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L'INFERMIERE: VITTIMA O SOPRAVVISSUTO - Counselling-care.it

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Univers<strong>it</strong>à degli Studi “Gabriele d’Annunzio”Chieti – PescaraFACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIACorso di Laurea inINFERMIERISTICAL’INFERMIERE: <strong>VITTIMA</strong> O <strong>SOPRAVVISSUTO</strong>UN NO AL BURN-OUT DEI SENTIMENTIIl LaureandoIl RelatoreClara CappelliDr.ssa Nadia De CamillisAnno Accademico2007 – 2008I


Ringrazio Cinzia, Roberta, Luigi, l’ Ufficio Infermieristico e tuttoil personale infermieristico degli Ospedali di Mirandola e FinaleEmilia.III


“Comunichiamo quello chesentiamo,solo quello che sentiamoe quello che sentiamo nonpuò essere nascosto.Per questo dobbiamo starein ogni momentoIn contatto con i nostrisentimenti”Ramòn CortésIV


INDICECAPITOLO 1 – INTRODUZIONECAPITOLO 2 – SCOPOCAPITOLO 3 - BACKGROUNDpag. VIpag. VIIpag. VIII3.1. La storia dell’infermiere: dall’abnegazione allaconsapevolezza delle emozioni3.2. Perché si sceglie il lavoro di cura: aspetti psicologiciCAPITOLO 4 - L’INFERMIERE: “<strong>VITTIMA</strong> O <strong>SOPRAVVISSUTO</strong>” –UN NO AL BURN-OUT DEI SENTIMENTIpag. XVII4.1. Le emozioni e i sentimenti4.1.1. Le emozioni4.1.2. I sentimenti4.1.3. La differenza tra emozioni e sentimenti4.2. Perché l’infermiere diventa “v<strong>it</strong>tima” delle proprieemozioni?4.2.1. Emotivamente in “gabbia”4.2.2. Burn-out4.2.3. Aspetti legislativi4.3. Perché l’infermiere diventa “sopravvissuto”4.3.1. Autostima e sviluppo delle capac<strong>it</strong>à personali4.3.2. Intelligenza emotiva4.3.3. Empatia4.3.4. Comunicazione ed ascolto4.3.5. Counseling: un aiuto all’infermiere4.3.6. Strategie di Coping4.3.7. FormazioneCAPITOLO 5 - MATERIALI E METODIpag. LXXIII5.1. Disegno5.2. Setting5.3. Popolazione5.4. Ricerca e risultati5.5. Discussione e conclusione6. BIBLIOGRAFIA pag. LXXXIX7. ALLEGATI pag. XCIVV


CAPITOLO 2 - SCOPO DELLA TESIIndagare il coinvolgimento emotivo degli infermieri nella relazione dicuraEND POINT PRIMARI- Definire l’infermiere come v<strong>it</strong>tima delle proprie emozioni- Definire l’infermiere come sopravvissuto alle proprie emozioniVII


CAPITOLO 3 - BACKGROUNDL’infermiere come professionista è stato indubbiamente preparato, più all’ azione che allariflessione 4 . Intorno agli anni Novanta , anni della svolta, grazie ad una serie diprovvedimenti normativi, viene sanc<strong>it</strong>a l’autonomia e la responsabil<strong>it</strong>à dell’infermiere 5 .Questi traguardi hanno dato visibil<strong>it</strong>à alla figura infermieristica. La volontà è stata quella didefinire la base cogn<strong>it</strong>iva, intesa come l’insieme di conoscenze scientifiche, abil<strong>it</strong>àtecniche e metodologie razionali che allontanassero questa figura da una connotazione di“mestiere” , avvicinandola invece a quella di professionista della salute. L’introduzionedell’ Evidence Based Nursing come processo di autoapprendimento ha consent<strong>it</strong>o ildiffondersi di una conoscenza basata sulla ricerca.”L’utilizzo della ricerca può essereconsiderato come l’attuazione sistemica nel campo dell’ assistenza di un’ innovazione,scientificamente fondata e basata sulla ricerca, accompagnata da un processo divalutazione dei risultati consegu<strong>it</strong>o a segu<strong>it</strong>o del cambiamento” ( Buckwalter 1992).Laricerca può favorire la conoscenza di fenomeni importanti, tra questi, la v<strong>it</strong>a emotivadell’infermiere. E’ con l’apparire del termine “burn-out”,che viene configurata unacondizione di stress lavorativo riscontrabile con maggior frequenza tra i soggetti impegnatiin attiv<strong>it</strong>à assistenziali: si tratta quindi di una patologia professionale particolarmenterilevante per l’ area socio-san<strong>it</strong>aria 6 . In un lavoro di cura, fondato sulla relazione tra lepersone e destinato a una persona per il suo benessere complessivo, è forte più che mai,l’esigenza della cura di sé. Fare ciò che serve all’altro per il suo benessere , comemovimento che serve anche a sé. 7Oggi il lavoro di cura è un doppio movimento: infatti un buon rapporto con la propria v<strong>it</strong>a,con se stessi, pur nella fatica e nella sofferenza della ricerca, è condizione senza la qualenon si dà luogo a sopravvivenza umana e professionale dinanzi al dolore estremo. 8 Chisvolge un lavoro di cura affronta la necess<strong>it</strong>à di continuare “a sentire”, nel senso che èimpossibile svolgere un lavoro con un alto contenuto di cura senza essere coinvolti sul4 Professioni Infermieristiche: Aspetti Psico-sociali del Burn-out; 20055 D.ssa Angela Morsiani: Laurea in Scienze Infermieristiche Univers<strong>it</strong>à di Modena e Reggio E.: C’èdifferenza tra badante e un infermiere; 2001 : p.236 S.Tabolli, A.Ionni, C.Renzi,C.Di Pietro, P. Puddu: Soddisfazione lavorativa,Burn-out e stress delpersonale infermieristico: indagine su due ospedali di Roma; Suppl.Psicologia; 2006: p.49-527 G. Colombo, E. Cocever, L. Bianchi: Il Lavoro di Cura: come si impara, come si insegna; Carocci eFaber: 20018 G. Colombo, E. Cocever, L’ Bianchi:Il Lavoro di Cura: come si impara, come si insegna; Carocci eFaber: Demetrio 2001 p. 20-21VIII


piano emotivo. Ciò che ingombra non è il sentire emotivo; ingombra il fatto che l’emotiv<strong>it</strong>àsia invasiva verso di sé. Siamo coinvolti in un lavoro emozionale ma si è ancora un po’analfabeti rispetto al linguaggio delle emozioni. E’ una delle più forti ragioni per cui èormai chiaro che le persone che curano non vanno lasciate sole.IX


3.1. LA STORIA DELL’INFERMIERE:DALL’ABNEGAZIONE ALLACONSAPEVOLEZZA DELLE EMOZIONIIl principio di solidarietà è parte integrante della cultura dell’uomo sin dagli albori dellasua comparsa sulla terra. Si parla di assistenza al povero e al malato come condizioneindifferenziata di soddisfazione dei bisogni di base per l’assenza di conoscenze scientifichein grado di descrivere, spiegare e prevedere l’evoluzione della malattia. L’assistenzaall’uomo trova la sua ragion d’essere, la sua concretizzazione culturale nel principio diaiuto, solidarietà, come valore civile di qualsiasi gruppo umano 9 . L’uomo è da sempre “unanimale sociale” che ha, tra gli scopi essenziali della v<strong>it</strong>a, quello di unirsi formando gruppie comun<strong>it</strong>à, più o meno strutturati. E’ perciò dalla comunanza che nascono valori comel’unione e l’aiuto reciproco e si dà luogo allo sviluppo del concetto di azione assistenziale.In tale contesto si sviluppa il pensiero di assistenza. E’ rappresentata concettualmente daquell’insieme di azioni, offerte da persone esterne, che permettono il superamento dimomenti difficoltosi che si presentano nel corso della v<strong>it</strong>a degli individui. Questo aiutoviene elarg<strong>it</strong>o nei momenti fisiologici della nostra v<strong>it</strong>a dal momento della nasc<strong>it</strong>a, durantela cresc<strong>it</strong>a, nella vecchiaia e nella morte, ma anche nei momenti patologici della nostraesistenza, come ad esempio la malattia. E’ importante differenziare i momenti fisiologicida quelli patologici. Tale differenziazione dà luogo alla divers<strong>it</strong>à tra assistenza generale eassistenza san<strong>it</strong>aria. È da questo concetto che nasce la necess<strong>it</strong>à di creare figure in grado difornire un’assistenza, non più fine a se stessa, ma regolata da un sapere, come quello delladisciplina infermieristica. La definizione di un simile pensiero per lungo tempo rimaneincompiuta, è una figura, quella dell’infermiere dal profilo “incerto” non del tuttoleg<strong>it</strong>timata. 10 L’ assistenza è inizialmente affidata a prost<strong>it</strong>ute, ex detenuti, perchéoccuparsi dei malati era r<strong>it</strong>enuto un lavoro “sporco”, “sgradevole”, adatto solo a9 Dr.ssa G. Morsiani. 1° Lezione Laurea in scienze Infermieristiche: Che differenza c’è tra una badante eun infermiere. Univers<strong>it</strong>à di Modena e Reggio E.; p.110 B.Longoni, G.Peducci: Noi ci siamo: guida psicosociale per gli operatori dell’assistenza; 1997 p.14X


determinate categorie di persone i ”reietti” della società. Le condizioni igienico- san<strong>it</strong>ariein cui versava la popolazione erano le peggiori, l’instaurarsi di malattie e pestilenze eraall’ordine del giorno. Con il trascorrere dei secoli e alle radici delle professioni san<strong>it</strong>ariesono nate anche associazioni filantropiche guidate da donne, soprattutto nobili e borghesiche vogliono recuperare un ruolo sociale di util<strong>it</strong>à. Un notevole contributo viene dato dalleist<strong>it</strong>uzioni religiose , l’importanza dei centri monastici cresce notevolmente, diventano verie propri centri di sviluppo e trasmissione del sapere. Nascono così molti ordini religiosi,femminili e maschili, che vedono nell’ assistenza al malato un buon modo per dar valore aivoti religiosi, ma che rallentano la leg<strong>it</strong>timazione dell’attiv<strong>it</strong>à assistenziale intesa comeassistenza infermieristica, così da accentuare ancora di più l’idea che definisce la figurainfermieristica come figura “debole”. 11 ”(…) in campo (…) assistenziale il personalesan<strong>it</strong>ario è in gran parte religioso. La formazione, la retribuzione, le competenze di questioperatori sfuggono strutturalmente a qualsiasi controllo. Si può comunque presumere chesi tratti di persone con forti motivazioni alla dedizione e al sacrificio, disposte adoccuparsi dei malati, degli anziani, degli handicappati e degli orfani con tutta la buonavolontà e l’entusiasmo che possono derivare da una scelta di spendere la propria v<strong>it</strong>a peril prossimo sofferente. Questo impegno personale e religioso può supplire a <strong>care</strong>nze dicompetenze e comunque garantisce che ciò che viene messo a disposizione degli utenti (…)è un aiuto morale “ 12 . Altro elemento che non è stato d’aiuto all’instaurarsi di unacoscienza infermieristica e che ne ha permesso uno scarso riconoscimento, è il significatosimbolico riservato al termine di “cura”, spesso associato, se non identificato, conl’universo femminile. Il femminile è stato a lungo, e per certi versi lo è ancora, soggetto auna pesante svalorizzazione, che trova leg<strong>it</strong>timazione nei dualismi che strutturanol’impianto del paradigma di pensiero prevalente in Occidente. Infatti la cultura Occidentaleè ricca di dualismi concettualmente e radicalmente oppos<strong>it</strong>ivi: ragione/emozione,mente/corpo, materia/spir<strong>it</strong>o ecc. E’ su questi dualismi che grava una sensibile asimmetria,poiché solo ad uno dei poli è riconosciuto un valore ( ragione, mente, spir<strong>it</strong>o ecc.), mentrel’ altro è svalutato, addir<strong>it</strong>tura fatto portatore di un valore negativo. Il problema è che lapolar<strong>it</strong>à negativa è identificata con il femminile , e con il femminile è identificato il lavorodi cura. Inoltre la donna è vista come madre, come colei che ha la vocazione materna,11 B.Longoni C.Peducci: Noi ci siamo: guida psicosociale per gli operatori dell’assistenza: 1997 p 1412 Olivetti Manoukian, Franca: Stato dei servizi. Un’ analisi psicosociologica dei servizi sociosan<strong>it</strong>ari; IlMulino, Bologna 1988, p. 16XI


perciò il risultato è di incatenare le donne nella concetto di offerta che si realizza solotac<strong>it</strong>ando il proprio sé per dedicarsi all’altro. 13 Molte simil<strong>it</strong>udini si possono fare con laconcezione di lavoro infermieristico che si aveva sino a non molto tempo fa, quando l’infermiera era vista come colei che doveva donarsi completamente all’altro in una sorta dispinta vocazionale. A rafforzare questa concezione è stato il fiorire di innumerevoli scuolea gestione religiosa, che avevano come presupposto di portare avanti il loro ideale didevozione. Su tali convinzioni che vedevano il “curare” come sinonimo di accettazione,completa sottomissione, totale abnegazione di sé, è ovvio che l’emotiv<strong>it</strong>à del curanteveniva messa in secondo piano se non addir<strong>it</strong>tura annullata. L’ infermiera è messa a duraprova nel rapporto con l’altrui sofferenza: deve sapersi mantenere emotivamente distante,per essere a completa disposizione di chi soffre, non può permettersi momenti diriflessione per sé, di ascolto della propria interior<strong>it</strong>à. E’ il ruolo che ricopre che glieloimpedisce come da sempre le è stato insegnato, è ormai un idea radicata su anni dipregiudizi del ruolo di chi cura, secondo la Kuhse ” la malattia è il nemico, l’infermiera èil soldato (…) le virtù richieste sono dunque affidabil<strong>it</strong>à, lealtà (…) e sacrificio di sé “. Adaccentuare un simile concetto è stata anche la nasc<strong>it</strong>a del mansionario nel 1974 che ha datoforza ai cr<strong>it</strong>eri di esecutiv<strong>it</strong>à, di accettazione del proprio ruolo di inferior<strong>it</strong>à nei confrontidel medico, ma anche nei confronti di se stessa come figura marginale e come taleassoggettata anche alle proprie emozioni. Chi, in un tale contesto ideologico, avrebbepotuto, solo lontanamente, pensare alla propria v<strong>it</strong>a interiore? all’infermiera era chiestosolo di obbedire a un elenco molto sterile e tecnico di atti e regole ben stabil<strong>it</strong>e, che leimpedivano ogni “fantasia lavorativa” pena l’esercizio abusivo della professione medica.Ma l’infermiera non può restare sempre “bloccata” in questa immagine di sé, ad aiutarla ademergere da questa condizione di “subordinazione” emotiva e professionale c’èinnanz<strong>it</strong>utto l’ abrogazione del mansionario e della definizione di professione ausiliariarispetto a quella del medico. Viene riconosciuta all’infermiere una propria autonomia e unproprio amb<strong>it</strong>o di competenza su cui poter decidere, pianifi<strong>care</strong> e valutare l’attiv<strong>it</strong>à svolta.In particolare si dà nuova importanza alla formazione con la nasc<strong>it</strong>a degli ECM. Questaspinta formativa non ha fatto altro che centrare l’interesse anche su problematiche diverseda quelle puramente tecnico-professionali. Cominciano a nascere corsi che si occupano diaiutare l’infermiere ad affrontare se stesso, le proprie emozioni e l’elaborazione dei propri13 Luigina Mortari: La pratica dell’aver cura , Bruno Mondatori 2006, p. 19-20XII


vissuti. Questi percorsi formativi aiutano gli infermieri alla consapevolezza di se stessicome persone inser<strong>it</strong>e in un processo complesso e dai risvolti umani ed emotivi importanticome quello di cura. E’ un argomento nuovo e di grande importanza che però non haancora trovato i giusti consensi, soprattutto perché è l’infermiere stesso che ancora faticaad avere coscienza di se stesso come individuo capace di lasciarsi coinvolgereemotivamente . Siamo di nuovo ancorati alla vecchia concezione di subordinati efatichiamo ad affermarci sia come professionisti che come soggetti inser<strong>it</strong>i in contestomolto intricato, in cui ci viene chiesto sempre molto in termini di uman<strong>it</strong>à e sensibil<strong>it</strong>à. Maun grande passo è già stato fatto in particolare perché finalmente se ne parla, cosa che nonaccadeva prima, si è sempre considerato motivo quasi di vergogna che, chi svolge il nostrolavoro, possa avere momenti di sconforto e di debolezza, possa insomma, avere deisentimenti.3.2 PERCHE’ SI SCEGLIE IL LAVORO DI CURA:ASPETTI PSICOLOGICIVanna Iori (2003) ha ipotizzato che la scelta del lavoro di cura racchiuda in sé motivazionidi stampo sado-masochistiche, contenenti elementi predatori, mascherati da motivazioniideali. Può apparire come una frase forte, che però crea spunti di riflessione piuttosto acuti.E’possibile che qualcuno scelga il lavoro di cura, che per certi versi è permeato da elementiquasi romantici che richiamano al materno, al familiare, per continuare a riviveres<strong>it</strong>uazioni “quasi perverse” grazie al contatto con la sofferenza altrui. “ E’ rischiosoaffrontare il lavoro di assistenza alla persona con un bagaglio di sofferenza personaletroppo grosso “ 14 . Bisogna, inanz<strong>it</strong>utto, partire dal concetto di cura. Tutti hanno necess<strong>it</strong>àv<strong>it</strong>ale di ricevere cura e di avere cura, perché l’esistenza nella sua essenza è cura di14 B. Longoni, C. Perucci: “Noi ci siamo, guida psicosociale per gli operatori dell’assistenza”; 1993 p. 177XIII


esistere: “Senza relazioni di cura la v<strong>it</strong>a umana cesserebbe di fiorire. Senza relazioni dicura nutr<strong>it</strong>e con attenzione, la v<strong>it</strong>a umana non potrebbe realizzarsi nella suapienezza” 15 .La cura in amb<strong>it</strong>o san<strong>it</strong>ario, in particolare nel nursing prende il termine piùappropriato di relazione d’aiuto e Carl Rogers definisce la relazione d’aiuto: “Unarelazione in cui una dei protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la cresc<strong>it</strong>a, losviluppo, la matur<strong>it</strong>à e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato ed integrato(…); una s<strong>it</strong>uazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire, in una o ambedue leparti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto e una maggiorepossibil<strong>it</strong>à di espressione” 16 .La relazione professionale d’aiuto è un rapporto dinamico chesi basa sull’interazione tra due o più persone delle quali una delle due si trova in unas<strong>it</strong>uazione di difficoltà. Chi porge aiuto racchiude in sé interessi e competenze che perentrambe le persone coinvolte hanno anche dei risvolti emozionali. Chi aiuta necess<strong>it</strong>a diun’adeguata preparazione sia dal punto di vista tecnico-cogn<strong>it</strong>ivo sia psicologicorelazionale. Terminate queste premesse è opportuno continuare a spiegare il perché si èportati verso una scelta così dispendiosa in termini emotivi come quella dell’infermiere.Non è mai per caso che si valuta l’idea di optare per un lavoro di cura, c’è sempre unamotivazione che ci spinge. Sappiamo bene di avere delle risorse, dell’energia, deisentimenti da investire in un rapporto d’aiuto, oltre ovviamente alle capac<strong>it</strong>à fisiche dioffrire le nostre prestazioni. Allora ci si chiede da dove possa venire tanta volontà.Certamente dai nostri valori, da ciò in cui crediamo, dall’importanza che ha la v<strong>it</strong>a per noie dal ruolo che rivestono le persone nell’ amb<strong>it</strong>o dell’esistenza. E perché scegliere unutenza così particolare, formata da persone sofferenti, anziane o disabili? Tutto ciò hasenz’altro radici profonde che vanno ricercate nella nostra storia personale, nelle vicendefamiliari, negli incontri che abbiamo fatto e che hanno rappresentato per noi qualcosad’importante e significativo. Spesso non è solo una motivazione iniziale di stampopuramente uman<strong>it</strong>ario a spingerci nella scelta ma anche una motivazione, se vogliamo piùrazionale o addir<strong>it</strong>tura casuale. Tali obbiettivi però sono destinati a trasformarsi inqualcosa di più profondo che trasforma la logic<strong>it</strong>à in un rapporto di tipoaffettivo/relazionale. Non basta certo una motivazione puramente razionale per riuscire adaffrontare un lavoro emotivamente così impegnativo. Dobbiamo inoltre renderci conto che15 Groenhout, 2004, p.24.16 G.Artioli, R.Montanari, A.Saffioti: “Counseling e professione infermieristica : teoria,tecnica,casi”;2004 p.57XIV


essere utili agli altri ha il suo “tornaconto” si viene a creare una s<strong>it</strong>uazione di reciproc<strong>it</strong>à. “In particolare, ciò che può essere a questo livello fondamentale, per un’interpretazioneingenua e semplicistica, è il livello di consapevolezza relativamente ad un ovviocoinvolgimento e ad un “tornaconto” nell’azione messa in atto. Lungi dal rivelare unaposizione egoistica, coloro che sono in grado di dichiarare che l’azione messa in attorisponde anche a dei bisogni propri mostrano una percezione più completa del proprioagire. (…) si potrà essere tanto più solidali con gli altri, nei termini della reciproc<strong>it</strong>àsopra descr<strong>it</strong>ta, quanto più si darà spazio alle esigenze intime e profonde proprie, chenecessariamente saranno attivate. (…).La posizione di reciproc<strong>it</strong>à vede compresente ilproprio e l’altrui bisogno e spiega l’ambivalenza sempre presente in campo relazionale.Infatti, se il riferimento solo a sé è sintomo di posizione egocentrica, l’altruismo “puro” èanch’esso sospetto, perché tende a nascondere l’altra faccia della medaglia: l’individuo èportato ad attribuire ad “alter” bisogni suoi e a non vedere i propri. 17 Può essererischioso affrontare un lavoro di cura quando si è particolarmente provati dal punto divista emotivo e umano, perché si è portati ad orientare l’azione più verso se stessi, e neltentativo salvifico di aiutare gli altri a risolvere i loro problemi si vuole, in realtà, superare ipropri. Quello che viene defin<strong>it</strong>o come un’ atteggiamento di “Oblativ<strong>it</strong>à coatta”(compulsive <strong>care</strong>ging) defin<strong>it</strong>a in accordo con Bowlby, 1980 18 come un prendersi curaintensamente e spesso eccessivamente, del benessere degli altri, con le problematicheemotive che essa comporta. L’istanza motivazionale a prendersi cura degli altri nell’ipotesidi Bowlby (1980) è legata ad esperienze infantili di dolore, che vengono affrontateoccupandosi del dolore altrui, piuttosto che elaborando la propria sofferenza , oppure all’esperienza infantile di richiesta di cura da parte del gen<strong>it</strong>ore, incapace o impossibil<strong>it</strong>ato difornire lui cura al bambino. In una interessante indagine condotta da Phillips (1997) 19 latendenza ad occuparsi degli altri è stata per l’appunto messa in relazione ad esperienzeinfantili di dolore. Un’altra domanda interessante da porsi un<strong>it</strong>a ad una riflessione è comemai il lavoro di cura è spesso prerogativa del sesso femminile? Le donne sono gli attoriprivilegiati dello scenario della cura gratu<strong>it</strong>a nel loro tempo privato familiare; svolgonolavoro di cura nei servizi nel loro tempo pubblico retribu<strong>it</strong>o; chiedono servizi di cura per i17 Bramanti, Donatella : Soggettiv<strong>it</strong>à e senso nell’agire volontario, 1989,p.160-16218 Bowlby J. Attachment and loss, Vol. III Loss sadness and depression. London: Hogard Press; 1973( Tr. It. Attaccamento e perd<strong>it</strong>a, Vol. III. La perd<strong>it</strong>a, Torino Boringhieri;1983)19 Phillips P. A comparison of the reported early experiencies of a group of student nurses w<strong>it</strong>h those ofa group of people outside the helping profession, 1997; 25: p.412-420.XV


loro familiari ( Colombo, 1995 ). E’ naturale pensare alla donna come colei che si occupadella cura e biologicamente legata ad essa in quanto madre, essa è naturalmente piùcoinvolta emotivamente. Il motore che spinge una donna alla scelta del lavoro di cura èspesso dovuto alla continu<strong>it</strong>à tra lavoro sociale e lavoro familiare, da ciò deriva il rischio diun grosso coinvolgimento personale, per cui la fusione tra lavoro e v<strong>it</strong>a privata puòdiventare pericoloso perché viene persa di vista la realtà che richiede la scissione dei dueruoli. Altresì la donna senza famiglia, il più delle volte, sceglie il lavoro di cura perché ègeneticamente predisposta ad occuparsi di qualcuno ed è questa motivazione che la spingea canalizzare questo desiderio di famiglia e di matern<strong>it</strong>à nell’espressione della cura. Cosaspinga poi il sesso maschile a tale scelta può non essere facilmente intuibile. Ancoraticome siamo ai falsi pregiudizi, secondo cui l’uomo rappresenta l’ideale di persona forte,autosufficiente e virile, tutto ciò si troverebbe in netto contrasto con il lavoro di cura,inteso sin qui come professione “tutta al femminile”. Senza alcun dubbio, al di là delleconsiderazioni pregiudiziali, le motivazioni che spingono l’uomo a tale scelta d’impegno,sono senz’altro da ricercarsi negli stessi valori che hanno spinto le donne e di cui si èparlato all’inizio: riconoscere la v<strong>it</strong>a dell’altro come un valore e dare importanza allapropria storia personale ricca di vissuti e di incontri significativi. La soggettiv<strong>it</strong>àindividuale, la storia del singolo, i suoi progetti esistenziali si intrecciano inev<strong>it</strong>abilmentecon quelli professionali motivandone il più delle volte scelte e stili 20 . I vissuti esperienziali,presenti in ogni persona con caratteristiche soggettive e oggettive, insieme a fatti spiegatidalle scienze umane, ne condizionano la v<strong>it</strong>a. Le esperienze dell’angoscia, della precarietà,del dolore,del tempo, dell’incertezza, dello smarrimento, della tristezza, della gioia, dellapaura, della sol<strong>it</strong>udine… sono le esperienze più profondamente soggettive econtemporaneamente le più universali. Si s<strong>it</strong>uano ad un livello di conoscenza “vissuta” cheprecede ogni spiegazione razionale.L’ Erlebnis (il vissuto esperienziale) si configura quindi come “chiave di lettura” basilareper superare i lim<strong>it</strong>i dell’oggettivismo nell’indagine dei fatti e delle scelte umane,consentendone una comprensione dall’interno, in quanto vissuti (Husserl, 1981, pp.41).Comprendere la connotazione emotiva che è presente in ogni esperienza di v<strong>it</strong>a ènecessario per intuire quale sia il progetto e la scelta professionale che si è fatti.20 V. Iori Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale, 2003 p. 209XVI


CAPITOLO 4. L’INFERMIERE: “ <strong>VITTIMA</strong> O <strong>SOPRAVVISSUTO</strong>”UN NO AL BURN-OUT DEI SENTIMENTI.L’ infermiere all’ interno del suo ruolo, come già abbiamo detto, è sottoposto ad un caricoemotivo gravoso e affaticante. Il lavoro di cura o specificamente la relazione d’aiutorichiedono un enorme dispendio d’energie emotive e risorse personali. Se viene meno lanostra capac<strong>it</strong>à d’elaborazione e se i sentimenti, piuttosto che la razional<strong>it</strong>à, prendono ilsopravvento, ecco che siamo di fronte, a quello che viene defin<strong>it</strong>o un infermiere “v<strong>it</strong>tima”.Il coinvolgimento emotivo eccessivo può diventare una trappola invece che una risorsa, semal gest<strong>it</strong>o, può travolgerci sino all’inev<strong>it</strong>abile insorgenza del burn-out. Le “nobili”motivazioni, che inizialmente ci hanno portato a scegliere un lavoro di cura, vengono menoe la demotivazione, un<strong>it</strong>a allo scoraggiamento che le accompagna, prendono il posto dellebuone intenzioni. Dobbiamo riuscire con la formazione a vincere ed eliminare la possibil<strong>it</strong>àche queste s<strong>it</strong>uazioni possano insorgere. Certo è la formazione l’unico mezzo che ci èdisponibile, un<strong>it</strong>o alla volontà della consapevolezza. Bisogna impegnarsi affinché questoaccada. La formazione è conoscenza e la conoscenza porta alla cresc<strong>it</strong>a dell’individuocome ent<strong>it</strong>à. L’individuo si riconosce e anche l’infermiere nel suo ruolo impara che è unafigura rilevante all’interno dell’organizzazione san<strong>it</strong>aria. E’ per questo che ha il dir<strong>it</strong>to diessere formato, il dovere di informarsi e di crescere, di diventare appunto “sopravvissuto”,libero di provare emozioni e sentimenti che non lo coinvolgano negativamente, ma che loaiutino ad essere migliore per sè stesso come professionista della cura, ma anche per gliutenti che affronta quotidianamente.XVII


4.1. LE EMOZIONI E I SENTIMENTIOra ci accingiamo a descrivere in modo più dettagliato qual è il significato delle emozionie dei sentimenti. Essi sono parte integrante della v<strong>it</strong>a dell’uomo come essere sociale.Inev<strong>it</strong>abilmente, all’interno di una relazione tra due o più persone, emergono emozioni e sisviluppano sentimenti. Sono importanti per vivere e qualcuno li ha defin<strong>it</strong>i “il sale dellav<strong>it</strong>a”. Senza di essi saremmo individui a metà perciò incompleti. Sono indispensabili perdare motivo e valore alla nostra esistenza. E quale s<strong>it</strong>uazione è più idonea per collo<strong>care</strong> leemozioni se non quella rappresentata dalle relazioni d’aiuto? In questo contesto che vedecoinvolte diverse figure, l’infermiera, il paziente, i suoi familiari e l’equipe’ è naturaleemergano s<strong>it</strong>uazioni dal forte impatto emozionale. Le dinamiche in esso contenute sonomolteplici e consentono in modo inequivocabile l’instaurarsi di s<strong>it</strong>uazioni ricche diemozioni coinvolgenti e spesso destabilizzanti.4.1.1. LE EMOZIONILe emozioni sono una caratteristica presente in tutti gli esseri viventi che implica unareazione cogn<strong>it</strong>iva e fisica, prevalentemente improvvisa, ad uno stimolo. Quindi, sonointese come uno stato affettivo di tipo fuggevole. 21I primi studi sulle emozioni sono stati fatti da filosofi o naturalisti. Già Cartesio, nel 1649,distinse altre qual<strong>it</strong>à umane contrapposte alla razional<strong>it</strong>à, e cominciò a parlare di emozioni,“ Le emozioni hanno la funzione di inc<strong>it</strong>are l’anima a volere le cose a cui essepredispongono il corpo; (…) esistono sei passioni prim<strong>it</strong>ive, le altre emozioni sono unamistura di queste”. 22 Per lui sono qualcosa che ci mette in contatto con una serie diautomatismi e di comportamenti più semplici di quelli che - secondo il suo dualismo -sono diretti da un’anima capace di risposte di tipo cogn<strong>it</strong>ivo, ossia di tipo più elevatorispetto alle emozioni. Quindi Cartesio introdusse la separazione tra la ragione el’emozione. Tuttavia solo nell’ottocento con Charles Darwin, le emozioni acquistano unrilievo scientifico delineando un modo nuovo di interpretare il cosiddetto rapporto mentecorpo.Egli manifestò il suo pensiero all’interno di un ampio ed accurato trattato dal t<strong>it</strong>olo21 Estratto da internet: http://<strong>it</strong>.wikipedia.org/wiki/Emozione. Da wikipedia l’enciclopedia libera22 S. Obinu: “Cartesio, le passioni dell’anima”, 2003, p.478XVIII


“ L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”. L’interpretazione scientifica diDarwin si basa sulla teoria dell’adattamento, egli sostenne che le emozioni rappresentanola prima risposta di un individuo all’ambiente circostante, permettendo una pronta edefficace risposta dell’organismo in circostanze cr<strong>it</strong>iche e assumendo quindi un’importantesignificato “adattivo” (concetto utilizzato in campo evoluzionistico) legato allasopravvivenza. 23 R<strong>it</strong>enne che molte delle espressioni facciali avessero un significato“adattivo”, utile ad esprimere , senza bisogno di parole, lo stato d’animo del soggetto : adesempio mostrandosi impaur<strong>it</strong>o poteva segnalare una s<strong>it</strong>uazioni di pericolo, utile allasalvaguardia di se stesso e del clan di appartenenza. Darwin, grazie ad alcuni studieffettuati su diverse popolazioni indigene, nel tentativo di stabilire se le emozioni fosseroinnate o acquis<strong>it</strong>e, arrivò alla conclusione che esisteva una base comune nelle espressionicaratteristiche di ogni emozione nei vari popoli e che pertanto bisognava r<strong>it</strong>enere innataquesta capac<strong>it</strong>à. Con le sue intuizioni è stato il primo a creare le basi del concetto diemozioni, a dar loro un significato e un’ interpretazione in termini di util<strong>it</strong>à e dicomunicazione. 24 A suffragare gli studi di Darwin ci fu anche lo psicologo canadese PaulEkman che, insieme a Friesen ed Ellswort si prefissero di studiare: felic<strong>it</strong>à, rabbia, paura,tristezza e sorpresa, in particolare su alcune popolazioni della Papua Nuova Guinea.Insieme scoprirono che una caratteristica importante delle emozioni primarie è data dalfatto che vengono espresse da ogni essere umano in ogni luogo, di qualsiasi cultura edetnia, attraverso modal<strong>it</strong>à simili. Da ciò possiamo notare l’importanza che ha il linguaggionon verbale, che generalmente ha una valenza maggiore di quello verbale, rafforza lacomunicazione, ed è in grado di anticipare quello verbale. Altri ricercatori si sono occupatidi emozioni. James nel 1884, facendo riferimento ai processi neurofisiologici, ha defin<strong>it</strong>ol’emozione come “il sentire” elaborando la “Teoria periferica”, secondo cui un eventoemotivamente coinvolgente darebbe origine ad una serie di reazioni viscerali eneurovegetative che percep<strong>it</strong>e dal soggetto sarebbero all’origine dell’esperienza emotiva.Ecco che l’evento emotigeno non è più semplicemente percep<strong>it</strong>o ma anche emotivamentesent<strong>it</strong>o. 25 Al contrario James e Lange producono una “teoria somatica”, secondo cui “ icambiamenti corporei seguono direttamente la percezione del fatto ecc<strong>it</strong>atorio, e che ilsentimento dei cambiamenti stessi al loro manifestarsi è l’emozione”. Cannon nel 1927 ha23 C. Darwin, “Expression of the emotion in man and animals”, 187224 A. Ragaglini, “Psicologia e scienze dell’educazione”,1998, p. 302-303.25 W. James, “ What is an emotion?”, 1884,9, p.188-205XIX


proposto una “Teoria centrale delle emozioni”.Tale teoria collocherebbe i centri diregolazione e controllo delle emozioni, non nelle vie periferiche, ma bensì, nella regionetalamica, i cui segnali nervosi, sono in grado sia di indurre le manifestazioni espressivomotorie,sia di determinare le componenti soggettive tram<strong>it</strong>e le connessioni con lacorteccia cerebrale. 26 Cannon coniò il termine di “reazione d’allarme” indicata come lacomplessa reazione viscerale che avviene in concom<strong>it</strong>anza alle esperienze emotive esoprattutto nelle s<strong>it</strong>uazioni pericolose per la sopravvivenza e l’integr<strong>it</strong>à dell’organismo,finalizzata a preparare le migliori condizioni per al lotta o per la fuga. 27 Sono apparse insegu<strong>it</strong>o la “Teoria cogn<strong>it</strong>ivo attivazionale” di Schachter del 1962 28 , secondo cuil’emozione è il risultato dell’interazione fra due componenti: una fisiologica ed unapsicologica, tale concezione individua nell’elaborazione cogn<strong>it</strong>iva un aspetto importantedell’ esperienza emozionale. Una definizione condivisa dalla maggior parte degli studiosi èche l’emozione, sia quando viene attivata dall’esterno da stimoli sensoriali, ad esempio ilpiacere legato al gusto di un buon pasto, sia quando si manifesta come risposta ad unevento, ad esempio l’incontro inaspettato con un vecchio amico, sia quando viene attivatadall’interno attraverso ricordi o processi cogn<strong>it</strong>ivi, si presenta sempre come una forzaorganizzatrice e propulsiva per pensieri ed azioni successive.I ricercatori concordano sul fatto che i fenomeni emozionali siano il legame centrale trauna persona, i suoi bisogni interiori ed il suo mondo esterno. Da alcuni studi recenti fatti daRobert Plutchik 29 le emozioni vengono identificate come otto emozioni primarie, divise inquattro copie:- la rabbia e la paura;- la tristezza e la gioia;- la sorpresa e l’attesa;- il disgusto e l’accettazione;26 W. B. Cannon, “ The James-Lange theory of emotion: a cr<strong>it</strong>ical examination and an alternativetheory”, American Jounal of Psicology,1927, 39, p.106-12627 W.B. Cannon, “Bodily chances in pain, hunger, fear and rage”, 191128 S.Schacheter, J.Singer “Cogn<strong>it</strong>ive, social and physiological determinants of emotional state”,Psychological Review, 1962, 69, p.379-399.29 R. Plutchik “ The nature of emotion”, American Scientist, 2001.XX


Secondo alcuni autori, dalla combinazione delle emozioni primarie derivano le secondarieo complesse:- l’allegria;- la vergogna;- l’ansia;- la rassegnazione;- la gelosia;- la speranza;- il perdono;- l’offesa;la nostalgia;- il rimorso;- la delusione;Terminata l’analisi della storia delle emozioni e delle teorie ad esse correlate, ciaccingiamo a ribadire, quanto le emozioni diano colore e sapore all’esistenza, anche se inuna civiltà come la nostra, fondata sulla ragione e il tecnicismo, spesso sono consideratecon sospetto e timore. Non potrebbe essere altrimenti, perché se la ragione permetteall’uomo il dominio su se stesso e sulle cose, le emozioni rappresentano l’esatto contrario,ci fanno agire d’impeto e sono incontrollabili. Eppure, sono le emozioni a motivare moltiag<strong>it</strong>i e, se sono pos<strong>it</strong>ive, ci aiutano a superare il contatto quotidiano con la sofferenza, sesono negative diventano spunto di riflessione, per se stessi e i componenti dell’equipe.Possiamo inoltre aggiungere che sono state internazionalmente riconosciute, nelle variefasi lavorative dell’infermiere, sei fra le emozioni conosciute : felic<strong>it</strong>à, rabbia, tristezza,paura, disgusto e sorpresa. Ora di segu<strong>it</strong>o andremo ad analizzarle brevemente.LA FELICITA’L’etimologia della parola fa derivare felic<strong>it</strong>à da: felic<strong>it</strong>as, deriv. felix-icis “felice”, la cuiradice ”fe-“ significa abbondanza, ricchezza e prosper<strong>it</strong>à. La nozione di felic<strong>it</strong>à, intesacome condizione ( più o meno stabile) di soddisfazione totale, occupa un posto di rilievonelle dottrine morali dell’antich<strong>it</strong>à classica, tanto che qualcuno le ha defin<strong>it</strong>e come dottrineetiche eudemonistiche (dal greco eudaimonia) sol<strong>it</strong>amente tradotto come felic<strong>it</strong>à. Epicureo,XXI


in una lettera sulla felic<strong>it</strong>à a Meneceo, lo ravvisa sul fatto che non c’è età per conoscere lafelic<strong>it</strong>à: non si è mai né vecchi né giovani per occuparsi del benessere dell’anima. La“Felic<strong>it</strong>à” in quanto “Soddisfazione per la propria v<strong>it</strong>a” rappresenta l’aspetto soggettivo piùimportante e significativo della Qual<strong>it</strong>à della V<strong>it</strong>a. La “Felic<strong>it</strong>à” è un problema che l’uman<strong>it</strong>à si è posta da molto tempo e come è noto, si trova presente in larga misura in quas<strong>it</strong>utte le formulazioni filosofiche (Donati,1984). 29 Dal punto di vista di psicologi, psichiatrie medici il problema della felic<strong>it</strong>à, che nell’ accezione comune ha una dimensionesquis<strong>it</strong>amente personale e spir<strong>it</strong>uale, può essere inglobato utilmente nel più ampio concettodi Qual<strong>it</strong>à della V<strong>it</strong>a , si può considerare che ne rappresenti l’essenza soggettiva. In sintesisi può affermare che la maggioranza degli Autori, pur con accenti diversi, accettano,contrapposto alla Quant<strong>it</strong>à, il concetto di Qual<strong>it</strong>à della V<strong>it</strong>a con una dimensionesociologica e una psicologica. Qual<strong>it</strong>à determinata cioè da fattori oggettivi e da fattorisoggettivi, però intrinsecamente interdipendenti o dialetticamente connessi. SecondoArgyle il maggior studioso di questa emozione, la felic<strong>it</strong>à è rappresenta da un sensogenerale di appagamento, Argyle e Martin (1991) definiscono la felic<strong>it</strong>à come uno stato digioia e uno stato di soddisfazione. Il primo è un’emozione, il secondo una cognizione,risultato di riflessione e giudizi di valore. 30 La felic<strong>it</strong>à è anche legata al numero eall’intens<strong>it</strong>à delle emozioni pos<strong>it</strong>ive che la persona sperimenta e, in ultimo, come evento eprocesso emotivo improvviso e piuttosto intenso è meglio designata come gioia. ( D’Urso eTrentin, 1992). Ma chi è l’individuo felice? Secondo Argyle e Lu (1990) la personaestroversa è più felice perché ha più rapporti sociali, fa amicizie più facilmente, partecipaad un maggior numero di attiv<strong>it</strong>à pubbliche e collettive dove trova maggiori motivi diinteresse e divertimento. Inoltre la persona felice è anche una persona che sta bene con sestessa e che ha fiducia nelle sue capac<strong>it</strong>à e percepisce una fondamentale congruenza tra ciòche è e ciò che vorrebbe essere. Gli stati d’animo pos<strong>it</strong>ivi possono influire in modoconsiderevole sia sul comportamento sia sui processi di pensiero rendendoli maggiormenteadeguati e funzionali alle s<strong>it</strong>uazioni di v<strong>it</strong>a dell’individuo. Inoltre, per quanto riguarda gliaspetti cogn<strong>it</strong>ivi, il buon umore ha effetti pos<strong>it</strong>ivi anche sulle capac<strong>it</strong>à di apprendimento (Ellis, Thomas e Rodriguez, 1984; Ellis, Thomas McFarland e Lane, 1985).Vi è però daosservare che l’att<strong>it</strong>udine alla felic<strong>it</strong>à, alla soddisfazione e all’ottimismo, cioè ad uno stile29 P. Donati: “Risposte alla crisi dello stato sociale”. Milano: Franco Angeli. 1984.30 M. Argyle e M. Martin:”The Psycological causes of happines”. In F. Strack, M. Argyle e N. Schwartz(Eds).Subjective well-being . p 77-100. Oxford: Pergamon Press.XXII


cogn<strong>it</strong>ivo che porta a questi stati psichici, è nella storia di un individuo una caratteristicaassai stabile in età adulta. Secondo le teorie contemporanee ( tra cui Giuliana Proietti) lafelic<strong>it</strong>à è provare ciò che esiste di bello nella v<strong>it</strong>a. Non è un’emozione oggettiva ma unacapac<strong>it</strong>à individuale, non è casuale come un evento del destino ma è una capac<strong>it</strong>à dascoprire ed imparare. Bisogna imparare ad essere felici.LA RABBIA“Come tutte le emozioni, la rabbia non è mai giusta, o sbagliata: c è, e bisogna prenderneatto, comprenderla, e gestirla al meglio. Chi riesce a mettere la sordina alla rabbia, nonsempre ne ricava benessere, perché si tratta di un segnale molto importante: che qualcunoo qualcosa sta calpestando il nostro Io ( Dott. Luigi Mastronardi psicologo e filosofo)”La rabbia è un’ emozione specifica che nasce da un senso di frustrazione, impotenza eoppressione che si manifesta attraverso aggressiv<strong>it</strong>à rivolta verso gli altri, se stessi o versooggetti. In quanto ins<strong>it</strong>a nella reazione primordiale di lotta e di fuga, la rabbia è radicata neifondamentali meccanismi della sopravvivenza; essa, come il dolore e la gioia, è una delleemozioni più precoci. 31 Si manifesta quando si r<strong>it</strong>iene siano stati calpestati i propri dir<strong>it</strong>ti oviolati i propri valori. La rabbia quindi è una reazione che consegue ad un determinatostimolo e si manifesta attraverso l’impellente necess<strong>it</strong>à di attac<strong>care</strong> l’oggetto frustrante.Quando siamo arrabbiati avvertiamo un disagio e una tensione crescente che sentiamo didover “scari<strong>care</strong>” al più presto per trovare uno stato di benessere, una sorta di acmeraggiunto che deve necessariamente regredire al fine di poter trovare equilibrio. E’ daconsiderarsi fondamentalmente un’ emozione distruttiva “Ogni emozione che causa dannia noi stessi o agli altri è un’emozione distruttiva (…) la rabbia rende ciechi (…)sono leemozioni distruttive, quelle che lim<strong>it</strong>ano al libertà dell’ uomo” 32 L’eccessivo sfogo delleproprie emozioni e il mancato controllo della rabbia può arre<strong>care</strong> conseguenze negative ase stessi e agli altri: prendere tutto come un attacco personale, sentirsi messi in discussionesolo per la scortesia di un familiare, di un paziente o di collega è l’inizio dell’<strong>it</strong>er chepercorriamo ogni qualvolta si innesca il meccanismo della “rabbia”. “ Ben più gravi sonogli effetti prodotti in noi dall’ira e dal dolore, con cui reagiamo alle cose, che non quelli31 Estratto da internet: http://www.medicinalive.com/ psicologia e medicina della mente, 2008.32 D.Goleman, T.Gyatso (Dalai Lama):”Emozioni Distruttive. Liberarsi dai tre veleni della mente:rabbia, desiderio e illusione”, Mondatori, Milano; 2003.XXIII


prodotti dalle cose stesse, per le quali ci adiriamo o ci addoloriamo ( Marco Aurelio,imperatore romano, 121-180 )”. Una delle tante spiegazioni che si danno alla rabbia èrifer<strong>it</strong>a ad un passato lontano, a fantasmi che appartengono alla nostra infanzia. Secondo lamaggior parte degli studi effettuati al riguardo, i casi più frequenti di mancatoautocontrollo sono stati identificati in soggetti che hanno avuto gen<strong>it</strong>ori cr<strong>it</strong>ici, intollerantie svalutanti. La soluzione non è sicuramente accusare mamma e papà, ma nel recuperare ilbambino che è in noi e fargli fare pace con la nostra parte adulta. Il primo passo per cer<strong>care</strong>di allearsi con la propria rabbia è ascoltarla bene, e cer<strong>care</strong> di capire chiaramente il suomessaggio: dove ci sentiamo colp<strong>it</strong>i, cosa vorremmo. Una volta defin<strong>it</strong>a, con calma, laposizione che noi r<strong>it</strong>eniamo più adeguata, possiamo affermarla con assertiv<strong>it</strong>à.LA TRISTEZZAAnche la tristezza fa parte delle emozioni primarie, associata generalmente a s<strong>it</strong>uazioni diperd<strong>it</strong>a (simbolica o reale), non solo rifer<strong>it</strong>a ad un lutto per la morte di una persona cara,ma legata anche alla perd<strong>it</strong>a di un ruolo, di un valore morale, alla lontananza improvvisa diuna figura d’ attaccamento importante , un gen<strong>it</strong>ore, un fratello ecc. Secondo Izard eTerrine, uno degli effetti della tristezza è il rallentamento dei movimenti come puredell’attiv<strong>it</strong>à mentale. L’antecedente della tristezza è sempre riscontrabile in s<strong>it</strong>uazioni checomprendono una s<strong>it</strong>uazione di separazione e di perd<strong>it</strong>a. La tristezza quindi è un’emozionenegativa, susc<strong>it</strong>ata da un evento spiacevole, dall’incapac<strong>it</strong>à di far fronte alla minaccia o alpericolo esterno, nonché dalla percezione della propria impotenza. L’espressione “triste”,caratterizzata da espressione mesta, volto abbassato, rima labiale rivolta in giù e spallericurve, è più fugace rispetto al sentimento di tristezza. Sebbene l’espressionecaratteristica di questa emozione possa comparire anche per pochi secondi, il sentimentotende a durare più a lungo. 33 La comunicazione della tristezza nella sua forma passiva esilenziosa, rispetto ad altre emozioni, quali felic<strong>it</strong>à, paura e disgusto segnala uno “statonullo di attiv<strong>it</strong>à relazionale” 34 , in questo caso la mancanza di attiv<strong>it</strong>à è essa stessa unamodal<strong>it</strong>à relazionale, allo stesso modo in cui lo sono gli atti di dirigersi, rifiutare e opporsi.“ Nel comportamento emotivo c’è una continua, mutevole oscillazione tra il lasciarsi33 A. Garrese: “I volti della tristezza: un’analisi psicologica” ed<strong>it</strong>o da Liguori34 N. H. Frijda: “Emozioni” c<strong>it</strong>. p.44XXIV


andare e il contenersi; il reagire e l’agire di propria iniziativa, l’assumere il controllo edessere controllati, in risposta agli eventi esterni come anche alle variazioni interne nelleproprie inclinazioni” 35 La tendenza all’azione caratteristica della tristezza comprende, adesempio, il sentirsi impotenti che denota l’incapac<strong>it</strong>à di sfruttare le opportun<strong>it</strong>à pos<strong>it</strong>ivepresentate dall’evento o di affrontare quelle negative; l’ ipoattivazione ( il sentirsi apatici,senza alcun interesse ). La tristezza con la rabbia, la paura e la felic<strong>it</strong>à, sono emozionifondamentali. L’aggettivo “fondamentale” sottolinea il fatto che “nell’uomo queste quattrorisposte emozionali mediano in maniera efficace il rapporto tra organismo e ambientepermettendo un continuo confronto tra le esigenze biologiche e le esigenze socialidell’individuo” 36 La tristezza tende a susc<strong>it</strong>are l’aiuto e il conforto degli altri. Un voltotriste fa nascere in noi, il desiderio di aiutarlo. “ L’espressione della tristezza è un richiamoautomatico per l’empatia e relazioni amichevoli” 37 La tristezza sembra un’emozionesocialmente desiderabile, necessaria, specialmente quando si tratta di una grave perd<strong>it</strong>a.Nel lutto, le espressioni pubbliche di dolore e di tristezza sono previste o addir<strong>it</strong>turaincoraggiate. 38 Pensiamo ad un reparto di degenza ospedaliera dove tutto ciò accade quasiogni giorno. Sono diverse le modal<strong>it</strong>à per esprimere la tristezza. Alcuni la manifestano inmodo realistico accettando la perd<strong>it</strong>a ed elaborando il lutto, ma altri, facendo appuntoriferimento a ciò che dice Parkers, rivelano in modo piuttosto visibile il loro doloreesternando emozioni che vanno al di là della semplice tristezza, che implica rassegnazioneed apatia, ma mostrando momenti di autentica disperazione un<strong>it</strong>a a vere e proprieesplosioni di rabbia, perché non si accetta la realtà, specie se la perd<strong>it</strong>a è stata improvvisa enon si è avuto il tempo per prepararsi ad essa.LA PAURALa paura è una delle emozioni primarie importanti per la sopravvivenza. E’ un campanellod’allarme, una reazione di fronte ad un pericolo. Per l’uomo la paura riveste un valoreambivalente, oscilla tra istinto ed elaborazione culturale e si colloca nel cuore della nostrav<strong>it</strong>a psichica divenendo un determinante fattore di cresc<strong>it</strong>a o d’involuzione. “Ci serve perstrutturare il nostro mondo e la nostra v<strong>it</strong>a. Chi dice di non avere paura è semplicemente35 A. Garrese: “ I volti della tristezza: un’analisi psicologica” ed<strong>it</strong>o da Liguori. p. 86.36 D. Galati “ Le emozioni primarie” Bollati, Boringhieri, Torino 1993, p.41.37 C.E. Izard “ The Psycology of emotion” c<strong>it</strong>. p.198.38 C. M. Parkers, “ Il lutto. Studio sul cordolio negli adulti “ Feltrinelli, Milano 1981.XXV


un incosciente, perché corre moltissimi rischi”(A. Oliviero Ferraris, 2002). Quandoappare, produce una serie di modificazioni corporee che predispongono alla fuga oall’aggressione. Alterazioni fisiologiche e psicologiche, quali la tachicardia, la produzionedi adrenalina, l’aumento della pressione arteriosa, rendono l’individuo più vigile e pronto aun intervento, all’azione. 39 Secondo Joseph Toynbee “ Una civiltà si sviluppa in rispostaalle difficoltà che pone all’ambiente e alle sfide che l’uomo affronta per superarle: lapaura è uno degli incentivi a cautelarsi, e insieme a mobil<strong>it</strong>are le forze necessarie pervincere la part<strong>it</strong>a”. La paura viene confusa erroneamente con l’ansia e l’angoscia, inquanto le manifestazioni fisiologiche le accomunano, ma mentre queste due emozioni sonodi carattere puramente soggettivo, la paura è provocata da un pericolo oggettivo. La pauraha diversi gradi di intens<strong>it</strong>à a seconda del soggetto: persone che vivono intensi stati dipaura hanno sovente atteggiamenti irrazionali e/o pericolosi. I diversi gradi di intens<strong>it</strong>àpossono essere:- Terrore: rappresentato da un evidente stato di paura, durante il quale un individuodiventa confuso e viene attanagliato da un senso di elevato pericolo. Questo porta ilsoggetto a non riconoscere più il “giusto” e lo “sbagliato”, portandolo quindi acommettere azioni al di fuori di qualsiasi logica, ma dettate solo dall’istinto.- Paranoia: psicosi di paura, relativa alla percezione di essere persegu<strong>it</strong>ati.- Panico: è la forma più grave di paura, in cui l’individuo prende coscienza di esserea rischio di v<strong>it</strong>a imminente ( spesso è causato da una fobia a qualcosa o qualcuno).La paura peggiore è quella della morte, in quanto è da essa che ha origine la paura stessa,dalla consapevolezza che siamo persone fin<strong>it</strong>e e che un giorno moriremo. E’ un elementoirrisolvibile che crea tutte le altre paure.(A. Oliviero Ferraris, 2002). Pensiamo a quantevolte nella carriera di un infermiere si presenta l’incontro con la morte, e a ciò che essarappresenta in termini di coinvolgimento emotivo. Occorre familiarizzare col tema dellamorte ed intendere la morte come un aspetto della v<strong>it</strong>a, vale a dire: non considerare lamorte solo come “oggetto di studio”, ma considerarla come “presenza”, come “processo” enon solo come un evento. L’evento è qualcosa che cap<strong>it</strong>a comunque; il processo è qualcosaa cui ci si prepara. 40 Ecco che la paura, se viene compresa e accettata, può cambiare ilproprio valore, può diventare in un certo senso più sostenibile.39 V.Slepoj: “Capire i Sentimenti: Per conoscere meglio se stessi e gli altri”,1996.p9940 O. Bassetti, R.Lesca “ L’Infermiere di fronte alla sofferenza ed alla morte”XXVI


empatiche che spesso impara grazie all’esperienza e che non gli vengono certo impart<strong>it</strong>edurante il periodo scolastico.LA SORPRESALa sorpresa è senza dubbio l’emozione più breve. Lo stimolo fa scattare immediatamentela risposta. Se abbiamo il tempo di pensare, cioè di valutare a livello cogn<strong>it</strong>ivo l’evento,allora non è più sorpresa. Inoltre la sorpresa è vissuta in modo soggettivo, dipende moltodal nostro modo di valutare l’evento e dalla nostra disposizione d’animo. Così che di frontead una stessa s<strong>it</strong>uazione potremmo arrabbiarci o sorridere. Poiché l’esperienza dellasorpresa è breve, segu<strong>it</strong>a quasi sempre da un’altra emozione, il volto mostra una misceladelle due emozioni. Così possiamo osservare sopracciglia alzate, che segnalano la sorpresa,raggentil<strong>it</strong>e dal sorriso che è senza dubbio un segnale di emozione pos<strong>it</strong>iva. Oppure lesopracciglia rialzate della sorpresa possono apparire insieme con la bocca che invece èstirata indietro, chiaro segnale della paura. 424.1.2. I SENTIMENTILa radice della parola sentimento, derivante dal latino medievale, è ancora riconoscibilecon il significato di “sentire”, inteso con un significato diverso da quello conosciutoodiernamente. Leonardo da Vinci credeva che i muscoli ricevessero il sentimento dainervi, o Leopardi che chiamava i sentimenti principali la facoltà del vedere e dell’udire:erano considerati sentimenti quelli che per noi oggi sono i sensi o le capac<strong>it</strong>à di percepiresensazioni a livello fisico, mediante gli organi di senso. Oggi il significato di sentimentinon è più rifer<strong>it</strong>o ad una sensazione fisica, ma bensì ad uno stato d’animo, sono leemozioni che danno origine ai sentimenti.”I sentimenti si producono unicamente quandoun sistema di sopravvivenza è presente in un cervello che ha anche la capac<strong>it</strong>à di esserecosciente. Nella misura in cui la coscienza è uno sviluppo tardivo dell’evoluzione, i42 J.A.Russel, J. M.F.Dols, Erickson „Psicologia delle espressioni facciali“XXVIII


sentimenti sono arrivati dopo le emozioni (…) la capac<strong>it</strong>à di provare sentimenti èdirettamente legata alla capac<strong>it</strong>à di avere una coscienza di sé e il resto del mondo” 43 .Kant (1724-1804) fu il primo a collo<strong>care</strong> il sentimento, accanto alla ragione e alla volontà,tra le categorie fondanti la qual<strong>it</strong>à umana. Al sentimento in particolare, attribuisce lafacoltà di giudi<strong>care</strong> un oggetto in base al piacere o dispiacere che susc<strong>it</strong>a: una qual<strong>it</strong>à deltutto soggettiva, non generalizzabile. I sentimenti sono l’espressione di ciò che ci circondae che agisce direttamente o indirettamente su di noi. La maggior parte dei sentimenti ècontrollata dal nostro subconscio e perciò ogni elemento esterno ci affligge ancheinternamente, cioè una catena logica viene innescata dal nostro subconscio maturando cosìrisposte logiche non esprimibili con parole ma che si sviluppano all’interno della nostramente come concetti. I sentimenti sono qui, in noi, e lì, fuori di noi, e con i sentimentidobbiamo confrontarci per conoscere chi siamo, da dove veniamo e dove stiamoandando. 44 “La facoltà intellettuale del comprendere si dimostra incapace di formulare lanatura del sentire in un linguaggio intellettuale, poiché il pensare appartiene a unacategoria incommensurabile con il sentire (…). A questa circostanza si deve il fatto chenessuna definizione intellettuale sarà mai in grado di riprodurre, sia pureapprossimativamente,ciò che è specifico del sentimento” 45 .4.1.3. LA DIFFERENZA TRA EMOZIONI E SENTIMENTILa differenza fondamentale è nella durata. Emozioni e sentimenti sono contigui: non èfacile delim<strong>it</strong>arne i confini. E, tuttavia, si suole distinguere l’emozione dal sentimento perle sue caratteristiche di breve durata e maggior intens<strong>it</strong>à. Tante e varie emozioni vanno acomporre un sentimento, ma non lo si può considerare come la semplice somma delleemozioni, ma la risultante, in perenne evoluzione, di diversi stati d’animo cheinteragiscono fra di loro, filtrati di volta in volta dal controllo cr<strong>it</strong>ico, intellettivo, cheelabora i sentimenti. 46L’emozione come abbiamo già precedentemente chiar<strong>it</strong>o , è fugace,immediata e improvvisa, solo in segu<strong>it</strong>o, quando entra a far parte di noi, diventasentimento. I sentimenti sono stabili, profondi, scaturiscono dal legame tra gli individui e43 J. Le Doux: “Il cervello Emotivo. Alle origini delle emozioni” Baldini e Castoldi – Milano-; 1999, p.129.44 V. Slepoj. “Capire i sentimenti. Per conoscere meglio se stessi e gli altri. “ 1996, p.11.45 C.G.Jung, “Tipi psicologici” ( Op. vol. 6). Boringhieri, Torino 1969-1993, p.482.46 V. Slepoj: “Capire i sentimenti: per conoscere meglio se stessi e gli altri” 1996, p.17XXIX


dai vissuti comuni. Le emozioni possono essere comprate e vendute, attraverso ildivertimento, l’ecc<strong>it</strong>azione la nov<strong>it</strong>à il piacere ecc., i sentimenti debbono invece esserecostru<strong>it</strong>i, e successivamente, difesi. 47 Il sentimento ha durata nel tempo perché è guidatodai nostri valori, dagli scopi che vogliamo raggiungere nella v<strong>it</strong>a. I sentimenti muovono lepersone a scelte e <strong>it</strong>inerari di v<strong>it</strong>a, emerge la loro facoltà intenzionale, che pesca le proprieenergie nel mondo dei valori esistenziali. Intu<strong>it</strong>ivamente si avverte ciò che è pos<strong>it</strong>ivo onegativo per l’individuo e la collettiv<strong>it</strong>à, sulla base di un sentire che è connesso al piacere eal dolore, alle radici stesse, corporee e biologiche della v<strong>it</strong>a.Il sentimento, infatti, oltre che dalle emozioni, è motivato anche da un precisoorientamento cogn<strong>it</strong>ivo sui valori che si attribuiscono all’oggetto, alla persona, allas<strong>it</strong>uazione per i quali si prova un determinato sentimento. L’emozione va racchiusa nellasfera irrazionale nell’ag<strong>it</strong>o di un individuo, mentre al sentimento viene riconosciuta lafacoltà di attribuire valore ad un oggetto, una s<strong>it</strong>uazione, un evento è perciò daconsiderarsi incluso negli ag<strong>it</strong>i della sfera razionale. I sentimenti sono componentiintelligenti delle v<strong>it</strong>a cogn<strong>it</strong>iva, che possono guidare a una più profonda comprensionedelle cose. Perché la v<strong>it</strong>a della mente, e con essa l’intero nostro modo d’essere nel mondo,si nutre di sentimenti.4.2. PERCHE’ L’INFERMIERE DIVENTA “<strong>VITTIMA</strong>” DELLEPROPRIE EMOZIONI?L’infermiere, all’interno del proprio operato, può facilmente diventare “v<strong>it</strong>tima” quando silascia coinvolgere in modo inappropriato dal punto di vista emotivo. Si allontana da séstesso, non sa gestire ed elaborare le emozioni. Si lascia travolgere dagli eventi quotidiani.Diventa per molti aspetti una sorta di individuo “incudine”, sulla sua figura si abbattonoinnumerevoli eventi. Nel suo lavoro sono presenti molti attori: il paziente, i familiari e icolleghi, ognuno con il suo bagaglio di problemi, aspettative ed esigenze. Il professionistadella salute si sente spesso solo di fronte a tante sollec<strong>it</strong>azioni, tende a richiudersi in unisolamento emozionale che inev<strong>it</strong>abilmente si ripercuote su ciò che lo circonda, ma inparticolare su se stesso. Cosa ancor più preoccupante è che spesso, tali vissuti, vengono47 V. Masini: Art. Tratto da “ Gli attentati ai sentimenti“ Counseling psicologico w.w.w.incanta.<strong>it</strong>XXX


portati all’interno dei rapporti personali come gli affetti e le amicizie, che invece dirappresentare un momento di distacco e di evasione, diventano l’occasione di sfogo deidisagi acquis<strong>it</strong>i durante la giornata.4.2.1. EMOTIVAMENTE IN “GABBIA”La “gabbia” come figura metaforica ci riconduce bene all’idea di lim<strong>it</strong>e, un lim<strong>it</strong>e chel’infermiere mette a se stesso se non è in grado di stabilire una giusta distanza emotiva, masoprattutto un giusto grado di autoconsapevolezza nei riguardi di ciò che lo circonda. Unambiente ricco di vissuti, a forte impatto emozionale, se sottostimati, possono trasformarsiin una vera e propria prigione destabilizzante e oppressiva che indurisce ed allontana,favorendo l’instaurarsi del burn-out emotivo. Laddove l’infermiere attiva uncoinvolgimento soggettivamente significativo con il paziente per incrementare il lavoro dicura si può parlare di interpretazione vocazionale della professione infermieristica. 48S<strong>it</strong>uazioni come queste sono difficili da sostenere e in un’ indagine , non pubblicata,condotta da Benner e Wrubel 49 risulta che tra le maggiori preoccupazioni del personaleinfermieristico vi sia l’ipercoinvolgimento emotivo, con il rischio di danneggiare il proprioequilibrio interno. Mettersi in gioco anche sul piano emotivo è utile affinché si crei unarelazione significativa ma ciò non significa sentire dentro di sé il dolore dell’altro, sarebbeun’esperienza insostenibile, soprattutto perché le persone di cui avere cura sono tante. Cosìdiceva Amleto all’amico Orazio “ Tu sei sempre stato uno che tutto sopportando nullasubisce: e con pari animo accoglie i favori e gli schiaffi della fortuna (…) Mostrami unuomo che non sia schiavo delle passioni e me lo porterò chiuso nell’intimo del cuore”.,dando valore alla padronanza di sé, ossia la capac<strong>it</strong>à di resistere alle tempeste emotivecausate, in amb<strong>it</strong>o san<strong>it</strong>ario, dal contatto quotidiano con il dolore e la sofferenza.L’infermiere rischia di diventare oggetto di veri e propri “sequestri” emozionali, perché ègiusto occuparsi dei bisogni dell’utente, ma anche ascoltare le proprie esigenze, i propri48 P. Bowden: “ Caring. Gender-Sens<strong>it</strong>ive Ethics” Routledge, London. P.110.49 P. Benner, J. Wrubel The Primacy of Caring. Stress and Coping in Health and Illness, Addison-Wesley Publishing Co. ,Menlo Park (Calif.) p.373.XXXI


isogni e desideri. La capac<strong>it</strong>à di prendersi cura richiede un faticoso lavoro dielaborazione dei propri vissuti emotivi, fin nelle pieghe più oscure di essi, per impararenon solo a tollerare il carico emotivo del lavoro di cura, ma anche a utilizzare i proprisentimenti per meglio comprendere l’esperienza e trovare direzioni di senso del proprioagire 50 . Winnicott r<strong>it</strong>iene che la possibil<strong>it</strong>à di imparare ad avere cura di sé siaproporzionale al tasso di “ buona cura” ricevuta nei primi anni di v<strong>it</strong>a 51 . Sentirsi“manipolati” con cura permette al bambino di godere la continu<strong>it</strong>à del proprio essere.Quando invece si provoca un disagio corporeo, s’interrompe la percezione del piacere diessere e si possono procurare esperienze di dolore che rimangono impresse nella carne.Poiché l’essere umano è un’un<strong>it</strong>à inscindibile di corpo e mente, un buon accudimento delcorpo facil<strong>it</strong>a un buon sviluppo cogn<strong>it</strong>ivo ed emozionale. Sono tante le emozioni cheaccompagnano il lavoro di cura, emozioni e sentimenti soppressi e sottovalutati che finefanno? Questa negazione o rimozione non ammette spazio ai sentimenti, non dà voce alleemozioni, non attribuisce significato a una parte importante dei comp<strong>it</strong>i professionali e,soprattutto, alle proprie risorse emotive. Può essere molto pericoloso, per il lavoro di cura,essere invest<strong>it</strong>i da sentimenti soffocati o ignorati o mal governati, piuttosto che assumerneconsapevolezza. Non riconoscerli e non nominarli può far credere di tenerli sotto controllo,ma porta certamente a manifestarli in forme non sempre corrette o compatibili con lefunzioni professionali e, soprattutto, con le proprie risorse emotive. 52 Il rischio di un“analfabetismo emotivo”, negato o rimosso con più o meno arroganza, impone i suoi lim<strong>it</strong>ie le sue gravi insufficienze proprio in quei contesti in cui sarebbe necessario comprenderele emozioni dell’altro e saper esprimere le proprie, per non restare paralizzati daincomprensibili problemi di comunicazione, o per non liquidarli ai dannidell’interlocutore. 53 Nella relazione di cura la gestione dei sentimenti diventa una dellecose più necessarie, l’operatore va supportato. Abbandonato a se stesso, è spesso privo dirisorse per fronteggiare da solo il rischio dovuto ad un’ emotiv<strong>it</strong>à mal trattata .50 L. Mortari: “La pratica dell’aver cura” 2006, p.7051 Winnicot, Donald W. “I Bambini e le loro madri” , Raffaello, Cortina, Milano, 1987,p.5.52 V.Iori: “Emozioni e Sentimenti nel lavoro educativo e sociale”, 2003, p.207.53 C. Calmieri, “La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’edu<strong>care</strong>” 2000.XXXII


4.2.2. IL BURN-OUTDEFINIZIONE E STORIA DEL TERMINEIl termine “burn-out” fu coniato per la prima volta nel 1974 da Herbert J. Freudenberger inun articolo pubblicato sul Journal of Social Issues dal t<strong>it</strong>olo “ Staff e burn-out”, in cuiveniva descr<strong>it</strong>to l’esaurimento fisico ed emotivo sperimentato dagli operatori di unaist<strong>it</strong>uzione psichiatrica. Qualche anno più tardi Freudenberger definì il burn-out uno “ statodi fatica o di frustrazione nato dalla devozione ad una causa, da uno stile di v<strong>it</strong>a, da unarelazione che ha mancato di produrre la ricompensa attesa”. Nel 1976 Christina Maslachdescrisse il burn-out come “la perd<strong>it</strong>a d’interesse per la gente con cui si lavora” ovvero latendenza a trattare i pazienti in modo distaccato e meccanico quando le richieste di lavorodiventano eccessive. L’anno successivo – in una relazione presentata al Convegno dellaAssociazione Psicologi Americani ed in un articolo dal t<strong>it</strong>olo “ The Burn-out sindrome inthe day <strong>care</strong> settino”- l’Autrice definì il “burn-out” come una condizione in cui, dopo mesio anni d’impegno generoso, gli operatori si “bruciano”, manifestando un atteggiamento dinervosismo, di irrequietezza o di apatia ed indifferenza fino al cinismo. Il burn-outcominciò così a delinearsi come una risposta emotiva ad uno stress cronico caratterizzatoda tre componenti: “esaurimento emotivo”, “mancata realizzazione personale”, e“depersonalizzazione”. Cherniss, pur condividendo l’idea che il burn-out fosse lo stato diesaurimento emotivo relativo ad un sovraccarico e una malattia da eccesso d’impegno,r<strong>it</strong>enne che tale definizione fosse parziale e insoddisfacente. Egli definì il burn-out come“una r<strong>it</strong>irata psicologica dal lavoro in risposta ad un eccessivo stress o insoddisfazione conperd<strong>it</strong>a dell’entusiasmo, dell’interesse e del senso di responsabil<strong>it</strong>à. Il burn-out sarebbe, indefin<strong>it</strong>iva, un processo transazionale che consiste in stress lavorativo, esaurimentodell’operatore e accomodamento psicologico. Un operatore precedentemente impegnato sidisimpegna dal proprio lavoro in risposta allo stress e alla tensione sperimentata. ChernissXXXIII


quindi propone un modello di burn-out a tre fasi: lo stress, la risposta emotiva e laconclusione difensiva. 54 Molti altri si sono occupati di definire il burn-out, ma nel 1982Perlman e Hartman, dopo aver esaminato tutta la letteratura inerente il burn-out dal 1974al 1980, giunsero a darne una definizione che tenta una sintesi delle precedenti: esso è unarisposta ad uno stress emotivo cronico caratterizzato da tre componenti: esaurimentoemotivo o fisico, ridotta produttiv<strong>it</strong>à sul lavoro, spersonalizzazione. Nella traduzione<strong>it</strong>aliana del termine si parla di operatore “cortocircu<strong>it</strong>ato”, “usurato”, o più spesso fuso obruciato – esprime con una metafora efficace l’esaurimento dell’operatore e il suocedimento psicofisico, all’interno dell’attiv<strong>it</strong>à lavorativa quotidiana. Prostrazione esvuotamento, che si esprimono sì a livello fisico, ma in particolare, ci interessano i risvoltiemotivi legati al contatto ripetuto con la sofferenza.FATTORI PSICOLOGICI PREDISPONENTI (CARATTERISTICHE DIPERSONALITA’)L’ approccio clinico al burn-out non può prescindere, come vedremo, dall’ analisi puntualedella personal<strong>it</strong>à del soggetto, del suo modo di essere e di rapportarsi a se stesso e agli altri,del suo stile di v<strong>it</strong>a. 55 Si intende per personal<strong>it</strong>à “L’ espressione sempre più compiutadell’individuo nelle sue componenti morfologiche e fisiologiche, intellettive, cogn<strong>it</strong>ive,vol<strong>it</strong>ive, affettive e sociali, componenti che sono irripetibili nelle loro caratteristichesoggettive.” ( R. Zonta, 1998 ). Il problema va ricercato anche nella molteplic<strong>it</strong>à emutevolezza della richieste e degli stimoli che ci provengono dall’esterno, cui non sempresi riesce a rispondere in termini pos<strong>it</strong>ivi. E’ la capac<strong>it</strong>à di adattamento individuale cheviene ad essere sollec<strong>it</strong>ata di continuo. E il burn-out può esprimere senz’altro, in moltecircostanze, questa difficoltà a un continuo adattamento e riadattamento. Si r<strong>it</strong>iene infattiche in un contesto, come quello delle helping profession, carico di tensioni e fonti di stress:anche quando si lavora nelle migliori condizioni possibili, la natura stessa del lavorocomporta un carico emotivo che può favorire l’insorgenza di una condizione di disagiopsicologico. Nel burn-out esiste la difficoltà di misurarsi con le proprie emozioni e quindi54 M.L. Bellini,G. Marasso, D. Amadori, W. Orrù, L. Grassi, P.G. Casali, P. Bruzzi: “Psicooncologia”p.1042-1044.55 F. Pellegrino:” Oltre lo Stress: burn-out o logorio professionale?”, 2006, p.1.XXXIV


il non riconoscimento del problema con conseguente sentimento di rassegnazione rispettoalla v<strong>it</strong>a. E’ questo un modo o meglio un tipo di difesa che consente di attenuare lasofferenza: spesso si sente dire dagli operatori “così è la v<strong>it</strong>a”, uno slogan questo cheinsinua, a lungo andare, in queste persone l’idea che il modo in cui vanno le cose in questotipo di lavoro è il modo in cui vanno le cose in tutti i lavori! Non c’è soluzione! Occorreprovare ad ascoltarsi, a guardarsi dentro, a recuperare dentro di sé la motivazione e lapropria capac<strong>it</strong>à di alimentare i desideri. Di fronte alle macerie dei propri ideali è quasi“normale” sentire il peso del fallimento. 56 Tra i fattori predisponesti, di cui occuperemo inparticolare, sono i fattori personali o individuali.Alcuni tratti di personal<strong>it</strong>à sembrano aumentare la vulnerabil<strong>it</strong>à al burn-out emotivo. Inuno studio condotto da McCraine nel 1988 57 , emersero alcune caratteristiche che rendonol’individuo più fragile e soggetto all’insorgenza del burn-out :- bassa autostima- senso d’inadeguatezza- disforia- preoccupazione eccessiva- passiv<strong>it</strong>à- ansietà sociale- isolamento dagli altri.Anche C. Maslach ha provato a definire un tipo di personal<strong>it</strong>à a rischio di burn-out:Persona debole e non assertiva nel trattare con la gente; è un soggetto sottomesso,ansioso, teme il coinvolgimento, ha difficoltà nel definire i lim<strong>it</strong>i nell’amb<strong>it</strong>o dellarelazione d’aiuto. Questa persona è spesso incapace di eserc<strong>it</strong>are un controllo sullas<strong>it</strong>uazione e si rassegna passivamente alle richieste che essa gli pone anziché lim<strong>it</strong>arle allapropria capac<strong>it</strong>à di dare (…). 58 Contesti che richiedono oltre ad iniziativa personale,fiducia in se stessi, impegno, forte assunzione di responsabil<strong>it</strong>à, creativ<strong>it</strong>à ma soprattutto lagestione di s<strong>it</strong>uazioni a forte impatto emotivo, rappresentano s<strong>it</strong>uazioni in cui il vissutosoggettivo ( percezione del lavoro e sofferenza che ne consegue) assume una particolare56 M.Bernardi, A. Condolf: “Psicologia per l’operatore sociale”, 1998, p.76.57 E.W. McCraine, J.M. Brandsma: “ Personal<strong>it</strong>y Antecedents of Burnout among MiddleagedPhysicians”, Journal of Human Stress, 1988, p. 30-36.58 C.Maslach: “ La Sindrome del Burnout, il prezzo dell’aiuto agli altri” C<strong>it</strong>tadella ed<strong>it</strong>rice, 1992.XXXV


ilevanza. Alcuni soggetti tendono ad attribuire al lavoro significati personali, legati alledinamiche di personal<strong>it</strong>à, che possono compromettere l’efficacia individuale. KarenHorney 59 ha tracciato alcune modal<strong>it</strong>à di base di tipo disadattivo descrivendoledettagliatamente. Vi sono i tipi espansivi, soggetti che ipervalutano l’attiv<strong>it</strong>à professionale,non accettano cr<strong>it</strong>iche e non accettano il lavoro altrui, tendendo a sottovalutare le difficoltàe, se narcisisti , mostrano un rifiuto pregiudizievole nell’ammettere che esistono lim<strong>it</strong>i alleloro possibil<strong>it</strong>à, non riescono a sentirsi uguali agli altri, sono incapaci di compiere sforziaffettivi, hanno una bassa tolleranza alle frustrazioni e possono cedere di fronte alle primedifficoltà. L’arrogante-rivendicativo che appare dominato dalla passione per il lavoro,tuttavia è inconcludente, sterile, può apparire un lavoratore prodigioso ma nella realtà deifatti non riesce ad apportare seri contributi personali. Nelle s<strong>it</strong>uazioni serie non regge, silascia dominare dal panico. Al contrario delle figure espansive, vi è il tipo remissivo mirain basso, potrebbe rendere molto ma sul lavoro appare dominato da un ossessionantesentimento d’impotenza e futil<strong>it</strong>à, tende a soddisfare le esigenze di tutti e a disperdere leenergie. C’è poi il tipo rinunciatario , colui che si accontenta di poco, il suo più grandeostacolo è cost<strong>it</strong>u<strong>it</strong>o dall’inerzia, ma è un’inerzia generale, che pervade gli aspetti globalidella v<strong>it</strong>a; si tratta di persone difficili da stimolare e da motivare. Tali caratteristiche dipersonal<strong>it</strong>à comportano uno spreco di energie umane, lim<strong>it</strong>ano l’approccio interpersonale ecreano s<strong>it</strong>uazioni complesse nei gruppi di lavoro.Un altro fattore che incide profondamente sulla vulnerabil<strong>it</strong>à al burn-out è lo stile diattribuzione causale: gli individui infatti possono tendere ad attribuire le cause dei proprisuccessi o insuccessi, e degli eventi in genere, prevalentemente a fattori esterni o interni.L’attribuzione delle cause di eventi, risultati e successi personali ad altri, alle circostanze oal caso ( locus of control esterno), piuttosto che alle proprie abil<strong>it</strong>à, ai propri sforzi eall’impegno personale (locus of control interno), si rivela maggiormente correlataall’insorgenza di burn-out ( Maslach, Schaufeli e Le<strong>it</strong>er 2001).59 K.Horney: “ Nevrosi e sviluppo della personal<strong>it</strong>à”, Casa ed<strong>it</strong>rice Astrolabio-Ubaldini, Roma,1981.XXXVI


4.2.3 ACCENNI LEGISLATIVILa legislazione <strong>it</strong>aliana, sino a non molto tempo fa, non aveva previsto articoli chedisciplinavano i cosiddetti “ danni emozionali” come avviene ad esempio negli Stati Un<strong>it</strong>i.Accenni sono all’interno della Cost<strong>it</strong>uzione <strong>it</strong>aliana ad esempio nell’Art. 32 e inosservanza all’ Art. 2087 del Codice Civile, rispetto agli obblighi del datore di lavoro, c’èquello di assicurare livelli organizzativi adeguati e garanti della tutela psicofisica delprestatore d’opera. Altri organi e in primis l’ INAIL, 60 – possono inviare ispettori presso leaziende e chiedere l’intervento di esperti per la codifica delle condizioni lavorative,esaminare e valutare le responsabil<strong>it</strong>à dell’azienda e le patologie evidenziate daldipendente. 61 Questo organismo fornisce, in base ad un testo unico, secondo il D.P.R 30giugno 1965 n.1124, un’indenn<strong>it</strong>à o una rend<strong>it</strong>a ai lavoratori che abbiano sub<strong>it</strong>o uninfortunio o abbiano contratto una malattia professionale.Va inoltre rilevato che ilConsiglio di Amministrazione dell’ INAIL nella Delibera. 473 del 26 luglio 2001, hamesso per oggetto le “ Malattie psichiche e psicosomatiche da stress e disagio lavorativo”dando probabilmente spazio al burn-out come malattia professionale. Non esistono peròveri e propri interventi ist<strong>it</strong>uzionalizzati per prevenire ed intervenire direttamente suifenomeni di stress emozionale. Questo chiaramente non significa che certi fenomeni nonesistono, ma che non si manifestano nell’immediato. Con la legge 626/94 e il servizio diPrevenzione e Protezione, e con l’ Un<strong>it</strong>à Operativa di Medicina Preventiva e SorveglianzaSan<strong>it</strong>aria si sta cercando di aumentare il benessere nei luoghi di lavoro e di eliminare ifattori di rischio. Questa attenzione nel caso del personale infermieristico è soprattuttolegata a danni derivanti dalla manipolazione grav<strong>it</strong>azionale e posturale dei pazienti, cheper quanto sia importante per il benessere fisico è irrilevante per il benessere psicologico enon è l’unico fattore di rischio professionale. L’approccio al burn-out comincia a trovare lasua giusta collocazione, come evidenzia il Piano San<strong>it</strong>ario Nazionale 2006-2008,60 INAIL, Direzione Generale, Disturbi psichici da costr<strong>it</strong>tiv<strong>it</strong>à organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato ediagnosi di malattia professionale. Modal<strong>it</strong>à di trattazione delle pratiche. Circolare 71 del17/12/2003.61 F. Pellegrino: “Il burn-out come malattia professionale”, 2004, 45 (2): p.93-98.XXXVII


nell’amb<strong>it</strong>o delle patologie derivanti da rischi psicosociali connessi all’organizzazione dellavoro, ponendosi come malattia professionale emergente. 62 , 63 . Un ulteriore segnale dicambiamento si ha con l’usc<strong>it</strong>a nel Decreto Legislativo 9 Aprile 2008, n. 81. “ Attuazionedell’ articolo 1 della legge 3 Agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e dellasicurezza nei luoghi di lavoro” in cui si precisa – Sezione II “Valutazione dei rischi” Art.28. Oggetto della valutazione dei rischi : La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1,lettera a) precisa che anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o deipreparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deveriguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelliriguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegatiallo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre2004. 64 Tali mutamenti legislativi sono un chiaro segnale di un aumentata sensibil<strong>it</strong>à versosimili problemi e di una rinnovata consapevolezza della loro reale esistenza.62 Ministero del Lavoro e delle Pol<strong>it</strong>iche Sociali, Elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia,Decreto 27 Aprile 2004 ( GU 134, 10/06/2004).63 Ministero della Salute, Piano San<strong>it</strong>ario Nazionale 2006-2008, DPR 7 Aprile 2006 (GU 139, 17/04/2006).64 Supplemento ordinario alla “Gazzetta Ufficiale” n. 101 del 30 aprile 2008.XXXVIII


4.3. PERCHE’ L’INFERMIERE DIVENTA “<strong>SOPRAVVISSUTO</strong>”Può l’infermiere uscire dalla condizione di “v<strong>it</strong>tima” ? Sicuramente questa possibil<strong>it</strong>àesiste. La formazione è senza dubbio l’arma migliore che ha a disposizione. Attraverso laconoscenza e la percezione, il disagio emotivo può essere combattuto. Conoscenza,percezione e successiva elaborazione sono tre condizioni indispensabili al fine della“sopravvivenza” emotiva. La constatazione del burn-out emotivo deve anche essere lettacome un segnale di insofferenza che spinge al cambiamento, come l’occasione perfermarsi, cogliere le ragioni del disagio e riorganizzare la propria v<strong>it</strong>a e l’atteggiamentocomplessivo nei confronti dell’attiv<strong>it</strong>à lavorativa 65 . Diventare consapevoli delle difficoltà esapere che abbiamo i mezzi per affrontarle è senza dubbio di conforto e incoraggiamentocome il miglioramento di caratteristiche fondamentali quali: l’autostima, l’intelligenzaemotiva le capac<strong>it</strong>à empatiche, comunicative e di ascolto. Riuscire a sensibilizzare leist<strong>it</strong>uzioni ospedaliere e coloro che si occupano di attiv<strong>it</strong>à san<strong>it</strong>arie, ma soprattutto renderliconsapevoli dell’esistenza del problema sarebbe un passo nuovo e importante. Unoperatore “rinnovato nell’animo”, che sa di essere persona, avrà un approccio migliore contutto ciò che lo coinvolge e di conseguenza anche con il fru<strong>it</strong>ore finale del suo r<strong>it</strong>rovatobenessere, il paziente. Questo feed-back pos<strong>it</strong>ivo gioverà ad entrambi, attenuando oaddir<strong>it</strong>tura eliminando l’insorgenza della sofferenza emotiva.4.3.1. AUTOSTIMA E SVILUPPO DELLE CAPACITA’ PERSONALIAccade di percepirsi stanchi di tutto e di tutti, si vorrebbe abdi<strong>care</strong> all’esistenza primaancora di qualsiasi valutazione su di essa. La lass<strong>it</strong>udine è quel sentire in cui trovaespressione il rifiuto di esistere, di assumersi l’impegno di dare forma al proprio tempo. Si65 F.Pellegrino: “Oltre lo stress :Burn-out o logorio professionale?”, 2006, p.9.XXXIX


esperisce il sentimento della lass<strong>it</strong>udine quando ci si sente stanchi di sopportare il peso nondi un solo aspetto della v<strong>it</strong>a, ma della v<strong>it</strong>a intera. 66 E’ quindi di primaria importanzacoltivare il desiderio di esistere, di esserci nella propria qual<strong>it</strong>à unica e singolare. Impararead avere cura di sé è imparare la passione per la ricerca di quell’ “arte del vivere” che èessenziale per trovare per la propria esistenza la migliore forma possibile. Diventa perciòindispensabile coltivare la passione per la cura del sé ossia costruire quegli strumenticogn<strong>it</strong>ivi ed emotivi necessari a tracciare con autonomia e con passione il camminodell’esistenza. Avere cura di sé significa assumersi il comp<strong>it</strong>o di dare forma alla propriaesistenza, scartando le occupazioni che farebbero scivolare il tempo della v<strong>it</strong>anell’insensatezza. 67 E’ importante imparare a conoscere se stessi, perché “ senza sapere chisiamo non potremmo conoscere l’arte che ci rende migliori (…) La saggezza consiste nelconoscere sé stessi(…) e conoscere sé stessi significa conoscere la propria anima” (Platone, Alcibiade primo, 127e). Diventa pertanto di grande importanza e rappresenta unanecess<strong>it</strong>à umana fondamentale lo sviluppo di una buona autostima. L’ autostima èl’immagine che ognuno ha di sé, che si costruisce sin dall’infanzia che è la risultante divari fattori. Rappresenta dunque una valutazione del concetto di sé, una reazione emotivache le persone sperimentano quando osservano e valutano se stesse, collegata alle credenzepersonali circa le abil<strong>it</strong>à, le capac<strong>it</strong>à, i rapporti sociali, e i risultati futuri. Essa comprendedunque un aspetto cogn<strong>it</strong>ivo ( le opinioni che ognuno ha di sé), un aspetto emotivo ( cosa lapersona prova nei propri confronti), e un aspetto comportamentale ( come la persona sicomporta nei suoi riguardi) 68 . Essa è un processo, un modo di relazionarsi con la realtà erappresenta anche un filtro attraverso il quale la si interpreta. L’autostima ha notevoliripercussioni su molti amb<strong>it</strong>i della v<strong>it</strong>a, su come ci si presenta e si interagisce, sulla scelta esulla realizzazione degli obbiettivi, sulle reazioni agli eventi pos<strong>it</strong>ivi o negativi. Essa èdunque di fondamentale importanza per la salute psicologica ed è strettamente connessaad altri concetti quali l’autoefficacia, l’assertiv<strong>it</strong>à, il senso di colpa. Molti fattori sonoimplicati nel processo di formazione dell’autostima, fattori interni che riguardano glischemi cogn<strong>it</strong>ivi della persona, la sua visione della realtà e di se stessa, e fattori esternidovuti all’ambiente che ci circonda e dai contatti con le altre persone. L’autostima èdunque un concetto dinamico, continua a modificarsi nel tempo, ad alimentarsi attraverso66 E.Lèvinas : “ Dall’ esistenza all’esistente”, trad. <strong>it</strong>., Marietti, Genova , 1997. p.19.67 L.Mortari: “La pratica dell’aver cura”, 2006, p. 11-13.68 M. Strocchi: “Autostima- Se non ami te stesso, chi ti amerà?”, 2003.XL


le esperienze di v<strong>it</strong>a, i feedback ricevuti e il modo in cui tutto viene vissuto e percep<strong>it</strong>o.L’individuo infatti sviluppa un’idea di sé sulla base di come viene trattato o giudicato daglialtri che fanno da “specchio”: l’immagine che rimandano, diventa pian piano ciò chel’individuo pensa di se stesso. 69 Altra definizione dell’autostima è quella portata dal James,autostima vista come il rapporto tra il Sé Percep<strong>it</strong>o di una persona e il suo Sé Ideale : il SéPercep<strong>it</strong>o equivale al concetto di sé, alla conoscenza di quelle abil<strong>it</strong>à, caratteristiche equal<strong>it</strong>à che sono presenti o assenti; mentre il Sé Ideale è l’immagine della persona che sivorrebbe essere. Secondo James una persona sperimenterà una bassa autostima se il SéPercep<strong>it</strong>o non riesce a raggiungere il livello del Sé ideale. L’ampiezza della discrepanza tracome ci si vede e come si vorrebbe essere è infatti un segno importante del grado in cui si èsoddisfatti di se stessi. Purtroppo la diffusa culturadi “analfabetismo affettivo”contribuisce a rendere gli operatori della salute meno consapevoli dei propri bisogni,incapaci di esplic<strong>it</strong>arli, di tradurli in richiesta e quindi anche di raggiungere quellaconsapevolezza necessaria per progettare se stessi. Per produrre il recupero diprogettual<strong>it</strong>à, a partire da una condizione svantaggiosa, occorre sostenere l’infermiere ariconoscere il proprio valore, potenziando la sua capac<strong>it</strong>à di autostima.L’ essenza dell’autostima quindi è fidarsi della propria mente e sapere di mer<strong>it</strong>are lafelic<strong>it</strong>à. Se ci fidiamo della nostra mente e del nostro giudizio, è più probabile cheoperiamo come un essere pensante. Eserc<strong>it</strong>ando le nostre capac<strong>it</strong>à di pensare, mettiamo lagiusta consapevolezza in quello che facciamo e la nostra v<strong>it</strong>a funziona meglio. Tutto ciòrafforza la fiducia nella nostra mente, se tale fiducia venisse meno ci renderebbe piùpassivi, meno consapevoli e perciò meno perseveranti di fronte alle difficoltà. Il lavorodella stima di sé non sta solo nel fatto che ci permette di sentirci meglio, ma che cipermette di vivere meglio, di reagire alle sfide e alle opportun<strong>it</strong>à in modo più appropriato edi sfruttare a pieno le nostre risorse. Il livello di autostima ha profonde conseguenze suogni aspetto della nostra v<strong>it</strong>a: ad esempio sul modo di operare nel lavoro, di rapportarcicon i colleghi e con i pazienti. Una “sana” stima di sé porta alla razional<strong>it</strong>à, al realismo,all’intu<strong>it</strong>o, alla creativ<strong>it</strong>à, all’indipendenza, alla flessibil<strong>it</strong>à, alla capac<strong>it</strong>à di gestire icambiamenti, al desiderio di ammettere e correggere gli errori, alla benevolenza e allacooperazione. 70 Date tali premesse si evince come sia importante, ai fini di una buonaautostima, sviluppare altre caratteristiche quali l’assertiv<strong>it</strong>à e l’autoefficacia percep<strong>it</strong>a, una69 D.Francescano, E.Giusti: “Empowerment e Clinica” Edizioni Kappa, 1999.70 N.Branden: “ I Sei Pilastri dell’Autostima" 1994,p.21XLI


uona capac<strong>it</strong>à creativa e la resilienza. In termini più pratici, questi concetti,, chesottendono le potenzial<strong>it</strong>à espressive della persona matura, connotano l’operatore, di unpervasivo senso di responsabil<strong>it</strong>à che lo porta ad essere identificato sempre di più comelavoratore della conoscenza, persona che gestisce informazioni, idee, abil<strong>it</strong>à(L.Edvinsson).L’ASSERTIVITA’E’ un termine che proviene dal latino, asserere, che significa asserire, cioè affermare conconvinzione e tenacia. Per definire il comportamento assertivo, lo si può immaginare comeil punto centrale di un continuum che presenta, alle due estrem<strong>it</strong>à, il comportamentoaggressivo e quello passivo. 71 Come comportamento passivo s’intende quello di unapersona che mette da parte le proprie esigenze, i propri dir<strong>it</strong>ti, subisce le s<strong>it</strong>uazioni senzaapparenti reazioni. Il comportamento aggressivo appartiene alla persona che cerca di farein modo che le proprie esigenze ed i propri dir<strong>it</strong>ti vengano soddisfatti ad ogni costo, senzatenere in considerazione le opinioni e le necess<strong>it</strong>à altrui. Il comportamento assertivoappartiene a colui che considera importanti le proprie esigenze, i propri dir<strong>it</strong>ti, bisogni edesideri e cerca di soddisfarli. Riconosce le proprie e le altrui libertà, non si facondizionare da pregiudizi e da influenze ambientali. L’assertiv<strong>it</strong>à è dunque la capac<strong>it</strong>àd’identifi<strong>care</strong> ed esprimere i propri bisogni e i propri dir<strong>it</strong>ti, le proprie sensazioni pos<strong>it</strong>ive onegative, comuni<strong>care</strong> in modo aperto, onesto, diretto, senza violare i dir<strong>it</strong>ti ed i lim<strong>it</strong>i altrui.Comportarsi in maniera assertiva vuol dire apprezzarsi per ciò che si è, riconoscendo anchei propri lim<strong>it</strong>i, avere stima di se stessi, assumersi la responsabil<strong>it</strong>à delle proprie scelte div<strong>it</strong>a. 72 Per sviluppare un giusto processo assertivo serve accrescere alcuni principi quali: laconsapevolezza, l’attenzione, l’autostima, la reciproc<strong>it</strong>à e la fiducia.- La consapevolezza è l’elemento fondamentale per creare quel meraviglioso processoche è la comunicazione assertiva. La consapevolezza sottende al principio che ognunocomunica ciò che sa e ciò che è.71 E.Giusti: “Training dell’assertiv<strong>it</strong>à – mai dire sì quando si vorrebbe dire no!” Sovera Edizioni , 1992.72 B. Celani : “Counseling Psicologico e Autostima” art. http://psicologia.piùchepuoi.<strong>it</strong> (2009).XLII


- L’attenzione è intesa come essere attenti nella comunicazione; in questo caso l’attenzionepuò essere anche indirizzata sui propri comportamenti nella relazione, o dell’osservazionedell’altro o dell’ambiente più allargato.- L’autostima permette di avere fiducia in noi stessi, d’essere efficaci nelle relazioniinterpersonali . Corrisponde alla misura con la quale una persona si accetta e si approva.-La reciproc<strong>it</strong>à, la capac<strong>it</strong>à di concentrarsi comunicando le propri idee agli altri, cipermetterà di realizzare i nostri progetti condividendoli con gli altri, sviluppandoriconoscimento e sentimenti di accettazione reciproca.- La fiducia pone le basi per sviluppare un progetto con un’altra persona e attivare queisentimenti di reciproc<strong>it</strong>à e accettazione esposti prima. 73In sintesi, si può dire che l’assertiv<strong>it</strong>à, tenendo presenti i propri obiettivi ed interessi, è lamanifestazione più immediata e diretta di emozioni, sentimenti, esigenze e convinzionipersonali. (Giannantonio- Boldorini, 2007).L’ AUTOEFFICACIA PERCEPITAIl concetto di autoefficacia (self-efficacy) si deve a Bandura e può essere defin<strong>it</strong>o come laconvinzione personale di poter eseguire con successo i comportamenti richiesti in una datas<strong>it</strong>uazione o di produrre determinati conseguimenti. L’ autoefficacia percep<strong>it</strong>a influenza gliobbiettivi che il soggetto si pone ed è a sua volta influenzata dalle prestazioni e dalleinterpretazioni passate e presenti. La nozione di autoefficacia si fonda sulla stima chel’individuo a delle sue abil<strong>it</strong>à di riuscire in un determinato comp<strong>it</strong>o e si forma anche inbase a previe esperienze di successo e all’osservazione di comportamenti altrui (esperienzavicaria). Una valutazione ragionevolmente accurata delle proprie capac<strong>it</strong>à svolge un ruoloimportante nel funzionamento di successo. Anzi, i giudizi di efficacia più funzionali sonoprobabilmente quelli che eccedono leggermente ciò che si è in grado di fare. Taliautovalutazioni conducono le persone ad intraprendere comp<strong>it</strong>i realisticamente stimolanti eforniscono la motivazione per il progressivo auto-sviluppo delle proprie capac<strong>it</strong>à. 7473 D. Di Lauro: “L’Assertiv<strong>it</strong>à- comuni<strong>care</strong> in modo chiaro ed efficace”, 2008, p.11-16.74 E. Giusti, A. Testi: “L’Autoefficacia-vincere quasi sempre con le 3 A” 2006.XLIII


Bandura r<strong>it</strong>iene, infatti, che un’irrealistica stima dell’auto-efficacia conduce spesso alsuccesso, mentre il deprezzamento delle proprie abil<strong>it</strong>à da parte del soggetto predice l’es<strong>it</strong>onegativo. 75LA CREATIVITA’Il verbo <strong>it</strong>aliano creare, al quale sostantivo creativ<strong>it</strong>à rimanda, deriva dal creare latino, checondivide con “crescere” la radice KAR. In sanc<strong>it</strong>o, KAR-TR è colui che fa (dal niente), ilcreatore. Tra le moltissime definizioni di creativ<strong>it</strong>à che sono state coniate si segnala, per lasua semplic<strong>it</strong>à e precisione, quella forn<strong>it</strong>a dal matematico Henri Poincarè: “ Creativ<strong>it</strong>à èunire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili”. 76 Nuovo e utile illustranoadeguatamente l’essenza dell’atto creativo: un superamento delle regole esistenti (il nuovo)che ist<strong>it</strong>uisca una ulteriore regola condivisa (l’utile). Caratteristiche della personal<strong>it</strong>àcreativa sono curios<strong>it</strong>à, bisogno d’ordine e di successo ( ma non inteso in terminieconomici), indipendenza, spir<strong>it</strong>o cr<strong>it</strong>ico, insoddisfazione, autodisciplina. La creativ<strong>it</strong>à nonè esclusivo appannaggio di pochi fortunati individui, ma è una qual<strong>it</strong>à presente in ogniessere umano, a prescindere da quale sia la sua cultura, il suo lavoro. La creativ<strong>it</strong>à sidefinisce la capac<strong>it</strong>à di attivare funzioni in grado di ottenere l’adattamento alla realtà: sottola pressione della frustrazione si tratta di inventare scenari in cui la gratificazione siaottenuta nella fantasia o di inventare azioni e concatenazioni di azioni che riguardinooggetti umani o inanimati. 77 La Klein è dello stesso avviso per cui a mettere in moto iprocessi creativi sarebbe dunque una mancanza, una sofferenza a cui rimediare per tornaread una s<strong>it</strong>uazione di equilibrio che sia stata alterata. Per Winnicott, invece, lo stimolo acreare e le modal<strong>it</strong>à stesse in cui la creazione è concep<strong>it</strong>a non traggono origine da unas<strong>it</strong>uazione di frustrazione né di angoscia per un oggetto danneggiato da riparare, maappaiono come il prodotto di una motivazione autonoma, una delle tendenze in cui lafilogenesi ha dotato gli esseri umani, che trova nelle prime relazioni che accompagnano lo75 A. Bandura: “L’autoefficacia. Teoria e applicazioni” 2000.76 Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.77 http//www.lucazucconi.<strong>it</strong> “Psicologia Oggi” Aprile 2007.XLIV


sviluppo l’occasione per manifestarsi. 78 Le caratteristiche peculiari della persona creativasono le capac<strong>it</strong>à di un incontro autentico con la realtà, il possesso di una notevole forzapsicologica sufficiente ad una distaccata immedesimazione con la stessa ( sa guardare a sestesso nelle s<strong>it</strong>uazioni reali come se vedesse una terza persona), rivivendola eassorbendone le forze di v<strong>it</strong>a grazie ad una particolare sensibil<strong>it</strong>à, altro tratto caratteristicodei creativi, ma inconscia il più delle volte. Vivere per la persona creativa è espandere almassimo tutte le capac<strong>it</strong>à dell’Io nella loro massima valorizzazione.Questo è vero in modoparticolare per quei creativi con massima apertura alle esperienze della v<strong>it</strong>a, chepossiedono molta sicurezza interiore e una struttura cogn<strong>it</strong>iva molto plastica sia per quantoriguarda i concetti, le percezioni sia per le ipotesi. Tollera le ambigu<strong>it</strong>à e le informazionicontrastanti e mai adotta posizioni cristallizzate. Grazie ad una personal<strong>it</strong>à forte e allacapac<strong>it</strong>à di giudizio indipendente approda alla libertà intellettuale non comune checonsente accostamenti inusuali di idee. 79LA RESILIENZALa resilienza assume diverse significati in base al contesto in cui è inser<strong>it</strong>a. In psicologiaviene vista come la capac<strong>it</strong>à dell’uomo di affrontare e superare le avvers<strong>it</strong>à della v<strong>it</strong>a.Andrea Canevaro definisce la resilienza come “la capac<strong>it</strong>à non tanto di resistere alledeformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni diconoscenza ampia, scoprendo uno spazio al di là di quello delle invasioni, scoprendo unadimensione che renda possibile la propria struttura”. 80 La resilienza è la capac<strong>it</strong>à di farfronte in maniera pos<strong>it</strong>iva ad eventi traumatici, di riorganizzare pos<strong>it</strong>ivamente la propriav<strong>it</strong>a dinanzi alle difficoltà. E’ la capac<strong>it</strong>à di ricostruirsi restando sensibili alle opportun<strong>it</strong>à78 A.Gennaro, G. Bucalo: “ La Personal<strong>it</strong>à creativa”, 2006, p. 8-10.79 R. Ferraresi: “La Persona Creativa- Chi è?”, htt//www.arte<strong>it</strong>, 2009.80 A. Canevaro, A. Malaguti, A. Mozzo, C. Venier ( a cura di), “ Bambini che sopravvivono alla guerra”,2001.XLV


pos<strong>it</strong>ive che la v<strong>it</strong>a offre, senza perdere la propria uman<strong>it</strong>à. Persone resilienti sono coloroche immerse in circostanze avverse riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogniprevisione, a fronteggiare con efficacia le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propriaesistenza e a raggiungere mete importanti. Si può concepire la resilienza come unafunzione psichica che si modifica nel tempo in rapporto con l’esperienza, i vissuti e,soprattutto, con il modificarsi dei meccanismi mentali che la sottendono. Non è solosopravvivere a tutti i costi, ma avere la capac<strong>it</strong>à di usare l’esperienza nata da s<strong>it</strong>uazionidifficili per costruire il futuro. Le caratteristiche della resilienza sono sette:- “insight” o introspezione: la capac<strong>it</strong>à di esaminare sé stesso, farsi le domandedifficili e rispondersi con sincer<strong>it</strong>à.- Indipendenza: la capac<strong>it</strong>à di mantenersi a una certa distanza, fisica e emozionale,dai problemi, ma senza isolarsi.- Interazione: la capac<strong>it</strong>à per stabilire rapporti intimi e soddisfacenti con altrepersone.- Iniziativa: la capac<strong>it</strong>à di affrontare i problemi, capirli e riuscire a controllarli.- Creativ<strong>it</strong>à: la capac<strong>it</strong>à per creare ordine, bellezza e obbiettivi partendo dal caos edal disordine.- Allegria: disposizione dello spir<strong>it</strong>o all’allegria, ci permette di allontanarci dal puntofocale della tensione, relativizzare e pos<strong>it</strong>ivizzare gli avvenimenti che cicolpiscono.- Morale: si riferisce a tutti i valori accettati da una società in un’epoca determinata eche ogni persona interiorizza nel corso della sua v<strong>it</strong>a. 8181 A. Fiorentini: “ La Resilienza” htt://www.<strong>it</strong>aly-news.net, 2009.XLVI


In quest’ottica il trauma, rappresenta una sfida che mobil<strong>it</strong>à le proprie risorse interne, oltreche quelle socioculturali dell’ambiente circostante: non ci si può esimere dall’accettare talesfida, perché la v<strong>it</strong>toria rappresenta il raggiungimento di un equilibrio nuovo e superiore,rispetto a quello da cui si era part<strong>it</strong>i.4.3.2. INTELLIGENZA EMOTIVADEFINIZIONE DEL TERMINE INTELLIGENZASpearman (1971) r<strong>it</strong>iene che esista un’intelligenza generale, che comprende varieprestazioni di pensiero, ragionamento, abil<strong>it</strong>à verbali e numeriche, e una serie più o menonumerosa di fattori specifici, legati all’esecuzione di comp<strong>it</strong>i particolari (come ad esempiol’abil<strong>it</strong>à ortografica). Una delle definizioni più esaurienti d’intelligenza ci è data da Piaget(1947-1970), secondo il quale una delle funzioni chiave dell’intelligenza è generare laprevisione, cioè produrre l’anticipazione del cambiamento e quindi l’azione costruttiva perrealizzarlo o annullarlo. L’intelligenza è comunque il risultato di abil<strong>it</strong>à strettamentecogn<strong>it</strong>ive, quali capac<strong>it</strong>à logiche, di ragionamento, memoria, combinate a tratti dipersonal<strong>it</strong>à e altri aspetti non intellettivi quali la concentrazione, la perseveranza, l’ansia,l’entusiasmo, il controllo degli impulsi e la consapevolezza dei fini che influiscono sulleprestazioni; tali tratti sono in gran parte indipendenti da qualsiasi abil<strong>it</strong>à intellettivaspecifica. Per questa ragione essi sono più propriamente indicati come fattori nonintellettivi dell’intelligenza. E’ così possibile parlare di: intelligenza verbale, intelligenzasociale e intelligenza emotiva, con la quale ci si riferisce al riconoscimento delle emozionialtrui e al controllo delle proprie. 8282 N. Rossi: “Psicologia clinica per le professioni san<strong>it</strong>arie” , 2004, p. 78-79.XLVII


L’INTELLIGENZA EMOTIVAMolto spesso cap<strong>it</strong>a di avere a che fare con persone capaci e intelligenti, ma che allo stessotempo si possono mostrare arroganti e incapaci nel relazionarsi in maniera cortese ededucata con gli altri. Questi soggetti sono privi di quella che in psicologia è chiamataintelligenza emotiva. L’intelligenza emotiva può essere defin<strong>it</strong>a l’intelligenza del cuore .E’responsabile della nostra autostima, della consapevolezza dei nostri sentimenti, pensieri,emozioni; presiede alla nostra sensibil<strong>it</strong>à, all’adattabil<strong>it</strong>à sociale, all’empatia, allapossibil<strong>it</strong>à di autocontrollo. Essere dotati d’intelligenza emotiva significa riconoscere isentimenti, così da esprimerli in modo appropriato ed efficace. 83 Nel 1994 Daniel Golemanpubblicava “L’intelligenza emotiva”, in questo testo metteva in guardia da una s<strong>it</strong>uazionedi analfabetismo emotivo che si andava profilando negli esseri umani. Goleman non fecealtro che concettualizzare e divulgare in modo comprensibile le ricerche neurofisiologichedi Salovey e Mayer nel 1990, i quali avevano evidenziato le basi anatomico-funzionali cheindicherebbero l’intelligenza emotiva come meta-abil<strong>it</strong>à. Meta-abil<strong>it</strong>à significa che,mediante la gestione dell’esperienza emotiva, essa consente di servirsi di altre capac<strong>it</strong>àsuperiori. Questa capac<strong>it</strong>à è centrale nel processo di adattamento quotidiano ed è alla basedella salute psichica. 84 L’intelligenza emotiva è cost<strong>it</strong>u<strong>it</strong>a da cinque abil<strong>it</strong>à , a loro voltageneratrici di capac<strong>it</strong>à operative che aiutano a comprendere più praticamente l’importanzadella presenza o dell’assenza di ciascuna delle cinque abil<strong>it</strong>à principali:1. Conoscenza delle proprie emozioni. L’autoconsapevolezza - in altre parole lacapac<strong>it</strong>à di riconoscere un sentimento nel momento in cui esso si presenta – è lachiave di volta dell’intelligenza emotiva. Distinguere e denominare le proprieemozioni in determinate s<strong>it</strong>uazioni; riconoscere i segnali fisiologici che indicano ilsopraggiungere di un’emozione, comprenderne le cause. La capac<strong>it</strong>à di mon<strong>it</strong>orareistante per istante i sentimenti è fondamentale per la comprensione psicologica di séstessi, mentre l’incapac<strong>it</strong>à di farlo ci lascia alla loro mercè. Le persone molto sicuredei propri sentimenti riescono a gestire molto meglio la propria v<strong>it</strong>a.83 L. Mastronardi Art.“ Psicologia pratica – La rabbia e i suoi effetti” http://www.viveremeglio.org. 2008.84 C.Miliacca Art.”Emozioni e Psicosomatica” http://www.videoconf.<strong>it</strong>/ emozioni o psicosomatica. 2008.XLVIII


2. Controllo delle emozioni. La capac<strong>it</strong>à di controllare i sentimenti in modo che essisiano appropriati si fonda sull’autoconsapevolezza. Il controllo degli impulsi edelle emozioni, dell’aggressiv<strong>it</strong>à rivolta verso gli altri, e soprattutto verso sé stessiev<strong>it</strong>a la perenne battaglia contro sentimenti tormentosi. E’ indispensabile impararea calmarsi, liberarsi dall’ansia, dalla tristezza o dall’irr<strong>it</strong>abil<strong>it</strong>à.3. Motivazione di se stessi. La capac<strong>it</strong>à di dominare le emozioni per raggiungere unobiettivo è una dote essenziale per concentrare l’attenzione, per trovaremotivazione e controllo di sé, come pure ai fini della creativ<strong>it</strong>à. Il controlloemozionale – la capac<strong>it</strong>à di r<strong>it</strong>ardare la gratificazione e di reprimere gli impulsi- èalla base di qualsiasi realizzazione. E’ indispensabile incanalare ed armonizzare leemozioni dirigendole verso il raggiungimento di un obiettivo; reagire attivamenteagli insuccessi e alle frustrazioni.4. Riconoscimento delle emozioni altrui. L’empatia, un’altra capac<strong>it</strong>à basata sullaconsapevolezza delle proprie emozioni, è fondamentale nelle relazioni con gli altri.Riconoscere gli indizi emozionali degli altri; essere sensibili alle emozioni ed allaprospettiva altrui. Le persone empatiche sono più sensibili ai sottili segnali socialiche indicano o i desideri altrui. Questo le rende più adatte a professioni come quelleded<strong>it</strong>e all’assistenza.5. Gestione delle relazioni. L’arte delle relazioni consiste nella capac<strong>it</strong>à di dominarele emozioni altrui. Negoziare i confl<strong>it</strong>ti tendendo alla risoluzione delle s<strong>it</strong>uazioni;comuni<strong>care</strong> efficacemente con gli altri. Coloro che eccellono in queste abil<strong>it</strong>àriescono bene in tutti i campi nei quali è necessario interagire in modo disinvoltocon gli altri. 85E’ naturale che le persone hanno capac<strong>it</strong>à differenti all’interno delle cinque abil<strong>it</strong>àprincipali, è probabile che qualcuno non riesca a controllare benissimo la sua ansia ma cheriesca a comprendere e consolare i turbamenti altrui. Saper utilizzare in modo funzionalenella v<strong>it</strong>a quotidiana queste abil<strong>it</strong>à produce effetti di benessere e successo. Le dimensioniemotive e affettive non sono dunque di “ostacolo” alla professional<strong>it</strong>à, ma sono autenticacompetenza professionale, risorsa per favorire i cambiamenti nelle pratiche sociali e nella85 D .Goleman: “Intelligenza Emotiva”, 1996, p.64-65.XLIX


progettazione dei servizi, per orientarsi nella professione con quell’intelligenza del cuoreche rende significativo il legame tra v<strong>it</strong>a emotiva e v<strong>it</strong>a intellettiva. 864.3.3. EMPATIAAbbiamo visto quanto la capac<strong>it</strong>à empatica sia componente importante dell’intelligenzaemotiva, il relazionarsi con gli altri, ma soprattutto comprendere e sentire le loro emozioni,dare un “peso” un “valore” ai loro sentimenti. All’interno della professione infermieristica,tale risorsa è importante per interagire con il malato, ma lo diventa anche nel rapportocon i colleghi. La condivisione dei momenti difficili della giornata, dei disagi interioririchiede buone capac<strong>it</strong>à di immedesimazione, è un fondersi con l’esperienza altrui che dàforza e ci impedisce di pensare che siamo soli o inadeguati alla professione. Spesso nellacura dell’altro si ha paura di essere fer<strong>it</strong>i e così, a volte, ci si trincera, si alzano barriere perproteggersi dall’incontro e ci si allontana dalla ver<strong>it</strong>à. La relazione “io-tu” diviene quindiluminosa od oscura e lascia entrare o contrasta la sol<strong>it</strong>udine e la con-divisione.(V.Iori2008). Assumerci la capac<strong>it</strong>à di sentire la realtà dell’altro determina quanto sia importantel’empatia. Empatia come co-sentire che consente ad un soggetto di avvertire l’altro nel suoessere proprio. Quando si è capaci di empatia accade che l’esperienza di altri, quindi ciòche non abbiamo vissuto e che non vivremo mai, diventi elemento della nostra esperienza.Ma l’empatia non va concep<strong>it</strong>a come il confondersi totalmente con l’altro “ la proiezionedella propria personal<strong>it</strong>à sulla personal<strong>it</strong>à di un’altra persona per comprenderla meglio;l’identificazione intellettuale di sé stessi con un altro” 87 , ma con l’opera della Stein, siesclude qualsiasi forma di identificazione confusiva con l’altro. Essa definisce l’empatia lacapac<strong>it</strong>à di cogliere l’esperienza vissuta estranea, e concepisce l’ atto di cogliere come unproiettarsi sull’altro ma come accoglienza dell’esperienza estranea. L’altro rimaneestraneo e da me distinto. Empatizzare non significa proiettarsi nell’esperienza altrui, ma86 V. ori, M.Rampazi “ Nuove fragil<strong>it</strong>à e lavoro di cura”, 2008, p.33.87 N. Noddings: “Starting at home. Caring and Social Policy” Univers<strong>it</strong>y of California Press, 2002, p.13.L


insieme: co-sentire. 88 L’empatia perciò non è unipatia (L.Mortari, 2006), deve esserepresente la distinzione tra me, e l’esperienza dell’altro, che io accolgo ma che nonrappresenta comunque un vissuto originario. Dobbiamo perciò essere coscienti che nonsiamo gli attori dell’esperienza originaria dell’altro, anche se abbiamo ben vivo quale sial’essenza del suo vissuto. Il nostro può essere visto come un sentire pensoso. 89 Ci si deveperò allontanare da pensieri di onnipotenza, ci deve essere tolta l’illusione di unacomprensione perfetta del sentire altrui, i pensieri efficaci richiedono sempre una certacapac<strong>it</strong>à di autocr<strong>it</strong>ica. Costruire una relazione in cui dell’altro è salvaguardata latrascendenza significa rinunciare ad ogni forma di potenza e s<strong>it</strong>uarsi “in una passiv<strong>it</strong>à piùpassiva di ogni passiv<strong>it</strong>à” 90 , deve esserci volontà per un ascolto autentico che lasci liberospazio all’unic<strong>it</strong>à dell’altro. Come si accennava all’inizio, all’interno del nostro lavoro èimportante interagire con i colleghi di lavoro per consentirci di elaborare i vissuti e crearequella che viene defin<strong>it</strong>a un’amicizia professionale. In questo tipo di relazione amicale isoggetti coinvolti attivano una comunicazione complessa che si nutre delle esperienzeempatiche di entrambi, cosicché ciascuno, oltre a far risuonare dentro di sè l’esperienzadell’amico, si attiva per rendere empatizzabile la propria esperienza all’altro; ciò permetteuna contemporanea bifocalizzazione dell’attiv<strong>it</strong>à cogn<strong>it</strong>iva, in quanto impegnata sia adesplic<strong>it</strong>are il proprio vissuto ma anche a comprendere quello altrui 91 . Diventa perciòimportante che all’interno delle nostre realtà lavorative si creino e coltivino relazioni diamicizia professionale che facil<strong>it</strong>ino il confronto delle emozioni reciproche.4.3.4. COMUNICAZIONE ED ASCOLTOComunicazione ed ascolto sono intimamente legati fra loro ed acquistano significatoquando è presente anche un coinvolgimento empatico. Al di là dei tecnicismi che richiedela nostra professione è utile fermarsi a riflettere, allargare le nostre conoscenze ed imparare88 E. Stein.: “Il problema dell’empatia”, 1998, p.71-84.89 L.Mortari: “La pratica dell’aver cura” , 2006, p. 120.90 E. Lèvinas : “Altrimenti che essere o Al di là dell’ essenza”, 1991, p.20.91 L. Mortari: “La pratica dell’aver cura”, 2006, p. 121.LI


a comuni<strong>care</strong> in modo efficace i disagi, i sentimenti, le emozioni che sono componentecostante della nostra attiv<strong>it</strong>à quotidiana. La comunicazione è niente se separata dallacapac<strong>it</strong>à di ascoltare e di empatizzare, si parla infatti in questo caso di “ascolto empatico”.Saper comuni<strong>care</strong> in modo adeguato può diventare molto difficile e dare ad<strong>it</strong>o a s<strong>it</strong>uazionidestabilizzanti di forte incomprensione, un incrocio di pensieri spesso pregiudizievoli chedanno poi luogo ad azioni scorrette. Tali s<strong>it</strong>uazioni possono essere ev<strong>it</strong>ate se ad intervenireè la capac<strong>it</strong>à empatica, e per essere empatici bisogna inanz<strong>it</strong>utto imparare ad ascoltare.Stare vicino all’altro con tutto sé stesso, un sé che abbiamo imparato ad accettare perchésolo con questa consapevolezza, che è autoconsapevolezza, siamo in grado di accoglierel’altro. L’ altro inteso come il compagno di lavoro, che condivide ogni giorno con noi isuoi dubbi, i dolori, le incomprensioni, i confl<strong>it</strong>ti che vengono a generarsi nel confrontocon la sofferenza. Viene defin<strong>it</strong>o anche come il bisogno di “fare rete” 92 , renderecondivisibile un sapere, quel sapere che viene dall’esperienza, dando luogo ad una serie discambi informali che rappresentano quei vissuti che sono sostegno essenziale alle fatichequotidiane.LA COMUNICAZIONELa comunicazione è un processo mediante il quale vengono trasmessi messaggi da unsoggetto ad altri. Essa si avvale di linguaggi, che per l’uomo sono rappresentati da unaserie di codici linguistici molto complessi. Dunque il processo del comuni<strong>care</strong> è ilpassaggio di un messaggio da un’Em<strong>it</strong>tente ad un Ricevente: il Ricevente lancia deimessaggi di risposta all’Em<strong>it</strong>tente attraverso il feed-back, cioè quel segnale di r<strong>it</strong>orno chepermette di comprendere quando l’attiv<strong>it</strong>à comunicativa è arrivata a destinazione econsente di prevedere il segu<strong>it</strong>o che la comunicazione avrà. E’ quindi un processo circolareche funziona sulla base di un feed-back reciproco, 93 condizionato dal contesto in cui siesprime e dai canali che si usano. Defin<strong>it</strong>a brevemente la struttura della comunicazione, èpossibile ora vederne modal<strong>it</strong>à e proprietà, che vengono dette da Paul Watzlawick,assiomi. 94 Si tratta di principi semplici, evidenti di per se stessi, che tuttavia hannofondamentali implicazioni interpersonali.92 V. Iori: “Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale”, 2003, p. 227.93 G. Artioli, R. Montanari, A. Saffioti: “Counseling e Professione Infermieristica”, 2004, p.42.94 P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D.Jackson: “Pragmatica della comunicazione umana”. pp.41-42LII


Primo assioma è: “Non si può non comuni<strong>care</strong>”.Watzlawick afferma che non può esistere qualcosa che sia un non-comportamento; tuttinoi, necessariamente, che lo vogliamo o no, mettiamo in atto dei comportamenti. Quindi:“…se si accetta che l’intero comportamento in una s<strong>it</strong>uazione di interazione ha valore dimessaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si puònon comuni<strong>care</strong>”. La comunicazione è il mezzo che ci fa stare in relazione con gli altri,mettendo in comune emozioni, sentimenti, pensieri,esperienze, azioni. Ci regoliamo e cicomportiamo con gli altri in base ai messaggi che ci scambiamo in continuazione e cheinfluenzano reciprocamente il nostro modo di essere e di agire. 95Secondo assioma: “Si comunica sia con il canale verbale che non verbale”Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione, in modo che ilsecondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione. Perciò si intende che unacomunicazione non soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso, impone uncomportamento. Molto spesso è il messaggio di relazione che prende il sopravvento suquello di contenuto. 96 Il canale non verbale è il più potente, attraverso di esso passa il 90%di ciò che vogliamo comuni<strong>care</strong>. E’ il canale che esprime con gesti, tono e inflessione dellavoce, postura e contatto fisico ed oculare, le nostre emozioni, anche le più profonde, chenon riusciamo ad esprimere a parole.Terzo assioma: “ La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze dicomunicazione tra i comunicanti”La “punteggiatura”, cioè l’interpretazione soggettiva che si dà di un messaggio, condizionapesantemente, in realtà, il proprio modo di essere, di autodefinirsi e di rapportarsi con glialtri. Questo assioma indica la necess<strong>it</strong>à di tenere contemporaneamente presente icomportamenti di tutti i comunicanti. Infatti possiamo dire che ogni comportamento di unasequenza è lo stimolo per l’evento che segue e, allo stesso tempo, la risposta o il rinforzoper quello precedente. Così ogni comportamento è causato e causa il comportamento altrui.95 Corso di formazione “Efficacia e cooperazione nella relazione d’aiuto” Padova 10-11 Ottobre 2008.96 M.Bernardi, A. Condolf: ”Psicologia per l’operatore sociale”, 1998, p.105.LIII


Quarto assioma:“ Gli esseri umani comunicano sia con il linguaggio non verbale(analogico) che con quello verbale (numerico).”La comunicazione umana si manifesta con forme verbali e non verbali, combinate esinergiche, al punto che è difficile distinguere tra gli aspetti verbali e non verbali che simanifestano nella comunicazione quotidiana e non. La comunicazione verbale è, infatti,più complessa, ma più flessibile, quella non verbale più immediata, efficace e veloce, matalvolta non chiara, perché lascia spazio alle interpretazioni personali. La comunicazionenon verbale è molto più difficilmente controllabile di quella verbale da parte di chi la invia,mentre è facilmente decodificabile per chi la riceve.Quinto assioma: “Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari aseconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza”Si ha una comunicazione simmetrica quando entrambe le parti sono sullo stesso piano,l’una tende a rispecchiare il comportamento dell’altra, senza che ci sia chi prevale edomina e chi, invece è sottomesso. Tra i due interlocutori può esserci una collaborazioneequa, ma anche una competizione antagonistica, proprio perché si pongono in unaposizione di par<strong>it</strong>à. Nella relazione complementare, viceversa, una delle due assume unaposizione superiore rispetto all’altra. Tra i due interlocutori può esserci integrazionereciproca o squilibrio problematico, proprio in quanto ognuno sceglie una collocazione nonpar<strong>it</strong>etica. Entrambi i tipi di comunicazione possono essere funzionali ed efficienti, mapossono essere anche problematici e disfunzionali, ciò dipende dalla elastic<strong>it</strong>à o rigid<strong>it</strong>àcon cui vengono gest<strong>it</strong>i.Date le premesse possiamo stabilire che perché una comunicazione sia efficace bisogna 97 :- Curare e modulare sia il contenuto che la relazione, il canale verbale e non verbale.- Parlare chiaramente- Esprimere uno stesso concetto in modi diversi secondo l’interlocutore e il contesto- Usare in modo efficace anche il silenzio- Ascoltare e osservare le reazioni dell’interlocutore per capirne le reazioni- Saper utilizzare quanto emerge97 Corso di formazione “ Efficacia e cooperazione nelle relazioni d’aiuto” Padova, 10-11 Ottobre, 2008.LIV


L’ASCOLTOAll’interno della comunicazione non è importante solo dare messaggi, ma è fondamentaleanche saperli ricevere, mettersi nella posizione di colui che ascolta: il ruolo dell’ascoltatoreè la verifica della propria disponibil<strong>it</strong>à a porsi in questa posizione. All’ interno dellarelazione, possiamo riconoscere diversi benefici che l’ascolto efficace può portare: siottiene la comprensione del messaggio ricevuto, si ascolta un significato che va oltre leparole, si favorisce l’empatia e il feed-back, si stimola l’altro a continuare l’interazione. 98Per Rogers l’ ascolto ”equivale a percepire non solo le parole ma anche i pensieri, lo statod’animo, il significato personale e persino il significato più riposto e inconscio delmessaggio che mi viene trasmesso dall’interlocutore”, l’ascolto diventa perciò, incontroprofondo con l’altro, un sentire solo la sua voce, annullare ciò che ci circonda. Il veroascolto diventa valido solo nel silenzio di tutto il resto. L’ascolto autentico, l’accoglienzaemotiva, senza giudizio,dei sentimenti e delle emozioni dell’altro. E’ necessario mettere inatto, la sospensione del giudizio, per poter accettare l’altro per quello che è. Dobbiamoimparare a fare in modo che il nostro giudizio, a volte inev<strong>it</strong>abile, non interferisca più d<strong>it</strong>anto nella relazione. Bisogna inoltre costruire un estremo rispetto per l’altro: noi siamo lìperché il collega ha bisogno, non il contrario e il rispetto per lui, per il suo modo di viveregli eventi, va mantenuto ad ogni costo. Farsi ascoltare diventa necessario quandol’incontro con la sofferenza diventa quotidiano, è l’incontro- scontro con noi stessi, con ciòche siamo e che siamo stati, a rendere indispensabile una richiesta d’aiuto. Saper ascoltarerichiede inanz<strong>it</strong>utto una buona consapevolezza di sé, un<strong>it</strong>a allo sviluppo delle capac<strong>it</strong>àrelazionali. Non si è in grado di ascoltare quando non siamo capaci di ascoltare il nostrodolore interiore, il nostro passato determina il nostro porci di fronte al presente. La personaha dei vissuti dolorosi, ma se impara a riconoscerli e a fare di essi degli strumenti perriconoscere e comprendere l’altro, può creare un incontro che ha dei risvolti pos<strong>it</strong>ivi intermini di emotiv<strong>it</strong>à. Le esperienze di gioia, dolore, paura, incertezza danno luogo allosviluppo di “risorse guar<strong>it</strong>rici” che possiamo condividere con coloro che collaborano connoi ogni giorno. Mettersi nei panni dell’altro va visto nel senso di “mettersi con l’altro”:dobbiamo valorizzare ciò che la persona porta, il suo vissuto, i suoi sforzi, il suo stessochiedere aiuto e il suo porsi in discussione.98 G. Artioli, r. Montanari,A. Saffioti: “Counseling e professione infermieristica”, 2004, p.43.LV


IL SILENZIOIn una relazione di reciproc<strong>it</strong>à come quella della comunicazione, oltre all’ascolto, diventadi grande importanza il silenzio. Il silenzio è ricco di significati e spesso diventa unaesplic<strong>it</strong>a richiesta di aiuto. E’ in grado di spaventarci e ci trova impreparati, il silenzio ci fapaura, tendiamo a riempirlo in ogni modo. Esso va di pari passo con l’ascolto e ne fa parte,bisogna consentire a chi ci è di fronte di avere spazio per i suoi pensieri, di poter trovaretempo e modi per esprimere ciò che sente. La formazione al silenzio ha inizio alla presa dicontatto con se stessi per scoprire ed incontrare la propria interior<strong>it</strong>à “ Le pause di silenzio,in un colloquio, hanno una misteriosa solenn<strong>it</strong>à: concedono alle frasi dette di riposare dalloro significato, e a entrambi gli interlocutori di riascoltare in silenzio e di approfondirenella loro eco, sia che dicano gioia, sia che dicano dolore (…)” 99 . Il silenzio diventaquindi una forma di rispetto verso l’altro, è uno spazio entro il quale si possonoracchiudere molte domande e preparare altrettante risposte. E’ un tempo per se stessi, cimette in contatto con il nostro mondo interno, e ci rende possibile un modo personale eprofondo di vivere il rapporto con noi stessi e gli altri. Il silenzio è paragonabile ad unrifugio in cui noi troviamo il modo per proteggerci dai disturbi ambientali, è un riparosicuro in cui possiamo elaborare i nostri pensieri per poi esternarli con seren<strong>it</strong>à. Cosìinteso, il silenzio appare come una dimensione spir<strong>it</strong>uale della persona e come unacondizione per promuovere l’un<strong>it</strong>à e l’utilizzo di tutte le risorse interiori. 10099 J. Dugger: “Le tecniche di ascolto”, Franco Angeli, Milano, 1999.100 G.Artioli, R.Montanari, A.Saffioti: “ Counseling e professione infermieristica”, 2004, p.51.LVI


4.3.5. COUNSELING: UN AIUTO ALL’INFERMIEREIl counseling psicologico è un intervento d’aiuto specifico e specialistico, offerto da unprofessionista ad un cliente che si trova in una s<strong>it</strong>uazione di confl<strong>it</strong>to o di difficoltà. Iproblemi che presenta possono essere di varia natura e/o collegati alla propria cresc<strong>it</strong>apersonale. Grazie a una relazione basata sull’ascolto e sulla facil<strong>it</strong>azione dellacomunicazione, il counselor aiuta il cliente ad approfondire e a riconoscere la suas<strong>it</strong>uazione, ad affrontare le scelte e i cambiamenti necessari per risolvere il problema eproseguire nella cresc<strong>it</strong>a personale. 101 Il counseling è tuttora insegnato e utilizzato comestrumento nell’attiv<strong>it</strong>à di cura, “ (…) le sue final<strong>it</strong>à appartengono al mandato professionaledell’infermiere in quanto assistere significa sia “stare con” che “esserci”. Care, “occuparsidi”, “prendersi cura”, sinonimi e specificazioni di “assistere”, implica vicinanza,prossim<strong>it</strong>à, alter<strong>it</strong>à, quindi relazional<strong>it</strong>à, contatto, presenza, non abbandono e nonindifferenza “ 102 . L’attiv<strong>it</strong>à di cura che offre l’infermiere, sappiamo che comportadispendio di forze: l’offrirsi inteso spesso come annullamento del sé, comportal’accrescimento di angosce, di domande a cui vorrebbe dare una risposta. I pensieridiventano tanti, chiediamo troppo alle nostre capac<strong>it</strong>à emotive. Ormai è noto, molti di noinon sono pronti ad affrontarsi, perché è con noi stessi che abbiamo a che fare ancor primache con gli altri. La cura richiede che si impegnino molte energie fisiche, cogn<strong>it</strong>ive eaffettive. Per questa ragione c’è chi vede nella cura il rischio di un’ emorragia d’essere, diuna perd<strong>it</strong>a di sé per un eccessiva attenzione all’altro. La buona cura è quella in cui,perentrambi i soggetti della relazione, non c’è perd<strong>it</strong>a di sé ma guadagno d’essere, e questo èpossibile solo se chi ha cura si prende anche cura di sé. 103 Aristotele insegna “…che nonc’è amicizia dell’altro se non c’ è l’amicizia per sé, perché per poter essere capaci divolere il bene dell’altro, si deve amare soprattutto sé stessi”. Solamente avendo cura di sési può coltivare la propria uman<strong>it</strong>à. Anche chi ha cura è vulnerabile, poiché il101 V. Calvo: “Il colloquio di counseling”, 2007, p.11.102 G. Artioli, R.Montanari, A. Saffioti “Counseling e professione infermieristica”, 2004, p.85.103 L.Mortari: “ La pratica dell’aver cura”, 2006, p.80.LVII


coinvolgimento emotivo, la partecipazione intensiva alla s<strong>it</strong>uazione dell’altro, loespongono ad una s<strong>it</strong>uazione di analoga vulnerabil<strong>it</strong>à. L’operatore perciò dovrebbeimparare a chiedere aiuto, esplic<strong>it</strong>are le sue fragil<strong>it</strong>à, ma spesso, aspetta di giungere as<strong>it</strong>uazioni estreme. E’ più facile chiedere di essere aiutati per problemi di ordine pratico,piuttosto che per problemi relazionali o psico-affettivi, accettare di essere bisognosi d’aiutoè molto difficile, in particolare per chi svolge la nostra professione. La domanda d’aiuto èsinonimo di debolezza, si teme di essere “etichettati”, particolarmente in questo amb<strong>it</strong>o,quello psicologico, come persone “folli” e la resistenza alla richiesta di aiuto è alta . Eccoche il counseling, nel suo significato più puro, dall’etimologia latina di consulo, significavenire in aiuto, avere cura di.... E’ quasi un “consolare”, uno stare accanto, che diventaquanto mai adatto ad essere utilizzato come mezzo per sostenere l’infermiere a superare isuoi dubbi. Di Fabio da una chiara definizione di counseling “Il counseling è un interventopsicologico finalizzato a migliorare il benessere individuale e ad incrementare le abil<strong>it</strong>àpersonali per aumentare il funzionamento adattivo dell’individuo sia a livello personaleche interpersonale, perfezionando e implementando la qual<strong>it</strong>à della sua v<strong>it</strong>a. E’ unintervento d’elezione per il potenziamento, la riorganizzazione e la mobil<strong>it</strong>azione dellerisorse personali e per il fronteggiamento, la risoluzione e il superamento di crisi (nonpatologiche), siano esse evolutive o accidentali. Pur rimanendo primariamente unintervento individuale centrato sulle peculiar<strong>it</strong>à del versante comunicativo e dellarelazione, può giovarsi di particolari applicazioni in un contesto gruppale e/o di estensioniall’amb<strong>it</strong>o organizzativo” 104 Proprio perché non ha obbiettivi terapeutici, curativi oricostruttivi, ma cerca soluzione a problemi di v<strong>it</strong>a e s<strong>it</strong>uazioni di normal<strong>it</strong>à, il counseling èconsiderato da alcuni come un modo efficace a disposizione di varie figure professionaliper offrire un aiuto a chi lo richiede, nei più diversi amb<strong>it</strong>i e contesti lavorativi.CARATTERISTICHE FONDAMENTALI DEL COUNSELING- Il counseling è un intervento d’aiuto. Esso indica “ (…) una molteplic<strong>it</strong>à diinterventi, accomunati dall’intento di offrire, a soggetti che si confrontano cons<strong>it</strong>uazioni confl<strong>it</strong>tuali o con problemi di varia natura, un’occasione di comprendere104 A. Di Fabio: “Counseling e relazione d’aiuto. Linee guida e strumenti per l’autoverifica”, 2003, p.41.LVIII


la propria s<strong>it</strong>uazione in modo più chiaro (…)” 105 . E’ la capac<strong>it</strong>à di porsi in terminisinceri e genuini verso la persona che richiede aiuto, perciò di avvicinarsi cononestà.- Il counseling si fonda sul concetto d’incontro, comunicazione e relazione tra due opiù persone. Richiede abil<strong>it</strong>à e strategie comunicative. Il counselor deve creare unclima relazionale centrato sull’ascolto attivo, empatico. Deve mettersi sulla stessalunghezza d’onda dell’interlocutore.- La relazione è finalizzata ad aiutare il cliente“ aiutare le persone ad aiutarsi” ( DiFabio, 1999). Come dice Carl Rogers, viene enfatizzato il ruolo attivo dellapersona che cerca per prima di farsi aiutare nella ricerca di soluzioni alle propriedifficoltà. Il counseling mira all’attivazione e alla riorganizzazione delle risorseesistenti nella persona.- Il counseling può essere utilizzato per insegnare al cliente ad affrontare diversiproblemi e difficoltà. Ha il comp<strong>it</strong>o specifico di abil<strong>it</strong>are il cliente a prendere unadecisione riguardo a scelte di carattere personale relative a problemi o difficoltàspeciali che lo riguardano direttamente. 106Il counseling quindi serve principalmente a promuovere il benessere della persona, arenderla capace di assumersi responsabil<strong>it</strong>à in quanto essere autonomo. Guida al processodi autoesplorazione attraverso il vissuto emozionale,nel qui e ora e permette di acquisirequella consapevolezza che conduce al contatto chiaro tra il sé e l’ambiente. Consente,attraverso l’aiuto del counselor, di ricontestualizzare ovvero offre la possibil<strong>it</strong>à disviluppare una diversa visione che cambi il significato dell’evento, aiuta a non vedere ilproblema secondo la prospettiva di chi ha ragione o chi torto, stimolando latrasformazione delle posizioni irrigid<strong>it</strong>e. Questa viene detta anche riformulazione checonsiste nel ridire, con altre parole, in modo più conciso o più chiaro, ciò che l’altro haappena detto, ricercando l’accordo da parte del soggetto (Mucchielli,1983). Il counselingaiuta a confrontare ciascun soggetto con quegli aspetti della personal<strong>it</strong>à che non vengonopercep<strong>it</strong>i, favorendo l’ascolto dell’altro e di noi stessi, sviluppando un apprezzamento piùempatico dell’esperienza interna. Per queste sue caratteristiche di immediatezza e105 P. Valerio: “ La psicologia di counseling.” , 1997, p. 154.106 J. Burnett: “What is <strong>Counselling</strong>?, in <strong>Counselling</strong> at work” a cura di A.G. Watt, London, BedfordSquare Press., 1977.LIX


semplic<strong>it</strong>à, in quanto è sufficiente anche un solo incontro, il counseling si presta moltobene, per essere usato come strumento di aiuto all’interno dei servizi san<strong>it</strong>ari. E’ privo diquelle connotazioni psicoanal<strong>it</strong>iche che spaventano, allontanano e creano non pocheresistenze spesso associate alla precarietà della psiche.4.3.6. STRATEGIE DI COPINGIl processo di coping è principalmente coinvolto nel processo di adattamento a s<strong>it</strong>uazionistressanti. Secondo Lazarus è “avere la meglio sugli eventi” e cioè in inglese , quello cheviene defin<strong>it</strong>o come coping: “ l’ insieme dei tentativi per riuscire a controllare gli eventir<strong>it</strong>enuti pericolosi o superiori alle mie risorse”. Siamo noi quindi a dare color<strong>it</strong>ura alles<strong>it</strong>uazioni stressanti, “ non è tanto importante quello che ci accade, quanto il modo in cuinoi lo interpretiamo” (Selye). Diventa rilevante la nostra capac<strong>it</strong>à di valutare un evento“l’operazione mentale che ci fa dare all’evento un significato soggettivo, personale; è lamia sensazione che sia in pericolo qualcosa d’importante, ed è anche il calcolo delle mierisorse per affrontare e diminuire il pericolo” (R. S. Lazarus). Si è portati perciò achiedersi se sia a rischio il nostro benessere personale, la nostra emotiv<strong>it</strong>à, pertanto siamoistintivamente guidati a proteggerci da queste minacce attuando in modo personale alcunestrategie di coping. Pertanto il concetto di coping, entra in gioco quando una s<strong>it</strong>uazioneviene percep<strong>it</strong>a come stressante allo scopo di attivare la persona a cer<strong>care</strong> di fare qualcosaper dominare l’evento e per controllare le proprie emozioni. Ma quando l’individuo vieneposto di fronte ad un evento stressante non è solo, ma è inser<strong>it</strong>o nel contesto in cui vive.Quindi si pone l’attenzione su una visione olistica dei problemi e degli eventi stressanti,mostrando come questi siano inser<strong>it</strong>i e radicati nel contesto sociale. Questa posizione ciriporta al modello sociocontestuale di Berg (1998), che studia il processo attraverso cui gliindividui in connessione con gli altri affrontano gli eventi della v<strong>it</strong>a, cost<strong>it</strong>uendo un’un<strong>it</strong>àsociale che va oltre alle proprietà dei singoli individui. Alla luce di queste considerazioni ilcoping può essere pensato come un costrutto multidimensionale e un processo checoinvolge più livelli: emotivo, comportamentale, valutativo e sociale. Infatti, oltreLX


all’amb<strong>it</strong>o esclusivamente individuale e personale, il coping interessa anche il grupposociale in cui è inser<strong>it</strong>o: i colleghi, la famiglia, gli amici e quindi l’equipe in cuil’infermiere lavora. In questa prospettiva, il ruolo degli altri e del contesto sociale assumevalenze specifiche non solo di semplice risorsa od offerta di sostegno, ma comecomponente fondamentale che interviene a definire il cost<strong>it</strong>uirsi stesso del processo dicoping. Le strategie di coping dette anche di “fronteggiamento” seguono stili individuali,anche se meno stabili e rigidi rispetto ad esempio ai tratti di personal<strong>it</strong>à, possono esseredistinte almeno quattro strategie riconosciute 107 :• Coping centrato sulla soluzione del problema, caratterizzato dal tentativo diaffrontare la s<strong>it</strong>uazione problematica, cercando le soluzioni più adeguate e facendoampio ricorso a risorse ed esperienze personali ( ad esempio “Cerco di trovaresoluzioni efficaci”, “ Opero con i mezzi che ho a disposizione”).• Coping centrato sulla richiesta di supporto sociale, caratterizzato dalla tendenza aricer<strong>care</strong> il sostegno, il consiglio e l’aiuto di altre persone per risolvere la s<strong>it</strong>uazioneproblematica ( ad esempio “Cerco aiuto tra i colleghi” o “ Mi consiglio con uncollega che stimo”).• Coping centrato sul disagio emotivo, caratterizzato dalla tendenza a reagirefortemente a livello emotivo di fronte al problema e dall’incapac<strong>it</strong>à a gestire econtrollare adeguatamente le proprie emozioni ( ad esempio “Ho difficoltà acontrollare le mie emozioni” e “Entro in uno stato di forte ag<strong>it</strong>azione”).• Coping centrato sull’ev<strong>it</strong>amento del problema, caratterizzato dalla tendenza atentare di eludere la s<strong>it</strong>uazione problematica a livello cogn<strong>it</strong>ivo o comportamentale( ad esempio “Ev<strong>it</strong>o di pensarci” e “ Delego la soluzione del problema a un miodiretto superiore”). 108Le strategie di coping, che comprendono la soluzione del problema e la richiesta disupporto sociale, hanno il tentativo di trasformare l’evento stressante in un comp<strong>it</strong>o piùpadroneggiabile o addir<strong>it</strong>tura in una sfida professionale. Questi atteggiamenti proteggonol’infermiere dal burn-out emotivo. Al contrario strategie come la fuga e l’espressione del107 N.Rossi: “Psicologia clinica per le professioni san<strong>it</strong>arie”, 2004, p. 254.108 Art. “ La valutazione dello stress e delle strategie di coping di medici e infermieri, attraverso l’HealhProfessions Stress and Coping Scale” ,2006 http://www.giuntios.<strong>it</strong>/<strong>it</strong>ems/showArticoloLXI


disagio di fronte all’evento e, l’ev<strong>it</strong>amento con auto colpevolizzazione, predispongonoall’insorgere del burn-out emotivo. Ev<strong>it</strong>are quindi s<strong>it</strong>uazioni difficili da gestire,rimandandole nel tempo o lasciandole ad altri, si rivela in ultima analisi dannoso perl’operatore, che vede aumentare i suoi livelli d’ansia e insoddisfazione, tanto da nonriuscire più a gestirsi. L’infermiere si trova a fronteggiare svariate s<strong>it</strong>uazioni che mettono adura prova la sua capac<strong>it</strong>à di dirigere, più o meno adeguatamente, le strategie di copingacquis<strong>it</strong>e. Gli eventi più frequenti sono:• L’emergenza clinica, relativa a s<strong>it</strong>uazioni di elevata emergenza in cui è in pericolola v<strong>it</strong>a di un paziente.• Relazioni problematiche con pazienti e familiari, si riferisce a s<strong>it</strong>uazioni dicontrasto con il paziente e i suoi familiari tanto da rendere difficoltoso e ricco diostacoli il regolare svolgimento dell’attiv<strong>it</strong>à lavorativa.• Attacco personale, si riferisce ad attacchi personali da parte dei colleghi, deisuperiori, del paziente o della sua famiglia, ancor peggio se immotivati.• Svalutazione personale, riguarda s<strong>it</strong>uazioni in cui l’infermiere ha la nettasensazione che le proprie richieste, i suoi suggerimenti e le necess<strong>it</strong>à diformazione non vengano ascoltati.• Imprevisti organizzativi, relativi a s<strong>it</strong>uazioni d’improvvisa difficoltà sul versanteorganizzativo che compromettono il normale espletamento delle proprie mansionio interferiscono con la propria v<strong>it</strong>a privata.Le strategie di coping, che quotidianamente vengono messe in atto dall’operatore dellacura, devono essere viste non solo come nemiche, ma anche come fonte di stimolo allapropria cresc<strong>it</strong>a professionale e personale. Esse sono un campanello d’allarme che cisegnala quando le cose non vanno per cui si rende necessario imparare a gestirle, acambiarle per usarle a nostro vantaggio. Il tempo che dobbiamo trascorrere al lavoro deveessere anche tempo di riflessione affinché si maturi l’esigenza di formazione e di richiestad’ aiuto, come ad esempio con il counseling. Particolarmente utile è il contributo che lateoria psicanal<strong>it</strong>ica fornisce per l’analisi dei meccanismi di difesa e quindi anche imeccanismi di coping come la negazione, l’ev<strong>it</strong>amento ecc. In questo caso , l’attenzionenon è tanto posta sui significati inconsci dei problemi, ma sui modi affettivi di affrontarli.LXII


L’analisi di questa cultura affettiva difensiva può essere utile, in quanto resta più ancorataal presente, anche se i meccanismi difensivi sono nati sol<strong>it</strong>amente nel lontano passato e unaloro individuazione e definizione può essere un obiettivo ragionevole nel lavoro dicounseling. E’ proprio nell’aprirsi al rischio dell’incontro con l’altro e con le s<strong>it</strong>uazionidifficili che si fonda la possibil<strong>it</strong>à trasformativa della psiche, poiché solo attraverso questadinamica è possibile la rappresentazione e l’elaborazione del proprio mondo affettivo.4.3.7. FORMAZIONELa formazione può essere il nodo centrale per iniziare un’efficace azione preventiva neiconfronti dello stress lavorativo? Azione che si concentrerebbe in particolare su temi comeil coinvolgimento emotivo, dovuto al contatto ripetuto con la sofferenza che dà luogoall’instaurarsi di una s<strong>it</strong>uazione di anaffettiv<strong>it</strong>à e di indurimento interiore. Questo tipo diatteggiamento è la risultante inev<strong>it</strong>abile del nostro lavoro: allontanarsi dal proprio sé, nonriconoscersi come parte emotivamente ed affettivamente attiva, tende ad annullare lecaratteristiche più umane della persona per privilegiare quelle più tecniche. Perraggiungere una matur<strong>it</strong>à affettiva di questa portata, serve un percorso di cresc<strong>it</strong>a interioreche spinge l’operatore a ripartire da sé per rilanciarsi nel mondo del lavoro sociale di curae, in forma più ampia, nel mondo-della-v<strong>it</strong>a (Lebenswelt). Assumere un atteggiamento diapertura davanti al mondo, alla v<strong>it</strong>a, permette l’attraversamento dell’affettiv<strong>it</strong>à senzatimori, ma anzi con desiderio, interesse, entusiasmo e con una sana dose di forza d’animoe coraggio. E’ un’esperienza sensoriale che evoca un senso di pienezza della v<strong>it</strong>a affettiva,sia a livello personale, sia professionale. Conoscere il proprio sentire è comprenderesempre meglio la propria persona, rispetto ad uno specifico agire e pensare le cose cheaccadono. 109 A questo propos<strong>it</strong>o gli studi di Carl Rogers spiegano che quando “unapersona comprende se stessa, il Sé diventa più congruente con l’esperire. La persona109 V. Iori, M. Rampazi “ Nuove fragil<strong>it</strong>à e lavoro di cura”, 2008,p. 209-210.LXIII


diventa in tal modo più autentica, più genuina” 110 Questo presuppone perciò che anchechi cura riconosca le proprie emozioni e rinunci al suo ruolo di “esperto”, estraneo aquanto sta avvenendo all’interno della relazione di cura. E’ forse la dimensione più delicatae più difficile da apprendere. Con l’introduzione dei cred<strong>it</strong>i formativi in San<strong>it</strong>à, si èpercep<strong>it</strong>a un’iniziale sensazione che qualcosa stesse cambiando, per dare slancio a unsettore come quello della formazione, la cui <strong>care</strong>nza era fortemente sent<strong>it</strong>a. Ma laformazione si occupa ancora in gran parte della preparazione tecnico-strumentale etralascia gli aspetti affettivo - relazionali della nostra professione. E’ quindi necessariocompletare la nostra preparazione arricchendola di incontri che insegnino all’infermiere losviluppo dell’ autostima, dell’ intelligenza emotiva, dell’ empatia, del senso del gruppo edel miglioramento delle strategie di coping. Inoltre va ricordato che dovrebbe essereresponsabil<strong>it</strong>à degli uffici infermieristici, in quanto vicini alla realtà dell’operatore,organizzare percorsi formativi specifici. E’ altresì comprensibile, che le difficoltàorganizzative e le diverse dinamiche ist<strong>it</strong>uzionali disfunzionali si sovrappongono aiproblemi più specifici, derivanti dal contatto con la malattia e dal carico emozionaleproveniente dalla relazione d’aiuto. Ciò però non può essere motivo per giustifi<strong>care</strong> queste<strong>care</strong>nze che purtroppo sono reali. I responsabili del benessere del personale non possonoesimersi dal farsi promotori di una riflessione approfond<strong>it</strong>a e di un agire declinato suquesto tema, che non può essere lasciato all’informal<strong>it</strong>à e allo spontaneismo, ma deveoccupare un posto centrale nella professional<strong>it</strong>à degli operatori e nei percorsi formativi dibase e permanenti. 111 Spesso, però, è l’operatore il primo artefice di questa mancanzad’interesse, in quanto rifiuta di ricorrere alla formazione affettivo-relazionale: glieloimpedisce la vergogna di esporsi, la non accettazione della propria vulnerabil<strong>it</strong>à e della suafragil<strong>it</strong>à. I comportamenti asettici e freddi, tipici del burn-out emotivo, esprimono latradizionale modal<strong>it</strong>à “anaffettiva” dei Servizi che bandiscono i vissuti emozionali e nevietano ogni interferenza nei codici delle condotte professionali. Conoscere il propriosentire è comprendere sempre meglio la propria persona, rispetto ad uno specifico agire eriflettere sulle cose che accadono. Essere sincero e autentico è difficile, ma deve esserepossibile per l’infermiere quando è pronto a “viversi, vedersi, ascoltarsi come essere vivoche è nel mondo con gli altri” e a mettere “a disposizione nel rapporto educativo la sua v<strong>it</strong>a110 C. Rogers “ Un modo di essere. I più recenti pensieri dell’autore su una concezione di v<strong>it</strong>a centratasulla-persona”. 1993, p.102.111 V. Iori “Nuove fragil<strong>it</strong>à e lavoro di cura”, 2208. p. 221.LXIV


verso il comprendere e lo sperimentare l’esistenza altrui” ( Iori, 1988, p. 165). Anche neimomenti in cui si è accompagnati dal dolore si può trovare uno spazio in cui continuare astare bene con se stessi. Nei momenti di difficoltà emotiva, e in una giornata di lavoro cene sono tanti, è utile anche solo confrontarsi con i propri colleghi e trovare momenti dicondivisione. Spesso ascoltare un compagno di lavoro riapre quella condizione dirispecchiamento in cui l’operatore rimbalza un possibile es<strong>it</strong>o di problematiche e disagi chesono anche i suoi. Il bisogno di raccontarsi è presente, anche se a volte è poco esplic<strong>it</strong>atooppure viene espresso nei momenti informali d’incontro, come la “pausa caffè” o durante ilcambio all’interno degli spogliatoi. “Sarebbe auspicabile promuovere spazi d’incontro incui raccontarsi le difficoltà emotive del lavoro, lasciandole uscire, leg<strong>it</strong>timando il vissutodi rispecchiamento, superando la logica oppos<strong>it</strong>iva/difensiva noi-loro e scoprire il “sensodegli altri” 112 Bisognerebbe dare un nuovo significato alla parola equipe, spesso cosìlontana, così fredda e distaccata dal contesto più umano della cura. E’ sempre rifer<strong>it</strong>aall’organizzazione del lavoro ma in termini tecnicisti, dovrebbe assumere invece ilsignificato di reciproc<strong>it</strong>à e di ascolto tra i componenti. Affinché questo possa avere luogo ènecessario che chi - ha - cura acquisisca un buon livello di competenza emotiva, inparticolare verso se stesso: saper riconoscere le proprie tensioni per essere in grado diagirle nella relazione ev<strong>it</strong>ando sia di rifugiarsi in un’ asettica neutral<strong>it</strong>à sia di fars<strong>it</strong>ravolgere dal sentire dell’altro. Nei contesti formativi destinati ai professionisti della cura,dovrebbero essere organizzati laboratori riflessivi in cui dare spazio anche allarielaborazione della v<strong>it</strong>a emozionale. In quelli che si definiscono laboratori di riflessiv<strong>it</strong>àsulla v<strong>it</strong>a emozionale è importante promuovere attiv<strong>it</strong>à di pensiero capaci di provo<strong>care</strong> unadisamina anal<strong>it</strong>ica e cr<strong>it</strong>ica della propria esperienza, affinché i partecipanti individuino laqual<strong>it</strong>à dei propri vissuti e da lì identifichino la matrice generativa nonché l’intens<strong>it</strong>à e ladirezione della forza performativa che tali vissuti eserc<strong>it</strong>ano sull’agire. 113 In conclusione,l’ambiente di lavoro può diventare supportivo, anche nelle s<strong>it</strong>uazioni di fragil<strong>it</strong>à, quando sirespira un’atmosfera fiduciosa, nutr<strong>it</strong>a di sentimenti coltivati in una cura della v<strong>it</strong>a emotiva.“Ci si migliora se, nel coltivare se stessi, si coltivano le possibil<strong>it</strong>à di un’universaleamicizia. Incontrarsi e chiamarsi amici”. 114 La formazione, come abbiamo sin qui spiegato,è fondamentale, è l’unico mezzo per risvegliare l’interesse, motivare alla ricerca, al112 M. Augè: “Il senso degli altri. Attual<strong>it</strong>à dell’antropologia”, 2000.113 L. Mortari: “La pratica dell’aver cura”, 2006, p. 90.114 S. Natoli, “Il libro della cura di sé degli altri del mondo”, 1999.LXV


innovamento e alla riflessione, è da sempre una spinta motivazionale di cresc<strong>it</strong>a.All’interno dell’attiv<strong>it</strong>à formativa possiamo trovare diverse approcci, abbiamo già parlatodel counseling, un modo breve ed immediato per dare sollievo a chi lo richiede,all’importanza che rivestono strategie di coping adeguate e ora, di segu<strong>it</strong>o, andremo adelen<strong>care</strong> brevemente altre metodologie tra cui i Gruppi Balint, il Role play e l’utilizzodell’autobiografia per la cura del sé.GRUPPI BALINTMichel Balint nacque a Budapest nel 1896. Formatosi come medico psichiatra epsicanalista affermò che l’idea di permettere al medico di utilizzare sia la terapiafarmacologia, sia la psicoterapia, in vista dei bisogni del suo malato, era stata per lui unafonte d’interessi fin dall’epoca dei suoi studi in medicina. Balint coltivò questa idea,sperimentandola con un gruppo di medici generici già negli anni trenta, nonostante lediffidenze destate da questi gruppi, che ne ostacolarono lo sviluppo. Poco prima dell’iniziodell’ultima guerra emigrò a Londra dove, a partire dal 1950, con la moglie Enid, organizzòuna serie di seminari per medici alla clinica Tavistock. Era nato così e si diffondeva, il“Gruppo Balint” 115 . L’elemento fondamentale, che caratterizza il Gruppo Balint, èconsiderare la central<strong>it</strong>à della persona. Saper ascoltare diventa così il primo obiettivo daraggiungere con la formazione balintiana. Come dice Balint “con un terzo occhio” e“attraverso tutti i pori della pelle”. 116 Il gruppo, nella sua conduzione più classica, ècomposto da infermieri, medici che con la conduzione di uno psichiatra di formazionepsicanal<strong>it</strong>ica, discutono quei casi della loro pratica professionale che sono stati causa didifficoltà sul piano emotivo-relazionale con il paziente. La frequenza degli incontri puòessere settimanale o quindicinale e la durata nel tempo dell’esperienza è di almeno un paiodi anni. Il gruppo ottimale è generalmente formato da 10-15 partecipanti che devono sederein circolo e parlare avendo ciascuno la possibil<strong>it</strong>à di osservare tutti gli altri. Questacaratteristica permette di definire il gruppo Balint come “piccolo gruppo” o “ gruppo vis-àvis”.Come valido mezzo di prevenzione del burn-out emotivo, il Gruppo Balint consente115 M.L. Bellini, G.Marasso ,D.Amadori, W. Orrù, L.Grassi, P.G.Casali,P.Bruzzi:” Manuale diPsiconcologia”, ed<strong>it</strong>o da Masson p.928.116 SIMP, Società Italiana Medicina Psicosomatica http://nuke.simp<strong>it</strong>alia.com, Marzo 2009.LXVI


l’apprendimento emozionale di nuove capac<strong>it</strong>à, perché la comprensione del partecipantedipende sia dalla capac<strong>it</strong>à conscia d’ascolto, sia dalla recettiv<strong>it</strong>à inconscia dell’animatore. Ipartecipanti sono messi in contatto con esperienze psicologiche ancora informi, pocostrutturate ma intense. Colui che espone il caso clinico, esprime anche il proprio vissutoemozionale, durante la riunione di gruppo trasmette una molteplic<strong>it</strong>à di segnali e dicomunicazioni, anche non verbali, talvolta contradd<strong>it</strong>ori e apparentemente privi disignificato. Questi segnali diventano comprensibili soltanto attraverso la risonanzaemozionale che producono ai partecipanti del gruppo. Questo fenomeno di risonanza èbasato sui processi psichici dell’identificazione proiettiva e della personificazione delleemozioni, molto presenti nel Gruppo Balint. E’ stato ipotizzato che l’uomo è naturalmentee spontaneamente ricettivo alla risonanza emotiva; nella personificazione enell’identificazione proiettiva riconosciamo alcuni processi psichici primordiali, basecomune dell’empatia e dell’intuizione del vissuto altrui. Il Gruppo Balint diventa occasioneper ricevere consigli e indicazioni, si hanno inoltre a disposizione diversi vertici diosservazione. L’ascolto si diversifica e si arricchisce: diviene anche ascolto di sé e delleproprie reazioni emotive di fronte alla sofferenza. All’ interno del gruppo si portano allaluce emozioni ove ciascun individuo può aiutare l’altro a riconoscerle, a esprimerle, acontenerle e a trasformarle. Oltre ad esplic<strong>it</strong>arsi la risonanza come fenomeno, è presenteanche il rispecchiamento, attraverso il quale, aspetti si sé spesso inconsapevoli vengonocolti nell’altro. Quando l’incontro rivela anche nostre qual<strong>it</strong>à di sol<strong>it</strong>o va tutto bene,quando riflette qualcosa di noi che non ci piace è più facile che si tenti, con modal<strong>it</strong>à d<strong>it</strong>ipo proiettivo, di disconoscerla e di collocarla solo nell’altro. 117 Il Gruppo Balint non èsolo il mezzo supportivo che si è rivelato di util<strong>it</strong>à per chi lavora nelle helping-professionma presenta vantaggi che presentano costi e tempi lim<strong>it</strong>ati, visto il grande impegno di orelavorative degli operatori. Una peculiar<strong>it</strong>à non trascurabile è che il sostegno proveniente daun gruppo di lavoro, viene r<strong>it</strong>enuto, da chi lo sperimenta, molto ricco di stimoli permigliorare il proprio rapporto con se stessi e migliora anche la capac<strong>it</strong>à d’interazione conl’utente.117 N.Rossi: “Psicologia clinica per le professioni san<strong>it</strong>arie”, 2004, p. 266-267.LXVII


ROLE PLAYING O GIOCHI DI RUOLOI giochi di ruolo sono tecniche che derivano dalle teorie psicodrammatiche. Sono metodibasati sulla simulazione di una s<strong>it</strong>uazione, di un evento, sulla messa in scena, per ilcoinvolgimento dei partecipanti chiamati a immedesimarsi, a vestire panni di altri, aipotizzare soluzioni. E’ possibile mettere in scena una tipica s<strong>it</strong>uazione presentequotidianamente all’interno dell’ Un<strong>it</strong>à Operativa, quindi interpretare il ruolo di un’altrapersona o di una parte di se stessi che sol<strong>it</strong>amente non è messa in gioco. Per esempio si puòinterpretare un paziente o un familiare considerati insopportabili o un altro collega con ilquale si ha una relazione problematica. Rappresentare una scena o rec<strong>it</strong>are “ nei panni diqualcun altro” è in realtà un modo per accostarsi a se stessi, per esprimere parti di sé ericonoscere modal<strong>it</strong>à relazionali disfunzionali, non consapevoli, messe in atto nellarelazione con l’altro 118 . Oltre ai partecipanti è presente un formatore che dirige, osserva eregistra quanto avviene e che, con una certa esperienza, può interpretare ruoli particolari,come ad esempio l’antagonista della s<strong>it</strong>uazione. All’ interno del role playing possiamoconsiderare quattro fasi principali :• Warming up: Questa fase comprende tutte quelle tecniche ( brevi sketch e scenette,interviste e discussioni) volte a “riscaldare” l’ambiente, a creare, se non ancorapresente, un clima accogliente.• Azione: E’ la fase di gioco vera e propria tra gli attori. Può comprendere tecnicheparticolari come l’inversione dei ruoli, il doppio ( l’assistente si pone alle spalledell’attore e prova a dare voce a ciò che l’attore sembra non riuscire ad esprimere)che è una funzione di sostegno e accompagnamento.• Cooling off: Opposta al Warming up, questa fase serve per uscire dai ruoli e dalgioco e riprendere le distanze.• Analisi del role playing: IL role playing offre opportun<strong>it</strong>à di apprendimento. Inprimo luogo legate al momento della messa in scena, della drammatizzazione, grazie alcoinvolgimento che viene stimolato; in secondo luogo legate al momento di commento,discussione e analisi di ciò che è avvenuto: delle parole, dei gesti, della postura, degliatteggiamenti, del detto e non-detto. L’esistenza di questa fase dipende dalla presenza di118 G. Marasso, M. Tomamichel : “ La sofferenza psichica in oncologia. Modal<strong>it</strong>à d’intervento”, p. 153.LXVIII


diversi fattori: un gruppo che svolga la funzione di conten<strong>it</strong>ore, la capac<strong>it</strong>à e lamotivazione dei partecipanti a mettersi in gioco, a scoprire lasciandosi scoprire, dallacapac<strong>it</strong>à del formatore di intuire quale deve essere il livello di profond<strong>it</strong>à delleinterpretazioni a cui è opportuno fermarsi. Ogni commento non richiesto e non tollerato daipartecipanti indurrà delle difese, sarà pertanto dannoso. Il role playing può essere fonte dicambiamento , ma perché questo si verifichi bisogna riconoscere la presenza di unadisfunzional<strong>it</strong>à nelle attuali pratiche di comportamento e riuscire a passare a unaprogettual<strong>it</strong>à nuova: promuovere il cambiamento, ricostruire un clima collaborativo,rilassato e accogliente. In questo modo il role playing agisce sull’aspetto emotivo ecogn<strong>it</strong>ivo. 119 “Interpretando diversi ruoli all’interno del gruppo ognuno capirà meglio sestesso ed i propri ruoli ab<strong>it</strong>uali, ne aumenterà le possibil<strong>it</strong>à, trasformando spesso il suomodo di essere. Questa esperienza privilegiata sfocia su una migliore conoscenza di sé edegli altri, su una presa di coscienza di ciascuno e del proprio atteggiamento profondo. “(Schutzenberger, 1975, p. 80 ) Il gioco di ruolo promuove un apprendimento attivo e perquesto molto efficace, “ Apprese in questo modo, queste lezioni non si dimenticanofacilmente” ( Schutzenberger, 1975, p. 70) 120 .Da questa sintetica panoramica emergecome i gruppi nelle varie configurazioni, siano un mezzo naturale di interazione e discambio, in equilibrio dinamico con gli individui che ne fanno parte. Possono diventarepertanto irrinunciabili strumenti di lavoro in grado di potenziare risorse e creativ<strong>it</strong>à.L’AUTOBIOGRAFIA COME CURA DI SE’L’autobiografia è un genere letterario che il cr<strong>it</strong>ico francese Philippe Lejeune ha defin<strong>it</strong>ocome “ racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria esistenza,quando mette l’accento sulla sua v<strong>it</strong>a individuale, in particolare sulla storia della propriapersonal<strong>it</strong>à". C’è un momento, nel corso della v<strong>it</strong>a, in cui si sente il bisogno di raccontarsiin modo diverso dal sol<strong>it</strong>o. Questo bisogno, i cui contorni sfumano, e tale può restare per ilresto dell’esistenza, una presenza incompiuta, ricorsiva, insistente, è ciò che prende ilnome di pensiero autobiografico. Il pensiero autobiografico, anche laddove si volga verso119 S. Ricotta : “Il Role Playing”, 2004 http//www.psicologiadelavoro.com.120 A. Improta: “Il Role Playing” laboratorio di ricerca e sviluppo in psicologia, 2006. http//psicolab.netLXIX


un passato personale doloroso di errori o occasioni perdute, di storie consumate male onon vissute affatto, è pur sempre un ripatteggiamento con quanto si è stati. Questariconciliazione - un’assoluzione talvolta certo difficile - procura all’autore della propriav<strong>it</strong>a emozioni di quiete. Ciò che è stato poteva forse compiersi altrimenti, la storia avrebbepotuto conoscere altri finali, ma, comunque sia, ora quella storia è ciò che è. E si tratta dicer<strong>care</strong> di amarla poiché la nostra storia di v<strong>it</strong>a è il primo e ultimo amore che ci è dato insorte. Per tale motivo il pensiero autobiografico in certo qual modo ci cura; ci fa sentiremeglio attraverso il raccontarci e il raccontare che diventano quasi forme di liberazione edi ricongiungimento. 121 La scr<strong>it</strong>tura autobiografica ( pratica che sta iniziando a diffondersiin alcuni servizi) consente di r<strong>it</strong>rovarsi, di ridare un senso alla propria ident<strong>it</strong>à personale eprofessionale, di “ ri-progettarsi” nel progettare la cura. L’autobiografia professionaleaccresce la consapevolezza di sé, sgorga da un intuizione che mette a fuoco un vissuto, chedà parola a una sensazione rimasta indefin<strong>it</strong>a, che depone sulla carta una delusione, unagioia commossa. “ La ver<strong>it</strong>à di ciò che accade nel seno nascosto del tempo è il silenziodelle v<strong>it</strong>e, che non può essere detto (…): Ma è proprio ciò che non si può dire che bisognascrivere” 122 Alla parola scr<strong>it</strong>ta, si affidano, quei moti dell’anima generalmente taciuti eallontanati entro rapporti che devono soggiacere alle tecniche. 123 Il lavoro dell’aver curaha bisogno di riflessiv<strong>it</strong>à e saggezza, della capac<strong>it</strong>à di elaborare pensieri in dialogocontinuo con l’esistenza. Il vuoto di sapere e di competenze, sulle diverse forme di disagioprofessionale, può iniziare ad essere colmato attraverso la scr<strong>it</strong>tura di sé, quella scr<strong>it</strong>turaintesa come “ luogo interiore di benessere e di cura”, “ esercizio filosofico applicato a sestessi.” (Demetrio, 1995, p. 10).La rilevanza della narrazione come strumento formativo edi cura è ins<strong>it</strong>a nella capac<strong>it</strong>à di far emergere gli aspetti più significativi dell’esperienzavissuta. La sua final<strong>it</strong>à è sviluppare nuovi atteggiamenti nei confronti di se stessi e dellefunzioni svolte, imparando a riflettere sui modi in cui si vive la relazione. Nella formazionein amb<strong>it</strong>o san<strong>it</strong>ario, come abbiamo più volte sottolineato, viene data spesso la prior<strong>it</strong>à allecompetenze scientifiche tralasciando quelle umanistiche. Ma, oltre al sapere scientifico, èimportante acquisire e sviluppare anche la capac<strong>it</strong>à di ascolto, di comprensione e dirispetto. La responsabil<strong>it</strong>à di coloro che lavorano nella cura si acquisisce formandosi ancheattraverso la metodologia della narrazione, dove il soggetto in apprendimento narra di sé;121 D. Demetrio: “Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé”, 1995, p.10-11.122 M. Zambrano:”Verso un sapere dell’anima”,1996, p. 25-26.123 V.Iori: “Nuove fragil<strong>it</strong>à e lavoro di cura”, 2008,p. 235.LXX


delle proprie motivazioni al lavoro di cura, delle occasioni di apprendimento, delle primeconoscenze della cura, delle proprie esperienze di curato, quando qualcun altro si èoccupato di lui. Le nostre esperienze di malattia complessivamente racchiudono una taldens<strong>it</strong>à di componenti cogn<strong>it</strong>ive e di vissuti affettivi che richiedono un’adeguataelaborazione culturale ed esistenziale. Il pensiero narrativo è molto legato al contesto edalla s<strong>it</strong>uazione particolare da cui si sviluppa. Il riferimento è sempre ad eventi particolari econcreti che caratterizzano la giornata lavorativa. Nelle attiv<strong>it</strong>à formative, quindi, lanarrazione non può essere un fatto individuale, ma spesso il racconto del singolo vienecondiviso, analizzato ed interpretato dal gruppo “ Il testo è un ponte che unisce narratoread ascoltatore su cui trans<strong>it</strong>a esperienza che si offre all’osservazione, alla condivisione,all’elaborazione e all’interpretazione propria e altrui” 124 Si evidenzia dunque il valore delmetodo della narrazione come forza generatrice di un patto per il cambiamento, per unarelazione che possa aiutare sia chi cura che coloro che si offrono come facil<strong>it</strong>atori del loroapprendimento in un percorso che parte dalla accettazione e dal riconoscimento dei lim<strong>it</strong>iper camminare insieme e trovare le vie per superarli. Il dispos<strong>it</strong>ivo narrativo consentedunque di edu<strong>care</strong> alla relazione ed è un potente strumento di sviluppo della competenzaemotiva. I sentimenti ed i pensieri di chi cura possono essere raccolti ed esaminatiattraverso l’utilizzo di diari emozionali con l’obbiettivo di indagare il tipo di sentimenti evissuti che si provano, e con la possibil<strong>it</strong>à di riflettere su questi ultimi. (P<strong>it</strong>tala, Mantyranta,2004). La pratica diaristica consente di porsi in una posizione percettivo-riflessiva diversarispetto a quella ab<strong>it</strong>uale, e di riconsiderare, così, aspetti dell’esperienza professionalesol<strong>it</strong>amente abbandonati alla routine del lavoro quotidiano. Di qui l’idea che riconquistarezone “invisibili” perché scontate, o vedere aspetti diversi di una medesima esperienza, oscegliere di soffermarsi anal<strong>it</strong>icamente su un percorso professionale ( per esempio ledinamiche relazionali tra colleghi, la gestione delle problematiche che possono insorgerenella gestione dei familiari, i momenti a forte impatto emotivo dell’operatore ecc. ), sianotutte occasioni formative che trovano nella scr<strong>it</strong>tura giorno-per-giorno un espediente unicoper estensione e profond<strong>it</strong>à. Madrussan sottolinea come l’utilizzo dei diari si configuricome una vera e propria “sosta riflessiva”, necessaria per dare forma alla propria esistenza.In tal modo riflettere sull’esperienza significa riflettersi nell’esperienza, cioè significarielaborare, amplifi<strong>care</strong> e ricondurre l’accaduto ad una pratica di sé tesa ad attribuire senso124 Franza, A.Montana: “Dissolvenze.Le immagini della formazione”,1997.LXXI


e forma alla problematic<strong>it</strong>à dell’io.( Madrussan, 2007). La letteratura presenta numeroseesperienze dell’utilizzo della diaristica nella formazione in amb<strong>it</strong>o san<strong>it</strong>ario, consentendodi affermare che tale pratica si presenta ricca di risvolti pos<strong>it</strong>ivi per l’apprendimentodall’esperienza. (Garrino, 2007). L’utilizzo della narrazione trova inoltre una suaapplicazione in senso autobiografico all’interno delle esperienze personali nella sezioneche comprende aspetti biografici e personali relativi a “chi sono” ed al “che cosa ho fatto”per la presentazione e ricostruzione della propria storia professionale, utile anche condurreil proprio bilancio di competenze. L’utilizzo delle pratiche di tipo narrativo si presta esupporta anche la creazione di un laboratorio continuo come spazio di analisi e riflessionesulle pratiche quotidiane, quale strumento di supervisione nei contesti lavorativi. L’utilizzodi metodologie narrative richiede tempo: i r<strong>it</strong>mi devono essere lenti per consentire lalibertà di espressione e il tempo di analisi e interpretazione. La compless<strong>it</strong>à dell’utilizzodella narrazione richiede una progettual<strong>it</strong>à accurata ed una definizione degli obiettivi diapprendimento finalizzati ai bisogni formativi dei soggetti. E’ importante inoltre, che ildiscente percepisca chiaramente che la propria narrazione non venga utilizzata per finivalutativi di tipo sanzionatorio. Trovarsi davanti ad un foglio bianco con il mandato dinarrare può scatenare delle crisi di rifiuto, deve essere garant<strong>it</strong>a la libertà individuale, senzaforzature ed obblighi. La presenza e il supporto del formatore, che dimostra di accoglierequesta difficoltà iniziale, sdrammatizzando, alleggerendo e fornendo esempi per il ricordodi s<strong>it</strong>uazioni significative, permette di superare il blocco iniziale. Il raccontare e ilraccontarsi consente di orientare lo sguardo su aspetti particolari dell’esperienza esviluppare nel soggetto in formazione questa capac<strong>it</strong>à riflessiva su di sé. Il dispos<strong>it</strong>ivonarrativo contribuisce ad edu<strong>care</strong> alla relazione ed è un potente strumento di sviluppo dellacompetenza emotiva: consente di esplorare prima a livello individuale e poi in gruppo ladimensione cogn<strong>it</strong>iva e affettiva dell’apprendimento, dell’insegnamento e del lavoro dicura, portando i partecipanti a riflettere su quali sono le dinamiche e sugli es<strong>it</strong>i.Complessivamente consente un ricco ed approfond<strong>it</strong>o lavoro di cresc<strong>it</strong>a personale eprofessionale.LXXII


CAPITOLO 5. MATERIALI E METODI5.1. DISEGNOE’ stato effettuato uno studio descr<strong>it</strong>tivo con somministrazione di un questionario,composto da 12 domande. Questa ricerca è nata con lo scopo di capire quale e quanto sia ilcoinvolgimento emotivo, dell’infermiere, “nell’assunzione” quotidiana della sofferenza.Attraverso le risposte degli operatori si è cercato di comprendere se il disagio emotivo eratale da renderli v<strong>it</strong>time di se stessi. Altresì si è individuato se erano in grado attraversoadeguate strategie di coping e una formazione mirata di divenire sopravvissuti. Questaindagine ha permesso di capire se il problema del burn-out emotivo esiste, se è percep<strong>it</strong>oe quanto possa condizionare il rapporto con noi stessi, i nostri colleghi e gli affetti. Sonostati distribu<strong>it</strong>i 221 questionari nel mese di Ottobre 2008 presso gli Ospedali di Mirandolae Finale Emilia della provincia di Modena.5.2. SETTINGOspedale di Mirandola presso le Un<strong>it</strong>à Operative di:• Medicina Generale;• Chirurgia;• Pneumologia;• Ortopedia;• Pediatria;• Lungodegenza post-acuzie;• Fisiatria;• Cardiologia;• Day Hosp<strong>it</strong>al Oncologico;• Ostestricia e Ginecologia;• Sala Operatoria chirurgica;• Sala Operatoria ortopedica;• Endoscopia;• Pronto Soccorso;LXXIII


Ospedale di Finale Emilia presso le Un<strong>it</strong>à Operative di:• Lungodegenza post-acuzie;• Punto di primo intervento;• Day Surgery;5.3. POPOLAZIONEI questionari sono stati distribu<strong>it</strong>i a tutto il personale infermieristico. In totale ne sono staticonsegnati 221 e raccolti 136 (≅ 61%)5.4. RICERCA E RISULTATIQuestionari divisi per sesso: Su un campione di 136 infermieri, 23 (17%) erano di sessomaschile, 113 (83%) di sesso femminile.Figura 1 - Questionari divisi per sessoLXXIV


Questionari divisi per anzian<strong>it</strong>à di servizio: Su un campione di 136 infermieri sono statisuddivisi per anzian<strong>it</strong>à di servizio, frazionati in decadi: da 1 a 10 anni di anzian<strong>it</strong>à 35infermieri, da 11 a 20 anni 53 infermieri, da 21 a 30 anni 39 infermieri e ≥ a 30 anni 5infermieri.Figura 2 - Questionari divisi per anzian<strong>it</strong>à di servizioQuestionari divisi per età: Il campione analizzato è suddiviso per età anagrafica: 13infermieri con età compresa tra 20 e i 30 anni, 66 con un’età compresa tra i 31 e i 40 anni,49 con un’età compresa tra i 41 e i 50, infine 8 infermieri con età ≥ ai 50 anni.Figura 3: Questionario diviso per etàLXXV


1° Domanda del questionario: Cosa ti ha spinto a scegliere una professione come quellainfermieristica?Nel campione preso in esame 67 infermieri hanno scelto la professione perché hanno uninteresse per le professioni san<strong>it</strong>arie, 65 per il desiderio di essere utili a qualcuno, 18perché garantisce uno stipendio sicuro, 17 perché hanno un familiare o un’amico chesvolge la stessa professione, 8 perché hanno vissuto un dramma familiare, 4 per il fascinoche la professione susc<strong>it</strong>a, in particolare rifer<strong>it</strong>o al modo in cui i media ci rappresentano e 1non ha risposto.Figura 4: 1° Domanda del questionario: Cosa ti ha spinto a scegliere una professionecome quella infermieristica?2° Domanda del questionario: Sei mai stato/a preparato/a ad affrontare la sofferenzadurante gli anni di studio?Il 52% del campione ha risposto con un sì, il 46% con un no e il 2% poco.Figura 5: 2° Domanda del questionario: Sei mai stato/a preparato/a ad affrontare lasofferenza durante gli anni di studio?LXXVI


3° Domanda del questionario: Cosa avverti quando vedi una persona soffrire?Nel campione analizzato 70 infermieri provano compassione, 69 tenerezza, 37malinconia, 34 inadeguatezza, 30 dolore, 28 rabbia, 21 distacco,12 paura, 5 fastidio e 4cinismo.Figura 6: 3° Domanda del questionario: Cosa avverti quando vedi una personasoffrire?LXXVII


4° Domanda del questionario: Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante laquale la tua emotiv<strong>it</strong>à è stata particolarmente messa alla prova?Nel campione preso in esame 26 persone non hanno risposto, 8 hanno risposto “non mi sonomai sent<strong>it</strong>o messo alla prova”, 19 hanno risposto “uso la mia professional<strong>it</strong>à per non gestire lemie emozioni”, 17 hanno risposto “sono fortunato! – la v<strong>it</strong>a è breve!”, 17 hanno risposto“cerco un modo per liberarmene”, 6 hanno risposto “ti condiziona la v<strong>it</strong>a cambiandola”, 30hanno risposto “mi sento psicologicamente troppo debole”, infine 11 hanno risposto “mi sentoinutile”.26819171763011Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante quale la tua emotiv<strong>it</strong>à è statamessa a dura prova?Figura 7: 4° Domanda del questionario: Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante la qualela tua emotiv<strong>it</strong>à è stata particolarmente messa alla prova?LXXVIII


5°Domanda del questionario: Con quale di queste affermazioni ti trovi più in accordo?Per il 60% del campione preso in esame la v<strong>it</strong>a e il lavoro sono indipendenti,e per il40% sono interdipendenti.Figura 8: 5° Domanda del questionario: Con quale di queste affermazioni ti trovi più inaccordo?6° Domanda del questionario: Quali strategie di difesa utilizzi per difenderti di fronte aldolore e alla sofferenza?Le strategie di coping più utilizzate dal campione preso in esame, divise per anzian<strong>it</strong>à diservizio,Figura 9: 6° Domanda del questionario: Quali strategie di difesa utilizzi per difenderti difronte al dolore e alla sofferenza?LXXIX


7° Domanda del questionario: Ti sei mai confrontato con i colleghi quando seiemotivamente in difficoltà?Nel campione preso in esame il 54% a dichiarato che Qualche volta si è confrontato coni colleghi, il 27% Spesso e il 19% Mai.Figura 10: 7° Domanda del questionario: Ti sei mai confrontato con i colleghi quandosei emotivamente in difficoltà?8° Domanda del questionario: Pensi che l’aver scelto un lavoro come il tuo ti esoneri dalprovare emozioni forti?L’85% del campione preso in esame ha risposto No, il 6% Non so, il 6% Non ha risposto eil 3% ha risposto Sì.Figura 11: 8° Domanda del questionario: Pensi che l’aver scelto un lavoro come il tuoti esoneri dal provare emozioni forti?LXXX


9°Domanda del questionario: Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?Il 34% del campione preso in esame ha paura di potersi indurire emotivamente, il 19% sisente emotivamente sfin<strong>it</strong>o, per il 15% il contatto diretto con il dolore e la sofferenza glipesa, l’11% dichiara di essere diventato insensibile, un altro 11% non ha dato nessunarisposta e il 10% r<strong>it</strong>iene di trattare gli utenti come oggetti.Figura 12: 9° Domanda del questionario: Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?10° Domanda del questionario:Vorresti avere la possibil<strong>it</strong>à, nei momenti di difficoltàemotiva, di rivolgerti ad un esperto all’interno del tuo Presidio?Il 64% del campione preso in esame ha risposto Sì e il 36% ha risposto No.Figura 13: 10° Domanda del questionario:Vorresti avere la possibil<strong>it</strong>à, nei momenti didifficoltà emotiva, di rivolgerti ad un esperto all’interno del tuo Presidio?LXXXI


11° Domanda del questionario: Hai mai sent<strong>it</strong>o parlare di counseling?Il 51% del campione dichiara di aver sent<strong>it</strong>o parlare di counseling e il 49% dichiara di nonconoscerlo.Figura 14: 11° Domanda del questionario: Hai mai sent<strong>it</strong>o parlare di counseling?Completamento 11° Domanda del questionario:Il 67% del campione ha dichiarato di essere venuto a conoscenza del termine counselingall’interno di percorsi formativi e il 33% durante il percorso di studi.Figura 15: Completamento 11° Domanda del questionario: Se sì in quale occasione?LXXXII


12° Domanda del questionario: Hai mai frequentato un percorso formativo che ti aiutasse aconoscerti meglio, a rafforzare la tua autostima e ad elaborare le tue emozioni?Il 75% del campione ha dichiarato di non aver mai frequentato alcun corso che lo aiutassead elaborare le proprie emozioni e il 25% ha dichiarato di aver frequentato un corso che loaiutasse ad elaborare le proprie emozioni.Figura 16: 12° Domanda del questionario:Hai mai frequentato un percorso formativoche ti aiutasse a conoscerti meglio, a rafforzare la tua autostima e ad elaborare le tueemozioni?Completamento della 12° domanda del questionario:Il 50% del campione ha scelto i gruppi Balint e i role playing, il 12% uncounselor/psicologo permanente, il 10% non sa e il 5% vorrebbe degli incontri individualicon un counselor/psicologo.Figura 17: Completamento della 12° domanda del questionario: Se no, cosa preferirest<strong>it</strong>i fosse proposto?LXXXIII


5.5. DISCUSSIONE E CONCLUSIONELa raccolta dati ha permesso di evidenziare s<strong>it</strong>uazioni dalle quali emergono elementi didiscussione piuttosto interessanti che confermano quanto il nostro lavoro sia impegnativodal punto di vista emotivo. E’ importante mettere in evidenza l’elevata adesione alquestionario, dei 221 distribu<strong>it</strong>i a tutto il personale infermieristico dei Presidi Ospedalieridi Mirandola e Finale Emilia, ne sono stati raccolti 136 per cui ben il 61% dei colleghihanno ader<strong>it</strong>o all’iniziativa. L’adesione allo studio, che ha avuto una durata di 4 mesi(Ottobre 2008 - Gennaio 2009), è stata del tutto volontaria e, come già specificato, non havoluto privilegiare nessuna Un<strong>it</strong>à Operativa in particolare. La scelta della sperimentazioneha coinvolto ogni infermiere in servizio nel periodo suddetto, in quanto il coinvolgimentoemotivo di fronte alla sofferenza, riguarda tutti indistintamente. I dati percentuali rifer<strong>it</strong>ialla partecipazione al questionario e la spontane<strong>it</strong>à all’adesione ci hanno consent<strong>it</strong>o dicapire quanto il problema dell’emotiv<strong>it</strong>à venga sent<strong>it</strong>o. Persone con un passato, cheinserisce luci ed ombre sul presente; che nutrono sogni, desideri e aspettative; che simuovono nel quotidiano, con il loro bagaglio di frustrazioni, delusioni, orgoglio, voglia di“farcela” e timore di fallire. Infermieri/e che hanno messo a disposizione tutta la loroesperienza e sensibil<strong>it</strong>à per aiutarci a comprendere che cosa si cela sotto la superficie dellaquotidian<strong>it</strong>à e, già dalle prime risposte, affiora la componente emotiva. Alla domanda chechiedeva del perché si è scelto il lavoro di cura, la maggioranza riferisce di essere stataspinta dal desiderio di essere utile a qualcuno, molti, quando sono a contatto con lasofferenza, avvertono compassione, tenerezza, inadeguatezza e malinconia. Un datosignificativo da rilevare è l’elevata presenza di personale di sesso femminile (83% delcampione) che dà sicuramente ragione di queste risposte. La donna ha da sempre unacollocazione di prevalenza nel lavoro di cura, si parla addir<strong>it</strong>tura di “una “divisionesessuale del lavoro di cura” che attribuisce alle donne la responsabil<strong>it</strong>à delle attiv<strong>it</strong>à dicura”. Il personale maschile, se pur irrisorio (17% del campione), ha infatti privilegiato lostipendio come motivazione alla scelta della professione perché in genere l’uomo ha piùdifficoltà ad esplic<strong>it</strong>are il proprio disagio interiore, difficilmente abbandona il cliché dipersona forte ed autosufficiente. Nel t<strong>it</strong>olo della tesi viene suddiviso l’infermiere,nell’approccio alla sofferenza, in “v<strong>it</strong>tima” o “sopravvissuto” e dalle risposte successive siavverte con chiarezza questa realtà. L’infermiere “v<strong>it</strong>tima” appare in tutta la sua fragil<strong>it</strong>àLXXXIV


quando gli viene chiesto “Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante la qualela tua emotiv<strong>it</strong>à è stata particolarmente messa alla prova?”. Il grafico è rappresentatoappos<strong>it</strong>amente da una serie concentrica di cerchi che vanno da una condizione di massimafreddezza sino ad una di elevato coinvolgimento, con una piccola percentuale che esprime,seppur in modo lieve, un desiderio di riscatto. Partendo dalla s<strong>it</strong>uazione di massimafreddezza troviamo che ben 26 componenti del campione non hanno risposto e 8 non sisono mai sent<strong>it</strong>i messi alla prova, un segnale piuttosto preoccupante in quanto non fanno, onon sono in grado di fare nessuna riflessione di fronte alla sofferenza. E’ un messaggiochiaro di disagio e di distacco, di allontanamento dal problema che sembra non riguardarli,preferiscono “non sapere”, “non porsi alcuna domanda”, si trincerano dietro una cortina digelo nella speranza che possa proteggerli, senza pensare che invece non fa altro cherenderli ancor più indifesi. Questa negazione o rimozione non ammette spazio aisentimenti, non dà voce alle emozioni, non attribuisce significato a una parte importantedei comp<strong>it</strong>i professionali e soprattutto alle proprie risorse emotive. Sempre rimanendonell’amb<strong>it</strong>o di questo schema, un totale di 46 infermieri/e dichiara di utilizzare la propriaprofessional<strong>it</strong>à per allontanarsi dalle emozioni o preferisce “frasi fatte” quali “sonofortunato! La v<strong>it</strong>a è breve!”. Dobbiamo chiederci se in queste affermazioni ci sia solo unacerta superficial<strong>it</strong>à o se invece sono anch’esse una modal<strong>it</strong>à di fuga. Proseguendonell’analisi 17 colleghi del campione si lasciano condizionare al punto che il lavoro è ingrado di cambiargli la v<strong>it</strong>a, tanto che 40 di loro r<strong>it</strong>iene che v<strong>it</strong>a familiare e professionesiano interdipendenti e leggiamo dichiarazioni come: “Spero che ciò che ho visto oggi, noncap<strong>it</strong>i mai alla mia famiglia”, “Nelle s<strong>it</strong>uazioni dolorose ripenso spesso i miei figli”. Sigiunge infine a dati allarmanti in cui 41 infermieri/e riferiscono di sentirsi troppo deboliper affrontare la sofferenza quotidiana, o addir<strong>it</strong>tura di sentirsi inutili e si esprimono confrasi come “ Chiudo il “cancello” delle mie emozioni”, “Rifletto sulla sofferenza, e capiscoche è più facile accettare la morte che la sofferenza stessa”. Come non pensare a questopunto ad un elevato tasso di burn-out emotivo, ad un vero e proprio “analfabetismoemozionale” a quello che viene defin<strong>it</strong>o un “guar<strong>it</strong>ore fer<strong>it</strong>o”. All’interno della stessadomanda, tra i molti che denunciano una chiara sofferenza interiore, 17 hanno dichiarato dicer<strong>care</strong> un modo per liberarsi da certi pensieri r<strong>it</strong>enuti ingombranti anche se non sannoancora come. Vediamo comunque affiorare un fragile tentativo di riscatto, uno stimoloalla riflessione, un segno di speranza, un’ammissione e una volontà di essere aiutati, unoLXXXV


sforzo per cer<strong>care</strong> di crescere e migliorarsi. Purtroppo nell’immaginario comune si èportati a credere che la scelta di svolgere un lavoro di cura sia tale da renderci immuni alcoinvolgimento, all’empatia e al disagio ma fortunatamente alla domanda “Pensi che l’averscelto un lavoro come il tuo ti esoneri dal provare emozioni forti?” l’85% dei colleghi harisposto di non sentirsi affatto esonerato dal provare forti emozioni, nonostante abbiaprefer<strong>it</strong>o una professione che invece dovrebbe trovarci “pronti” o “ab<strong>it</strong>uati” al dolorealtrui. Al di là dei propos<strong>it</strong>i pos<strong>it</strong>ivi, viene ancora svelato un buon livello di sofferenza chetraspare con chiarezza alla domanda “Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?”.Parecchi infermieri/e dichiarano (il 34% del campione) che hanno paura di poter indurire ilproprio carattere, accanto ad un 19% del campione che si sente emotivamente sfin<strong>it</strong>o e unaltro 15% che riferisce quanto il contatto diretto con il dolore e la sofferenza crei nel loroanimo una sensazione di peso. Quanta forza e che grado elevato di disperazione si coglie insimili e alquanto pesanti dichiarazioni; se non è esaurimento emotivo questo..! Ilquestionario prosegue con altre interessanti rivelazioni inerenti le strategie di coping messein atto dal campione preso in esame. E’ evidente, dall’analisi dell’ istogramma, quanto ilcampione si differenzi nella scelta delle strategie di coping da adottare al fine di proteggereil proprio benessere personale. Gli infermieri/e che hanno un’anzian<strong>it</strong>à lavorativa che vadall’1 ai 10 anni di attiv<strong>it</strong>à tendono ad usare un approccio negativo. Privilegiano coping diev<strong>it</strong>amento e di distacco, oppure scelgono di non rispondere o di non utilizzare alcunastrategia difensiva. L’atteggiamento scelto, va senza dubbio imputato al fatto che nonhanno ancora maturato esperienza sufficiente che li possa tutelare dall’essereeccessivamente coinvolti, sono incapaci di gestire adeguatamente le loro emozioni e nonriescono ad elaborarle. Questo dato si contrappone decisamente a quel 52% che hadichiarato di essere stato formato durante il percorso scolastico ad affrontare le s<strong>it</strong>uazionidi sofferenza. Se ne deduce che probabilmente la formazione è stata inadeguata,insufficiente e alquanto inefficace. Interessante infatti, è notare l’assoluta inesistenza dimodal<strong>it</strong>à di coping pos<strong>it</strong>ive quali l’ottimismo o le abil<strong>it</strong>à professionali. Il campione conanzian<strong>it</strong>à lavorativa ≥ a 30 anni fa ricorso all’ottimismo, all’ironia e al sorriso persdrammatizzare la s<strong>it</strong>uazione. Diversamente molti di loro non utilizzano nessuna strategiain particolare. Questo dato non è da vedersi in modo negativo in quanto, moltoprobabilmente, accettano l’evento emotigeno come parte della loro quotidian<strong>it</strong>à.Preferiscono elaborarlo successivamente, eventualmente facendo ricorso al coping centratoLXXXVI


sulla richiesta di supporto sociale, infatti il 54% sono disposti a confrontarsi con i colleghidopo una giornata o un evento emotivamente pesante. Il campione con anzian<strong>it</strong>à che vadagli 11 ai 30 anni ha una distribuzione più equa delle strategie, l’unico dato interessantedi chi ha un’anzian<strong>it</strong>à compresa tra i 21 e i 30 anni è che preferisce non ricorrere alleabil<strong>it</strong>à professionali, si è già allontanato dall’idea che il tecnicismo possa essere sufficientea tutelarlo dall’eccessivo coinvolgimento. Appare comunque evidente, dai dati generali,quanto sia pesante la s<strong>it</strong>uazione di burn-out emotivo, il bisogno di aiuto che deve esseregarant<strong>it</strong>o all’operatore, già dai primi anni di attiv<strong>it</strong>à lavorativa. L’infermiere/a ha ildir<strong>it</strong>to/dovere di ricer<strong>care</strong> un valido supporto per potersi r<strong>it</strong>enere “sopravvissuto”. Ildesiderio di essere aiutati è palesato da un 64% dei colleghi che vorrebbe rivolgersi ad unaesperto in caso di difficoltà emotiva e da più di un 50% che ha sent<strong>it</strong>o parlare di counselingall’interno di percorsi formativi. Interessante è sapere che purtroppo ben il 75% non ha maiaffrontato un percorso formativo che lo aiutasse ad elaborare le proprie emozioni. Appareevidente che si favoriscono sempre corsi di formazione che privilegiano la preparazionetecnico-strumentale. Ai colleghi è stato inoltre chiesto cosa avrebbero prefer<strong>it</strong>o gli fosseproposto, ai fini di sviluppare una maggiore capac<strong>it</strong>à all’elaborazione degli eventi e allosviluppo di più adeguate strategie di coping. La maggioranza ha prefer<strong>it</strong>o il Gruppo Balinto il Role Playing oppure un counselor permanente all’interno della struttura. Inconclusione dai dati rilevati appare chiaramente la presenza di tassi elevati di sofferenzanell’operatore. L’infermiere che è parte in causa ed è direttamente coinvolto“nell’assunzione quotidiana di sofferenza” diventa l’attore principale del coinvolgimentoemotivo. Questo continuo contatto con il dolore lo indurisce interiormente e lo allontanadalla scelta che ha fatto, quella di offrire aiuto e cura a chi ne necess<strong>it</strong>a. Da questa ricercaè quanto mai chiaro che il problema dello stress emotivo esiste e che spesso non èmanifesto, lo si allontana quasi non ci riguardasse. Solo un attenta analisi ha permesso chela realtà fosse visibile in tutta la sua grav<strong>it</strong>à. Appare evidente quanto il collega che iniziala nostra professione esca dal periodo di studi privo di una formazione adeguata, che lotuteli per escludere la possibil<strong>it</strong>à che il burn-out emotivo lo colpisca. La spintamotivazionale, presente agli inizi dell’attiv<strong>it</strong>à, non è sufficiente a difenderlo, le sueaspettative di un ambiente lavorativo diverso, più attento alle difficoltà emotivedell’operatore vengono ben presto, e in più occasioni disattese. Solo con il passare deglianni l’esperienza aiuta ad affrontare e ad affinare le strategie di coping. Il percorso però èLXXXVII


denso di difficoltà e sarebbe utile intervenire prima che trascorrano molti anni in cui non siè fatto nulla per migliorare se stessi e la propria v<strong>it</strong>a interiore. Questa ricerca ha permessodi mettere in luce aspetti molto interessanti dell’emotiv<strong>it</strong>à che vanno oltre le semplicicompetenze tecniche. Lo scopo fondamentale era quello di capire se il problema del burnoutemotivo esisteva e se era percep<strong>it</strong>o dagli infermieri di qualunque contesto lavorativo.E’ noto che all’interno di alcuni contesti, come reparti che gestiscono pazienti oncologici ole un<strong>it</strong>à operative di pronto soccorso, siano maggiori le possibil<strong>it</strong>à di burn-out emotivo macredo che ogni operatore san<strong>it</strong>ario ne sia colp<strong>it</strong>o e, a cambiare, siano semplicemente <strong>it</strong>empi d’insorgenza. Inoltre è davvero triste pensare che per potersi tutelare si debba faraffidamento solo sulla propria esperienza lavorativa, r<strong>it</strong>enere che sia il tempo trascorso acontatto con la sofferenza ad insegnarci le corrette strategie di coping e la capac<strong>it</strong>à dielaborazione. Sarebbe di grande interesse che ricerche come questa riuscissero asensibilizzare i responsabili del personale san<strong>it</strong>ario affinché questo fenomeno possa esserecontrollato. Bisognerebbe ev<strong>it</strong>are, attraverso una formazione precoce e costante, che ilburn-out emotivo abbia inizio e riuscire ad arginare il problema prima che si manifesti.Quest’opera di rinnovamento servirebbe prima di tutto al benessere dell’operatore e diconseguenza ne beneficerebbe anche chi necess<strong>it</strong>a delle sue cure.LXXXVIII


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6. ALLEGATI - QUESTIONARIOGentile collega, ti chiedo un attimo del tuo tempo per rispondere a qualche domanda.Sto facendo una ricerca che ha lo scopo di capire quale e quanto sia il nostrocoinvolgimento emotivo “nell’assunzione” quotidiana di sofferenza.Mi sono chiesta se siamo in grado di percepire i nostri sentimenti e le nostre emozioni, didar loro un valore e, se e quanto condizionano il rapporto con noi stessi, i nostri colleghi e inostri affetti.Alcuni dati per conoscerti:Eta’:Sesso:Anzian<strong>it</strong>a’ lavorativa:1. Cosa ti ha spinto a scegliere una professione come quella infermieristica?(segna con una x le tue motivazioni)• Uno stipendio sicuro• Un’esperienza drammatica in famiglia• Un familiare/amico che gia’ svolge questa professione• Il desiderio di essere utile a qualcuno• Un interesse per la pratica san<strong>it</strong>aria• Il fascino susc<strong>it</strong>ato dalla professione infermieristica, in particolare rifer<strong>it</strong>o almodo che certa televisione ha di rappresentarci2. Sei mai stato/a preparato/a ad affrontare la sofferenza durante gli anni distudio?SiNoXCIV


3. Cosa avverti quando vedi una persona soffrire?(segna con una x sino a tre possibil<strong>it</strong>à)• paura• compassione• distacco• cinismo• dolore• orrore• fastidio• inadeguatezza• malinconia• tenerezza• rabbia4. Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro durante la quale la tuaemotiv<strong>it</strong>à e’ stata particolarmente messa alla prova?5. Con quale di queste affermazioni ti trovi più in accordo?• La v<strong>it</strong>a privata e il lavoro sono interdipendenti• La v<strong>it</strong>a privata e il lavoro sono totalmente indipendenti6. Quali strategie di difesa utilizzi per difenderti di fronte al dolore e allasofferenza?7. Ti sei mai confrontato con i colleghi quando sei emotivamente in difficoltà?• Spesso• Qualche volta• Mai8. Pensi che l’aver scelto un lavoro come il tuo ti esoneri dal provare emozioniforti ?XCV


9. Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?• Mi sento emotivamente sfin<strong>it</strong>o/a dal mio lavoro• Lavorare a contatto diretto con il dolore e la sofferenza mi pesa• Ho l’impressione di trattare alcuni utenti come oggetti• Da quando ho iniziato a lavorare sono diventato insensibile• Ho paura di potermi “indurire” emotivamente10. Vorresti avere la possibil<strong>it</strong>à, nei momenti di difficoltà emotiva, di rivolgerti adun esperto all’interno del tuo Presidio?SiNo11. Hai mai sent<strong>it</strong>o parlare di counseling?SiNoSe si in quali occasioni?12. Hai mai frequentato un percorso formativo che ti aiutasse a conoscerti meglio,a rafforzare la tua autostima e ad elaborare le tue emozioni?SiNoSe no cosa preferiresti ti fosse proposto?Grazie per la collaborazioneXCVI

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