daLodi, Como e Lecco ed era un formaggio invernale che si fa non dallatte ma dalla crema di latte assolutamentefresca e solo debolmente acidificata. Infattici sono nel tiramisú tre cose ricche e grassecome il caffè, il cacao e il mascherpone e cosepiù povere e semplici da sbattere come lesei uova per una produzione familiare, di cuisi mettono da parte due chiare e se ne sbattonoalmeno quattro per montarle a nevecon spolverate di zucchero a velo, mentre ituorli si amalgamo con energia al mascarponee abbondanti spruzzi di zucchero, fondendoqueste due mescolanze solo alla fine.[93] Porzione di tiramisú realizzatocol Pan di Spagna.[92] Uova, uno degliingredienti del tiramisú.La verità di questo che oggi bolliamo come dolce ipercalorico èil fatto che fosse necessariamente invernale (anche il suo raffreddamentofinale si faceva solo con la temperatura del freddo esterno enon della ghiacciaia). Ma fin qui nulla di particolare, diffidando severamentedi coloro che propongono erroneamente uno zabaione ouna crema pasticcera al posto del più normale ed energico “sbattutino”anche se il giallo non sarà così accecante ma assolutamente intono con il marrone intenso del cacao e del caffè. Assolutamenteproibita – ben s’intende – ogni aggiunta di panna, per non crollaresul tiramisú, che sarebbe un comico controsenso.Ecco qui, essendo nel Lombardo-Veneto pre-unitario, si dividevanodue scuole di consumatori. Cronologicamente il tiramisú sicolloca giusto alla nascita dell’epoca della riproduzione fotograficae delle guerre di indipendenza nazionale. Essendo notoriamente iltiramisú costruito a strati, alcuni utilizzavano per la nota farciturail pan di Spagna altri i biscotti savoiardi. Il pan di Spagna echeggiavagusti più filoasburgici eaustriacanti, i savoiardi inveceevocavano più simbolicamente epatriotticamente l’annessionedel Veneto all’Italia dei Savoia.Personalmente suggerisco unpan di Spagna anche piuttostoduro e vicino alla crosta per esserespennellato di caffè italianamentenapoletano. I savoiardibagnati di caffè diventano quasi24


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>come la battaglia di Lissa, quelle sconfitte che per il Veneto e l’Italiasi sono trasformate in vittorie.Non mi dilungo nella stratificazione del tiramisú che diventala vera opera muratoria e architettonica, come la malta e i mattoniper una casa, arrivando all’ultimo strato dove si spalma l’amalgamadi mascarpone,tuorlo e chiarad’uovo e dove avvienecome una benedizionelo spolvero dicacao. Qui però cancellereiquell’effettovellutato e traditoreper aspiranti mangiatoriche possonorimanere soffocati[94] L’ultima fase della preparazione del tiramisú:lo spolvero del cacao, rigorosamente amaro.alla prima boccata,con una granulometriapiù o meno finedi schegge di cacao amarissimo, meglio se grattugiato o sfogliatocon strumenti appositi che di solito servono per carote, verdure oanche trifole. Non si prevedono liquori disciolti nella mescolanzaperché il tiramisú ha il suo vino di accompagnamento che evocaqui veramente la nascita e la fine dell’Italia (savoiarda) come il Marsalao il dolceamaro Porto, dove esistono ancora oggi almeno trecentotipi di Porto e un dolce qui sì veramente simile al pan di Spagnache si chiama pão-de-lo.Altra cosa, in finale, il pan di Spagna che preferiamo nel tiramisú,quasi in onore dei Borboni, in tutta la Spagna non esiste (maesiste il tiramisú) come l’insalata russa a San Pietroburgo non è maiesistita (ma esiste il tiramisú). Ecco perché la cucina, come ogni religione,merita un’esegesi vicina ai propri principi, per andare lontano.“Mangiare per sapere” evoca il detto di Goethe che dice “sivede quello che si sa” e più che un fatto di estetica è un problemadi gusto (non così dato). Questo è solo quanto ho sentito dalla voceappannata di Giovanni Comisso nell’inverno del millenovecentosessantotto.Tirame-su infine, solo e semplicemente perché così lo chiamavasua nonna che in questo modo chiamava anche il buon Dio, perché…perché non si dimenticasse di lei.Economia, finanza e...pasta briséePOMPEO LOCATELLILa Presidente della Fondazione di cui mi onoro essere socio,con mia moglie Vanda, mi ha chiesto una “testimonianza”sulla mia passione per i dolci da pubblicare sul periodico di<strong>The</strong> <strong>Venice</strong> <strong>International</strong> <strong>Foundation</strong>.Questo mio divertissement si è manifestato apertamente all’arrivodei sessant’anni quando – “si comincia a veder l’erba dalla partedelle radici”. Ne ho molto scritto in un libro (i cui proventi ho destinatoa finalità benefiche), decisamente “curioso” – così definitoda un giornalista del più vecchio quotidiano italiano – recentementepubblicato dalla Baldini Castoldi Dalai con il titolo I dolci eL ’ A R T E D E L G U S T Ogli amari di Pompeo e sottotitolo Un protagonista di trent’anni di economiae finanza italiana, fra professione e… pasticceria.In questa confessione-testimonianza ho raccontato le mie originidi figlio di proprietario di un bar/pasticceria in una zona “popolare”– nel senso nobile di questo termine – di Milano, dove ho assorbito,da papà Remo e mamma Carla, il culto del lavoro: la sveglia,infatti, suonava all’alba, poiché bisognava tirare su la saracinesca,piovesse o nevicasse o si avesse il mal di pancia e dove entrambii genitori facevano la loro parte, in totale spirito di fiduciae solidarietà.I miei sognavano per me e per mia sorella Elda un destino diversoda quello del bar/pasticceria. Papà Remo, che rimpiangeva dinon aver avuto da giovane l’opportunità economica di poterlo fare,mi spronava continuamente a studiare, spiegandomi, quasi fosseuna parabola: “Se studierai raggiungerai la laurea, potrai venire amangiare in ristoranti di questo livello, altrimenti ti dovrai accontentaredei cibi cotti”, come disse al termine di un pranzo da Zi’Teresa a Napoli, in occasione di uno dei tanti viaggi di piacere chefacevamo insieme, viaggi che per me erano anche scuola di vita.Nel negozio paterno ho anche iniziato ad assaporare il gustodella libertà che mi ha portato all’esercizio di una professione e aessere ritenuto, in giovane età,un professionista di successo(come già aveva scritto PaolaCapudi in un libro del 1989Commercialisti famosi: i segreti deigrandi), assistendo soprattuttopiccoli imprenditori, quelli cheio chiamo i “Brambilla” dell’economia,che sono la vera forzadell’imprenditoria italiana. In[95-96] Pompeo Locatelli in “versione”professionista e, a fianco, alle prese conle “pratiche” gastronomiche.questo periodo ho anche scritto– quale opinionista di argomentieconomici – su quotidiani eriviste, articoli, in seguito raccoltiin un libro: Cronache dall’Italiain crisi.Avevo, in zona Magenta a Milano,un prestigioso ufficio cheannoverava complessivamenteuna cinquantina di collaboratori (avvocati, commercialisti) e dipendenti(contabili, segretarie), che mi assorbiva totalmente; fu unperiodo di ubriacatura, quasi un delirio di onnipotenza: le pratichesi moltiplicavano, avevo sempre più clienti. Passavo da una riunioneall’altra perennemente in corsa, scendendo e salendo sull’auto inmovimento, con la “pratica” nella cartella, trascurando la famiglia,i figli, le letture, i viaggi di piacere e anche l’Inter. Certo ero unprotagonista di vicende chiave della storia economica italiana: dall’affareSME alla contesa Eni-Montedison, con la nascita di Enimont,a commissario della Federconsorzi e a regista dell’operazione di salvataggiodel Milan (ahimè, per un interista) con il passaggio da Farinaa Berlusconi, per dire delle più conosciute.Ma arrivò la “folgorazione”, mettendo fine a un autentico stato25


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>di ras-le-bol, come dicono i miei amici francesi. Progettai una mutazioneprofessionale lasciando lo studio a tre miei collaboratori, tenendopoche pratiche, in modo da garantirmi tempo per lo studioe l’approfondimento dei dossier. Gli orari si umanizzarono e sorsequella che io chiamo la One man company: sono solo, con la mia (daquasi quarant’anni) fidata segretaria e amica, che come me ama Venezia,Mariuccia Rubin.Ho riacquistato il tempo libero, i miei spazi, la famiglia (soprattutto),i miei soggiorni all’isola di Cavallo, Parigi, Crans, SaintTropez e le ore da dedicare con più agio agli hobbies (musica e arte).È in questo periodo, essendo forse già presente nel mio DNA genealogico,che si è manifestato, quasi fosse una reincarnazione, ilmio amore per la pasticceria, la cui manualità mi distrae e mi liberala mente. Con determinazione, come sempre, ho affrontato il“problema” ricordando a me stesso che “il carattere è la metà deldestino” (l’ha detto lo scrittore De La Grasserie). Mi sono iscrittoalla Scuola de La Cucina Italiana e mi ci sono dedicato con moltoimpegno e buona volontà; con i consigli del maestro e caro amico(Angelo Principe) ho attrezzato un laboratorio di pasticceria nelmio studio con tre forni professionali(il ventilato, lo statico ela base per i lievitati) e una libreriacon molti volumi di famosipasticceri francesi, inglesi,americani e ovviamente italiani;è in quest’angolo dello studioche, spesso, senza data e orari[97-98] Il laboratorio di pasticceriaallestito nello studio e, a fianco, unaselezione dei dolci realizzati.fissi, mi rilasso la mente preparandocrostate, brisées, sucrées,sfoglie, e così via, per la delizia,almeno spero, di amici, clientidello studio e colleghi, a cui invio “I dolci di Pompeo”.Già, perché oltre ai dolci – che non sta a me giudicare, ma chegli assaggiatori affermano essere molto buoni – credo che anche leconfezioni siano belle. I colori dominanti sono il nero e l’arancione(tipo Hermès), le scatole sono a forma di “cappelliera”, i nastri diraso nero con la scritta “I dolcidi Pompeo” in rilievo e, per contenereil tutto, il “sacchetto” rigorosamentenero e arancione.È ovvio che si tratta di unhobby, i dolci vengono solo regalatie, grazie al “marchio”, hoforse definitivamente superato[99-100] L’imballaggio e, a fianco,il confezionamento dei dolci.l’imbarazzo, che mi porto dietrodalla fanciullezza, di chiamarmi“Pompeo”! Mi infervoro a sfornare“torte” come preso da ungiovanilistico innamoramento;sono sempre affascinato da quelL ’ A R T E D E L G U S T Oprocesso quasi “alchemico” per cui entrano nel forno singoli, sempliciingredienti, sempre gli stessi, e ne esce un composto completamentediverso. Sia per estetica che per gusto. Spesso, sedendomiin contemplazione innanzi al forno, medito affascinato sulla “trasformazionedella materia”. “Materia” che è poi l’Uomo. Nella fattispecie,me stesso. Decollato a vent’anni ho avuto una vita di successi,anche se con alti e bassi. Sì, ho raggiunto certi traguardi (essendonato l’ultimo giorno di pace prima del diluvio della SecondaGuerra Mondiale sono portato a vedere il bicchiere mezzo pieno): i“dolci”. Ma, poiché il tempo è corso implacabile, obbligandomi afar di conto di quel che resta, nel percorrere ormai il viale di uno,spero, dorato tramonto (che, peraltro, mi auguro ancora lungo),non dimentico gli “amari” che ho dignitosamente vissuto e che ricordocon nostalgia e ironia.Breve storia dell’arte culinariadai romani alle torri di ravioliANNABELLA BASSANIDopo tanto dissertare e leggere dell’arte del gusto, ci troviamoa collegare il gusto al cibo. Da lì il passo è breve eci porta inevitabilmente alla cucina e a chi a essa applicala sua creatività, la sua passione: il cuoco. La sua è una delle più antichepratiche manuali nella storia dell’umanità, che risale a quandol’uomo passa dalla fase in cui prepara gli alimenti solo con le risorsespontanee della terra, con ciò che cresce e caccia attorno a sé,a quella in cui all’istinto sostituisce l’intelletto. Qui l’alimentazionesi trasforma in scienza, come somma di esperienze e nozioni acquisite.Da lì inizia un lungo cammino che accompagna l’evoluzionedella nostra civiltà, di cui la cucina è specchio e nello stesso tempocomponente essenziale.Cucinare non significa solamente compiere quelle operazionitradizionali come il preparare gli ingredienti e renderli commestibili.Le mansioni del cuoco sono ben altre oggi. Egli deve avere acquisitoun bagaglio di cognizioniche gli permettano di selezionalecomponenti e ingredientiin funzione del risultato chevuole raggiungere, di determinarequalità e durata delle cotture,successione delle vivande[101] Gaspare Diziani, Insegnadell’Arte dei Cuochi, 1738. Venezia,Museo Correr.da portare in tavola e presentazionedei piatti.Il cuoco è l’interprete attraversoil quale si esprimono lemutazioni dei gusti a livello sensoriale,non solo, ma soprattutto le mode che caratterizzano una societàin costante trasformazione, legate a una serie infinita di fattori,fra cui la scoperta di nuovi alimenti e di tecniche sempre piùavanzate. Senza esagerare, si può arrivare ad affermare che la grandecucina è un’arte, non inferiore alla musica e alla pittura, e che ilcuoco è un artista, là dove riesce a interpretare, con sensibilità e intelligenza,il clima culturale del momento. Per capire perché si parliqui di cuochi e di cibo, è utile tracciare un percorso, pur sintetico,della storia culinaria, citando alcuni personaggi simbolo, a par-26


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>tire dall’epoca romana, con Apicio e il suo De re coquinaria, passandodal Medioevo al Rinascimento con Platina, maestro Martino,Cristoforo Messisbugo, Bartolomeo Scappi (quest’ultimo attivo aVenezia, al servizio del cardinale Marino Grimani, intorno al 1550).È forse lo Scappi il “rivoluzionario” delle grandi cucine, con l’inserimentodi tecniche innovative non solo attinenti la cottura e laconservazione, ma anche la presentazione.Proprio nei suoi trattati si leggedi monumentali costruzioni architettoniche:archi, guglie, piramidi,torrioni, composti con tovaglioli,e figure mitologiche realizzati in pasta,marzapane e zucchero posti a decorarele tavole. Lo Scappi segna unatappa fondamentale dell’evoluzionedella nostra cucina e nello stessotempo è il punto di partenza dellacucina scenografica del secolo seguente.In un tripudio di saperi e diintensi profumi, il cuoco è chiamatoa inventare sempre nuove fantasiealimentari e arditi accostamenti.[102] Xilografia da L’arte delcusinare di Bartolomeo Scappi,Venezia 1571.Per tutta la prima metà del Settecento le nuove idee di originefrancese portano a un alleggerimento dagli eccessi precedenti. Ilpasto si articola in tre servizi, con proposte più calibrate, che si indirizzanonon più alle grandi casate, ma a un pubblico più articolatoe più ampio, quello della ricca borghesia.Cinquant’anni più tardi è Vincenzo Corradi il geniale creatoredi una cucina profumata, ricca di sapori, specchio dell’inventiva edella fantasia napoletana. Autore de Il cuoco galante, nel 1773, è ilmassimo interprete di una cucina che cerca di darsi una nuova immagine,adottando ingredienti e tecniche di cottura semplici e naturali,e segna un ritorno alla cucina “pitagorica” che usa tutto ciòche dalla terra si produce per il nostro nutrimento. Sulle tavole, delicatecomposizioni di sabbie o ghiaie colorate, su basi di specchioelegantemente sagomate, ricreano magiche atmosfere.Una svolta epocale si ha nell’Ottocento, quando si rivaluta ilruolo della padrona di casa, in concomitanza con la quasi totalescomparsa della figura del cuoco. La cucina italiana si avvia a diventarepiù provinciale e le figure che emergono in campo culinariosono più alla mano. Vedi il caso di Pellegrino Artusi, cuoco dilettanteche lascerà ai posteri un ricettario edito nel 1891, La scienzain cucina e l’arte del mangiar bene, che racconta una cucina-compendiodelle pratiche regionali del nostro paese e si afferma come sicuropunto di riferimento per le casalinghe dell’epoca e anche oltre.Un contributo al processo di svecchiamento e demitizzazionedelle antiche formule, valori sacri nel contesto della famiglia italiana,viene dato, a cavallo fra le due guerre, nel 1930, dal Manifestodella cucina futurista di Marinetti e dal successivovolume La cucina futurista. Nei suoipropositi iconoclasti, “la rivoluzione futuristasi propone lo scopo alto, nobile e utile atutti di modificare radicalmente l’alimentazione,dinamizzandola e spiritualizzandola[103] Filippo Tommaso Marinetti, Cucinafuturista. Santo palato, 1931L ’ A R T E D E L G U S T Ocon nuovissime vivande, in cui l’esperienza, l’intelligenza e la fantasiasostituiscano economicamente la quantità, la banalità, la ripetizione,il costo”. A guerra finita, con l’avvento della ripresa economica,anche la cucina torna ai suoi fasti, con Carnacina, con i testisacri come Il cucchiaio d’argento e Il talismano della felicità, classici regalidi nozze per le spose dell’epoca.La nouvelle cuisine, movimento che ha origine in Francia, graziealle felici intuizione di cuochi come Guérard, Chapel, Vergé, Bocuse,Troisgros, teorizzata nel 1973 dai critici Gault e Millau, rimetteancora una volta in discussione le esperienze del passato. Lacucina, prima di altri aspetti delquotidiano, tende a rispecchiare,a cogliere i nuovi ritmi di vita,le nuove esigenze di una societàche chiede un’alimentazione piùleggera, meno grassa. Si scelgonocon attenzione i prodotti di[104] Henri Gault e, a destra,Christin Millau sono i teorici dellanouvelle cuisine.stagione e una particolare curaviene riservata alla presentazione,che diventa “artistica”, creatasulla singola porzione e direttamentesul piatto al momento,sovvertendo i principi dell’uso obbligatorio del piatto da portata.Una rivoluzione che sbarca prepotentemente anche nel nostro paesegrazie a Gualtiero Marchesi.Reduce da un fruttuoso apprendistatopresso Lendoven e Troisgros,nel 1977 apre il suo primoristorante a Milano. La sua cura,attenta a ogni dettaglio, iniziadall’ambiente di lavoro e daquelli che egli definisce i “ferridel mestiere”. Con Eugenio Medagliani,produttore artigianalee commerciante di utensili dacucina, studia nuove linee di[105] Lo chef Gualtiero Marchesi conil suo staff di cuochi.pentole, casseruole, piatti, con un occhio di riguardo alla presentazione,ai colori oltre che ai sapori.Sono passati quasi trent’anni da quell’evento. La nouvelle cuisineha avuto i suoi momenti di gloria, seguiti da segnali di oscuramento,dovuti, come quasi sempre succede, da interpretazioni troppofantasiose e lontane dallo spirito dei suoi fondatori. Si sono fatteavanti nuove generazioni di cuochi, fra i quali alcuni, pochi, hannosaputo andare oltre i dettami della nouvelle cuisine con intelligenza,spirito di sacrificio e soprattutto grande passione. Fra tantefigure di spicco merita di essere citato Ferran Adriá, che opera inSpagna, punto di riferimento di molti giovani chef passati dal suoristorante per coglierne lo stile innovativo e interpretarlo in cucinasecondo la loro creatività.Per restare in casa, proprio a Venezia, abbiamo incontrato CorradoFasolato, 37 anni, vicentino di nascita. Dopo dieci anni a LaSiriola di Sancassiano/Badia in provincia di Bolzano (dove ha raccoltosignificativi successi) non ha resistito al richiamo della suaterra d’origine, il Veneto appunto, e ha raccolto una nuova sfida, assumendola responsabilità del ristorante di un albergo, il Metropole,per di più a Venezia. La sua è una cucina molto speciale, che risentedelle numerose esperienze in Italia e all’estero, in particolare27


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>[107-109] Cannolo di farina dicarruba con germano cotto allo spiedo increma di funghi porcini alla menta e, afianco, ravioli di farina di segalafarciti di mela con coniglio e rape rosse.In basso, spaghetti con gamberi,tagliolini di verdure e pomodoro confit.presso Marchesi e Adriá, che citafra i suoi maestri prediletti,insieme a André Jagger diSchaffhausen. Fasolato si distingueper l’attenzione nella sceltadei prodotti (di territorio, stagionalie di colture garantite) e[106] Corrado Fasolato all’opera. alla loro cottura, consistenza,presentazione. Non solo, ma sidedica anche alla ricerca di stoviglie, piatti e bicchieri.Non appena arrivato al Metropole, chiede di poter rinnovare tuttal’attrezzatura da tavola. “Il cibo può essere presentato in qualsiasicontenitore, purché sia adatto a rendere al meglio quello che devecontenere”. Questa in sintesi la sua filosofia, che ci porta a citarloqui, dove si dovrebbe parlaresolo di arte. Perché arte è presentareun piatto, senza che nullaperda dell’aspetto gustativo.Quando da un menù si scelgonodei ravioli, ce li aspettiamoadagiati in un piatto, più o menofondo, con il loro sugo o con il brodo. Fasolato invece li presentaa torre, uno sopra l’altro, intervallati da cialde di parmigiano,adagiati sopra un passato di mela e completati da un’altra crema dimela cotta nel vino. Una sinfonia di sfumature dal giallo della cremadi mela a quello tenue della pasta dei ravioli, del parmigiano,per concludere con un rosa foncé della mela al vino rosso. Il piattopuò avere forme diversissime e anche strane, ma può anche esseresostituito da un bicchiere, nel quale appunto il nostro cuoco assemblai vari ingredienti. Ciò comporta un nuovo gesto da partedell’ospite, il quale, introducendo la posata per estrarne un bocconee passando attraverso i vari strati, otterrà un effetto particolarmenteintenso e nuovo di fusione dei sapori.Spesso la portata non si limita al contenuto del bicchiere, ma glistessi ingredienti vengono serviti separatamente disposti in orizzontalesu un piatto, così da offrire al cliente la chance di accostaregli stessi sapori in modo personale e trarne un’esperienza diversa. Lastessa attenzione, rivolta al colore nella composizione dei piatti, vienedata agli accostamenti e alle temperature: caldo e freddo/tiepido,cotto, mezzo cotto, crudo. Un’altra tecnica originale di Fasolato èl’uso della Moka (proprio la macchinetta del caffè) con altri ingredienti:brodo vegetale, lamponi,fegato grasso. Ma l’ha giustamentebrevettata ed è quasi impossibiledescriverla. Come delresto tutta la cucina di Fasolato,che può sembrare anche astratta;ma vale la pena provarla dal vivo.È un’esperienza.L ’ A R T E D E L G U S T ORagù napoletano:il poema in una salsaSUSANNA CONCINAQualunque discorso sul ragù è, a mio parere, assolutamentetemerario. In realtà per chi non conosce, neanche superficialmente,la cucina napoletana, la parola ragù evocasolo Bologna e le tagliatelle. Ma, mentre nel caso bolognese si trattasolo di una ricetta, per quanto riguarda Napoli non è una semplicesalsa per i maccheroni, ma molto di più. È un rito che in ognifamiglia napoletana si celebra settimanalmente, per onorare, conquesto atto d’amore, il sole, il mare, la bellezza e i profumi di questaterra. Il ragù va seguito, guidato, accarezzato per almeno sei ore,senza mai essere abbandonato; ma dedicargli buona parte di unagiornata dà una riposante serenità, poiché ha anche la virtù di esseredistensivo.Questa salsa è in effetti giovanissima, poiché ha meno di tre secolidi vita; in effetti il Corrado ne ignora la preparazione e il Cavalcantine dà tre distratte preparazioni, chiamandole poi incidentalmente“stufato”. Il nome viene certamente dal francese; ragoût,infatti, significa anche “vivanda che piace e che stuzzica l’appetito”.Il ragù è presente in tutta la letteratura napoletana: ma vogliocitare solo Giuseppe Marotta e Eduardo De Filippo. Marotta, ne L’orodi Napoli, gli dedica addirittura uncapitolo, nel quale si legge tra l’altro“il cielo di Napoli presiede anche inaltri modi alle sorti del ragù, perchéil ragù non si cuoce, ma si consegue,non è una salsa, ma la storia e il romanzoe il poema di una salsa. Dalmomento in cui il tegame viene postosul fornello e la cucchiaiata distrutto dubita, si commuove e slittacominciando a fondersi, fino al momentoin cui il ragù è veramentepronto, tutto può succedere e puònon succedere a danno o a vantaggiodi questa laboriosissima salsa che impegnachi la prepara come un quadroimpegna il pittore”.Di Eduardo cito la poesia O rraù:[110-111] La locandina de L’orodi Napoli e, in basso, un ritrattofotografico di Eduardo DeFilippo.O rraù ca me piace a meM’ ’o faceva sulo mammà.A che m’aggio spusato a te,ne parlammo pè ne parlà.Io nun songo difficultuso;ma luvàmmel’ ’a miezo st’uso.Sì, va buono: cumme vuò tu.Mò ce avèssem’appicceca?Tu che dice? Chest’è rraù?E io m’ ’o mmagno pè m’ ’o mangià...M’ ’a faje dicere na parola?...Chesta è carne c’ ’a pummarola.Fare un “bel” ragù (a Napoli così si dice) non è difficile. Bisognasolo avere nel cuore tanto amore, così da aver la gioia di far28


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>qualcosa per gli amici che verranno, la gioia di stare in casa per sorvegliareil ragù, la gioia di sentirlo “pippiare”, la gioia di avere lacasa pervasa da quel profumo speciale, la gioia di avere del tempoper leggere. Insomma bisogna provare, non essere impazienti e dedicareal Signor Ragù quasi un’intera giornata.INGREDIENTI150 g di prosciutto crudo – 1 kg e mezzo di codino di manzo – 500g di cipolle – sugna – 50 g di lardo – 1 dl di olio – 250 g di vinorosso – 400 g di concentrato di pomodoroPREPARAZIONE• Lardellate la carne con il prosciutto e legatela. Ponetela in unacasseruola con le cipolle e il lardo passati al tritatutto, la sugna, l’oliod’oliva, sale e pepe.• Coprite e lasciate cuocere a fuoco basso, girando ognitanto la carne; quando le cipolle cominceranno aprendere colore, scoprite e mescolate più spesso,quindi aggiungete poco alla volta il vino elasciatelo evaporare.• Dopo circa due ore le cipolle saranno rosolatee quasi sfatte, ogni traccia di liquido saràscomparsa e sarà rimasto solo il grasso.[112-113] Cipolla epomodoro, due protagonistidel ragù.• Aumentate di poco il fuoco e aggiungeteun cucchiaio di concentrato di pomodorosciolto in mezzo bicchiere d’acqua econtinuate così fino a esaurimento del concentrato.• Questa seconda fase richiede circa treore ed è la più delicata.• Aggiungete allora due mestolid’acqua, abbassate ancora, se èpossibile, il fuoco, coprite la casseruolae lasciate andare pianopiano per altre due ore, badandosempre che ci sia acqua a sufficienza.• Perché un ragù sia degno di questo nome la salsasi deve presentare scurissima, untuosa, lucida e densa. Togliete allorala carne dal sugo, cuocete dei bei “paccheri” al dente e godeteviquesta delizia del palato.L’arte della grappanella tradizione del gustoCINZIA BOSCOLO eANTONELLA NONINOLa grappa è per definizione, oltre che per decreto presidenziale,un distillato solo ed esclusivamente italiano, o meglio delnord Italia visto che tradizionalmente l’area di produzione silimitava al Triveneto, parte della Lombardia e del Piemonte. Prodottocon vinacce coltivate esclusivamente in Italia e da distilleriecon sede nel nostro paese, la grappa è quindi un sorta di ambasciatoredella tradizione culturale italiana.Ma cos’è la grappa? È il risultato della distillazione di vinaccefermentate dopo che queste sono state separate, per pigiatura e torchiatura,dal vino o dal mosto. La sua origine è un misto tra storiae leggenda. Non esiste ovviamente una data di nascita ma sembraL ’ A R T E D E L G U S T Oche le prime distillazioni sianoavvenute in Sicilia nel IX-X secolo,ai tempi della dominazionearaba, e che gli arabi, a loro volta,avessero acquisito le tecnicheda Egizi e Persiani. Resta comunqueil mistero su che cosadistillassero: i distillati infatti,intorno all’anno Mille, avevanoun uso prevalentemente medicoe la materia prima comprendevamolte varietà di piante e frutti.[115] Alambicco in rame prodottoda Bottega Navarini di Ravina.[114] Torchio di fine Ottocento.Ravina (Trento), collezione Navarini.Un documento della metà del Quattrocento, conservato all’Archiviodi Stato di Udine, contiene invece specifiche indicazioni sulladistillazione delle vinacce e, citando un alambicco, vi si leggonotermini quali aquavitem e grape. Ma ci vorranno altri quattro secoliprima che il termine grappa si ritrovi citato in testo: un romanzo diVittorio Imbriani del 1876. La mancanza di fonti scritte non significacomunque che la grappa non esistesse; le sue origini povere,la sua produzione da materiali di scarto e facilmente reperibilil’hanno probabilmente relegata – a differenza di altri nobili distillati– a prodotto di poco conto e di scarsa considerazione, quindinon degno di menzione.Anche l’apparizione del termine grappa nei dizionari è relativamentetardo perché considerato erroneamente versione dialettaledella più nobile acquavite. Grappa deriva etimologicamente dagrappo, antica forma per definire il grappolo. Questa intrinseca relazionetra i due termini lo conferma anche il dialetto veneto chechiama graspo il grappolo e graspa la grappa.Non è escluso che la grappa sia stata così lungamente bistrattataperché associata all’idea negativa di clandestinità in cui venivaprodotta nei periodi di forte pressione fiscale durante la dominazioneasburgica e il conseguente contrabbando. Quello che è certo,comunque, è che la scarsa considerazione della grappa ha precisemotivazioni culturali e sociologiche. Per tutto l’Ottocento ma anchenei primi decenni del Novecento il contratto agricolo prevalenteera la mezzadria con cui il proprietario terriero concedeva auno o più coloni di coltivare il proprio fondo dividendo a metà lespese ma soprattutto i prodotti ricavati. Film come L’albero deglizoccoli di Ermanno Olmi e Novecento di Bernardo Bertolucci bene illustranole condizioni sociali di grande povertà e disagio sociale incui i contadini vivevano o, per meglio dire, sopravvivevano. I mezzadrinon avevano proprietà e il loro destino era in balia degli umoridei proprietari terreni; intere famiglie erano poste sul lastricoperché, a volte anche per futili motivi, venivano allontanate dalleterre che coltivavano, unica loro fonte di sostentamento.In questa triste situazione è facile intuireche l’uva era prerogativa deiproprietari terrieri mentre, una voltapigiata e ottenuto il vino, le vinaccevenivano considerate uno scartoe quindi a disposizione dei contadini.Fare e bere grappa quindi era –ed è stato per molto, troppo tempo –sinonimo di povertà e di basso livellosociale, condizioni a cui certo nessunoaspira.29


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>La grande tragedia della prima guerra mondiale fu invece, ironiadella sorte, un momento di riabilitazione della grappa perchédivenne la bevanda di conforto delle truppe, specialmente quellealpine, relegate in disumane condizioni nelle trincee a difendere ilfronte. Risale invece agli anni sessanta l’inizio della diffusione dellagrappa a livello nazionale, anche se ancora considerato distillatopopolare e tradizionale. I due decenni successivi registrarono invecela rivalutazione della grappa come distillato raffinato e le sue originiantiche e tradizionali furono finalmente lette come garanzia dialta qualità e nobiltà del prodotto. La grappa entra così con pienomerito a far parte di quei prodotti in cui arte e gusto si fondonoperfettamente.Grande – ma probabilmente totale – merito nell’aver contribuitoa questo notevole salto di qualità nella conoscenza e nell’apprezzamentodella grappa è della famiglia Nonino, il cui nome è legatoa una vera e propria rivoluzione nella produzione, nella comunicazionee nella rivalutazione della grappa.La distilleria viene fondata nel 1897 quando il capostipite Orazio– stanco di girare di vigna in vigna con un alambicco montatosu ruote – stabilisce a Ronchi di Percotola sede della propria distilleria.Per Orazio il passaggio da un’attivitàambulante a una fissa coincidecon il suo cambiamento di status: damezzadro riesce infatti a diventareaffittuario di un terreno e quindi adare dimora al suo unico bene posseduto:l’alambicco.[116] Orazio, capostipite delladinastia Nonino.Ma sarà il pronipote Benito che, assiemealla moglie Giannola, darà lasvolta definitiva sia all’azienda, nelfrattempo trasferita a Percoto, sia allafortuna stessa della grappa in Italia e all’estero alla fine degli annisessanta. Per far fronte alla richiesta del mercato, gran parte delledistillerie avevano nel frattempo sostuito il tradizionale metododi distillazione discontinuo con quello continuo che aumentava laquantità di prodotto a scapito della qualità. Al contrario, i Noninopreferiscono curare e dedicarsi soprattutto alla qualità della grappa.La loro sfida è dare finalmente alla grappa piena dignità e per farlodevono partire da una grappa più elegante e di gusto meno aggressivo.Decidono di provare a distillare le vinacce di un singolo vitignoper vedere se potevano così ottenere non una grappa qualsiasima una “con i profumi e i sentori del vitigno d’origine”.Per l’esperimento decidono di utilizzare il vitigno più raro epregiato del Friuli, il Picolit. I Nonino capiscono che per migliorarela qualità della grappa bisogna partire da una materia prima freschissima.Ma in tempo di vendemmia,quando le energie e le attenzionisono rivolte esclusivamente a produrreun buon vino, nessuno vuolperdere tempo con le vinacce e nonera semplice convincere i vignaioli.Giannola fa quindi leva sulle loroL ’ A R T E D E L G U S T O[118] La grappa CruMonovitigno Fragolinonell’ampolla ideata neiprimi anni settanta perla Monovitigno Picolit.mogli a cui offre per la vinaccia di Picolitdieci volte il prezzo delle altre vinacce ed esseaccettano di buon grado, così da avere persé una piccola risorsa economica.Il 1° dicembre del 1973 Benito e Giannolacreano la Grappa Monovitigno Picolit,elegante, raffinata con il profumo del mieled’acacia, di mela cotogna e dei fichi maturiappena raccolti. L’innovazione della GrappaMonovitigno Nonino va però oltre il contenutoe coinvolge anche il contenitore; resisiconto che la Grappa Monovitigno Picolit èdiversa da tutte le altre, decidono di comercializzarlanon più in una tradizionale bottigliama in un’ampolla in vetro soffiato amano volante, con tappo argentato ed etichettascritta di pugno da Giannola stessa, per valorizzare ulteriormenteil nuovo prodotto.Gli inizi sono difficili, nonostante la stampa decretasse la riuscitadell’esperimento e l’ottenimento di una grappa straordinaria;i costi elevati di una produzione così innovativa (vinacce dieci voltepiù costose, distillazione molto lenta, ampolle soffiate a manovolante, imbottigliamento manuale, tappo argentato, etichettascritta a mano e così via) fanno della Monovitigno una grappa moltocostosa che quindi resta invenduta. Ma Giannola non si perded’animo e inizia a regalarla a personaggi influenti che potessero apprezzareuna grappa così innovativa. La Monovitigno infatti è la rivoluzionenella grappa e, grazie all’instancabile lavoro di relazionedi Giannola, inizia a essere conosciuta e apprezzata dai palati piùraffinati. Gli stessi distillatori concorrenti, che per molti anni consideraronola Monovitigno una sorta di pazzia che avrebbe solocreato confusione, con gli anni, constatato il successo, hanno dovutoseguirne il modello.Dopo il Picolit i Nonino decidono di distillare altre grappeMonovitigno e, ricercando i vitigni autoctoni friulani da distillare,scoprono che i più rappresentativi sono in via di estinzione. Ed èper la loro salvaguardia che nel 1975 istituirono il Premio Risitd’Âur (barbatella d’oro), a cui si aggiunge, nel 1977, il fortunatoPremio Nonino di Letteratura, che dal 1984 ha anche una sezioneriservata agli autori stranieri. Gusto e arte vanno fieramente a braccettoe la lista dei premiati in questi trent’anni – tra gli altri ErmannoOlmi, Mario Rigoni Stern, Leonardo Sciascia, Jorge Amado,Léopold Sédar Senghor, Claude Lévi-Strauss, Tonino Guerra,Jerzy Grotowski, Andrea Zanzotto, Claudio Abbado, Emilio Vedova– non ne è che la conferma.Ma l’inventiva della famiglia Nonino non si placa: studiano esperimentano le acqueviti di fruttacon alambicchi appositamente ideatie scelgono un frutto speciale: l’uva.L’originale idea incontra però notevolidifficoltà – sia burocratiche (ènecessaria l’autorizzazione di ben treMinisteri: Industria, Agricoltura e[117] Il vitigno di Picolit soffre di “abortofloreale” per cui produce grappoli con pochiacini: per questo è così raro e prezioso.[119] Distilleria Nonino: una tinozza conle vinacce e, sul fondo, una parte deisessantasei alambicchi discontinui a vapore.30


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>Sanità) che dalla concorrenza – ma finalmente,nell’ottobre del 1984, Giannola e BenitoNonino riescono finalmente a produrrel’“Acquavite d’Uva” che, in omaggio alla loroterra, chiamano Ùe (uva in friulano). Persottolineare la preziosità di questo nuovo distillatochiedono alla vetreria muranese diVenini una speciale creazione: una bottigliasoffiata a mano volante con inclusa una murrinaraffigurante un grappolo d’uva. Produconosolo 656 bottiglie da 750 ml per racchiuderela preziosa “ÙE Acquavite d’UvaCru Monovitigno Picolit” che in breve diventanooggetto da collezione, oggi quotateanche oltre duemila Euro.[121] I “sei” componenti dellafamiglia Nonino ritratti da OlivieroToscani: da sinistra Elisabetta, Benito,Giannola, Antonella e, in centro,Cristina e la preziosa ampolla dellaGrappa Cru Monovitigno Picolit.La passione di Benito e Giannola contagia nel frattempo anchele tre figlie – Cristiana, Antonella ed Elisabetta – che, sotto l’occhiovigile ma compiaciuto dei genitori, danno vita nel 2000 a unasingolare acquavite: “Gioiello”, un distillato ottenuto dal solo mielein tutte le sue varietà di gusto, dall’acacia al corbezzolo, dal castagnoal girasole, dal tarassaco al millefiori.Sono passati cento e otto anni dalla fondazione della distilleriaNonino e sono stati oltre cento anni di studio, sperimentazione einnovazione. Il vecchio alambicco ambulante di nonno Orazio halasciato il passo a sessantasei alambicchi artigianali: dodici perognuno dei componenti della famiglia più uno per ogni nipote. Maquello che non è cambiato da nonno Orazio a oggi è che tutti icambiamenti e le innovazionisono stati fatti nel pieno rispettodella tradizione, della culturacontadina, della propria terra diorigine. Nell’era della tecnologiaesasperata – in cui anchel’ottanta per cento della grappaè di produzione industriale – sonoi ritmi naturali che comandanoa casa Nonino e la distillazionedelle vinacce viene fatta, comecon nonno Orazio, in concomitanzacon la vendemmia, cosìda mantenere intatti nel distillatoi profumi e i sapori del vitigno di origine. Saper cogliere e conservareprofumi e sapori è un’arte: l’arte del gusto.Se la pubblicità prende l’arte... per la golaLORENZO BONOLDI[120] ÙE Uvarossaprodotta con acquevitid’uva monovitignoSchioppettino, Refosco eFragolino.L ’ A R T E D E L G U S T OFin dagli albori della sua storia, la pubblicità utilizza ai finidel suo scopo primario – vendere un prodotto – immaginiappartenenti al repertorio condiviso della tradizione figurativae della storia dell’arte. Figure, forme, miti e simboli vengonocomunemente prelevati, assemblati e ricomposti per essere poi affiancatiall’immagine del prodotto da pubblicizzare, in maniera taleda creare un messaggio capace di colpire lo sguardo dello spettatoree nobilitare al contempo l’immagine della merce.Questo uso di immagini classiche – quando per “classica” nonintendiamo nello specifico un’opera dell’arte greco-romana, mapiuttosto un’immagine forte e riconoscibile nell’ambito della nostratradizione figurativa occidentale – resta oggi perlopiù legato acampagne pubblicitarie di beni di lusso: principalmente profumi,prodotti cosmetici e automobili.Pur essendo più rare non mancano però anche epifanie del classicoin pubblicità di beni di consumo e prodotti alimentari. Saràquindi il caso, in questa speciale News Letter dedicata ai sapori dellabuona tavola, di indagare quali siano le interazioni fra pubblicità,tradizione classica e arte del gusto.Per quanto concerne l’enogastronomia, l’ambito pubblicitario incui le epifanie del classico appaiono con maggior precocità e frequenzaè senz’ombra di dubbio quello delle réclames dei prodottienologici, vinari e alcolici in genere: già nelle affiches dell’Art Nouveauall’immagine di questi prodotti si affianca un corredo di figuree di attributi iconografici desunti recta via da immagini strettamentelegate al contesto dionisiaco (ciascun lettore potrà facilmente trovarenella propria memoria immagini di questo tipo). Allo stessomodo ancor oggi l’immagine del dio Nettuno fa comunemente capolinodalle etichette sulle confezioni di tonno, sardine e alici: ambitinei quali il dio dei mari viene trattato alla stregua di Capitanie Nostromi di più recente invenzione e meno divina natura.L’uso delle figure del mito quali testimonial resta in ogni casouna pratica consolidata nella produzione pubblicitaria: anni fa l’interoOlimpo è stato coinvolto in unaserie di spot per un marchio di prodottisurgelati. Esiste poi anche lapratica dell’uso “materiale”, ovveronon evocativo, di opere d’arte incampagne pubblicitarie. Per quantoriguarda le pubblicità legate almondo dell’enogastronomia segnaliamol’esempio di un manifesto per[123] Una bottiglia di vodka è ilvaso dei girasoli di Van Gogh.[122] La Bocca della Verità comesimbolo del gusto.una manifestazione promossa dalComune di Roma nel novembre del2000: forchetta e coltello affiancatealla celebre Bocca della Verità per reclamizzareuna serie di weekend del gusto nella capitale.Al contrario a volte è l’immagine del prodotto pubblicizzato ainserirsi in un contesto “classico”: vasetti di maionese – inneggiantial rinascimento dei sapori – in bella posa sulla conchiglia dellaVenere del Botticelli, o – in una soluzionemeno kitsch – la bottiglia diuna nota marca di vodka camuffataall’interno di una serie di celebriopere.Prodotti alimentari vengono poiutilizzati per reclamizzare merce ditipo diverso. Ad esempio una lineadi prodotti cosmetici a base di acididella frutta ha scelto, per la propriacampagna pubblicitaria, di affiancareal profilo di una modella, un profilo“alla Arcimboldo”, compostodai frutti i cui acidi sono contenuti31


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>[124-125] Effetto Arcimboldo per crema dibellezza e richiamo all’Italia.Ciak!... si mangiaCARLO MONTANAROnella crema pubblicizzata, che promette“una luminosità mai vista sultuo viso”. La formula “Arcimboldo”è risultata accattivante anche per larivista olandese Holland Herald chenon ha resistito, nel dedicare una suacopertina all’Italia, alla tentazione dicreare il profilo di un imperatore romanocomposta da diversi formati di pasta.L’immagine è peraltro accompagnata da undivertente gioco di parole giocato sull’assonanzafra le parole pasta e past (passato):Italy: pasta and present.Infine, il nostro rapido excursus sulle campagnepubblicitarie in cui si intrecciano arti esapori non può concludersi se non con unadivertente (e intelligente) campagna per una catena di supermercati,in cui, in virtù delle assonanze e con la forza degli attributi iconografici,i prodotti alimentari si trasformano in personaggi “famosiper la qualità” – questo il titolo della campagna –: Aglio e Oglio,Ponzio Pelato, Mirtillo Benso Conte di Cavour, Riccardo Cuor diMelone e così via. Non senza qualche divertente e significativo[126-129] Arte e cinema a sugellarela qualità dei prodotti: in altoFederico da Montefeltro di Pierodella Francesca e, in basso, lalocandina di Cleopatra.adattamento: una succosa pesca,indossato un cappello desuntodal ritratto di Federico da Montefeltroconservato agli Uffizi,diventa l’immagine di Piero dellaFrampesca (per metonimia: l’opera per l’autore); un nido di tagliatellee una scatoletta di tonno, con l’aggiunta di una parrucca edi un elmetto, restituiscono le fattezze di Antonno e Cleopasta. Maattenzione: il modello, in questo caso, non è un pezzo d’arte antica,bensì il film peplum Cleopatra interpretato da Liz Taylor e RichardBurton (auctoritashollywoodiana dell’antico).Questo e altro ancoraè ciò che accadequando la pubblicitàprende l’arte per lagola.L ’ A R T E D E L G U S T OLa prima “pappata” al cinema l’ha fatta Andrée Lumière, sedutatra papà Auguste e mamma Marguerite (figlia diAlphonse Winckler, un produttore di birra e quindi vestitadi un abito... dimagrante a sottili righe bianche e nere), nel giardinodella villa Lumière di Monplaisir a Lione, “cinematografata”dallo zio Louis. Era la fine del marzodel 1895 e i due fratelli inventoristavano verificando le loro apparecchiaturefilmando azioni semplicie consuetudinarie (l’arrivo del treno,l’uscita degli operai, l’abbattimentodi un muro...) che, grazie allanuova invenzione, sarebbero an-[130] Le repas de bébé di LouisLumière.date assumendo una dimensione paradigmatica.In quel caso, l’azione del “mangiare” ne diventa l’archetipo perantonomasia, senza però palesarsi nella complessità della sua essenza“cerimoniale”. Ovvero di quell’occasione quotidiana indispensabilealla sopravvivenza che costringendo degli esseri umani a riunirsi(in coppia, in famiglia o in comunità), può assumere valenzeulteriori e del tutto disgiunte da quella della sia pur indispensabilenutrizione. Non sapendo, il cinema, parlare per i primi trent’annidella sua esistenza, non si ricorda, nel primo periodo, la “messain scena” di pranzi o cene particolarmente entusiasmanti, dato chela finzione cinematografica, analogamente a quanto avviene nellavita, identificherà proprio nell’armonia o nello scontro verbale deicommensali l’occasione per suggerire,esporre o imporre verità o menzogne.Come, ad esempio, accade nellaseconda “esemplare” cena de La cadutadegli dei (1969) di Luchino Viscontiquella che sancisce – dopo laprima, vera “cerimonia” di presuntasottomissione patriarcale – la totalecompromissione con il nazismo dellapotente famiglia industriale.[131] Helmut Berger ne La cadutadegli dei di Luchino Visconti.Ma nella storia, dopo Le repas de bébé con la piccola Andrée, esistonocomunque momenti “gastronomicamente” memorabili. Comincia,addirittura, il cinema d’animazione con una tavola che si“autoimbandisce” e un coltello che decide da solo di affettare un salamino:nel 1907 <strong>The</strong> Haunted Hotel di Stuart Blackton rappresentauna rivoluzione nel film a trucco dando vita a oggetti inanimati ma,nel contempo, confermando una tecnica – quella del “passo uno”,ovvero della ripresa di un fotogramma alla volta – che, applicata aldisegno, apre immediatamente la strada al “cartone animato”. Mentre,probabilmente, il momento “gastronomicamente” più memorabileè l’ultima cena a Babilonia con Ciro che, grazie alla complicitàdi un gran sacerdote traditore, annienta re Baldassarre in quelmomento a tavola per festeggiare. Ricostruito basandosi sugli allorapiù recenti studi archeologici, per inquadrare in tutta la sua sontuositàquel set di Intolerance (1916, di David W. Griffith), “altoquanto una casa di sei piani, per due chilometri di lunghezza, in cuisi muovevano 4 mila comparse (Georges Sadoul)”, si adoperò, nonessendo ancora stato inventato l’elicottero, un pallone frenato...32


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>[132] Scena di massa in Intolerancedi David W. Griffith.Nello stesso film, che descrivevaaltri tre momenti drammaticiper l’umana prevaricazione, nonpoteva mancare la morte di Cristo.Ma Griffith, ricostruendo lefasi di quel tradimento, non facevaalcun riferimento “all’ultimacena”, puntando invece nellarievocazione del “primo miracolo”,quelle “nozze di Cana” conla trasformazione dell’acqua invino che gli consente anche di metterne in scena la ritualità.“L’ultima cena”: a partire dalle primissime riprese documentariedei tradizionali spettacoli a tableaux vivants che si replicano ancorain piccoli paesi di mezza europa, il preambolo alla passione diCristo è probabilmente una delle scene più iconograficamente rappresentateanche nella celluloide; inizialmente (le varie passion, soprattuttodi produzione francese, che si sono succedute nei primivent’anni di cinema) usando come referente l’arte più povera e popolare,quella dei santini e delle immaginette sacre. Poi citando addirittura,nel Christus di Giulio Antamoro (1916), il sublime dipintodi Leonardo, pasticciandolo un po’ con l’invenzione di unostuolo di angeli-camerieri che, svolazzando, allestiscono la tavola...La vita di Cristo rimane uno dei temi più “filmati” in assoluto.E quindi le “ultime cene” si replicano puntualmente più o meno ritualmentenella ricostruzione scenografico-ambientale che, dopo iprimitivi e palesi riferimenti iconografici di cui s’è detto, diventeràsempre più spesso nel tempo una prova di sontuosità spettacolare.Se vogliamo celebrarne una per la serietà della rievocazione in sottrattivo,con una particolare attenzione ai dettagli come, ad esempio,l’utilizzo di un pane dalla forma e dalla consistenza della galletta,bisogna riferirsi a Pier PaoloPasolini e a quel suo umano e trasgressivoa un tempo, anche nell’ambientazionestorica senza tempo[133-134] “Ultime cene” diPasolini: in alto Il vangelosecondo Matteo e, in basso, ilpranzo in Mamma Roma.(scenografie: Gigi Scaccianoce, costumi:Danilo Donati), Il vangelo secondoMatteo (1964). Ma lo stesso Pasolini,tre anni prima, aveva contaminatol’iconografia dell’ultima cenatrasformandola in un volgarepranzo di nozze che gli permettevadi introdurre lo squallore moraledell’ambiente in cui la prostitutaMamma Roma (1962) riusciva comunquea conservare un briciolo di umana dignità.E l’anno precedente anche il sornione iconoclasta, surrealista inveterato“don” Luis Buñuel si era permesso di esasperare l’ingenuareligiosità della generosa Viridiana (1961) trasformando una laidacena di straccioni in una caricatura dell’ultima cena... In entrambi icasi in Italia la magistratura intervenne, anche se poi nel tempo ogniaccusa di “offesa alla religione di Stato” venne a decadere. Tanto cheun’ennesima“ultima cena”di sapore trasgressivovenneintrodotta [135] Tredici a tavola in Viridiana di Luis Buñuel.L ’ A R T E D E L G U S T Ocome elemento scatenante della morte con necessità di rinascita dell’anticristoin un thriller nero di una certa dignità, ma massacratodal produttore, che non ebbe più di tanto visibilità nel lontano1978: Nero Veneziano di Ugo Liberatore. Ma, tralasciando la disaminadi quello che probabilmente è lo stereotipo più alto della “gastronomiacinematografica”, possiamo trovare in altre opere l’utilizzodella “cerimonia” del cibo come elemento altrimenti narrativo.In quel capolavoro di rinnovamento del linguaggio che si intitolaQuarto potere (in originale Citizen Kane, 1941) ad esempio, ilgiovanissimo Orson Welles, sceneggiatore, regista e interprete sintetizzain tre-quattro colazioni, nei modi, nella postura, nelle parole,il decadere del rapporto tra il giovane ricco e viziato presuntocampione di libertà e la prima moglie, nipote del Presidente cheavrebbe dovuto, tra l’altro, aiutarlo nella carriera politica. E se deLa caduta degli dei si è già detto, identificando nella cerimonia delmangiare l’assoggettamento delle coscienze alle logiche dell’economiae del potere, con il sempre viscontiano Morte a Venezia (1971)si può iniziare a trovare nella “cerimonia del cibo” la metafora deldesiderio, quanto meno sentimentale se non proprio erotico. Sarebbetroppo lungo anche solo nominare tutti i film che usano e abusano,fino alle conseguenze più abiette, del rapporto cibo-sesso. Untitolo per tutti nella filmografia di un regista tra i più attenti aquesto tipo di analisi-provocazione, Marco Ferreri: La grande abbuffata(1973), l’umoroso suicidio per indigestione di un gruppo dimaturi amiconi tra miasmi, accoppiamenti, torte di forme anatomichein una rappresentazione in negativo della vita che culmina,a mo’ di bomba atomica, con l’esplosione di un cesso...Per tornare a rapporti più serenamente introspettivi in un cortorealizzato da Nour-Eddine Lakhmari, regista marocchino immigratoin Norvegia (Dans les griffes de la nuit di 1999) una anziana prostitutasegue un africano a casa sua e abbozza, non senza qualchesprazzo di generosità, quando scopre che la sua prestazione viene limitataa un pranzo con torta dato che l’uomo aveva solo bisogno diuna compagnia femminile per festeggiare il compleanno... Mentrese esiste gioiosa complicità nel preludio amoroso, questa viene rappresentataal massimo in una cena come quella tra Albert Finney eJoan Greenwood del Tom Jones di Tony Richardson (1963) tutta fattadi ammiccamenti e ciucciatine di cosce di pollo o chele di astice...Un preludio amoroso con una cena in un albergo di lusso tuttodedicato a una coppia e che parrebbe perfino confermare un importantesentimento se poi il Noodles di Robert De Niro non arrivassea violentare la Deborah di Elizabeth McGovern: uno dei tantitradimenti di C’era una volta in America (1984) di Sergio Leone.Ma può esistere anche lo sberleffo, a tavola. Al solito, ne saqualcosa “don” Luis Buñuel che nel 1972 accompagna un gruppodi amici dell’alta borghesia di pranzo in pranzo senza però permettereche una sola di queste mangiate arrivi alla fine: è Il fascino discretodella borghesia. E che nel 1974, ne Il fantasma della libertà, lasua penultima opera ancora più surrealee graffiante, rinchiude i commensaliin salette singole appenadotate di un tavolo pieghevole permangiare, facendoli temporaneamenteallontanare uno alla volta daquel tavolone, dove chiacchieranocomodamente accoccolati su maestosiwater “da salotto”...[136] Il pranzo ne Il fascinodiscreto della borghesia.33


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>La difesa del gusto e del territorio:la sfida di Slow FoodCARLO PETRINI, Presidente di Slow FoodProprio quest’anno ricorre il duecentocinquantesimo anniversariodella nascita di Anthelme Brillat-Savarin, uno deipadri fondatori della gastronomia moderna. Il suo grandemerito, espresso nella Fisiologia del gusto, è stato quello di avernecolto i plurimi saperi coinvolti: “La gastronomia è la conoscenza ragionatadi tutto ciò che si riferisce all’uomo in quanto egli si nutre”;e ancora: “l’argomento materiale della gastronomia è tutto ciòche può essere mangiato, il suo fine diretto, la conservazione degliindividui; e i suoi mezzi di esecuzione sono l’agricoltura che produce,il commercio che scambia, l’industria che prepara e l’esperienzache inventa i modi di usare ogni cosa nel modo migliore”.È straordinario pensare come, già due secoli e mezzo fa, Brillat-Savarin riconoscesse tutti questi elementi dietro il concetto di gastronomia.In un certo senso, potrei dire che il suo anniversario nonpoteva cadere in un anno migliore visto che, per noi, ha rappresentatol’inizio del primo anno accademico dell’Università di ScienzeGastronomiche, con sede a Pollenzoe a Colorno, nata e pensataper poter affrontare e studiaretutti gli aspetti che una concezionemoderna della gastronomiapone in essere. Quello chemancava, infatti, era un serioapprofondimento di ordine storicoe sensoriale, di studio del[137] L’Università di ScienzeGastronomiche a Pollenzo (Cuneo).L ’ A R T E D E L G U S T Ogusto e dei suoi codici, degli oggettidi cui ci nutriamo sotto ilprofilo dell’appetibilità e delpiacere che ci procurano, affiancandosaperi scientifici e saperi umanistici. Ed è soltanto attraversol’uso del gusto che possiamo farlo, quest’organo straordinarioche ci permette di vivere il cibo non solo come un nutrimento, macome un piacere!Adesso, però, facciamo un passo indietro. Alcuni anni fa, organizzandodiversi incontri nelle scuole in giro per l’Italia, rilevammoqualcosa di preoccupante: quasi tutti i bambini, soprattuttonelle città, avevano completamente perduto le loro naturali capacitàsensoriali, insieme a una totale ignoranza sull’origine e la provenienzadella maggior parte dei cibi che quotidianamente mangiavano.Con dei semplici test rilevammo che molti di loro associavanoodori elementari come quello di fragola o di menta, a dentifricie chewing gum piuttosto che ai loro frutti o erbe! Il fatto chefossero proprio i bambini a manifestare tali carenze era un segnoevidente che qualcosa era stato reciso: il cordone ombelicale che ancorateneva insieme il prodotto e il produttore, i sapori al terreno,la vita quotidiana stessa a fianco di animali, campi, messi.Accorgersi che un bambino comune non immagina nemmenola provenienza del latte o del prosciutto deve far riflettere... Parlaredi qualità significa, così, difendere questi legami, cercando diriattivarli, significa soprattutto battersi per una forma di agricolturaequilibrata e compatibile contro questo terrificante meccanismodi massificazione che ha invaso il mondo. A subirne le conseguenzeè stato proprio il gusto, che si è visto omologato e modificato,incapace di raccontare la propria provenienza e le sue specificità.Potrei dire che l’intero percorso di Slow Food è stato in difesadel gusto e del territorio e che, anno dopo anno, ci siamo confrontaticon vecchie e nuove problematiche.Inizialmente bisognava comunicare il territorio, far conoscere isuoi prodotti e le sue storie, ecosì sono nate le guide. Poi sitrattava di difendere tanti prodottidalle qualità straordinarie,ma che la brutale legge del mercatosovente rischiava di farscomparire e abbiamo fatto ipresìdi, prima in Italia e, succes-[138-139] Esempi di agricolturatradizionale: sopra un campo di patatee, a fianco, filari di piselli.sivamente, nel mondo. Dopodichéera anche necessario creareuno sbocco a questi prodotti edè quello che il Salone del Gustoha fatto e continua a fare, proponendosicome una vetrina per tutta la produzione di qualità. E, naturalmente,ci sono i corsi di educazione al gusto, sia per i soci chenelle scuole, che rappresentano una volontà di mantenere vivo ilgusto verso i cibi, imparando a conoscerne il loro ciclo produttivo,la loro provenienza, il loro sapore.Però, quando lo scorso ottobre abbiamo organizzato, come SlowFood, Terra Madre a Torino, invitando le Comunità del Cibo da tuttoil mondo, ci siamo trovati davanti a una nuova sfida, non più soltantoa livello nazionale ma mondiale: dare voce e dignità ai tanticustodi della biodiversità nel mondo, a pastori, nomadi, produttoridi riso, allevatori, pescatori, apicoltori, e tutte quelle personeche, probabilmente, non finiscono mai sui giornali, né tra le notizie,ma che rappresentano, invece, i reali custodi della diversità. Èstato con il concetto di Comunità del Cibo, una categoria nuovache vuole racchiudere la complessità della società attuale, che abbiamoavvicinato tutti questi rappresentanti, così differenti l’unodall’altro per provenienza, cultura, lingua, ma legati da un comunesentire, che è il rispetto per il prodotto al quale lavorano, per lapropria terra e la propria gente. Le Comunità del Cibo sono il modelloa cui guardiamo per un tipo di agricoltura sostenibile, ancoraumana e moderata. E sono queste le vere chiavi di ingresso pertutti i temi agricoli.Insomma, aveva proprio ragione Brillat-Savarin: l’arte del gustova letta da un punto di vista multidisciplinare. E il percorso cheabbiamo fatto fino a qui ci ha insegnato che il gusto deve rispettaretre condizioni fondamentali.•L’Ambiente, prima di tutto. Non si può più pensare a una qualsivogliaforma di produzione che non tenga conto dell’ambiente, senzadistruggerlo o deturparlo irreversibilmente. Per fare un esempiomolto attuale, pensiamo agli organismi geneticamente modificatiin cui l’agricoltura di interi paesi deve decidere la direzione daprendere.• Rispettare le Qualità organolettiche, perché un prodotto che, inbocca, non ha sapore, non può essere considerato buono; e, qui, c’è34


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>di mezzo tutta la grande battaglia contro l’omologazione che vorrebbe,invece, uccidere la diversità.• Rispettare i lavoratori pagando il giusto prezzo per il loro lavoro.Non possiamo più accettare un prodotto che è solo buono, se poiscopriamo che dietro vi sono lavoratori sottopagati o sfruttati. Equanti casi, purtroppo, ancora esistono, a cominciare dalle piantagionidi caffè o di cacao.Ne sono passati di anni dall’uscita della Fisiologia del gusto, mail gusto, oggi, non può più fare a meno di essere anche etico e sociale,perché si vede minacciato dappertutto: nei suoi terreni, neisuoi sapori, in quella straordinaria biodiversità che la terra madreci ha dato e che stiamo tremendamente uccidendo. È il solo modoche abbiamo ancora per preservarlo.Presidi veneziani di Slow FoodMolèche & Carciofo violettoPer valorizzare un prodotto occorre riunire i pochi produttoririmasti e renderli visibili, aiutarli a comunicare l’eccellenzagastronomica della loro produzione e a spuntare prezzipiù remunerativi. A volte servono interventi strutturali: costruireun macello, ristrutturare un forno o i muretti a secco di un vigneto.Un solo progetto non è sufficiente: ne servono tanti quantisono i prodotti, ognuno studiato per sostenere una determinata filieraproduttiva. Questi sono i Presìdi: progetti mirati sul territorioche possono coinvolgere anche solo un casaro (magari l’ultimodepositario della tecnica per produrre un formaggio) oppure riuniremigliaia di contadini. In Italia i Presìdi sono duecento; a Veneziace ne sono due: le molèche e il carciofo violetto di Sant’Erasmo.Impariamo a conoscerli...LE MOLÈCHEIl granchio verde (carcinus aestuarii) è la specie di granchio più diffusanel Mediterraneo; infatti è conosciuto in Italia anche comegranchio comune. In grado di sopportare sensibilivariazioni di salinità e temperatura, sitrova particolarmente bene negli ambientilagunari e nei bassi fondali. Solonella laguna di Venezia, però, è alcentro di una particolare attività, ametà tra la pesca e l’allevamentoestensivo: la raccolta delle molèche.Da almeno tre secoli i pescatori della Lagunadi Venezia – specialmente nell’area diChioggia e delle isole di Burano,Mazzorbo e Giudecca – selezionanoi granchi in fase di muta, pronto per trasformarsi in molèca.[140] Il granchio verdequando perdono il loro rivestimento(carapace) e si presentano teneri e molli: da qui il nomemolèche. È un’attività stagionale che segue i ritmi di crescita deicrostacei e ha le sue punte nel periodo primaverile e autunnale. Igranchi sono catturati con apposite reti da posta fisse, posizionatenei bassi fondali lagunari. Si procede quindi a un’accurata cernita,per separare i granchi boni, pronti alla muta in tempi brevi (da unaL ’ A R T E D E L G U S T Oa tre settimane), dagli spiàntani, che muteranno nel giro di un paiodi giorni, e dai mati, che invece non muteranno più nel corso dellastagione di raccolta. Mentre i mati sono ributtati in mare, spiàntanie boni vengono tenuti separati e sistemati in appositi contenitoridetti vièri. I vièri, un tempo costruiti interamente in vimini,ora sono formati da assi di legno distanziate per permettere la circolazionedell’acqua all’interno.A questo punto, i vièri vengonocalati in acqua, nei bassi fondalisabbiosi o in prossimità dei canali.L’ultimo anello della filiera consistenelle operazioni di controlloe pulizia dei vièri; la finalità ètriplice: prelevare le molèche, eliminaregli esemplari morti e i[141-142] I vièri vuoti e, a fianco,quelli calati in acqua con i granchi.carapaci e, infine, trasferire i boniche, man mano, diventanospiàntani. Le molèche, una voltatolte dall’acqua, possono esseremantenute vive in contenitorirefrigerati fino a 2-3 giorni, per poi essere conferite al mercato.Il numero di equipaggi dediti a questo tipo di pesca si aggiraintorno alla cinquantina e, dopo la crisi degli anni ottanta, il settorepare in ripresa. Tuttavia vi è il rischio che, nel giro di alcunianni, questa ricercata specialità scompaia, anche per la concorrenzadell’attività di allevamento e raccolta delle vongole veraci. Ma laminaccia più grave è rappresentata dall’inquinamento, che influiscesugli individui allo stato giovanile riducendo il numero e le dimensionidegli spiàntani e dei boni da far mutare. Inoltre, gran partedei molecanti è in là con gli anni e, se non interviene un ricambiogenerazionale, si rischia di perdere un grande patrimonio di conoscenzeed esperienze.A TAVOLALe molèche si incidono con un coltello sulla schiena e si strizzano conle mani in modo che fuoriesca tutta l’acqua rimasta. Poi s’infarinanoe si buttano nell’olio bollente. Ed è qui che avviene la secondametamorfosi: da esseri verdini e mollicci si trasformano in croccantibocconi color rosso dorato, dal sapore dolcigno associato al gustod’alga e di mare.Un’altra preparazione prevede di immergere le molèche vive interrine piene di uovo sbattuto che assorbiranno per bene. Dopo circaun’ora, si infarinano e si friggono nell’olio bollente.IL CARCIOFO VIOLETTO DI SANT’ERASMOSant’Erasmo è un’isola della laguna di Venezia, a mezz’ora divaporetto dalle Fondamente Nuove. È grande come la metàdella città, è attraversata da canali e, dal Cinquecento, è un unicograndissimo orto. Sui terreni argillosi, ben drenati e con una salinitàmolto alta, crescono verdure saporite, specialmente i carciofi,tanto che la varietà coltivata in laguna ha preso il nome proprioda questa isola. Tenero, carnoso, spinoso e di forma allungata, il35


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>carciofo di Sant’Erasmo – che si coltiva però anche alle Vignole ea Mazzorbo, altre due isole della Laguna, e nel litorale di Lio Piccolo– ha le bratte color violetto cupo.Un tempo negli orti lagunari lo concimavano con le scoàsse(spazzatura) oppure con conchiglie e gusci dei granchi, che servivanoper correggere l’acidità dei terreni. Per proteggere le piantinedalla tramontana nel periodo invernale si fanno le motte, che sonodei piccoli cumuli di terra.La stagione dei carciofi a Venezia comincia a fine aprile con laraccolta delle castraùre, il primo piccolo germoglio apicale di carciofo,tenerissimo,che viene tagliatoper permettere lacrescita più rigogliosadegli altri germogli(da 18 a 20 perpianta ogni stagione),detti bòtoli. La[143-144] Una castraùra e due piccoli bòtoli.Nella foto a fianco, i bòtoli ormai cresciuti dopo chela castraùra è stata recisa dove indica la freccia.raccolta prosegue finoalla seconda metàdi giugno: gli ortolanitrasportano leverdure con le barche– oggi a motore ma un tempo con le caorline a remi –, dall’isolafino ai mercati di Rialto e del Tronchetto. Oggi sono rimasti inpochi e la maggior parte sonoanziani, i collegamenti con Veneziasono rari e i costi di trasportoelevati, la concorrenza deicarciofi pugliesi e toscani, spacciaticome carciofi di Sant’Erasmo,è fortissima. Per questo ènato un Presidio che ha riunitogli ortolani delle isole della laguna:l’obiettivo è distinguere il [145] Carciofera nell’isola dellevero carciofo coltivato sulle isole Vignole.vicine a Venezia, valorizzarlo epermettere ai produttori di spuntare prezzi più remunerativi.A TAVOLAGli articiòchi, così si chiamano in dialetto, sono stati introdotti nellacucina veneziana dalla comunità ebraica. Sono consumati prevalentementecrudi e le castraùre sono una vera delizia disponibile soloper pochi giorni: 10-15, non di più. Le ricette a base di carciofosono tantissime: fritti in pastella, crudi con un filo di olio d’oliva,oppure cotti in semplice acqua e olio e conditi solo con sale e pepe.Nelle osterie sono tra i cichèti (stuzzichini) di ordinanza, lessi e conditicon aglio, prezzemolo, pepe e olio.[146-147] Castraùra obòtolo? Questo è ildilemma... Scopriamoneallora le differenze: vistidi fronte la castraùra hatre foglie mentre ilbòtolo una sola; visti da sopra, la castraùra è piùappuntita e chiusa mentre il bòtolo è più aperto.In poche parole, le castraùre sono quelle a sinistra e ibòtoli quelli a destra!L ’ A R T E D E L G U S T OTradizione contadina in LagunaLa storia di BepiCINZIA BOSCOLOBepi Catarìn è un simpatico e arzillo agricoltore che ha spesotutta la sua vita a coltivare un appezzamento di circa treettari nell’isola delle Vignole. Catarìn non è il suo cognomema nelle isole della Laguna, dove tutti portano uno deidieci/quindici cognomi comuni, le persone si identificano megliocon il proprio detto.È nato nell’isola nel lontano 1922 da una di quelle “belle” famiglievenete che il regime di allora soleva promuovere e premiareper l’abbondanza difigli regalati alla patria:nel nostro casootto maschi e settefemmine, tutti natitra il 1905 e il 1927.I racconti sullasua infanzia sono caratterizzatiprevalentementedal ricordodella fame, del freddo,delle fatiche del[148] Bepi, il quarto da sinistra, con i suoiquattordici fratelli.lavoro ma anche dei grandi scherzi che, in una famiglia così numerosa,non potevano certo mancare. Di fame però non ha mai corsoil rischio di morire: in campagna, per fortuna, lo stretto necessariosi è sempre in grado di recuperarlo, forse mancava il superfluo mai bimbi, si sa, danno spesso più importanza a ciò che manca piuttostoche a quello che si ha. Per il freddo poi ci sono mille aneddotisulle serate trascorse nell’attigua stalla accovacciati accanto allemucche, veri e propri caloriferi naturali. La stalla diventava cosìuna sorta di “salotto” dove parlare, ridere ma soprattutto scherzarecontro il malcapitato di turno e la goliardia varcava spesso i confinidel buon gusto...In un’epoca in cui Unicef e telefoni azzurri erano ben lungi a venire,la “collaborazione” dei minori era un fatto assodato e non suscitavanemmeno troppo scalpore: non erano forse questi gli annidel proletariato? Non appena i bambini erano in grado di reggereun cesto venivano subito impiegati nei lavori campestri come aiutantie anche Bepi non sfuggì a questa triste tradizione. Svegliatoall’alba, sia prima che dopo la scuola, aiutava nei lavori dei campiassieme a tutti i suoi fratelli. Con già alle spalle qualche ora di lavoromattutino e la prospettiva certa di lunghe ore di lavoro nel pomeriggio,il profitto scolastico non poteva essere dei migliori: Bepinon è andato oltre la licenza elementarema, si sa, per i contadinibasta saper leggere, scrivere efar di conto perché la vera scuolaè sul “campo”, nel vero sensodella parola. E Bepi, sornione,non manca di sottolineare chelui ormai è un “professore”.Bepi è sempre stato contadino,soprattutto nel cuore e nell’anima,è attaccato alle sue [149] Bepi nella serra dei pomodori.radici,36


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>[150] Il trattore: il valido “assistente”di Bepi nei lavori dei campi.alla sua cultura, alla libertà che la sua terra gli dà; il resto sono piccolie fatui dettagli. È lì, con i suoi ottantatré anni, a far progettiper quando sarà vecchio, a preparare le semine dentro la serra dosandocon antica sapienza terriccio, sabbia e concime naturale, acontrollare giorno per giorno il crescere delle sue piantine comefossero i suoi figli.Anche se sale e scende dai suoi trattori con un’agilità che farebbeinvidia a un ventenne, preferisce piantare a mano i piccoligermogli uno a uno con gestimeccanici e ripetitivi che lascianoperò trasparire una grandepoesia: nel creare le piccole bucheper le pianticelle sembrauna mamma che amorevolmenteprepara la culla per il suobambino e nell’assestare i giovanivirgulti nella terra, sembrache il suo tocco sia una sorta dipaterna pacca sulla spalla, una sorta di incoraggiamento a crescerebene. Ed è così che in questa tarda primavera ha pianto ben cinquemilachicchi di mais.Bepi non si è mai sposato e a chi gli chiede perché, risponde ancoroggi – tra l’ironico e il divertito – che la causa sta nella sua gravemalattia: l’allergia alle donne. Vive in simbiosi con la natura: allaterra dà tutte le sue energie ma anziché fatica sembra trarne forzavitale. È circondato dagli animali: ha cinque gatti, suoi fidi scudierinell’eterna lotta contro i topi, e una gran quantità di polli egalline che covano tutto l’anno: gli ultimi pulcini quest’anno sononati a fine febbraio e, malgrado la neve, sono tutti sopravvissuti.Bepi coltiva per sé e per una piccola cerchia di clienti che loraggiungono in isola con la barca. Ormai sono tutti diventati deicari amici e tra una raccolta diinsalata e di pomodori, ci scappasempre un momento di pausaper bere un buon bicchiere di vino,quello dal gusto un po’ “salsetto”che lui stesso produce, emagari, quando i lavori in campagnanon sono così urgenti, ancheper una bella partita a briscolao a scopa con l’asso, giochiin cui egli sostiene di essere unvero campione.[151] Bepi nel suo vigneto di verduzzodorato.Andare a trovare Bepi alle Vignole è un’esperienza unica, untuffo nella tradizione. Ti accompagna fra i suoi campi coltivati, glipiace mostrarti le piante, i loro progressi, i loro frutti e poi si fermaad ammirare, con grande orgoglio, il risultato del suo lavoro edella sua esperienza. A chi si offre di dargli una mano non riesce adire di no apertamente e quindi risponde che ha appena finito e cheè ora quindi di bere un sorso di vino. A chi invece gli chiede se davverofa tutto da solo ironicamente risponde che i campi sono lavoratida due persone: lui e Bepi!È bello osservarlo di nascosto quando, quasi incantato, contemplala sua opera e si capisce che già sta immaginando la sua terravestita coi colori della prossima stagione. Sembra un bambino,a Natale, davanti alla vetrina di giocattoli… un bambino di ottantatréanni.L ’ A R T E D E L G U S T OIn fattoria:giocare per apprendereIntervista di CINZIA BOSCOLO a CRISTINA BERTAZZONILe fattorie didattiche rivestono un ruolo pedagogico di rilevanteimportanza: offrono occasioni per cominciare, fin dapiccoli, a entrare in rapporto con la cultura agricola, la conoscenzadei prodotti, l’ambiente naturale e le sue trasformazionioperate dall’uomo. Incontriamo CristinaBertazzoni, collaboratrice perl’educazione al gusto della condottaSlow Food di Mantova e autrice delvolume Fare scuola in fattoria. Manualedi metodi e giochi per l’animazione[152] Scuola nell’aia.didattica.Dottoressa Bertazzoni, perché giocare in fattoria? Il gioco nelle fattoriedidattiche è un mezzo importante con cui il bambino sperimentadirettamente e impara. Occorre perciò non solo proporlo ma anchesaperlo proporre. La fattoria didattica si configura come un preziosospazio di esperienza e di educazione che richiede, di conseguenza,un forte senso di responsabilità e un’adeguata preparazione –anche in campo educativo – da parte degli agricoltori che intendonooffrire questo servizio a bambini e ragazzi. Richiede, inoltre,un’attenzione continua al rinnovamento delle proposte, al coinvolgimentodelle scuole e al miglioramento dell’offerta educativa.Ma cosa fanno o dovrebbero fare i bambini in fattoria? Purtroppo il desideriodi uscire dalle solite modalità di gestione della visita didatticain fattoria non è ancora diffuso. Basta guardare molti opuscolipromozionali dei circuiti delle fattorie didattiche a livello nazionaleper rendersi conto che le attività proposte sono molto spesso similie gestite con modalità scarsamente “animative”. L’esperienza infattoria, ancora in molti casi, si risolve in una visita guidata allastalla, alle coltivazioni, alla cascina e così via, accompagnata dallespiegazioni dell’agricoltore. Non va invece dimenticato che il giocoè un mezzo fondamentale, se non il mezzo principale, con cui ilbambino sperimenta le situazioni, le vive direttamente, le rielaborae impara. In fattoria è possibile utilizzare giochi per promuovere gliapprendimenti dei bambini nei campi più diversi come, ad esempio,nell’ambito della “educazione sensoriale”e in particolare della “educazione al gusto”,aree di intervento educativo finalizzatea promuovere la conoscenza dei prodotti e asviluppare l’uso dei sensi. Nelle attività dieducazione al gusto rientrano innumerevoliattività di assaggio, di manipolazione, diproduzione di nuove combinazioni con prodottialimentari che hanno come scopo quellodi allargare il ventaglio di conoscenze e dipossibilità di scelta dei bambini.[153] L’esperienzadell’impasto.Ci fa un esempio di gioco? Un’idea-gioco legata alla “educazione al gusto”consiste nel far combinare creativamente – lasciando massimalibertà ai bambini – una serie di prodotti di fattoria. L’obiettivo è farmanipolare i prodotti e quindi avvicinare i bambini ad alimenti sco-37


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>[154] Fasi dellapreparazione del cibo.nosciuti e far gustare piatti o nuove combinazionidi alimenti (ad esempio bruschettacon salsa di pomodoro, ortaggi e spezie varie)che sono stati pensati e realizzati direttamenteda loro.E poi i bambini li mangiano? È più facile cheun bambino assaggi una sua invenzione culinaria– per gli adulti magari insolita e disgustosa– piuttosto che si convinca a mangiarequalcosa dietro pressione di un adulto.Il coinvolgimento dei bambini è legato esclusivamente ai prodotti coltivati?La conoscenza dell’ambiente, degli animali della fattoria e delletecniche di produzione dei prodotti dell’orto e del frutteto è un’altraarea in cui è possibile inventare e realizzare giochi di diverso tipo.Bisogna però fare attenzione a non snaturare i giochi privandolidella loro caratteristica principale: il divertimento. Non vannotrasformati, quindi, in noiose lezioncine di biologia o botanica applicata.Pur essendo la visita in fattoria un’esperienza solitamentebreve, il gioco si rivela molto utile per promuovere la conoscenzadiretta anche delle produzioni agricole, degli animali e delle produzionialimentari.E i vecchi giochi che si stanno perdendo? Un’idea è proprio quella diutilizzare i vecchi giochi di strada riempiendoli dei contenuti chesi desidera far apprendere. Pensiamo ad esempio al classico giocodel “nascondino”; si può modificarlo in questo modo: chi è nascosto,una volta scoperto, dovrà sottoporsi a una o due domande suargomenti trattati in fattoria. Se saprà rispondere farà parte del “popolodei liberi”, se non risponderà correttamente rimarrà tra gli“imprigionati”. I membri del popolo dei liberi dovranno successivamenteaffiancare un compagno “imprigionato” e aiutarlo a superarealtre prove predisposte per ottenere la liberazione.Le fattorie didattiche giocano anche un ruolo nella socializzazione? Le fattoriepossono diventare anche ambiti educativi importanti per promuoverela socializzazione, le relazioni, l’espressione di sé dei bambini.In fattoria ci sono spazi fisici adeguati a questi scopi. Alcunefattorie didattiche lombarde stanno tentando di realizzare dei progettifinalizzati a promuovere la conoscenza, la socializzazione e acreare un buon clima all’interno del gruppo-classe. Se la fattoria sviluppaanche attività in questa direzione può offrirsi alla scuola comespazio in cui i bambini possono vivere momenti di condivisione,di vita comune (soggiorno, campeggio), di sviluppo delle relazionie delle conoscenze con i compagni e con gli insegnanti.Ma come si fa a capire se i bambini si divertono o meno? Un altro aspettodelle attività di animazione,spesso trascurato, è proprioquello di valutare attraverso ilgioco la soddisfazione dei bambiniper le attività svolte. L’opinionedei partecipanti alle attivitàin fattoria è un elemento essenzialeper migliorare e innovarela qualità della proposta. Un[155] Attività collettive tra la vigna eil campo di grano.L ’ A R T E D E L G U S T Omodo per valutare con le modalitàdel gioco se i bambini si sonodivertiti è quello di distribuirea tutti i partecipanti, altermine della giornata in fattoria,un seme di zucca e un chiccodi mais, posizionare un’urna[156] Il fascino del granturco sull’aia. lontano dai bambini e chiedere atutti, dopo il “via”, di correreverso l’urna ed esprimere un giudizio sulle attività realizzate. Chi èsoddisfatto metterà il seme di zucca, chi è insoddisfatto inserirà ilchicco di mais. E di solito prevalgono i semi di zucca!Si ringrazia la rivista Vita in Campagna per la gentile collaborazione.New Technology in fattoriaNasce il Progetto H-FarmIntervista di CINZIA BOSCOLO a RICCARDO DONADONRiccardo Donadon, giovane imprenditore trevigiano, hafondato nel 1998 E-Tree, “<strong>The</strong> no-sleeping company”, l’aziendache ha realizzato i più importanti portali italiani ei progetti più innovativi nel campo di soluzioni internet e del digitaldesign per le imprese, balzataagli onori delle cronache perl’innovazione del modello organizzativoe per gli ottimi risultatiraggiunti. Donadon, conclusanel 2002 l’esperienza con E-Tree, e si è tuffato ora in unanuova avventura: la H-Farm. [157] Riccardo Donadon.Riccardo, a che punto siamo con le nuove tecnologie? Nel 2005 internet,l’e-mail e la connessione veloce sono diventate una cosa normale,in alcuni casi addirittura scontata, per gran parte di noi. E non solointernet, ma anche la fotografia digitale, la musica digitale, letelecamere digitali, i concetti di streaming video, di TV satellitare,il navigatore palmare, il conto bancario e le prenotazioni dei viaggionline… tutto ciò per una parte della popolazione è oggi un datodi fatto.Ma la cosiddetta new economy, a parte pochi brillanti esempi come il tuo,non ha dato grossi risultati. In funzione delle nuove tecnologie tra il1996 e il 2000 sono stati riversati sulla rete miliardi di dollari conil preciso intento di creare dei nuovi modelli di business per la fruizionedi servizi. L’aspettativa era proporzionata agli investimentima i risultati non ci sono stati e molte aziende hanno chiuso. Moltedi quelle idee erano e sono tuttora buone. L’errore, spesso, è statocredere che i modelli di business potevano imporsi sulle abitudinidella gente alla stessa velocità dell’innovazione tecnologica.E la tua nuova creazione? È proprio sulla base di queste riflessioniche insieme ad alcuni amici e collaboratori, che insieme a me hannocondiviso la precedente esperienza di E-Tree, abbiamo iniziatol’avventura H-Farm.38


<strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong>Ma che cos’è H-Farm? Negli anni scorsi l’elettronica ha avuto il sopravventosu tutto: sono state sviluppate moltissime idee, la rete haconsentito lo sviluppo di tantissimi gadget e accessori che consentonodi fare cose mai immaginate prima, come collegarsi con il proprioPC in mezzo a un parco e leggere le ultime notizie o guardareun filmato. La rete continuerà a correre a una velocità incredibile,ma noi crediamo sia ora necessario lavorare per semplificare il suoutilizzo a tutti e rendere immediato a chiunque l’uso di queste potenzialità.Diciamo che vogliamo riportare al centro di tutto la persona,colui che fruisce della tecnologia, non la tecnologia stessa.Nel progetto H-Farm H sta per Human perché vogliamo che l’uomosia al centro di tutto il progetto, vivendo e lavorando in un ambientefunzionale a contatto diretto con i ritmi naturali delle cose.H-Farm è un contenitore la cui missione è quella di far germogliareal proprio interno idee innovative in nuove aziende verticali, leH-Companies, tutte accomunate da un unico obiettivo: quello disemplificare e creare un valore significativo nel campo della tecnologiae dei new media. H-Farm eroga tutti i servizi di base – amministrativi,finanziari, marketing – che consentono alla H-Companiesdi concentrarsi esclusivamente sul proprio progetto specifico.La tua precedente azienda aveva sede in una fonderia, che ci fai adesso incampagna? La sede di H-Farm è a Ca’ Tron, una delle più antiche egrandi aziende agricole della provincia di Treviso, in un rustico restauratoin modo semplice e rispettoso. Il concetto base infatti è unpo’ quello del modello agricolo, dove il bilancio giornaliero eracomposto dal contributo di tante persone e tante attività. E l’obiettivoera condiviso da tutti.La Tenuta di Ca’ Tron, acquistata nel 2000 da Fondazione Cassamarca,si trova nell’immediata prossimità della laguna veneta, ubicataall’estremo limite sud orientale della provincia di Treviso: èlambita a sud dal corso del Sile, il più lungo fiume di risorgiva d’Italia,mentre a est confina con il fiume Valio. Con una superficietotale di circa 1100ettari in unico blocco,Ca’ Tron costituiscela più grandeazienda agraria acorpo unico del Triveneto.Si tratta diuna risorsa naturaledi una bellezza pressochéincontaminata,eppure poco co-[158] La grande tenuta di Ca’ Tron.nosciuta nei suoi aspetti naturalistici e storici, antichi e moderni.Nel territorio aziendale sono infatti presenti vaste aree a bosco;inoltre vive e sosta una ricca fauna, costituita da lepri, fagiani e varitipi di uccelli: aironi, garzette, anatre, poiane, falchetti, e moltialtri, per un totale di oltre 150 specie identificate.Oggi Ca’ Tron è rimasto uno dei pochi lembi di pianura veneta incui lo sguardo può spaziare a perdita d’occhio su grandi distese dicampi coltivati, senza incontrare ostacolo in agglomerati urbani.Avete già iniziato a seminare? Sì, il 12 aprile sono state “piantate” leprime due aziende, H-Art e H-Care.Buon raccolto, allora!L ’ A R T E D E L G U S T OPer saperne di più...• PINO AGOSTINI e ALVISE ZORZI, A tavola con i dogi. Storia con ricettedella grande cucina veneziana, Venezia, Arsenale Editrice, 1991.• AVE APPIANO, Bello da mangiare, Roma, Meltemi, 2000.• CRISTINA BERTAZZONI, Fare scuola in fattoria. Manuale di metodi egiochi per l’animazione didattica, Verona, Edizioni L’InformatoreAgrario, 2005. Il volume è acquisibile esclusivamente presso l’editore(tel. 045/8010560).• QUENTIN CREWE, Ghiottone viaggiatore. Guida alle specialità ditutto il mondo, Bologna, Nuova Tempi Stretti, 1993.• SALVATORE GELSI, Ciak si mangia! Il dizionario del cinema incucina, Mantova, Tre Lune, 2000.• GOURMET’S INTERNATIONAL, Sapori d’Italia. Grappa & Co., Rimini,Idea Libri, 1999.• MARVIN HARRIS, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudinialimentari, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1990.• POMPEO LOCATELLI, I dolci e gli amari di Pompeo. Un protagonistadi trent’anni di economia e finanza italiana, tra professione e... pasticceria,Milano, Baldini Castoldi Dalai editore, 2004.• CARLO PETRINI, Slow Food. Le ragioni del gusto, Roma-Bari, Gius.Laterza & Figli, 2001.• DANILO REATO, Caffè d’Europa. Thinking & Drinking, Modena,Logos, 1999.• DANILO REATO, La bottega del caffè. I caffè veneziani tra ’700 e’900, Venezia, Arsenale Editrice, 1991.• GIAMPIERO RORATO, La cucina ai tempi di Carlo Goldoni, Vicenza,Terra Ferma, 2004.• GIAMPIERO RORATO, La grande cucina veneziana. Ricette, storia ecultura della cucina di Venezia, Vittorio Veneto (TV), Dario De BastianiEditore, 2003.SITI INTERNET• www.engramma.itper una approfondimento sul rapporto fra Pubblicità e Tradizione Classicasi veda la rubrica P&M – Peithò e Memosyne – della rivista on line.• www.slowfood.itDietro le quinte...Molti sono gli amici e i soci di <strong>Venice</strong> <strong>Foundation</strong> che hanno contribuito,“dietro le quinte”, alla realizzazione di questo speciale sull’Arte del Gusto.Il primo sincero ringraziamento va a Manlio Brusatin per aver propostol’idea, gettando letteralmente nel panico la redazione.Di fondamentale importanza è stato il contributo di Annabella Bassaniche ha suggerito argomenti, segnalato e stabilito contatti utilissimi.Un grazie di cuore a tutti gli autori, alcuni dei quali hanno mantenutola promessa di scrivere l’articolo anche in situazioni difficili.Nel “dietro le quinte” c’è anche la preziosa collaborazione e l’entusiamo ditante persone che cogliamo qui l’occasione per ringraziare: Andrea Alfieri,Gloria Beggiato, Chiara Bertola, Renato Bonanni, Marco Boschetti,Sara Bossi, Giuseppe Faggiotto, Daniela Leone, Maria ElenaMassimi, Martina Mian, Fabiola Modonutti, Paola Nano, FilippoPedrocco, Diana Perazzolo, Mariuccia Rubin, Elena Schiavon,Giorgio Vincenzi.39

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