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Aldo <strong>Cherini</strong>CAPODISTRIA NEL 1700EGIAN RINALDO CARLI(1720 - 1795)Autoedizione1994


✍ Aldo <strong>Cherini</strong>, aprile 1994 - febbraio 2011impaginazione e stampawww.cherini.eu


Quante campane facevano sentire i loro rintocchidall’alto dei tanti campanili, che scorgiamo stagliarsisopra i tetti delle case nella veduta dedicata all’EccellentissimoPubblico Rappresentante NH Galeazzo Antelmi,podestà e capitano di Capodistria nel 1781?Con quale voce il coro dei bronzi scandiva le ore esegnava la fine della giornata vibrando da un capo all’altrodella città ancora chiusa tra le antiche mura chegiravano attorno al gorgòneo scoglio lambendo la marina?Una veduta, questa, certamente idealizzata ed enfatizzata.Ma di campane, grandi e piccole, ce n’eranoeffettivamente molte: 40 chiese e cappelle, 6 ordini conventualimendicanti, un priorato di monaci, 2 monasteri,3 oratorii, 9 sale e 27 confraternite o scuole laiche.1


Aggiungansi una cattedra vescovile, un sacro ufficio perle eretiche pravità, i padri piaristi, professori ed educatorinel celebre Collegio cittadino, la cui influenza spaziavasu tutta la provincia e oltre, e si ha un quadro incredibileper una città così piccola.Il vescovo fra Paolo Naldini (1686-1713), eremitano,riferendosi ai due conventi di suore di San Biagio e SantaChiara, scriveva con una nota di compiacimento che essi,con la servitù e le educande, “alimentavano sessanta epiù Vergini per luogo: prerogativa singolare della capitaledell’Istria, poiché a niun’altra Città della Provincia impartita”.La cattedra episcopale stessa era la più illustrefacendosi risalire la fondazione nientemeno che al 524d.C., anno più o anno meno, con non pochi vescoviinsigni per nobiltà di natali, lustro di dottrina, decoro dialti uffizii e magari anche per lotte dottrinarie, travagli edeviazioni eretiche come al tempo di Pier Paolo Vergerioil Giovane, che in Capodistria e nell’Istria aveva trovatoil terreno più fertile.Con il Naldini vanno citati il conte Anton MariaBorromeo (1713- 1733), il concittadino conte AgostinoBruti(1733-1747), il patrizio veneto Giovan Battista Sandi(1746-1756), il conte Carlo Camuzzi (1756- 1789), ilpatrizio veneto Bonifacio da Ponte (1776- 1810), camaldolese,l’ultimo vescovo che, insieme alla fine di un’epoca,ha chiuso la lunga serie di una cinquantina di prelati quisuccedutisi nel tempo.* * *La pianta dell’abitato è pervenuta quasi intatta attraversoi secoli fino al giorni nostri (intendiamo fino al 1945)e consente di farci un’idea molto precisa dell’assetto2


Palazzina dei conti Carlisulla via che ha preso il nome di Gian Rinaldo3


urbanistico della città che ha mantenuto pressoché integroil disegno ad avvolgimento, proprio del medio-evo,attorno al centro della Platea Comunis e del Brolo.Molto irregolare secondo i dislivelli dello scoglio erala dislocazione delle aree edificate tra il giro delle calli,dove si ammassavano le case più umili, e le distese degliorti e dei giardini, appannaggio delle residenze patrizie econventuali.“Nel più bello della Città, qual è il suo centro, —scrivevail Naldini— s’allargano due Piazze fra le altre piùcospicue; la prima dicesi del Duomo, perché questo da dueampie strade fiancheggiato, le forma con la sua facciatanobile prospetto, tenendo alla destra la Loggia pubblica,alla sinistra il Palazzo Pretorio, ed il Sacro Monte. L’altra,più vasta, che appellasi il Brolo, è pur recinta da molti anconobili Edificj, tra i quali il Vescovato, & Fondaco (cosìnell’Istria il publico granaio appellasi). Qui s’alzano da unlato due grandi, e marmoree Cisterne, dall’altro una maestosa,ed alta Colonna sù l’eminenza di più gradini, colsimulacro della Giustizia. Corrono alle Piazze le Stradenumerose à proportione del mediocre recinto, ed à competenzadritte, larghe, e lunghe; s’adornano queste in piùparti delle honorevoli Fabbriche della Nobiltà, e suoi Titolati,e tengono à loro posti l’Officine degli Artegiani, comei Fondachi de’ Mercanti.”Nel 1750 compariva il XX volume di geografia “Lostato presente di tutti i Paesi e Popoli del Mondo, naturale,politico e morale”, opera dell’inglese John Salmon.Nel 1758 veniva preannunciata la ristampa dell’opera ese ne interessava Gian Rinaldo Carli che non trascuraval’occasione per procurare alla nuova edizione alcuneillustrazioni scrivendo da Venezia al cugino GirolamoGravisi di prendere contatto con un disegnatore elencandoi soggetti da riprendere: “A proposito di pittura: si4


istampa il xx tomo del Salmon. Voi intendete. C’entraCapodistria. Mi preme sollecitamente la veduta della cittàa colpo d’uccello e la veduta della Piazza, Belvedere, Brolocon le fabbriche adiacenti enumerate, e sotto una tabellache le spieghi e dichiari. Il sig.r Nicoletto Belli e Voi potetefare molto bene una cosa e l’altra onde non mancate: maanzi mandatemele il più presto che sia possibile,”…Quale fine abbiano fatto questi disegni non si sa,veniva pubblicata la sola veduta panoramica. “Bellissimala veduta di questa città nell’aspetto esteriore —scrivevail Salmon— perché contenendo nel suo recinto alcuniluoghi di varia altezza, compariscono agli occhj de’ riguardantigraziosamente disposte in varj gradi le fabbriche”.E ancora: ...“Gode questa città aria salubre e temperata;il mare le serve insieme di specchio e di peschiera; e verdimonti coperti di folte selve di ulivi le fan corona; somministrandoleinoltre le copiose sue vigne 20.000 orne, omisure d’ottimi vini. La sua più ricca rendita si è peròquella che ricava dalle saline poste verso Levante e Mezzogiorno,dalle quale escono ogni anno oltre 7000 moggiadi sale, di cui vengono largamente provvedute oltre la città,anche le vicine Province”.Capodistria era giunta comunque agli ultimi annidella venezianità, anni di decadenza economica, di esaurimentocivico, di rassegnate rinunzie non prive di qualcheresiduo splendore.Le mura cittadine avevano perduto ormai ogni lorofunzione e ragion d’essere, venivano conservati solamentealcuni salienti terrapienati di fronte al porto, la torredelle munizioni ed altre otto torricelle minori. Qua e là ilmantello murario era compromesso da addossate caseprivate, i cui proprietari non s’erano peritati di aprirviabusivamente porte e finestre, e larghi tratti erano crollatifornendo comodi passaggi come la così detta “Porta Rot-5


6Palazzina dei conti CarliLoggia del cortile interno con vera da pozzo del 1418


ta”. Finiva così di vecchiaia un’opera che nei secoli erastata fonte di continue preoccupazioni e inutile dispendio.Non sono poche le epigrafi attestanti i lavori riguardantila viabilità cittadina e le strade suburbane eseguitia cura dei podestà e capitani Alessandro Basadona(1701), Tommaso Morosini (1706), Giovanni Foscarini(1707), Vincenzo Balbi (1715), Nicolò Bembo (1753),Giuseppe Micheli (1765), la Via Dolfina aperta nel 1776seguendo la romana Via Flavia da Antonio Dolfin con lasovrintendenza del conte Bernardo Borisi, il Castel Leone(altro eterno malato), l’acquedotto e la Fontana da Ponte.Notabile pur nella sua semplicità la palazzina della sanitàal Porto recante lo stemma epigrafato del podestà ecapitano Pietro Grimani (1713).La chiesa non voleva sfigurare. Il vescovo Naldinierigeva nel 1710, accanto all’episcopio, un seminarioecclesiastico, che veniva ampliato nel 1722, rielaboratonel 1740 e rifatto dalle fondamenta nel 1789 “urgentealumnorum frequentia” a cura del vescovo Bonifacio daPonte. Nel 1713, per iniziativa di don Giorgio Marsia,veniva ampliata la chiesa di San Basso, che nel 1731assumeva la forma definitiva a cura del conte AlviseTarsia, con le grandi tele del soffitto riecheggianti lamaniera del celebre pittore concittadino Francesco Trevisani,attivo a Roma, e nel 1742 veniva ampliato purel’attiguo ospedale di S.Nazario dov’era cappellano donGiovanni Gavardo. La nobildonna Adriana Gavardo rifacevanel 1747, sulla “grisa” del Porto, la chiesetta dellaSS.Trinità, di patronato familiare. Lo “xenodochio” delconvento di S.Biagio veniva ampliato e decorato per laliberalità del pio Giacomo de Belli, come documentatodall’epigrafe a lui dedicata nel 1742 dal cappellano BlasioRiccobon. Il battistero romanico subiva nell’interno una7


adicale rielaborazione con stucchi e pitture alla modadel tempo a cura del vescovo Agostino Bruti (1774), chelo destinava a sepoltura propria e dei sacerdoti della suafamiglia. Il padre Peracca da Muggia, guardiano delconvento di San Francesco, curava l’esecuzione di piùlavori nel chiostro classicheggiante e nella chiesa il cuiampio soffitto veniva decorato con tre grandi affreschiincorniciati da stucchi con scene della vita del Santo esua apoteosi, figure allegoriche, mossi voli d’angeli e puttialati tra scenari di nubi; inoltre, a redimere la nudafacciata dell’antica chiesa veniva aperto un nuovo portalecon timpano rococò . Ma l’opera più cospicua resta ilDuomo, ristrutturato per volere del Naldini ad operadell’architetto veneziano Giorgio Massari, che rimaneggiavala facciata dell’antica basilica di S.Maria Assunta,manteneva le tre navate ma con struttura completamenteriformata ( grandi pilastri al posto delle colonne marmoree),interrava la cripta dell’abside, mentre ad opere diabbellimento si prestava il minorita Bernardino Fracchiada Valenzia, ricordato in un’epigrafe del 1747.I privati cittadini concorrevano ad esternare la lororeligiosità con tabernacoli applicati o aperti sulla facciatadelle loro case e merita una menzione l’elaborata edicolettacon il S.Cristoforo posta “per sua divocione” daZuane Umer nel 1737 in corrispondenza dell’erta daPonte. Una grande edicola votiva, datata 1732 ed oggivuota, si trova sulla facciata di una casa in Calle delLeone.Delle costruzioni private bisogna dire del cospicuo ebel palazzo, molto curato anche negli interni, costruitonel 1710 dal marchese Giovanni Nicolò Gravisi del Brolo(un’altro bel palazzo, dei Gravisi degli Orti Grandi, rimanevaincompiuto mancando con effetto asimmetrico dell’aladestra); degno di nota il palazzo dei conti Bruti del8


sciate da dogi, capitani generali, sovrani di altri stati.Mantenevano posizioni di preminenza i Gravisi, Borisi,Pola, Bruti, Fini, Sereni, Gavardo, Barbabianca, Belli,Grisoni, del Bello, Sabini. Ma anche tra i popolani sitrovavano nomi ripetentisi nei secoli come Padovan, Vascon,Verzièr, Lonza, Parovel, De Mori, Perini, Cernivan,Burlìn, Fedola, Deponte.S’erano fatte strada poi alcune famiglie esercitantilucrative attività commerciali e produttive, quali i Totto,che s’erano procurati il titolo comitale a suon di zecchini,e i Madonizza che non avevano ambito vuoti titoli nobiliariaccontentandosi del “de” e occupandosi piuttosto deiloro affari e dei concreti vantaggi che ne derivavano. IMadonizza acquistavano nel 1774 gli edifici e le dipendenzedel soppresso convento dei Benedettini di S.Nicolòd’Oltra trasformandolo in una delle più belle residenzeestive della zona.Le famiglie che disponevano di discrete fortune eranouna dozzina o poco più, e accentravano nelle loro maniquasi tutto il potere locale dominando in seno al MaggiorConsiglio cittadino, unico organo riconosciuto da Venezia,seppur in subordine al pubblico rappresentante, colresiduo privilegio di inviare annualmente un podestà algoverno di Due Castelli (Canfanaro), ultimo dei quali èstato il nobiluomo Bortolo Vittori, trovatosi implicato nel1797 in una sommossa di Morlacchi. I feudatari maggiori,alla fine del secolo, erano i Gravisi di Pietrapelosa e iGavardo di Castelnuovo; notevole il feudo dei Borisi aFontane, ma quasi tutti gli altri potevano vantare qualcheantico titolo anche se minimo (S.Giovanni della Cornetta,Geroldia, S.Giovanni dell’Amata, Daila, Sipar, Sterna,Leme, Valmorasa, Pedena, Villanova, Popetra, Laura,Covedo, Rosariol, i vescovili Albuzzano e Antiniano ,ecc.).10


Stemmi Carli con le varianticon colori di giallo (oro), bianco (argento), verde,azzurro e nero11


Il vescovo di Capodistria portava il titolo di conte diAntiniano.Conviene accennare che nel 1769 Francesco Damiani,capocontrada di Ponte Piccolo, presentava al podestàe capitano Antonio Marcello, a nome di tutti i capocontradae capi famiglia, la richiesta dell’istituzione di duesindaci o procuratori del popolo onde por un limite allegravezze, agli abusi ed alle angherie alle quali la classepopolare andava continuamente sottoposta. Il nobiluomoMarcello non si dichiarava contrario ad esaminare larichiesta e così pure i sindaci deputati Pietro Gavardo eNicolò Baseggio con l’assenso di alcuni cittadini non sordialle istanze della povera gente. Ma insorgevano tutti glialtri che, scavalcando le magistrature locali, si rivolgevanodirettamente a Venezia riuscendo a far naufragare ilprogetto come pericoloso sul piano delle istituzioni elimitativo dei loro antichi diritti. Il governo oligarchico diVenezia dichiarava di non doversi introdurre alcunanovità “in una città limitrofa distante sol dodici miglia daun crescente gelosissimo Emporio Austriaco” (Trieste) colpericolo di discordie e disordini come avveniva a Rovignodove i sindaci del popolo esistevano da quasi un secolo.Il podestà e capitano di Capodistria veniva incaricato,anzi, di sorvegliare discretamente gli sviluppi del nuovoemporio triestino e passare informazioni segrete su uominie cose, specialmente sui sudditi veneti che si eranocolà trasferiti attirati dalla possibilità di maggiori guadagnispecialmente nel campo delle costruzioni navali.* * *Gradi militari erano assegnati al comandante dellemilizie cernidi dell’Istria, al capo della milizia cittadinadei bombardieri, al capitano del corpo dei soldati invalidi12


impiegati alla guardia delle saline, al capitano del CastelLeone con la sua piccola squadra di soldati.Molta importanza rivestiva la camera fiscale, notacome “la Cameràl”, ente primario con un suo avvocatofiscale, il collaterale, lo scontro, il ragionato (ragioniere)e il quaderniere, camera nella quale confluivano i tributio dazi dovuti al fisco, i proventi delle affittanze e delleprivative comunali, il più importante dei quali era il daziodella Muda, che in tempi calamitosi la città aveva cedutoalla Repubblica Veneta come suo contributo per esigenzeeccezionali.I salariati della comunità comprendevano diversefunzioni o incarichi, quali il medico condotto, il chirurgo,il maestro di scuola con un ripetitore, l’ammiraglio delporto, il fontanaro, il cancelliere (detto “di comun”), duefanti, i giustizieri (controllori delle misure), l’orologiaio,un cappellano, il predicatore di Quaresima; esercitavanopubbliche funzioni i notai, gli avvocati, gli speziali.Il resto della cittadinanza, formata dal popolo minuto,non poteva vantare alcun diritto, ma ad alcuni degliuomini più affidabili era assegnato qualche compito comequello di capocontrada o di cavediere, cioè custode dellachiave della porta del rispettivo rione, restando per ilresto libertà di riunione in una delle varie confraterniteo scuole laiche, che avevano sede in qualche chiesetta, lecui chiavi erano tenute da un provveditore nobile residentenel rione, larvata forma di sorveglianza ma anchedi usurpazione quando il nobiluomo usava l’ambiente perprivati comodi di famiglia.La gente viveva delle arti d’ industria (artigianato,salificazione) e commercio, della pesca e della navigazione,delle arti della vittuaria; la maggior parte lavorava incampagna e un certo numero nei piccoli opifici producentipanni e pellame, candele, tintorie, mulini, torchi e13


squeri. Ma il quadro non appare entusiasmante. Di navigazionevera e propria non era il caso di parlare daquando l’Adriatico aveva cessato d’essere un lago veneziano:il tutto si riduceva alle linee di piccolo cabotaggiocon Venezia, con la Bassa Friulana e l’Istria, esercitate,oltre alle più grandi barche impiegate dai Madonizza edai Totto per i loro commerci di granaglie, da una dozzinadi “direttori” di piccole barche, per le quali gli squeri deiD’Este e dei De Carlo, in lite spesso con la Confraternitadei marinai, erano più che sufficienti. Il sale, fonte unRitratto di un giovane conte Carli14


tempo di ricchezza in quanto costituiva la parte piùcospicua delle entrate, era scaduto di molto di fronte allaconcorrenza dei sali di Barletta, Dalmazia e Tripoli, senzacontare le saline che venivano aperte nel territorio diTrieste, un tempo tributario della vicina Istria.Il commercio era frenato dal sistema dei monopoli,pressoché generalizzato e inteso a favorire il mercato diVenezia dove dovevano confluire i principali generi diconsumo.L’agricoltura risentiva non solo della configurazionedel suolo e della scarsità dell’acqua ma anche dell’arretratezzadelle culture. In una lettera del 4 settembre 1765inviata al cugino Gravisi, Gian Rinaldo Carli scriveva:“…siamo ancora barbari nell’agricoltura e nell’arte direndere più abbondanti le nostre rendite. Ci lagnamo delclima invece di lagnarci di noi medesimi…” Il vino eraottimo, ma di qualità che non si prestava al travagliodell’esportazione fuori dal territorio di produzione e pertantonon esisteva per esso un mercato che avrebbepotuto essere ricco. Qualche cosa bisognava fare, nel1755 il podestà e capitano Pietro Dolfin promuoveva lacoltivazione del gelso (dei moreri) e l’allevamento deibachi da seta che assicuravano una discreta fonte dicespiti fornendo i filatoi del vicino Friuli e della stessaCapodistria, dove Giacomo Genzo e Giulio Cesare Vittorierano stati incoraggiati a piantare un’attività di tessituracon 119 telai che dapprima aveva promesso bene ma chepresto s’era ridotta a poca cosa. Giovanni Padovan introducevada Fiume la coltivazione delle patate; MariettaCapodistria da Corfù importava il fico corcirese; GianRinaldo Carli, nel 1765, introduceva nelle sue campagnedi Cerè la coltivazione dell’uva nera aleatico; verso la finedel secolo Pietro Bencich apriva la coltivazione del ribes.Per il resto la campagna appariva coltivata a cereali,15


Il conte Giovanni Stefano Carlilegumi e foraggio, mele, pesche e pere, ch’erano le coltivazionidi sempre. Importante la coltivazione degli ulivi,che il freddo del 1789 distruggeva in gran parte con gravediminuzione di introiti alla quale si cercava di rimediarecol mais in rotazione col grano.Ben poco si poteva sperare dal sistema del governoamministrativo, farraginoso e contraddittorio, infarcito dideroghe di fronte a vantati diritti locali, periferici, di16


origine feudale, spesso usurpati, non più sorretto da unpotere centrale capace di farsi valere, avviato verso unafine ineluttabile.La penisola istriana era tagliata in due parti da unconfine di stato tortuoso e capriccioso, mal tracciato sulterreno, soggetto in non pochi punti a continue controversiee violenze locali e lasciato così in attesa di definizionimai fatte. Il podestà e capitano di Capodistria, qualecarica primaria con sfera di competenza su tutta laprovincia veneta, era chiamato spesso in causa, ma nonsappiamo con quale esito nè a quanto gli sia servito quell’ufficio o magistratura detta Camera dei Confini, al qualeera preposto un nobiluomo capodistriano.Capo supremo, si è detto, il podestà e capitano,nobiluomo d’ordine senatorio, con carica della durata di16 mesi, al termine della quale doveva stendere unarelazione sullo stato della provincia, che doveva visitarealmeno una volta per decidere le cause di appello, ispezionarele aziende comunali, controllare le amministrazionidei fondaci, dei monti di pietà, delle confraternite eopere pie. Veniva accompagnato da un seguito di unaquarantina di persone tra cancellieri, collaboratori, lacchèe scorta militare, per cui la visita riusciva tutt’altroche gradita anche per il dispendio che comportava acarico delle varie località.La stratificazione dei tributi e gravezze civili ed ecclesiastiche,delle decime, dei quartesi e delle regalìe, imposteda più parti una più esosa dell’altra, era tale che lagente era spinta a ricorrere ai contrabbandi (nei quali sidistinguevano i Piranesi e i Rovignesi). Irrefrenabile erala delinquenza comune e a poco servivano gli accordi perl’estradizione di assassini, ladri e disertori favoriti dallasituazione dei confini, dal frazionamento giuridico e daidiritti di asilo nelle chiese e nei conventi, che i religiosi17


difendevano a spada tratta. Non erano rare le fughe dei“ministri infedeli” : nel 1750, ad esempio, Carlo AntonioCombi, cassiere dei sali, prendeva il volo con una borsadi 13.000 lire frodate al fisco. Nel 1760 il podestà ecapitano Agostino Soranzo veniva incaricato di arrestare24 disertori austriaci e di consegnarli al capitano diLubiana; nel 1770 erano ben 500 i sudditi veneti condannatiai lavori in Levante, che s’erano rifugiati nella conteaaustriaca, le autorità della quale avevano chiesto lasomma di 1400 lire per la loro estradizione, cifra ridottaalla metà, dopo lunghe trattative sostenute dal podestàe capitano Nicolò Donato.Pasquale Cicogna denunciava nel 1755 il numeroesorbitante di gente dedita alla malavita godenti spessola connivenza dei piccoli magistrati locali o per interesseo per paura o per incapacità di far valere la legislazionecriminale caotica o caduta in oblio. Il podestà e capitanoLorenzo Paruta veniva incaricato di metter ordine inmateria e pubblicava nel 1757 una “Raccolta”, che vasotto il suo nome, di leggi statutarie e norme coordinateda servire alla buona amministrazione della giustizia,strumento utile per correggere ignoranze pretese o realie dipanare la stratificazione di arbitrii e abusi.Il governo cittadino era costituito dal Maggior Consiglio,organo collegiale privilegiato dei cittadini esercitantii diritti civici, costituenti la Comunità, articolato in piùcariche obbligatorie, alte e basse a seconda dell’importanza,alcune delle quali utili, cioè comportanti un lucro,ma per lo più gratuite. In testa i due sindaci deputati conuna propria consulta, il colleggetto incaricato di maturaree presentare gli argomenti da trattare e da deliberare,il contraddittore alle parti e conservatore delle leggi esercitantela supervisione degli atti e la loro corrispondenzalegale, quattro giudici, due vicedomini preposti alla sti-18


pulazione e conservazione dei pubblici istrumenti e testamenti,il capitano degli schiavi preposto alla giurisdizionecivile e penale dei villici del territorio (che comprendeva40 ville), il podestà di Due Castelli, tre provveditorisopra la sanità con proprio collegio e tribunale, provveditorisopra i viveri, sopra l’ospedale, una presidenza delconsorzio dei sali, un presidente al Sacro Monte, ed altrecariche ancora. Il Maggior Consiglio si radunava regolarmente,prendeva le sue decisioni a maggioranza, “andavaLa contessa Cecilia Carli Manzini19


Rinaldo Carli in veste turchescadi dragomanno grandee prendeva le sue parti” mediante votazione per mezzo dipalline bianche o nere deposte in un’urna; per certecariche valeva la “balla d’oro” che conferiva a colui chela levava l’incarico di designare la persona cui affidare lacarica.Noiosa routine, per lo più, dalla quale il MaggiorConsiglio si risvegliava in un ultimo conato, in un estremogeneroso tentativo di riprendersi dal torpore, alla finedella Serenissima, che stava cadendo sotto i colpi diNapoleone. Urgevano aiuti a San Marco. Il 17 luglio 179520


La moglie Caterina Negrianch’essa in veste turchescai nostri nobiluomini, convocati dai sindaci deputati GiuseppeGravisi e Francesco Innocente Gavardo e presentiin numero di 95, ascoltarono sbigottiti e allarmati larelazione del Gravisi: …“Sono purtroppo note a questadivota Città la gravissima provvidenza, ed impegni che asicurezza e presidio de’ suoi amatissimi Sudditi corrononelle riflessibili contingenze presenti al nostro PrincipeSapientissimo. Si sa pure che non è Città, non è Terra diquesto augusto Dominio, che con offerte spontanee nonconcorra a gara al sollievo dell’angustiato Pub.co Erario.21


La nostra Patria non fu mai l’ultima a calcolare le publicheurgenze del Principato, e ha dato sempre anche in mezzoalle proprie angustie e calamità le prove più convincentidella sua devozione e della sua fedele svisceratissimasudditanza. Non dissimile da sè stessa dev’ella adunqueaccorrere anche presentemente alle Sovrane esigenze, conquelle spontanee contribuzioni delle più zelanti Famiglie,che a norma delle lor circostanze saran possibili a effettuarsi,e così anche questa Comunità nei modi, che le sirenderan più opportuni nelle note sue ristrettezze.”… IlMaggior Consiglio “prenedeva la parte”, cioè decideva, difar elezione di due cittadini incaricati di raccogliere leofferte private di denaro e di levare dalla cassa delFondaco la somma di 3000 ducati da restituire alla stessain ragione di non meno di 200 ducati all’anno. …“Cosìqualunque possa essere questa offerta che sarà sempretenue in confronto delle ardentissime nostre brame, saràperò un testimonio del suddito nostro zelo, pronto anchead offrire le nostre sostanze e la vita stessa a sollievo delnostro adoratissimo Principe”.Ancor più memoranda la riunione che il MaggiorConsiglio teneva alla vigilia della catastrofe, il 23 aprile1797, quando Venezia, divisa dalle fazioni e dai contrasti,non sapeva ritrovare l’antica fierezza e sulla piazza diPortogruaro i cavalleggeri francesi venivano salutati comeliberatori. A Capodistria, la campana del Palazzo Pretoriosuonava raccolta — sarà per l’ultima volta!— e 137nobiluomini s’affrettavano a salire la scalinata esternasotto gli sguardi inquieti del popolo che gremiva la piazzacercando di capire cosa stava succedendo. Era l’ultimaestrema offerta d’aiuto a San Marco morente da parte diuna città esausta. Il sindaco deputato Nicolò de Baseggioparlava con voce rotta risvegliando l’antico orgoglio digente che già tanto aveva dato in ricchezze e sangue: “Ciò22


è quanto ci rimane ad offrire con tutto il candore albeneficentissimo Nostro Principe e Padre, il cui nome vivaimmortale, viva nei nostri cuori, nelle nostre famiglie, neinostri figli, viva nel cuore delle nostre spose, in ogni sesso,in ogni età, in ogni condizione, e come visse sempre neinostri Antenati, viva pure costantemente nei più tardinostri Nepoti”.Ma pochi giorni dopo, quando già erano stati mandatia Venezia alcuni uomini, scelti anche fra il popolo, perseguire da vicino gli avvenimenti e far presente la situazionedi Capodistria, ecco arrivare la novella della cadutadella plurisecolare Repubblica Veneta. C’è chi tramanell’ombra, chi pesca nel torbido, il popolo fiuta aria ditradimento, si leva a rumore riversando sul ceto nobiliarela causa del disastro attribuendo ad esso oscuri maneggi.La notte del 5-6 giugno 1797 nessuno dormì, i popolaniarmati alla meno peggio ma minacciosi, percorsero inrumorose scorribande le vie e le calli cittadine al lumedelle torce scovando i nobiluomini dalle case in cuis’erano nascosti o asserragliati per obbligarli a riunirsi inDuomo a giurare fedeltà alla Repubblica di San Marcoormai defunta sotto i colpi di Napoleone. Altri avevanotrovato il modo di fuggire per Porta Isolana, rifugiandosicon le barche a San Nicolò d’Oltra, grazie al cavediereBiagio Amoroso, che non aveva negato il suo aiuto contravvenendoin quel supremo momento al compito ditener chiusa la Porta stessa. Il vecchio conte Stefano Carliera già a letto e i facinorosi lo costringevano ad uscire dicasa in veste da camera. Veniva costretto in Duomoanche il canuto vescovo Bonifacio da Ponte, che facevaesporre il Santissimo per calmare gli animi coadiuvato inciò dal sindaco de Baseggio, il quale riusciva a calmare ipiù scalmanati con un discorso equilibrato e persuasivo.23


Quattro giorni dopo, anticipando i tempi concordaticon i Francesi, entravano in Capodistria le truppe austriachecon il pretesto dell’ordine pubblico: era il 7settembre 1797. Seguiva un processo a carico di diversiimputati con condanne a pene detentive varianti dadiciotto mesi a dieci anni inflitte a Giuseppe Verzier (dettoCamaulo), Nazario Parovel, Giovanni Pini, Antonio Fedola,Giacomo Rizzi, Andrea Favento (detto Monega), ZuanneMattiassi (detto Orso); a più buon mercato, sei mesidi reclusione, se la cavavano Domenico Coceverin, NicolòMuslavich e Andrea Urbanaz (detto Pettarosso). Il padreBratti, professore del Collegio, e Nicoletto de Franceschi,considerati gli istigatori dei disordini, subivano un breveperiodo di detenzione, poi l’uno perdeva l’incarico d’insegnantee l’altro veniva ammonito all’osservanza delle leggia scanso d’incorrere in un provvedimento di bando.* * *La vita privata della classe patrizia si ispirava a quelladella Dominante. Il diritto di primogenitura e le consuetudinimatrimoniali, se da un lato salvaguardavano laconsistenza del patrimonio familiare, erano causa di guaie guasti tra i familiari stessi. Se ne lagnava lo stesso GianRinaldo Carli in lotta col fratello secondogenito Stefano.Ai figli cadetti non restava che adattarsi con malcelatainsofferenza ad una vita spesso grama se non umiliante(da qui il grande numero di avventurieri del quale il 1700è stato caratterizzato).Infelice era il destino delle donne, oggetto di matrimoniarchitettati tra le famiglie per ragioni d’interesseoppure destinate ad essere relegate senza vocazione inquesto o quel convento. Da qui non pochi scandali erelazioni al limite della liceità con lo scambio di doni e di24


Ritratto giovanile di Gian Rinaldo Carlitela del pittore Nazario Nazzari (?)25


versi allusivi, com’era il caso nel convento di San Biagiodella monaca Marianna e perfino della madre Vittoria colmarchesino Girolamo Gravisi. O lo scandalo della nobildonnaAngela Valentini, moglie del conte Verzo Verzi, che,la notte del 21 gennaio 1798, scappava di casa conl’amante piantando in asso il marito.Presente anche se non molto diffuso il cicisbeismo,la figura del “cavalier servente”, che però incontravaresistenze e veniva bollata dal marchese Giuseppe Gravisi.La ristrettezza dell’ambiente cittadino ed il rigoredell’educazione familiare facevano sentire il loro effettosicché il vescovo Naldini poteva affermare che, in fondo,le donne capodistriane erano adorne di ogni virtù. Moltegodevano di un’istruzione abbastanza completa, checomprendeva anche conversazione in francese, danza,disegno e pittura, ma non potevano leggere libri se noncol permesso del padre spirituale o dell’inquisitore. Lacontessa Maria Marcello Rigo, accademica Risorta, erastimata nientemeno che dall’imperatore Giuseppe II, chene aveva favorito l’accoglimento anche nell’Accademialetteraria di Vienna. Teresa Barbabianca teneva un salottonel quale si facevano lettura, musica e discussionidi filosofia in una cerchia di amici quali il conte StefanoCarli, il dott. Ignazio Lotti, il marchese Girolamo Gravisicoi figli, il prete Cecconi, Ludovico Belgramoni, il conteDomenico Rigo, il marchese Gianpaolo Polesini e il preteDomenico de Baseggio, buon musicista, autore di quell’innoa 4 voci “Pange lingua”, che si è cantato durante laprocessione del Corpus Domini fino al 1945.In molte case si faceva musica e il saper suonare unostrumento faceva parte del bagaglio culturale di nonpoche persone. Girolamo Gravisi e i suoi tre figli suonavanoil violino e la viola; Stefano Carli se la cavava alcembalo ed era cultore della musica turca avendo servito26


a Costantinopoli per molti anni quale dragomanno, interpreteveneziano presso la Porta; il medico Ignazio Lottisuonava il flauto, strumento col quale si esibiva anche lacontessa Gioseffa Grisoni Brigido; don Domenico Baseggioera dotato di una buona ed educata voce e nonmancavano le accademie musicali specialmente in casaGravisi con esecuzioni notevoli come documentato daglispartiti che si facevano arrivare a Capodistria da piùparti. Il Duomo non mancava di un organista stabile conquel bellissimo strumento, l’organo di 644 canne, opera81 di Gaetano Callido, consegnato per la Pasqua del1773, sul quale si sarebbero cimentati anche musicistiinsigni.La vita religiosa era intensa, ma convenzionale einfluenzata dal clericalismo, dal bigottismo e dalla superstizione.C’era chi manifestava idee contrarie come ilvoltairiano Stefano Carli, idee che a fine secolo acquistavanoforza col rapido diffondersi delle aspirazioni dirinnovamento conseguenti allo scoppio della rivoluzionefrancese, delle quali non facevano mistero il padre piaristaGiovan Battista Bratti (futuro sostenitore di Napoleoneche ne favorirà la nomina a vescovo di Forlì) e il giovaneNicoletto de Franceschi. Era specialmente il Bratti a farsinotare, indicato come colui che “spargeva di continuo lemassime eccitando li di lui conoscenti a dichiararsi per laDemocrazia, chiamandoli ingrati in caso contrario”.La posizione degli ecclesiastici era comunque forteanche se la corruzione serpeggiava pur tra di essi, comedocumentato dalle memorie manoscritte del frate minoritaCargnati, fatte ad un certo punto sparire. Granderichiamo esercitavano i quaresimalisti, fatti venire daicentri più reputati d’Italia come, tra il 1752 e il 1794,l’abate Girolamo Trento da Padova, fra Lorenzo Spiga, fraAntonio Bonente, fra Felice Navaja; taluni di essi impres-27


sionavano col loro linguaggio roboante, con lo sfoggio difrasi e immagini colorite tra divagazioni e citazioni erudite,criticati pertanto dai più perspicaci ma ascoltati abocca aperta dalla gran parte della gente, che andava alleprediche non solo per devozione ma anche per consuetudinemondana e svago. Non meno che ai banchetti, aiballi, ai saggi accademici ed a teatro, dove si producevanocompagnie di giro, che usavano mettersi sotto la protezionedi personaggi influenti. Poco si sa di ciò, ma si puòricavare un’ idea con una nota di colore dalla lettera cheGirolamo Gravisi scriveva a Stefano Carli nell’estate del1784: …“La Comica Compagnia farà assai male il suointeresse perché questo Eccl.mo Rappresentante totalmentequasi l’ha abbandonata. Il caldo e le pulci lorendono intollerante d’intervenir nelle angustie di un palco.Noi vi andiamo discretamente, ed il concorso degli altriè sempre sotto al mediocre”… La riforma del Goldoniincontrava molto favore tra i nostri, primo dei quali GianRinaldo Carli, che conosceva molto bene l’avvocato veneziano,il quale lo stimava e ne ascoltava i pareri dedicandoa lui qualche sua commedia.Singolare per la risonanza avuta anche fuori Capodistria,nelle località limitrofe e a Trieste, con gran numerod’invitati anche veneziani, la regata a remi conconcorrenti non solo uomini ma anche donne, organizzatadal podestà e capitano Pietro Dolfin nel giugno del1754 con larghezza di messi e spasso generale. Leggesinella relazione stesa in quell’occasione: “Era sul Belvedere(contrada così detta di Capo d’Istria) un palco eretto conbuona simmetria, con colonnati, festoni, ed altri ornamentiaddobbato, coperto al di sopra, nel quale s’andarono asedere col nostro Ecc.mo Rap.te e il Sig.r Comandante diTrieste, sua moglie e tutta quella nobiltà dell’uno e dell’altrosesso, che puote capire in quel luogo, il quale certam.e28


non era angusto p. sè medesimo. In ambi i lati di questo ,ed all’intorno eransi eretti altri palchi, e disposte moltebotteghe da caffè, e di rinfreschi di varie sorti. Alla parteanteriore del Belvedere sotto il nominato palco, lungo lariviera del mare eravi fabbricato nella più vaga prospettivaun altro palco di assai notabile estensione disposto in moltigradini pel comodo de’ Spettatori, nè v’era casa o muragliasituata in questo lato della Città, la quale non sostenessealcuna tenda, e non rappresentasse a riguardanti lontaniun giocondo spettacolo. Si vedeva nel mare un buonnumero di barche sì ben addobbate, che avrebbero potutoa ragione favoleggiare i poeti, avere in quel giorno Nettunoarrecata invidia all’altre Deità col far pompa di quanto dipiù ameno, e dilettevole può rimirarsi”. Molte le barcheconcorrenti sul percorso San Nicolò d’Oltra - Porta Isolanae premi e mance per tutte le donne rivelatesi popolaneforti e disinibite, leste di braccia e di lingua. Vincevanoquelle di Pirano.* * *Gian Rinaldo Carli.Gran trambusto e festa, l’11 aprile 1720, in casa delconte Rinaldo Carli: la moglie Cecilia Imberti (nipote diun Gran Cancelliere della Repubblica) gli aveva dato ilfiglio primogenito, Gian Rinaldo. Se l’era cavata bene esarebbero seguiti altri tre figli e due figlie.Gian Rinaldo nasceva in seno ad una famiglia facenteparte della piccola nobiltà cittadina: il prozio aveva conseguitonel 1716 il titolo trasmissibile di conte per meritiacquisiti durante la guerra di Morea, del quale GianRinaldo non farà mai gran caso.Spirito precoce desideroso di apprendere e di applicarsi,frequentava nella città natale il Collegio cittadino29


tenuto dagli Scolopi, fautori di programmi infarciti d’enfasie di retorica, che premiavano l’erudizione. Il giovaneGian Rinaldo se ne mostrava presto insoddisfatto, ma sifaceva comunque notare: a 12 anni raccoglieva applausie consensi col dramma pastorale “Menalca”; a 16 anniaveva acquisito tante cognizioni di archeologia e numismaticada guadagnarsi la stima degli esperti.Gian Rinaldo Carliincisione di Antonio Peregus30


Cominciava già a delineare i piani di lavoro in piùmaterie, che lo avrebbero portato ad eccellere nei campidell’antiquariato, dell’economia, della filosofia, dellescienze, della letteratura, dell’erudizione, della storiografia,della critica riformatrice. Un itinerario spiritualeinteso ad inculcare nei conterranei la coscienza dellaromanità e dei valori del sapere.Paolina Carli Rubbi31


Compiuto questo primo corso di studi, veniva mandatonel 1735 in Friuli presso l’abate Giuseppe Bini,muratoriano e accademico arcade, esponente della culturapiù progredita, che gli imprimeva quell’orientamentointellettuale che sarà alla base della sua personalità.Ritornava a Capodistria dopo tre anni, ma ormai lafiacca e convenzionale società cittadina non gli si addiceva,e non nascondeva moti d’insofferenza e di rifiuto.Aperto agli influssi culturali di Apostolo Zeno, che, avendoqui soggiornato, contava più di un amico specialmentetra i Gravisi, si proponeva di risvegliare l’ambiente econdurlo a nuova vita; a Venezia frequentava la sua casae si intratteneva con lui anche su qualche argomento distoria capodistriana.La vecchia Accademia dei Risorti, ormai esausta, erafeudo dei parrucconi e non godeva credito tra i più giovaniche pur aspiravano a riunirsi accademicamente. Attrattidalla sua personalità già ben definita, trovavano in GianRinaldo non ancora ventenne il punto di aggregazionecon incontri d’ispirazione arcadica, a sottolineare la qualeegli s’imponeva il nome di Eliaste Cereto (in omaggio aCerè, la principale proprietà della famiglia). Nasceva inbreve l’Accademia degli Operosi con un programma sintetizzatodallo stesso suo nome.S’imponeva il rinnovamento della società secondo ilprincipio dei meriti e della virtù individuale contro ildispotico ordine di origine feudale, l’ordine del “sangue”,dei titoli e dei poteri ereditati, e Gian Rinaldo se ne facevaassertore fin d’allora dando impulso agli studi storici epreconizzando la tutela del patrimonio archeologico dellaprovincia.Passaggio obbligato per una sistemazione decorosaera lo Studio di Padova, l’antica celebre università. Ma lecondizioni economiche della famiglia non erano floride32


per cui Gian Rinaldo concorreva all’assegnazione di unadelle quattro borse di studio messe a disposizione dallacittà di Capodistria: “Venerdì si fece l’esame de’ scolari aPadova —egli scrisse— e grazie a Dio me la passaipassabilmente, così che furono tutte le balle (il punteggio)in mio favore”. A Padova, inoltre, non era lontano daVenezia, da Apostolo Zeno, che dichiarava: “Il signor conteGianrinaldo Carli ha tutte le qualità, che in un pari suo sirichieggono, per farsi amare e stimare. Tante sono le belledoti di gentilezza, di probità, di sapere, che lo adornano;di giovanile non ha che l’età”.Prendeva dimora nella casa di un certo Matteo Lazzaretti,trovava lo Studio bene organizzato anche se nonpiù frequentato come un tempo. Si occupava di studianche fuori degli obblighi di programma, che maturerannonegli anni a venire. Trovava motivi per criticare l’ordinamentoscolastico e casistico, immaginava già un progettodi svecchiamento e riforma secondo principii naturalistichee sperimentali. Si faceva notare anche qui e nel1740 veniva aggregato all’illustre Accademia patavina deiRicovrati non priva di carattere mondano conferito dagliinterventi di numerose dame, cavalieri e maschere. Noninsensibile alle grazie femminili, veniva ritrovarsi inopinatamentecon una figlia naturale, Giustina, dalla qualesi faceva chiamare “zio”.La molteplicità degli interessi perseguiti non andavaperò a discapito della solidità degli studi. Tra il 1739 e il1743 frequentava la facoltà giuridica occupandosi anchedi matematica, di geometria, di astronomia, geografia,filosofia, lingue greca ed ebraica. Inchiodato al tavolodegli studi giorno e notte, mentre altri frequentavanoluoghi di divertimento, festini e teatri, era pago soltantodell’amicizia e della conversazione degli spiriti più illuminati,tra i quali l’orientalista Michelangelo Carmeli, il33


moralista Jacopo Stellini, il musicista Giuseppe Tartini,il nobiluomo Marco Foscarini, futuro doge della Serenissima,Gaspare Gozzi e Apostolo Zeno, di cui abbracciavala metodologia storiografica basata sui documenti e nonsulle fantasie agiografiche, scindendo il vero dalla favolacon la valorizzazione delle scienze ausiliarie della storia.S’impegnava anzi a riscrivere la storia istriana fuori dalcorrente empirismo tradizionale: “Non si può immaginare—egli scriveva— quante belle scoperte io vado facendoogni giorno in questa materia inosservata da tutti i nostriitaliani. Consacro a questo studio tutto il dopopranzod’ogni giorno e in soli due mesi io mi trovo alle mani nonpoca, e forse non tanto cattiva materia”.Acquisiva così una stupefacente erudizione e conoscenzain ogni campo dello scibile, fatto eccezionale perla sua età tanto che veniva eletto principe della patavinaAccademia dei Ricovrati.Spirito battagliero e polemista nato, Gian Rinaldonon si faceva intimidire da nessuno nei temi più svariati,dalla botanica alla musica, dal teatro greco all’economia,dalla storia all’etnografia. Si consolidava in lui l’interesseper lo studio delle monete e delle zecche, campo nel qualeGian Rinaldo è destinato ad eccellere. Non mancava dicoltivare la storia anche della città natale pubblicando il“ragionamento” “Delle antichità di Capodistria”, lavorolodato dallo Zeno, in cui identificava Capodistria con laromana Egida ricostruendone lo stato sulla base dell’epigrafiae delle fonti scritte antiche. Contrapponeva icittadini ai villici slavi del contado: “E ville, e case colonichesono da schiavoni popolate, ed ampiamente tenute.Gente sono eglino barbara e vile, di primo seggio, privad’arte, e di cultura, avvezza a dormire nella miseria. Chinon dirà mai che questi sieno oriundi di coloro, ch’eranoodiati già novecento anni fa?” Riferimento tacito al Placito34


del Risano (804 d.C.) e indice di una disistima diffusa findai tempi più antichi.Non mancava di scrivere per il teatro sperimentandola scena con la tragedia “Ifigenia in Tauri”, che venivadata più volte in Venezia durante il carnevale del 1744 eripresa a Capodistria nel 1758. E del teatro, più che fattodi costume o semplice divertimento, egli intravvedeva lafunzione sociale.Il Melchiorri ci presenta di lui un singolare ritrattoscrivendo che il giovane gli era sembrato “veramente unbutirro sì esteriormente , come interiormente, tant’è dimaniere dolci e soavi, oltre all’esser grasso come unbeccafico”, ch’era un divertimento intratternersi con lui,“essendo egli adorno di amabilissime qualità, e anchebello della persona; ma questo sarà piacere delle donneche con lui trattano, per le quali lo vorrei meno studioso”.Sfuggiva però al Melchiorri l’inflessibile forza di volontàe l’indole ferma del giovane, niente affatto propenso afarsi guidare dagli altri, beccafico o no.Eccolo infatti entrare in lite col padre, che lo volevaa Capodistria ad esercitare l’avvocatura, tanto che difronte alle sue resistenze il genitore sospendeva l’assegnomensile, che gli mandava, lasciandolo senza un soldo.Ma il nostro non si perdeva d’animo. Fin dal 1743,muovendo le leve delle sue conoscenze, brigava per ottenereun incarico presso lo Studio di Padova contadosoprattutto sull’amicizia di Marco Foscarini, autorevoleriformatore dello Studio stesso nel processo di ampliamentoed ammodernamento dei programmi. Riuscivacosì a muovere il Senato Veneto ad istituire una cattedradi scienza nautica, per sopperire all’arretratezza che silamentava nella Casa dell’Arsenale veneziano. La cattedragli veniva assegnata nel 1745 con provvedimentoeccezionale non avendo egli che 25 anni, ma con due soli35


Gian Rinaldo Carliall’epoca del soggiorno milanesegiorni d’insegnamento alla settimana e come complementodella cattedra di matematica e astronomia, con successivaaggiunta della geografia. Svolgeva l’incarico congrande impegno affrontando i problemi fondamentalidell’epoca, quali il calcolo non astronomico della rottadelle navi e la declinazione dell’ago magnetico; proponevauna bussola senza gnomone di sua progettazione e unapparecchio per misurare la velocità dell’acqua. Nellostesso 1745 gli veniva affidato l’insegnamento presso lascuola di pratica esistente nell’Arsenale per integrare connozioni teoriche la preparazione dei capitani marittimi.Tutto ciò era troppo legato ad interessi di una sistemazionepersonale che ad un certo momento venivano a36


decadere, indice comunque di una versatilità di preparazionee d’ingenio non comuni.La cattedra aveva consolidato la sua posizione inPadova e in Venezia ed il maggior successo veniva da luiraggiunto nel 1747 con il matrimonio con l’ereditieraveneziana Paolina Rubbi, uno dei partiti più in vista, figliadi un facoltoso industriale laniero, raro esempio di attivitàimprenditoriale nell’oziosa società di allora. Grazie aquesto matrimonio, conseguito dopo un lungo corteggiamentobattendo molti rivali, Gian Rinaldo prendeva perla prima volta contatto con le attività economiche e con irelativi problemi.L’anno dopo veniva eletto principe della patavinaAccademia de’ Ricoverati, festeggiato con un concertodell’amico Tartini (tutti e due erano stati scolari delCollegio Giustinopolitano). Intrinseco del nobiluomoMarco Foscarini, futuro doge, aperto anch’egli agli indirizzidi riforma, esordiva nel campo delle questioni economichecon riguardo alla disciplina dei capitali a mutuo,dei prestiti e dei relativi interessi, del debito pubblico,della bilancia commerciale, della circolazione della ricchezzafuori dal dispotismo politico e dalle arretrateposizioni degli ambienti religiosi, facendosene teorizzatorerealistico e moderato.Il 1749 segnava per lui un anno di crisi: moriva, dopouna lunga malattia, la moglie Paolina a seguito di unacura medica sbagliata per cui entrava in polemica controi medici ignoranti, che avevano ridotto la medicina allapratica della purga e del salasso. Pubblicava anzi un librodi accusa, che poi veniva ritirato su pressione degliinteressati eliminando l’edizione (se ne sono salvate,fortunatamente, due copie), raro e inusitato esempio perl’epoca di testo biografico riguardante non un personaggioillustre o un’eroina, ma la moglie Paolina. Vedovo a37


29 anni con un bambino di 13 mesi, Agostino, GianRinaldo veniva a trovarsi erede di una fortuna valutatain 162.164 zecchini, 10.300 dei quali costituenti il capitaledi un lanificio. Ormai indipendente, lasciava la cattedrauniversitaria ed effettuava alcuni viaggi, un po’ percurare le edizioni dei suoi studi, un po’per distrarsi.Durante uno di questi viaggi, vera spedizione archeologicae scientifica intrapresa via mare da Pola (dovecurava alcuni scavi nell’Arena con interessanti scoperte)a Trieste, si fermava a Capodistria. Coglieva qui l’occasioneper ravvivare la cerchia degli amici incitandoli araccogliere e conservare le antichità locali. Esortava ilcognato Gian Battista Manzioli a curare la raccolta delleepigrafi, dei sarcofagi e degli altri cimeli sparsi per Capodistriae dintorni al fine di costituire il primo nucleo diun museo da sistemare nella Loggia. Nel successivo mesedi novembre il Manzuoli mandava notizie in merito alCarli, che gli rispondeva: “Mi consolo che la Raccoltacammini bene e che molte iscrizioni sieno ormai poste insicuro a pubblico benefizio e decoro.” Dopo aver datoistruzioni sulla maniera di accomodare i frammenti diun’epigrafe, continuava: “Può essere che la vanità operipiù dell’esempio; e però fate il libro di cui v’ho parlatoessendo costà; e questo abbia per titolo Museo Giustinopolitanocol catalogo di tutti quelli che hanno cooperato ocon l’opera o col dono d’iscrizioni alla facitura d’esso. Indiin principio del libro dirassi la storia di questo Museo, cioècome io essendo nel mese di Luglio in Capodistria, l’hoproposto e ho dato eccitamento ed esempio con qualchecontribuzione di soldo. Che vi si interessarono i SignoriSindici e fra i Cittadini i tali e i tali. Qui si trascriverannoesattamente ad una ad una le iscrizioni e d’ognuna si diràla storia, cioè dove fosse prima, come e da chi posta inLoggia; e questo libro sarà la migliore cosa del mondo. Alla38


fattura d’esso destinate il Marchese Girolamo Gravisi,ch’egli certamente farà onore a sè e alla Città”.In quell’epoca molte antichità giacevano non solopresso case private ma anche nelle chiese e sulla pubblicavia. Furono notate dal Carli e da altri studiosi in casaManzini, nella vecchia casa Bruti, nelle case Vida, Belli,Petronio, Grisoni, Derin, Luis, nell’atrio dell’Armeria inPiazza, nella chiesa di S.Clemente, davanti a S.Francesco,sul piazzale di Porta Ognissanti e a Porta Isolana.Nelle campagne si trovavano numerosi resti e tracce difattorie e di ville romane a Canzano, Cerè, S.Nicolòd’Oltra, Lonche, Paugnano, Monte, S.Sergio e ai piedi delMonte Sermino. “È senza dubbio incredibile – scriveva ilCarli – la quantità di frammenti di tegole e di fabbricheche scorgonsi nelle vicine colline, siccome indizio di unadimora de’ Romani e de’ Greci”.La situazione familiare non era però buona, difficilel’educazione del figlio Agostino, ribelle e lasciato spessoin mano alla servitù. Scriveva per lui un trattatello dielementi morali ed educativi, che, se serviva poco o nullaad Agostino, incontrava consensi e buona diffusione inpiù città con traduzione in più lingue.Il diavolo, nel 1752 , ci metteva la coda sotto formadella nobildonna Anna Maria Lanfranchi, di notissimafamiglia pisana, giovane vedova del marchese Sammartini.Donna ambiziosa, lunatica e capricciosa, adescavacon arte femminile il Carli, che, lasciatosi irretire, siritrovava in breve con un nuovo matrimonio. Fu lei aspingere il marito a cercare una nuova sistemazione e asalire la scala degli onori, ma fuori Venezia, dove lanobildonna s’era accorta di non poter brillare molto. GianRinaldo prendeva così la via di Milano dove entrava infamiliarità col conte Pietro Verri e dove brigava per due39


anni alla caccia di un impiego adeguato mentre le spesecorrevano.Tentava controvoglia la via di Firenze allontanandosidagli amici milanesi e dalla piccola Accademia dei Vegetabiliformatasi nella villa di Orio presso la contessaAntonia Dati della Somaglia, nata principessa Belgioioso,donna di elevate doti, tutta l’opposto della seconda mogliepisana. A Livorno Gian Rinaldo veniva sorpreso, nel1756, da un’epidemia di vaiolo e non esitava a sottoporreil figlio Agostino all’innesto del siero in epoca in cui nonsolo si dibatteva la questione sotto il profilo morale ereligioso ma incerta era anche la tecnica, ben primaquindi dell’esperimento risolutivo del dott. Jenner (1796),innesto che egli aveva valutato come consigliabile find’allora.Si recava anche a Torino dove, per interessamentodella moglie pisana e grazie ad un congruo esborso,riceveva la commenda dell’Ordine militare dei Santi Maurizioe Lazzaro.Nel 1757 gli moriva il padre senza lasciare testamentoed egli doveva ritornare senza indugio a Capodistriaper far valere i suoi diritti di primogenito di fronte aifratelli Stefano, disordinato e mezzo pazzoide, Girolamo,ancora studente a Padova, Sebastiano, uomo di scarsalevatura, senza contare la sorella Anna Maria rinchiusanel convento di San Biagio. Una vicenda triste per lostrascico di risentimenti e rancori che ne derivarono.Gian Rinaldo entrava in possesso di parte della palazzinadi città (quella che dà sulla Via poi intitolata alsuo nome), di campi, terreni, saline, case coloniche eduna cadente casa dominicale a Cerè. Per impiegare ildenaro liquido (aveva ereditato anche i beni della nonnamaterna e quelli di Morosina Ingaldeo) progettava unagrande villa su suo disegno, in posizione eminente: “Mi40


sono invaghito — egli scriveva — d’una superba vedutateatrale, dove di prospetto si vede la città, il mare, il litoraledel Friuli, d’un’aria squisita, e d’un’acqua perfetta. Saràquesto un asilo nella mia età senile, se ci arriverò”.Nasceva così la villa di Carlisburgo, intorno alla quale iconcittadini avevano da ridire perché avrebbero volutoche il Carli avesse destinato quel denaro nella costruzionedi un palazzo in città per decoro della stessa.Aiutato dal cugino Girolamo Gravisi, riprendeva l’operadi riforma della cultura locale aprendola ai problemieconomici e sociali. Eletto nel 1758 principe dei Risorti,promoveva un concorso annuale su tema prefissato conpremio di medaglia d’oro; intesseva un elogio di Capodistriaricordando i suoi concittadini Santorio Santorio,Girolamo Muzio, Pier Paolo Vergerio il Seniore; vagheggiavail progetto per far conferire alla città il privilegio diun rappresentante diretto preso il Senato Veneto, unnunzio proprio e non più il tramite del podestà e capitanoveneziano; propugnava la costituzione di una bibliotecapubblica aggiornata.Ma c’erano due ostacoli, la povertà dell’Accademia el’opposizione più o meno velata da parte di molti concittadiniagli ambiziosi disegni intesi a far valere la suapersonalità, indubbiamente superiore. Non gli erano digiovamento il piglio usuale, la moglie pisana eccentrica escostante, la sua enciclopedica superiorità intellettuale ela mentalità stagnante degli altri. Opposizione vieppiùrinfocolata dal voler egli eliminare l’antico vieto costumedi trinciar versi vacui ad ogni occasione pur che sia, nelnon aver radunato gli accademici Risorti in occasionedella partenza, a fine mandato, del podestà e capitanoBertuccio Valier quando si dava la stura ai soliti smaccatiomaggi letterari. “La città è ridotta ad un ammasso di vilie privi del senso comune”,“convertiti per istrana magia in41


quella specie di animali che accarezzati scalciano e percossis’umiliano”, gente che sa soltanto esercitare angheriesulla povera gente. Son sue testuali parole.Minacciava inoltre di trarre i concittadini in giudizio…“io li chiamerò in Quarnatia per il civile, e poi nelmedesimo li chiamerò in Consiglio di X, dove farò constareche i sindici dilapidano le rendite della comunità per farritratti, iscrizioni, accademie al podestà contro il decretoinibitorio del Senato e, per dio, farò un affare quanto quellodel mandracchio e fondaco e, in Capodistria, se nonavranno voluto darmi adito di far del bene, sarà eterna lamemoria del male che procurerò”. Son parole forti cherendono bene la situazione in atto con accenno a quell’affare,a “mangerie”, che lascia intendere usanze sempreriprovevoli ma sempre presenti nella società umana, iericome oggi. Ma dopo la sfuriata, Gian Rinaldo scendeva apiù miti consigli… “a me basta che si veda non esserel’Accademia di Capodistria un ammasso di sciocchi e dibuffoni, nè io capo di questi”…Centro delle maldicenze cittadine e degli attacchicontro il Carli era il Caffè Gorzalini in Calegaria, detto“dei baloneri”. Quasi giornalmente spuntavano qui epigrammie sonetti ai danni di questo o di quello e qualcunoaveva pensato di farne una raccolta di diverse centinaiadi carte, poi perdute o fatte sparire. Il più esasperato erail fratello Stefano, che non aveva potuto digerire la lottaper la successione, mentre la moglie pisana soffiava nelfuoco (non per niente s’era guadagnata il soprannome di“Tempesta”) e invano Girolamo Gravisi tentava da amicodi metter pace. Dal matrimonio nasceva una bambinache presto moriva con dolore del padre ma non dellamadre, che aveva bollato la gravidanza come un “inutilpeso.42


Il marchese Girolamo Gravisicugino, amico e confidente di Gia RinaldoVeniva a maturare il dramma coniugale e Gian Rinaldotrovava rifugio negli studi. Era un periodo, infatti,di grande attività intellettuale, nella quale si distinguevanoanche il cugino Girolamo Gravisi, Francesco Almerigotti,Gian Paolo Polesini.43


Terminati finalmente i lavori, il Carli si trasferiva aCerè nella villa di Carlisburgo, dove poteva contare su diuna piccola brigata di amici con i quali fondava l’accademiadomestica dei Certosini. Vi facevano parte GiuseppeGravisi, provveditore ai confini e nemico dichiarato diogni scioperataggine e vacuità, del gioco e degli sprechi;il di lui fratello Girolamo, coetaneo di Gian Rinaldo colquale aveva seguito l’iter scolastico dal Collegio giustinopolitanofino allo Studio di Padova, uomo di carattere edi cultura, ferrato in più materie ed apprezzato anche daApostolo Zeno; il conte Domenico Rigo da Cittanova conla moglie Marianna Giovanna Marcello (figlia di BenedettoMarcello e imparentata con Ugo Foscolo); AlessandroneGavardo, annalista dell’ordine, poeta satirico, autoredella “Rinaldeide o sia Il Lanificio di Carlisburgo”, poemettoeroicomico centrato sui fasti della Certosa; GianPaolo Sereno Polesini, segretario e futuro marchese, proprietariodi vaste terre che faceva coltivare razionalmenteper contribuire al progresso economico della provincia;l’avvocato Francesco Almerigotti, buon diavolo ma infatuatoda balzane idee di contenuto storico che sostenevapolemizzando con tutti; i fratelli Lodovico e FrancescoBelgramoni; il prete Cecconi, poeta burlesco; Carlo Petronio;Mario Paleocapa, padre di Pietro, il futuro celebreingegnere e patriota.Era qui che, sul finire del 1760, di ritorno da unviaggio a Vienna, veniva in visita l’amico milanese, ilconte Pietro Verri, che così scriveva a Milano: “Questopaese è ameno, anche in questa stagione vi sono gli ulivi,l’aria è dolce; varie collinette circondano il mare, ma tuttospira povertà e rozzezza. I villani sono schiavoni, nonsanno l’italiano che si parla nella città, sono figure sozzeda selvaggi appena vestiti. V’è della difficoltà a trovaredel latte per prenderlo col caffè. Figuratevi il restante; i44


comandanti veneziani sono sommamente rispettati, e portanole calze rosse, il che mi si dice essere una distinzioneche usano oltre mare. Sono stato invitato a un pranzoveneziano dall’eccellentissimo signor Gritti, aveva unabottiglia di cipro che m’ha fatto rimarcare, e dopo tavolami mostrò una valdrappa ornata di cannucce di vetro inprova di sua magnificenza. Mi vogliono accettare nella loroAccademia questi signori, che si chiamano Risorti, forse vireciterò qualche cattivo verso anch’io”. Non esaltantegiudizio, questo dell’ospite, che s’era accorto anche dellacrisi che travagliava Gian Rinaldo per la brutta piega chestava prendendo il matrimonio con la Lanfranchi.Intanto, il lanificio ereditato a Venezia, condotto dapersona non all’altezza del compito, era andato languendonel giro di due anni, tanto che Gian Rinaldo risolvevadi trasferirlo a Cerè secondo una valutazione che sembravapositiva, cioè la possibilità di conquista del vicinomercato di Trieste con lo sperato aiuto del governo veneto.A Capodistria esisteva già qualche attività a carattereindustriale, il filatoio di Zuane Genzo con 119 telai, lafabbrica di telerie ad uso di Fiandra di Giacomo Linussioda Tolmezzo, una fabbrica di cera dei Grisoni, una mezzadozzina di “scorzerie”, cioè concerie di pelli, la prima dellequali quella dei Totto, torchi e macine da olio. L’ambientenon era pertanto nuovo ad imprese del genere. Liquidateinfatti le attività veneziane, il Carli abbracciava l’impegnodi “nobile commerciante” e investiva 3000 ducati nell’aziendache poteva sorvegliare direttamente, con personaleadatto fatto venire anche dalla Toscana e dal Trevigiano(degli operai capodistriani non si fidava perché li consideravafiacchi e fuorviati). Figurarsi la canea dei detrattori,le satire, le vociferazioni dei “baloneri” del CaffèGorzalini in uno con l’avversione della moglie pisanainsofferente di quello che sentiva come un confino in45


Carlisburgo. Ma Gian Rinaldo non se ne dava per inteso,fatto sta che dopo otto mesi si trovavano in attività 8 telai,1 dei quali ad uso di panni padovani, 3 di Cerneda, 5 “agagge”, 2 “a fanelle”, 1 “a bassacani”. Due mesi dopo itelai erano 23, 16 dei quali impiegati in attività continuativa,con impianti progrediti e autosufficienti. Restava daerigere la tintoria. Ma le difficoltà si facevano sentirepresto. Il mercato di Trieste si rivelava irraggiungibile, ilcorso d’acqua detto Fiumisin, non regolato bene, straripavadue volte rendendo inutili i lavori fino allora fatticon un danno di 2000 fiorini, un carico di lana nongiungeva perché perduto in mare, la tintoria finalmenteentrata in attività faceva cattiva prova per poca periziadel preposto che doveva venir sostituito. Scoppiavanolitigi e zuffe tra gli operai forestieri e la gente del contado,“popolo per sè stesso barbaro e inospitale” che, controlegge, entrava armato anche in chiesa. Costante l’opposizionedei concittadini che tenevano in conto solo laproprietà terriera, impreparati a cambiare modello divita, che inutilmente il Carli tentava di coinvolgere negliinvestimenti produttivi. Aggiungasi il mancato sostegnodello stato, prodigo di lodi ma di null’altro, e a nulla valeval’ amicizia con Marco Foscarini, divenuto doge.I parenti di Venezia avevano ottenuto giudizialmentelo scorporo dei capitali pertinenti ad Agostino, il figliodella prima moglie,per cui il capitale investito nel lanificio scendeva a25.000 ducati. Era giocoforza limitare la produzione aisoli “grisi”, la grossolana stoffa usata dai più poveri,contadini, pescatori e artigiani, finché Gian Rinaldo sidecideva, nel 1765, a cedere la manifattura ai fratelliFrancesco e Nazario De Mori, che la chiudevano definitivamentenon molto tempo dopo. Della villa di Cerè nonrestava col tempo nulla.46


Il dissidio familiare con la seconda moglie si risolveva,dopo il suo ritorno a Pisa, con il divorzio e il soggiornocapodistriano del nostro “nobile commerciante” si concludevacon un grande dissesto economico, valutato in640.000 lire, e più ancora col discapito morale, che glicausava una grave malattia che lo immobilizzava finché,nel settembre del 1764, non ancora ristabilito, egli siritirava a Venezia abbandonando per sempre Capodistria,“città così ingrata ad un concittadino che non ha maiavuto altro in animo con le sue opere e con tutto sè stesso,che d’illustrarla e di procurarle onori e vantaggi”.Tornava a farsi sentire la necessità di trovare unimpiego adeguato e le speranze si volgevano verso Vienna,ai nuovi organi che la corte di Maria Teresa predisponevaper la Lombardia nell’ambito delle riforme in atto, checorrispondevano ai suoi convincimenti. Inviava pervenirecolà un suo piano per il riassetto del commercio, dei dazie delle monete attendendo l’esito ad Orio, ospite dell’amicacontessa della Somaglia, con la quale era legato daamicizia fin dai tempi dell’Accademia dei Vegetabili e dovesi riuniva una piccola cerchia di amici tra i quali il giovaneCesare Beccaria, che stava componendo l’opera “Deidelitti e delle pene”, destinata a dargli grande notorietà.È qui che Gian Rinaldo prestava all’amico Pietro Verri lasua collaborazione per “Il Caffè” e scriveva il noto “ragionamento”“Della Patria degli Italiani”.Il 20 novembre 1765, finalmente, veniva nominatopresidente del Supremo Consiglio di Economia, organonon solo amministrativo ma anche realizzatore delleagognate riforme, cui seguiva la nomina di consiglieredella Deputazione per la Direzione degli Studi nel Ducatodi Milano, con lo stipendio di 18.000 lire annue, casa eun rimborso spese per il trasporto della sua libreria nellanuova residenza. Tutto sommato, non molto. Veniva47


nominato infine presidente del Regio Ducale MagistratoCamerale subentrato nel 1771 al Supremo Consiglio. Èqui che il Carli veniva ad operare ai livelli più alti nei puntinodali della storia etica e politica del Settecento non solonazionale ma europeo. Uno dei protagonisti maggiori—anche se presto dimenticato— in contesti di ampiorespiro sfociati ben oltre il piccolo ambito provinciale quirievocato. Richiamato forse con effetti limitativi dallastoriografia nazionale irredentista, degno di completoricupero quale operoso intellettuale portatore di ideeriformatrici nel campo amministrativo e degli studi (nonsolo universitari ma anche elementari), mediatore tra lacultura più avanzata nazionale e ultranazionale e quellaperiferica, pur degna di attenzione, della sua terra natale.Una delle figure centrali nella vita culturale lombarda supercorsi pluridisciplinari di largo respiro e in costanteevoluzione.L’attività del Carli a Milano durava fino al 1780.Giubilato con una misera pensione, solo in seguito migliorata,si ritirava in cattiva salute a vivere nella casa diFrancesca dell’Acqua, nei pressi del palazzo del Ducato,e a Cusano Milanino. Aveva denunciato, da anni, problemicardiaci, emorroidali e urici curati more solito con isalassi, e gli capitava una notte un attacco al qualecredette per un momento di dover soccombere: “ Fui alle3 1 ⁄2 di notte attaccato da dolori al ventricolo, che credettidi superare con decozione di camomilla e con il riposo. Macrescendo essi alle 8 chiamai la mia gente, e mi ajutai conclisteri, fomenti, pediluvj e vomito. Fu tutto inutile. I dolorisi fecero più feroci, invasero i precordi e la regione delfegato. Presi della Teriaca per tentar calma. Fu invano.Alle 13 e 1 ⁄2 disperato ingojai 5 once d’olio d’olivo. Questopromosse il vomito, nel tempo, che sentivo già l’infiammazionefatta o prossima a farsi, e vomitai due boccali48


d’atrabile nera, glutinosa, pesante e lucida come piombofuso. Finalmente mi apparve qualche quiete. Venne ilmedico, si aprì la vena e si ricorse ai rimedj dell’arte.”Moriva il 22 febbraio 1795 e veniva sepolto, per suodesiderio, presso il Santuario di Nostra Signora dellaCintura vicino alla chiesa parrocchiale di Cusano Milanino,ai piedi di una nicchia oggi ancora esistente mamolto malridotta.La notizia della morte arrivava a Capodistria che,dopo tutto, non mancava di ricordare l’illustre concittadinocon solenni funzioni religiose di suffragio, con unagrande messa cantata e con 12 messe funebri officiate inSan Francesco dai Padri Francescani. Il fante PietroFranco era stato incaricato di procurare 12 torce, ilcatafalco e l’apparato occorrente, compreso il servizio delcampanaro e del predicatore, con la spesa di L. 364,18.La relativa nota andava smarrita tra le carte dell’ufficiodel Sindacato sicché nessuno s’era fatto carico di saldareil conto. Qualche anno dopo finiva per esser chiamato incausa il povero fante con un’ingiunzione di provvederelui alla liquidazione del debito. Ne nasceva una questioneche veniva risolta nel marzo del 1800 per interventogovernativo.A Cusano Milanino gli amici del Carli facevano apporrela seguente epigrafeD O MCOM IO RINALDI CARLI IVSTINOPOLITANICONSIL I A S AVGCOMMD SS LAZZARI ET MAURITIISVMMIS MAGISTRATIBVS FUNCTILABORIS PATIENS OTII NESCIVSOMNIGENA DOCTRINA ET SCRIPTISPER ANNOS AMPLIVS L49


CLARVSALTER VARVS EST HABITUSVIX ANN LXXV OB MDCCVCPROPE TVMVLVMD S AMICI MOESTISSPOSUERUNTVale a dire, in libera traduzione: posto sul tumulodagli amici mestissimi in onore del conte Gian RinaldoCarli, consigliere aulico, commendatore dell’Ordine deiSS. Maurizio e Lazzaro, che ha ricoperto somme cariche,lavoratore indefesso che non ha conosciuto l’ozio per piùdi 50 anni, distinto in ogni genere di dottrina e di scritti,vissuto 75 anni, morto nel 1795.Il primo a tracciare la figura e l’opera dell’illustreIstriano è stato il medico piranese Jacopo Panzani (1795).Seguiva due anni dopo l’"Elogio storico" pubblicato aVenezia da Luigi Bossi, base di tutte le numerose pubblicazionisuccessive.Il primo centenario della morte veniva ricordato conun discorso di Marco Tamaro letto il 10 settembre 1895al congresso della Società Istriana di Archeologia e StoriaPatria, pubblicato l’anno successivo con testo ampliato.Il municipio di Capodistria veniva fortunatamente inpossesso di tutte le carte del Carli lasciate a Carlo Combida Marianna de Fecondo, nipote di Agostino Carli-Rubbi.Ne prendeva particolare cura, nel riordino dell’archiviocomunale, il prof. Francesco Majer. Andava dispersoinvece il medagliere, le varie decorazioni delle quali il Carliera stato insignito, in quanto il municipio non avevapotuto provvedere all’acquisto dagli eredi Fecondo, che leavevano messe in vendita.50


Dopo la redenzione del 1918, nel duecentenario dellanascita, veniva apposta sulla facciata della palazzinaCarli la seguente epigrafeSACRA ALLA PATRIA ED ALLE LETTEREÈ QUESTA DIMORAVI NACQUEIL IX APRILE MDCCXXGIANRINALDO CARLISTORICO ARCHEOLOGO ECONOMISTAGENIALMENTE FECONDOPRECURSORE DELL’IDEAONDE ITALIA RIDIVENNELIBERA ED UNA——————-IL MUNICIPIO POSE IL IX APRILE MCMXXLa tomba non esiste più. Le sue ossa, se ancora cisono, riposano oggi sotto il manto della strada che proprioin quel punto passa a ridosso della chiesetta di NostraSignora della Cintura, come constatato da GiuseppeZamarin che, nel giugno del 1965, s’era recato sul postod’intesa con Piero Almerigogna per organizzare un omaggiodei capodistriani, ormai in esilio, alle spoglie del lorocelebre concittadino. Il parroco del posto, interpellato,non aveva saputo dire nulla.51


LA PATRIA DEGLI ITALIANIGian Rinaldo Carli pubblica, nel 1765, la prima e piùchiara affermazione di una coscienza unitaria in pienauguaglianza di dignità e di diritti di tutti gli Italiani, anchese non ancora sul piano di rivendicazione politica, ilprimo passo non semplicemente letterario verso un nuovocorso di idee, che prenderanno corpo concreto dopo larivoluzione francese e nell’Ottocento avanzato.Il 10 giugno del 1765 compare, infatti, nel periodicomilanese “Il Caffè”, un ragionamento o discorso intitolato“Della Patria degli Italiani”, in forma di dialogo tra dueinterlocutori: un anonimo e garbato avventore nel qualesi può ipotizzare il Carli stesso e un giovane del posto,“vano, decidente e ciarliere a tutta prova” . Confutando ilparere contrario di costui, l’anonimo avventore affermache gli Italiani appartengono tutti ad una sola nazione, aduna sola “patria”, per cui nessuno, in nessun luogo d’Italia,é straniero fuori della propria dimora, com’è usocredere secondo pregiudizi di regione e di campanile.Distinguendo fra “patria di natura” (luogo di nascita) e“patria di diritto” (nazione), il Carli stigmatizza l’anticovezzo dell’indifferenza o disprezzo per la propria nazionee il culto per tutto ciò che è straniero facendo gli Italiani“inimici di lor medesimi”.Gian Rinaldo Carli è un italiano di confine e perciòsensibile più degli altri, con determinata coscienza, delleradici millenarie della civiltà latina assorbite con il lattematerno. Nel quadro della cultura italiana del suo tempo,egli si distingue dagli illuministi lombardi pervasi dispirito cosmopolita, in mezzo ai quali pur egli opera, perun sentimento che col tempo finirà per prevalere piùrealisticamente.52


L’articolo compare anonimo per una precisa ragione.Il conte Pietro Verri, proprietario ed editore del periodico,professa idee cosmopolite, di utopistica sovranazionalità,e dissente sui termini troppo espliciti del Carli cassandoalcuni concetti e attenuando altri. Ma l’articolo rimanepur sempre valido e forte tanto da attirare l’attenzione dimolti. Viene, anzi, ripubblicato in data 28 dicembre 1765da un secondo periodico, il “Corriere Letterario” di Veneziacon la sigla P del Verri essendo ritenuto questi l’autoredel ragionamento.La paternità del Carli non ne soffre molto perché luinon ha mai fatto mistero delle sue idee inserendo anzi iltesto integrale, più esplicitamente ampliato in qualchepunto, nel tomo IX delle sue opere, pubblicato nel 1785.Viene da lui ripreso e affermato il principio concettualedi unità nazionale già attuato dai Romani e daiFranchi e poi andato in frantumi con conseguente pletoradi supini adoratori degli stranieri, dei quali il Carli nonsi professa affatto nemico, ma intende ristabilire l’ordinenaturale delle cose: una patria di diritto in cui tutti icittadini hanno uguale consapevolezza e dignità. “Divenghiamofinalmente italiani, per non cessar d’essere uomini”con la conseguenza che per far l’Italia bisogna fare gliItaliani, cioè educarli; ma prima bisogna fare gli educatorie per fare gli educatori bisogna ricreare una coscienzanazionale. Un fatto storico di contenuto spirituale a prescindereancora da principi politici, in cui il luogo fisicodella nascita è accidente secondario, non essendo unmilanese straniero in Toscana, un romano straniero inPiemonte come non lo è un parigino in qualsiasi posto dellaFrancia o un londinese in altre località dell’Inghilterra.Singolare l’inizio dell’articolo: “Sono nelle Città leBotteghe del Caffè ciò che sono nell’umana Macchinagl’Intestini; cioè canali destinati alle ultime e più grosse53


separazioni della natura, ne’ quali ordinariamente perqualche poco di tempo quelle materie racchiudonsi, che sein porzione qualunque obbligate fossero alla circolazione,tutto il sistema fisico si altererebbe. In queste Bottegheadunque si digeriscono i giocatori, gli oziosi, i mormoratori,i discoli, i novellisti, i dottori, i commedianti, i musici,gl’impostori, i pedanti e simil sorta di gente, la quale setali vasi escretorj non ritrovasse, facilmente nella Societàs’introdurrebbe, e questa ne soffrirebbe un notabile pregiudizio”.Una caustica sferzata, anche se sottintesa, al CaffèGorzalini della Calegaria con la quale il Carli, non dimentico,sembra voler gratificare i Baloneri che in esso vengonodigeriti e poi escreti in forma di “ultime e più grosseseparazioni della natura”.54


LE CARTE CARLI NELL’ANTICOARCHIVIO MUNICIPALEIl prof. Francesco Majer, civico bibliotecario, ordinatoree curatore dell’antico Archivio Municipale di Capodistria,ha ordinato e catalogato le carte di Gian RinaldoCarli e di Agostino Carli Rubbi sotto i numeri che vannodal 1470 al 1504 e, rispettivamente dal 1505 al 1520.Ogni numero comprende più carte raggruppate persezione o per argomento, talune di notevole consistenza.Ad esempio, il numero 1504 raggruppa 52 argomenti,l’ultimo dei quali con 9 titoli; il numero 1478 ne conta15, e 12 il numero 1494.Non è questa la sede per riportare l’indice, che nell’Inventariopubblicato dal prof. Majer nel 1904, va dapag. 141 a pag. 151 (e a pag. 156 per quanto riguardaAgostino), sarà sufficiente un rapido cenno.Si tratta sia di manoscritti che di documenti e fascicolia stampa: la corrispondenza letteraria e scientifica(codice in due volumi), numerose lettere non compresenell’epistolario, corrispondenza ufficiosa con alti personagginotizie e descrizioni varie, brani di studi storici conriguardo all’Istria, saggi di ricerche, minute varie (tra lequali quelle riguardanti le lezioni tenute all’Università diPadova), atti e documenti pubblici, consulte e relazionirelative alle cariche ricoperte a Milano, carte di famiglia,miscellanee, ecc.L’indice delle persone comprende 461 nomi, quellodelle località ed enti altri 163 nomi.Un corpus consistente, che fonte primaria per glistudiosi che si sono occupati del Carli, ma che forse nonè stato ancora utilizzato in tutte le sue parti.55


FONTIPaolo Naldini — Corografia ecclesiastica o sia descrittionedella città, e della diocesi di Giustinopoli detto volgarmenteCapo d’Istria — Venezia, 1700Domenico Venturini —Guida storica di Capodistria— Capodistria,1906Baccio Ziliotto — Aspetti di vita politica ed economica nell’Istriadel Settecento — Trieste, IV serie di “Pagine Istriane”,II quadernoBaccio Ziliotto — “La Rinaldeide” di Alessandro Gavardo e lagiovinezza di Gianrinaldo Carli (1720-1765) — Trieste,1946Baccio Ziliotto — Gianrinaldo Carli da Capodistria e le originidel Risorgimento — Trieste, 1953Baccio Ziliotto — Trecentosessantasei lettere di Carli — Trieste,1914Marco Tamaro — Nel primo centenario della morte di GianRinaldo Carli — Parenzo, 1896Francesco De Stefano — G.R.Carli (1720-1795) Contributoalla storia delle origini del Risorgimento italiano— Modena,1942Elio Apih — Rinnovamento e illuminismo nel ’700 italiano-Laformazione culturale di Gian Rinaldo Carli — Trieste,1973Giuliano Gaeta — Coscienza nazionale e soprannazionale inGian Rinaldo Carli — Trieste, 1979Bruno Zanei — Il conte Gian Rinaldo Carli e la sua opera dieconomista a Milano — Trieste, 1947Donata Chiomenti Vassalli — Private disavventure di ungentiluomo di vero genio — Trieste, 1994 (“QuaderniIstriani” 5/6)56

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