13.07.2015 Views

La guerra delle donne - Fondazione Museo Storico del Trentino

La guerra delle donne - Fondazione Museo Storico del Trentino

La guerra delle donne - Fondazione Museo Storico del Trentino

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

migranti, che sfidano o incontrano la morte in viaggi di fortuna; e se, riescono a sopravvivere, sperimentano lasegregazione e le durezze di qualche “campo di accoglienza”.Le profughe trentine raccontano come, ovunque fossero state esiliate, in Austria, in Boemia, in Moravia, essecercassero di ricostruirsi quel mezzo fondamentale di identità (oltre che di sopravvivenza) che è il lavoro, andandoin campagna “a giornata”, accettando ogni genere di mansione. Il lavoro e la parrocchia, anch’essa cercataovunque si fosse, insieme alla messa, al rosario, alle orazioni, erano i puntelli per sostenere un’identità minacciatadal non-luogo <strong>del</strong>l’esilio, dalla perdita <strong>del</strong> villaggio e <strong>del</strong> focolare. Ai profughi odierni – dalla Bosnia,dall’Albania...- è invece negata per legge la possibilità di lavorare e con ciò di recuperare la dignità di persone. Edè, per legge, impedita la libertà di circolare, di abbandonare il “campo di accoglienza”, se non a rischio di perderelo status di profughi.È sorprendente constatare come il mo<strong>del</strong>lo custodiale, l’ideologia e l’ingegneria che presiedono a quelleistituzioni totali che sono i “campi di raccolta” si siano perpetuati fino ai nostri giorni. Fu con i campi <strong>del</strong>la GrandeGuerra che si sperimentò il mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong> lager, che poi sarà “perfezionato” dal nazismo fino alle conseguenzeestreme dei campi di sterminio. E quel mo<strong>del</strong>lo residua nella cultura istituzionale odierna, che non sa liberarsi<strong>del</strong>l’idea <strong>del</strong>l’ammassamento di individui “alieni”, potenziali nemici, da custodire e sorvegliare.E v’è un’altra riflessione sul presente che ci stimola questa bella raccolta di scritture autobiografiche femminili. <strong>La</strong>condizione particolare e paradossale di chi vive in terra di confine, di chi non si identifica né con l’uno né conl’altro schieramento, e dagli uni e dagli altri è maltrattata perché povera e perché sospetta di nonlealtà patriottica,ci fa pensare a quanto fittizie e coatte siano le identità definite dai confini nazionali: “Ecco la libertà che portò anoi l’Italia: vera libertà perché non abbiamo più niente...”. Ci fa meditare sul fatto che altre sono, forse, le identitàche contano, proprio quelle che l’esilio forzato mette a dura prova, espropriando queste <strong>donne</strong> degli spazi <strong>del</strong>ladomesticità e <strong>del</strong>la socialità di villaggio.In quella forma di oralità trasposta su carta che è l’italiano popolare, con un’efficacia espressiva e comunicativastraordinaria vista la povertà dei mezzi scritturali di cui dispongono, queste <strong>donne</strong> raccontano <strong><strong>del</strong>le</strong> durecondizioni <strong>del</strong>la vita nei campi profughi e nell’esilio, degli insulti e <strong><strong>del</strong>le</strong> umiliazioni, <strong>del</strong>la fame, <strong>del</strong> freddo, <strong><strong>del</strong>le</strong>ristrettezze, <strong><strong>del</strong>le</strong> epidemie: una <strong><strong>del</strong>le</strong> testimoni vedrà morire il padre, un’altra morirà ella stessa a soli quindicianni... Eppure il rischio più grande è quello <strong>del</strong>la spersonalizzazione, <strong>del</strong>l’anomia, <strong>del</strong>la perdita <strong>del</strong> sé, un rischioche sempre, in ogni tempo, s’accompagna alla condizione <strong>del</strong> profugo e <strong>del</strong> migrante: “Qui siamo peggio deidetenuti, un mucchio di paglia per letto, senza di che coprirci e nessun che ci voglia bene... Noi raminghi,derubati di tutto, capri espiatori <strong>del</strong>la superbia dei grandi...”.Per arginare tale rischio, queste <strong>donne</strong> non istruite, in qualche caso semi-analfabete, scrivono di sé e <strong>del</strong>lapropria esistenza, immaginando un interlocutore – un prete, dei figli, un marito – che possa ascoltarle econservare la memoria di così straordinari eventi. Una scrive sotto forma di lettera al parroco, con pessimaortografia e stile aulico, un’altra lascia una breve memoria vergata a matita sul fondo di un baule. Cecilia scriveuna Memoria dolorosissima sulla più grande <strong>guerra</strong> che s’abbia vista sulla terra. Virginia, morta a quindici anni adHohenberg, in Austria dopo aver visto morire durante il forzato viaggio un vecchio e tre bambini, lascia uno scrittointitolato Tristi, ma cari ricordi.Sono testi che confermano ciò che chi si occupa di scritture popolari sostiene da lungo tempo: l’esistenza di unavetusta quanto sommersa storia di scritture femminili; il fatto che le <strong>donne</strong>, anche le contadine, hanno semprecoltivato, per lo più in segreto, un’attività di riflessione e scrittura, quasi a compenso <strong>del</strong>la loro esclusione dallasfera pubblica. Merito grande di questi due volumi, come di altri pubblicati grazie ai diversi archivi <strong>del</strong>la scritturapopolare, è contribuire a far emergere il vissuto scritto dalle <strong>donne</strong>.A. Rivera

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!