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Giuseppe Franzè - Ssai - Ministero Dell'Interno

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<strong>Giuseppe</strong> FRANZÉVivere in Prefettura (*)(*) Stralcio dal libro dello stesso autore “Vivere in Prefettura”, edito da Silva editore - Parma, 1991


MEMORIELa mancanza di industrie o di grandi complessi economici nel Meridionecostringeva noi giovani a doverci orientare, nella ricerca del lavoro, verso le carrierestatali. Tra queste, la più prestigiosa, dopo quella degli Esteri, era la carriera diPrefettura; seguita poi da quella giudiziaria, che non aveva allora la posizione diautonomia giuridica ed economica di cui gode adesso.La carriera diplomatica, con l'attrattiva di svolgere il servizio nei vari paesi delmondo, offriva indubbiamente la maggiore suggestione per noi giovani. Ma occorrevaconoscenza approfondita delle lingue straniere, cosa non facile per quei tempiin cui la possibilità di viaggiare o di risiedere in paesi stranieri per acquisire l'apprendimentodella lingua non era alla portata di tutti. Così la carriera finiva peressere appannaggio dei rampolli delle grandi famiglie gentilizie o dei figli deglistessi diplomatici, che seguendo i genitori avevano avuto facile occasione di impararele lingue estere.Alla carriera di Prefettura dava prestigio la posizione dei Prefetti, ai quali leleggi del tempo conferivano poteri così ampi da renderli veri e propri governatoridelle province.Non ambite erano invece le professioni di notaio, farmacista e, nelle specializzazionimediche, quella di dentista.Coloro tra noi studenti che non avevano molto amore per lo studio si giustificavanodicendo di non nutrire grandi ambizioni e di accontentarsi nella vita didiventare notai, o di aprire una farmacia, oppure uno studio di dentista.I giochi della sorte e gli sconvolgimenti del dopoguerra, che hanno portatonella società quella che può definirsi una delle più grandi rivoluzioni della storia,hanno fatto sì che le carriere statali rimanessero appiattite da un malinteso concettosindacalistico di livellamento delle retribuzioni, al di fuori dell'importanzadelle funzioni esercitate e dei meriti dimostrati; mentre, dall'altra parte, proprio leprofessioni di notaio, farmacista e dentista sono diventate tra le più comode, privedi rischi e largamente le più remunerate. Alcuni dei miei vecchi amici, che conridotta fatica negli studi avevano intrapreso quelle professioni, hanno potuto,dopo pochi anni di attività, ritirarsi dal lavoro per vivere agiatamente il resto dellaloro vita in lussuose ville sui laghi o in altre località esclusive.Per me, dopo aver conosciuto quel giovane entrato da poco nella carriera di1058


<strong>Giuseppe</strong> FRANZÉPrefettura, rimase sempre fermo il proposito di tentare anche io quella strada.Mi laureai alla precisa scadenza dei corsi, ottenni la lode accademica e ricevetti,con lettera personale, il compiacimento dell'allora Capo del Governo.Erano tempi quelli, in cui veniva data grande importanza ai valori della gioventù.L'impegno per gli studi non mi impediva di dedicarmi agli svaghi ed ai divertimenti.Prediligevo sopra tutti lo sport. La prontezza di riflessi di cui ero per naturadotato mi consentiva di riuscire bene in alcune discipline, come il basket e la pallavolo,che potevo praticare agevolmente nella vasta organizzazione sportiva cheveniva curata dallo Stato attraverso i gruppi universitari fascisti.Una legge vieta oggi ogni forma di apologia del fascismo. Ed io, pur se sorgeil dubbio sulla legittimità della norma, che appare in contrasto con la libertà dipensiero sancita dai diritti universali dell'uomo e del cittadino, non desideroinfrangerla: troppe furono le conseguenze funeste che da quella concezione politicaderivarono al nostro Paese.Ma per le positive esperienze da me vissute in campo sportivo, non posso nonricordare la nostra entusiastica partecipazione alle gare che si svolgevano tra le rappresentativedelle Facoltà universitarie, gli "agonali", e poi tra le formazioni dellevarie Università, i "littoriali". Era una festa della gioventù ed un felice incontro tratutti gli studenti universitari italiani.Ci preparavamo con scrupolo ad ogni gara e ponevamo il massimo impegnoper meritare di far parte della selezione dell'Università. Imparavamo a comportarcicon lealtà e cavalleria sportiva, a tenere in grande rispetto la nostra integrità fisicaed a salvaguardarla da quegli eccessi o stravizi cui l'esuberanza giovanile puòfacilmente trascinare.Cosa fosse la droga neppure si sapeva; gli scippi o altre forme di delinquenzacomune, che ora così frequentemente attirano i giovani e talvolta i giovanissimi,non erano ancora concepibili; le strade di periferia, oggi invase da prostitute esquallidi figuri di omosessuali, erano inimmaginabili neppure dalla più fervidadelle fantasie: non si erano ancora abbattuti sulla società italiana gli effetti deviantidel dopoguerra, con le esplosioni delle nuove forme di criminalità, le rapine, i1059


MEMORIEesami, ci furono concessi solo i gradi di caporale. Dopo tre mesi ancora avremmopotuto avere quelli di sergente; infine saremmo stati inviati in zona d'operazionedove, trascorsi altri tre mesi, avremmo potuto finalmente conseguire la nomina adufficiale.Il corso si presentò molto duro, sia per il brusco impatto con la vita militarecome soldato semplice e sia per il rigore della disciplina alla quale i sottufficiali dicarriera, da cui eravamo inquadrati, ci sottoponevano, quasi come rivalsa della loropreminenza gerarchica nei confronti di noi giovani coetanei, che avevamo un titolodi studio superiore e molto spesso provenivamo da diversa estrazione sociale.Capitai nel plotone comandato da un Sottotenente padovano, di fervida fedefascista. Proveniva dagli avanguardisti e dai corsi premilitari, dai quali era passatosubito alla scuola ufficiali senza avere neppure ultimato gli studi di ragioniere. Neiprimi tempi mi prese particolarmente di mira e ad ogni piccola mancanza formalemi puniva col farmi fare dei giri di campo di corsa. Io davo ad intendergli di eseguirlisolo con grande fatica, cosicché, da buon ragazzo quale in fondo poi egli era,finì con il ridurre solo a mezzo giro la misura della pena per ogni mia infrazione,quando addirittura non mi veniva condonata. E si finì, a distanza di poco, coldiventare amici.Al termine complessivo dei nove mesi, superai gli esami per la nomina a sergente.Ma non ne ebbi mai i gradi, perché nel frattempo ricevetti la notizia di essereriuscito vincitore del concorso nella carriera di Prefettura e, con la nomina avice-segretario - era quella allora la qualifica iniziale della carriera - ottenni l'esenzionedal servizio militare e la immediata destinazione alla Prefettura di Treviso.Pochi giorni dopo, i miei ex compagni del 1° battaglione furono mandati suivari fronti di guerra. Alcuni di essi perirono nel gelido inverno della campagna diRussia, altri rimasero per sempre nelle sabbie africane; una notevole parte cadde inCroazia, in una imboscata tesa dai partigiani slavi. C'era anche il mio amico Sottotenentino.Mi ricorderò sempre di loro, vergognandomi di essere stato io risparmiatodalla sorte, senza averne avuto alcun merito.La Prefettura di Treviso aveva sede nel centro della città, in un antico palazzodi piazza dei Signori.1062


MEMORIEcapelli tagliati a spazzola e gli occhi di color celeste, profondamente chiari. Per fareun quadro completo dell'austriaco descritto nei racconti dell'ottocento gli mancavanosolo i mustacchi con le punte all'insù.Arrivava in ufficio con la precisione che avevano i treni di una volta e quandoapriva la porta, se io ero arrivato prima di lui - cosa che in verità mi capitò rarevolte - ero sicuro di poter mettere l'orologio sulle otto e cinque.L'incarico che mi era stato affidato non mi impegnava molto tempo, per lasua banale semplicità. Perciò, dopo qualche settimana, il Viceprefetto cominciò apassarmi le prime pratiche amministrative, sia pure di poco conto.Nonostante la mia preparazione nel campo del diritto, incontrai tuttavia delleserie difficoltà nello svolgere quel nuovo lavoro, perché ignoravo del tutto il glossarioe la prassi burocratica. Non sapevo cosa volesse dire "evadere" una pratica, chesignificasse "evidenziare" un fascicolo o "collazionare" una lettera. Fu lui il CavalierNicolavy, accortosi delle mie difficoltà, ad impartirmi gli insegnamenti del caso;con molto garbo e con profondo rispetto, chiamandomi "signor Dottore" nellaconsiderazione che io, benché molto più giovane di lui, appartenevo a categoriaimpiegatizia di grado superiore.Dopo alcuni mesi, il Viceprefetto mi chiamò di nuovo. Mi disse che era contentodi me; che non aveva più ricevuto lamentele per come andavano le legalizzazionie che era tempo ormai di farmi passare ad altro incarico: avrei dovuto lavorarealle dipendenze del Consigliere dirigente la 5 a Divisione, il Dottor Boglich.Anche questi era un ex funzionario austro-ungarico; ma, a differenza delNicolavy, era estroverso ed oltremodo espansivo. Lo avevo sempre ammirato perchéaveva la sua scrivania costantemente pulita e priva di qualsiasi fascicolo, letterao foglio di carta di alcun genere. Deve essere - mi dicevo - un grande lavoratore,molto diligente e sollecito a liberarsi di tutte le pratiche da trattare, se potevatenere la scrivania così pulita.Mi presentai quindi a lui con entusiasmo, sia perché mi ero liberato di quelmortificante lavoro delle legalizzazioni e sia per la stima che sentivo verso quel funzionario,dal quale mi ripromettevo di imparare molto.Mi accolse a braccia aperte, con la sua consueta espansività. Si allontanò poidalla scrivania, come al solito pulitissima, e mi accompagnò davanti ad uno dei1064


<strong>Giuseppe</strong> FRANZÉdue grandi armadi che stavano dalla parte opposta. Lo aprì e mi disse: "vede, carodottorino, qui dentro ci sono, sia pure con poco ordine, tutte le pratiche e le corrispondenzeche riguardano i ricorsi in materia di spedalità. Le affido a lei perchésiano trattate".Altro che "poco ordine"! Lì dentro c'erano affastellati a casaccio centinaia difascicoli e di fogli sparsi, nel peggiore disordine possibile.Capii allora quale era il segreto della sua scrivania sempre pulita e libera daogni foglio di carta.Credo che i monaci certosini non avrebbero avuto tanta pazienza quanta neè occorsa a me per riordinare tutte quelle carte, che per anni erano state accatastatenella più completa confusione.Era come dover rimettere al giusto posto centinaia di tesserine di un mosaico,in precedenza mescolate alla rinfusa.Mi misi di buona lena, distribuendo i fogli, come in immaginarie caselle, sututto il mio tavolo, sulle vecchie poltrone dal tessuto liso e, non bastando, anchesul pavimento della stanza.Con eguale infinita pazienza mi aiutò gentilmente il Cavalier Nicolavy. Frequentandoloscoprii che aveva una infinita bontà d'animo, un grande spirito dirassegnazione di fronte alle circostanze della vita ed un sottile senso umoristicodelle cose e delle situazioni. Diventammo buoni amici.Ultimata la grande fatica, inserimmo ogni pratica in una apposita cartella epassai a studiarmele.Si trattava di accertare a chi, tra due o più Comuni che erano in contestazionetra di loro, dovessero far carico, secondo apposite norme di legge, le speseospedaliere per i ricoveri delle persone indigenti. La decisione veniva adottata dal<strong>Ministero</strong>, in base alle proposte formulate dalla Prefettura.Cominciai con una pratica che a prima vista mi era parsa semplice, ma chein effetti risultò poi una delle più complesse ed intricate.Dopo aver preparato la relazione da inviare al <strong>Ministero</strong>, pensai di doverneriferire preventivamente al Consigliere. Presi perciò le carte e bussai alla porta delsuo ufficio.Quando il Dottor Boglich mi vide, fissò per un istante il voluminoso fasci-1065


MEMORIEcolo che portavo sotto il braccio. Poi, con un tono quasi di terrore, mi disse: "nonvorrà mica venirmi a parlare di quel fascicolo?". Le sue parole così decise ed il tonocosì categorico mi colsero di sorpresa e mi disorientarono, al punto che risposi:"ma no, signor Consigliere, questo fascicolo lo portavo con me solo per caso". Eritornai nella mia stanza, riponendo la pratica sul mio tavolo, così come l'avevopresa.Il mio buon compagno di stanza, vedendomi tornare a brevissima distanza ditempo e conoscendo evidentemente il soggetto, intuì l'aspetto tragicomico del miosconforto e mi disse: "lo sapevo. È fatto così. Ma lei non se la prenda, signor dottore,e prosegua per conto suo". Soggiunse poi a mo' di consiglio: "mandi pure allafirma la relazione che ha preparato. Se torna senza osservazioni, vuol dire che tuttoè andato bene".Così feci per quella e per tante altre pratiche, senza che venissi mai chiamatodai miei superiori o che me ne tornasse indietro qualcuna, modificata ocorretta.Meravigliandomi di questo un po' ad alta voce, il mio dirimpettaio, con unsorriso appena percettibile, ancora una volta mi spiegò: "per queste pratiche, chenon hanno involgenze politiche, il Viceprefetto si fida della sigla apposta all'angolodel foglio dal Consigliere, che da parte sua la mette molto generosamente...".Imparavo cose sconosciute, che non avrei mai immaginate.Quello che avevo sentito tuttavia mi preoccupava, per la eventualità che avessicommesso degli errori, rimasti non corretti. Fino a quando non giunsero leprime decisioni del <strong>Ministero</strong>: erano tutte conformi alle proposte formulate dallaPrefettura.Pensai allora come fosse vero quanto si diceva sotto le armi: che quel che scriveil Sergente è integralmente firmato dal Generale.Andai avanti tranquillo nel mio lavoro di smaltimento di quelle vecchie pratiche,fino a che non venni di nuovo cambiato di ufficio ed assegnato alla 4 a Divisione.Ne era direttore il Consigliere Mattei, un marchigiano, ritenuto per voce dipopolo il funzionario più bravo di tutta la Prefettura.Il Dottor Mattei, come ebbi modo di constatare lavorando con lui, era veramenteun funzionario di alto valore, tra l'altro sempre molto affabile ed alla mano1066


<strong>Giuseppe</strong> FRANZÉcon tutti. Dalla sua profonda preparazione, che si estendeva anche al campo dellelettere e dell'arte, imparai molto e gliene conservo tuttora gratitudine.Mi affidò, come primo lavoro, di studiare un grosso fascicolo. "Lo esamini -mi disse - e poi venga a riferirmi quale provvedimento bisogna adottare".Mi ritirai con il pesante fardello e ne iniziai attentamente lo studio. Si trattavadi un procedimento di espropriazione di un terreno necessario all'ampliamentodi una strada. C'erano nel fascicolo tutti i documenti relativi alle varie fasidella prescritta procedura, con il conclusivo decreto di esproprio e la determinazionedell'indennizzo, che risultava integralmente riscosso. In altri termini, il procedimentodi espropriazione era bello e concluso.Tornai allora dal Dottor Mattei e gli dissi: "Signor Consigliere, ho esaminatoil fascicolo, ma secondo me la pratica è esaurita e non c'è più alcun altro provvedimentoda adottare"."Sì - mi rispose il Consigliere - lei ha "quasi" ragione. La pratica è conclusae studiandola da cima a fondo ha potuto apprendere come si svolge praticamente,in tutte le sue fasi, il procedimento amministrativo prescritto dalla legge perdisporre l'espropriazione di un immobile per pubblica utilità. Ma non è esatto direche la pratica è chiusa. Perché lo sia veramente - proseguì - occorre adottare il provvedimentopiù importante: l'apposizione sul fascicolo della parola "atti": una parolapiccola e breve, ma di grande significato, perché sanziona la conclusione di unaprocedura amministrativa e chiude definitivamente la pratica".Il suo modo, semplice ma efficace, con cui intendeva addestrarmi alle procedureamministrative era divertente e piacevole. Un motivo ancora di più perapprezzare quel mio superiore.Ma non ebbi la fortuna di lavorare a lungo con lui.Oltre alla "battaglia del grano", al pedante ostracismo dichiarato alle parolestraniere, alla abolizione della stretta di mano, sostituita dal "saluto fascista" -cosa invero che raramente veniva praticata, salvo che nelle cerimonie pubbliche -c'era a quei tempi anche la "campagna per l'incremento demografico", fattaassurgere ad una importanza tale che venne istituita addirittura una tassa a caricodi coloro che non erano passati a matrimonio dopo una età prestabilita: la tassasul celibato.1067


MEMORIEUn corollario di quella politica era la disposizione per cui i dipendenti delloStato rimasti celibi non potevano conseguire promozioni in carriera.Durante la guerra, a tale norma fu introdotta una eccezione: i funzionaricelibi potevano essere promossi, a condizione che maturassero un certo periodo ditempo trascorso da militari in zone d'operazione.Di quella scappatoia, pur se pesantemente condizionata, cercarono di avvalersimolti funzionari celibi, che si trovavano da anni in attesa della promozione.Anche il capo Gabinetto della Prefettura di Treviso, che era celibe, fu improvvisamentefolgorato dal desiderio di combattere e partì volontario per il fronte dell'Albania.Nella Prefettura di Treviso, mentre il personale di ragioneria e della carrieraesecutiva era di numero più che sufficiente per il disimpegno dei normali servizi,quello della carriera direttiva risultava invece nettamente al di sotto delle necessità:oltre ai due Consiglieri Boglich e Mattei, c'erano due primi Segretari, il DottorBruno ed il Dottor Pellizzaro, preposti ad altre importanti divisioni amministrative,ed infine io, ancora pressappoco apprendista.In quello stato di cose, che non offriva molte soluzioni, la scelta di chi dovevasostituire il Capo di Gabinetto cadde su di me.Così dopo appena un anno dal mio ingresso in servizio, passai dall'incaricodi sostituto dell'usciere-capo addetto alla legalizzazione delle firme, a quello diCapo Gabinetto del Prefetto.Tutti i poteri, allora molto ampi, esercitati dal Prefetto passavano, per la partedi attuazione, attraverso l'Ufficio di Gabinetto. Cominciai perciò ad essere conosciutonegli ambienti della città e della provincia. Ricevevo inviti sempre piùnumerosi, spesso in quelle stupende ville palladiane dove si erano ritirate le facoltosefamiglie della nobiltà veneta, dopo le prime incursioni aeree che avevanocominciato a colpire le grandi città.Ricordo che accettavo con particolare piacere gli inviti di una ancor giovanenobildonna, che mi mandava a prendere, per mezzo del suo autista, con una stupendaautomobile fuori serie, dai sedili foderati in pelle di leopardo.Il Prefetto era un maestro di furbizia politica. Prendeva sempre sottobraccioil Segretario provinciale del partito fascista - il famoso "federale" - ed aveva cura,1068


<strong>Giuseppe</strong> FRANZÉad ogni buona occasione, di inviare ricchi mazzi di fiori alla di lui moglie, condeferentissimi biglietti di omaggio.Assicuratisi questi buoni rapporti con l'altra autorità della provincia alloramolto importante, aveva per il resto carta bianca e poteva muoversi come voleva,senza il rischio di segnalazioni sfavorevoli che sarebbero potute arrivare al <strong>Ministero</strong>dell'Interno da parte della Segreteria politica.All'infuori della sua volpina furbizia, non avevo però molto altro da ammirarenel mio superiore, se non la sua bella grafia, che mi consentiva di leggere confacilità i biglietti che mi passava, attaccati alle lettere, con le istruzioni sul modocome preparare le risposte. Per il resto, il tratto non molto raffinato ed eccessivamenteautoritario con cui esercitava i poteri di Prefetto - ma forse erano i tempi -non mi entusiasmavano, non trovandoli aderenti alla figura ideale di Prefetto chemi ero costruita nella mia mente.Correva voce che avesse un particolare debole per le donne e che, pur nonpossedendo un fisico da Adone, mietesse in quel campo trionfali successi.Se così era, trovava ancora una volta conferma il concetto che le donne, piùche all'aspetto fisico o alle doti intellettive, sono sensibili al potere.Il nuovo lavoro mi faceva acquisire interessanti esperienze anche nella gestionediretta delle amministrazioni locali, per via degli incarichi che mi venivano conferitiquale Commissario prefettizio di alcuni Comuni. Il che mi consentiva, perle indennità connesse, di raddoppiare largamente lo stipendio, che era allora perme di circa mille lire al mese. Al giorno d'oggi questa somma appare del tutto irrisoria,ma a quei tempi bastava da sola a far vivere bene, come recitava una canzonettaallora molto in voga.Un giorno il Prefetto, chiamatomi riservatamente, mi disse che, al di fuori diogni rapporto d'ufficio ed a titolo di favore personale, voleva conoscere per il miotramite quali fossero i sentimenti e le eventuali attività antifasciste che, secondosospetti a lui riferiti, avrebbero trovato radici in alcuni ambienti di professionistilocali che io frequentavo e che io sapevo essere in effetti molto vicini al Partito d'Azione,già costituitosi ed operante clandestinamente in quella provincia, sotto laguida del Professor Opocher.La richiesta, a me non gradita ed alla quale non desideravo aderire, mi mise1069


MEMORIEin grave imbarazzo e mi convinse che era giunto il momento di lasciare quella città.Decisi perciò di recarmi segretamente a Roma - andata e ritorno in ventiquattroore - per sollecitare al <strong>Ministero</strong> dell'Interno un mio trasferimento, con lamotivazione, peraltro anche vera, di volermi avvicinare ai miei genitori.Riuscii a farmi ricevere dal Vice Capo del personale, il Dottor FrancescoMiraglia, divenuto poi Prefetto di Livorno e, al termine della guerra, Capo diGabinetto e braccio destro del Presidente del Consiglio dei Ministri Alcide DeGasperi.Fu molto affabile e promise che alla prima favorevole occasione mi avrebbeaccontentato. Poi, dopo aver dato uno sguardo al mio fascicolo personale, che nelfrattempo si era fatto portare, mi disse che, essendo stato io il primo tra i vincitoridel concorso, avevo diritto, per antica consuetudine, di essere chiamato al <strong>Ministero</strong>,se lo avessi voluto.La notizia, fino a quel momento da me ignorata, mi fece molto piacere.Risposi subito di sì, chiedendo anzi che il mio trasferimento avvenisse al più prestopossibile.Il provvedimento non tardò a giungere in Prefettura.Era d'uso che la corrispondenza proveniente dai Ministeri, appena pervenutain Prefettura, venisse portata al Prefetto dal Capo Gabinetto, che apriva le bustee porgeva le lettere al Prefetto perché fosse il primo a leggerle. Questi poi le restituiva,dando a voce le direttive del caso, o limitandosi ad esprimere qualche semplicecommento.Un giorno, tra le buste che aprivo c'era la lettera di comunicazione del miotrasferimento. Il Prefetto la lesse con espressione impenetrabile e me la consegnòsenza proferire parola. Anche io la lessi rimanendo in assoluto silenzio e, finita l'aperturadella posta, tornai nel mio ufficio.Aveva capito che la mia interrotta collaborazione significava che non ero contentodi lavorare alle sue dipendenze.La mia permanenza al <strong>Ministero</strong> non fu di lunga durata.Le sorti della guerra cominciavano a volgere per il peggio. La resistenza delletruppe italiane in Africa Orientale si era spenta, l'avanzata degli Anglo-Americaniin Libia appariva non più reversibile, gli Alleati, dopo la testa di ponte in Maroc-1070


<strong>Giuseppe</strong> FRANZÉco, si accingevano al grande sbarco in Sicilia.Sotto la pressione degli eventi, cadeva il fascismo. Si moltiplicarono i bombardamentisulle città italiane; anche Treviso fu pesantemente colpita. Sopravvenneinfine la resa, firmata separatamente dall'Italia. L'8 settembre Roma fu occupataper ritorsione dai Tedeschi.Ero ancora in servizio al <strong>Ministero</strong> quando una mattina, verso le undici, duesquadre di soldati tedeschi, dopo aver piazzato alcune mitragliatrici sulle duerampe che portano al palazzo del Viminale, salirono indisturbati fino al secondopiano e portarono via in ostaggio il Capo della Polizia. Ricordo che improvvisamenteecheggiarono degli spari nei corridoi e qualcuno gridò, a noi che eravamonegli uffici, di chiudere a chiave tutte le porte delle stanze. Non si capì bene se ascopo di difesa o perché non assistessimo a quanto stava per succedere.Certo è che mancò ogni più piccolo accenno di difesa, per cui il blitz si svolsecon assoluta facilità e immediatezza.Gli eventi andarono sempre più precipitando. Si costituì il nuovo governodella Repubblica Sociale Italiana e tutti i Ministeri vennero trasferiti al Nord.Sarei dovuto partire anche io, alle dipendenze del nuovo Capo del Personale,il Prefetto politico Cortese, già "federale" di Addis Abeba. Ma non me la sentii;e chiesi di rimanere a Roma, passando alla locale Prefettura.Credevo di avere evitato così una situazione che in futuro avrebbe potutoessere per me compromettente; ma stavo per andare incontro al peggio. In Prefetturafui assegnato all'Ufficio per la requisizione - disposta con legge fascista - ditutti i beni degli Ebrei residenti in Roma; il che significava dover collaborare all'attuazionedei provvedimenti di confisca di una gran parte degli immobili dellaCapitale.Intanto gli Americani erano sbarcati ad Anzio. Si sentivano di notte i rumorisordi delle artiglierie, mentre i giganteschi aerei da bombardamento, le "fortezzevolanti", non risparmiavano più la città di Roma.Pensai a quel punto di dover prendere la decisione di lasciare il servizio e passaialla clandestinità in attesa della fine della guerra, il cui triste epilogo non apparivaormai né incerto né lontano.Fu un periodo di ansie, di solitudine e di sofferenze. Non potevo più adope-1071


MEMORIErare la tessera annonaria per ritirare a prezzo di calmiere il pane e la razione di vivericontingentata. Mi avventuravo perciò furtivamente, come un comune fuorilegge, per le vie periferiche della città dove fioriva il mercato nero, alla ricerca diqualcosa da mangiare che non costasse troppo; sempre a scrutare guardingo gliangoli delle strade, da dove potevano arrivare le improvvise retate dei Tedeschi, conla conseguenza - ben che mi fosse andata - della deportazione nei campi di lavoroforzato in Germania.Quando mi trovavo alle strette, andavo in un piccolo negozio di fornaio sitoin una traversa di via Merulana, nei pressi dei Palazzi Lateranensi. Era del sor Giovanni,un omone gioviale e rubicondo, che somigliava vagamente all'attore AldoFabrizi. "Buon giorno, sor Giovanni", lo salutavo io discretamente. Lui mi rispondevasorridendo e poi, appena ne trovava l'estro, mi metteva sotto il braccio unabusta con due "sfilatini" di pane, senza chiedermi i bollini della tessera, che sapevaio non avevo, né danaro. Lo fece la prima volta quando, entrato per caso nel suonegozio, gli avevo chiesto di acquistare un filoncino, precisandogli però che nonavevo la tessera annonaria. Capì a volo; me ne diede due e mi disse sottovoce "tuttele volte che ne ha bisogno, dottore, torni pure tranquillo qui da me". Ed io fuicostretto dalle necessità ad andare molto spesso a "salutarlo".Un uomo dal cuore grande, alquanto impacciato nell'eseguire quell'atto dicaritatevole solidarietà e delicatamente preoccupato di non dover ferire con il suogesto la mia sensibilità.Quando, a guerra finita, dopo essere rientrato presso i miei genitori, tornai aRoma ed andai a trovarlo per esprimergli la mia riconoscenza e portargli un donoed una lettera di mio padre, non trovai più traccia di lui. Al posto di quel piccolonegozio di fornaio c'era un magazzino di falegnameria, né riuscii più a rintracciarlo,non conoscendo tra l'altro neppure il cognome.Mi rimase il suo ricordo meraviglioso ed il suo insegnamento.Quando nel prosieguo della mia vita ho incontrato persone abbisognevoli diaiuto, ho pensato sempre al sor Giovanni ed ho cercato di seguire il suo esempiodi umana e generosa solidarietà.1072

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