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Giorgio Agamben L'aperto. L'uomo e l'animale - scienzaefilosofia.it

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RECENSIONI&REPORTS recensione<strong>Giorgio</strong> <strong>Agamben</strong>L’aperto. L’uomo e l’animaleBollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 99, € 13Nel regno messianico il lupo dimoreràinsieme all’agnello e la pantera sisdraierà accanto al capretto; il v<strong>it</strong>ello eil leoncello pascoleranno insieme e unfanciullo li guiderà. Ciò che è statodiviso allora apparirà nuovamentepacificato, l’estroiezione da sé, chel’umano ha da sempre compiuto a scacciarel’animale in sé nell’ininterrotto processodi antropogenesi, tornerà infine a unaserena ricomposizione. Siamo nel primoquadro di apertura del testo, larappresentazione del banchetto messianicodei giusti nell’ultimo giorno, riprodotta in una Bibbia ebraicadel XIII secolo. Il saggio di <strong>Agamben</strong> è accattivante nel suosvilupparsi a partire da una serie di immagini, di quadri, disuggestioni.In gioco nel testo è il concetto di v<strong>it</strong>a, in gioco nel testo èdunque la nuda v<strong>it</strong>a animale, v<strong>it</strong>a muta che sembra stagliarsi senzavergogna davanti all’imbarazzo dell’umana parola. Difficileconcetto quello di v<strong>it</strong>a: sembra che la nostra tradizione nonriesca mai a definirlo. La difficoltà di imbrigliarla, la v<strong>it</strong>a,determina una sorta di vendetta della parola, che comincia alloraa vivisezionarla, ad articolarla attraverso una serie di cesure eopposizioni «Tutto avviene, cioè, come se, nella nostra cultura,la v<strong>it</strong>a fosse ciò che non può essere defin<strong>it</strong>o, ma che, proprio perquesto, deve essere incessantemente articolato e diviso» (p. 21).Tale dispos<strong>it</strong>ivo sarebbe in atto già presso Aristotele, che nondefinisce mai la v<strong>it</strong>a, si lim<strong>it</strong>a piuttosto a «scomporla grazieall’isolamento della funzione nutr<strong>it</strong>iva, per poi riarticolarla in242


S&F_n. 7_2012una serie di potenze e facoltà distinte e correlate (nutrizione,sensazione, pensiero)» (p. 22). Se da Aristotele, attraverso isecoli, si giunge a Bichat, troviamo in atto la medesimastrategia, seppure dai contorni mutati: in ogni organismosuperiore è come se convivessero due animali, il primo l’animalexistant au‐dedans coincide con la v<strong>it</strong>a organica, che siestrinseca nella ripetizione ricorsiva e cieca di una serie difunzioni prive di coscienza; il secondo l’animal vivent au‐dehors,si definisce nella relazione col mondo esterno. Naturalmente«nell’uomo questi due animali coab<strong>it</strong>ano ma non coincidono: la v<strong>it</strong>aorganica dell’animale‐di‐dentro comincia nel feto prima di quellaanimale e, nell’invecchiamento e nell’agonia, sopravvive allamorte dell’animale‐di fuori» (p. 23). L’inaugurazione di questafrattura ha determinato conseguenze enormi nella storia dellamedicina moderna e in segu<strong>it</strong>o della biopol<strong>it</strong>ica, poiché ilconcetto di v<strong>it</strong>a vegetativa comincia a coincidere con quello dipatrimonio biologico della nazione, da tenere sotto controllo, daplasmare e modellare. Proprio perché forgiabile, nell’uomo, ladivisione della v<strong>it</strong>a «in vegetale e di relazione, organica eanimale, animale e umana», si delinea come una frontiera mobile. Èproprio grazie alla scissione determinata all’interno dellacategoria della v<strong>it</strong>a, che si può costantemente decidere in mer<strong>it</strong>oa ciò che è umano e a ciò che non lo è: «Solo perché qualcosa comeuna v<strong>it</strong>a animale è stata separata all’interno dell’uomo, soloperché la distanza e la prossim<strong>it</strong>à con l’animale sono statemisurate e riconosciute innanzi tutto nel più intimo e vicino, èpossibile opporre l’uomo agli altri viventi» (p. 24). La questioneè di immensa portata pol<strong>it</strong>ica e mette in discussione l’interacultura occidentale, la nostra tradizione umanistica: essa ha ineffetti sempre pensato l’uomo metafisicamente come l’unionearmoniosa di anima e corpo, bruta materia e sostanza nobile, quasidivina. Bisogna invece imparare, secondo <strong>Agamben</strong> «a pensare l’uomocome ciò che risulta dalla sconnessione di questi due elementi e243


RECENSIONI&REPORTS recensioneinvestigare non il mistero metafisico della congiunzione,ma quellopratico e pol<strong>it</strong>ico della separazione» (p. 24).Dal canto suo Linneo amava molto le scimmie e biasimava Cartesio eil suo ardire di definire gli animali come automata mechanica: disicuro l’inventore del Subjectum e delle sue conc<strong>it</strong>ateelucubrazioni non aveva mai visto una scimmia. È per questo chenel suo Systema naturae Linneo decide di porre l’uomo negliAnthropomorpha: il linguaggio non è ancora, al tempo di Linneo, ilmeraviglioso artefatto che consente all’human<strong>it</strong>as di ab<strong>it</strong>are nellacomoda casa dell’essere, lontano da pericolos<strong>it</strong>à ferine. L’uomo,in effetti per Linneo, si distingue dagli altri animali solo peril fatto di potersi riconoscere, tuttavia «definire l’umano nonattraverso una nota characteristica, ma attraverso la conoscenzadi sé, significa che è l’uomo colui che si riconoscerà come tale,che l’uomo è l’animale che deve riconoscersi umano per esserlo»(p. 33). L’human<strong>it</strong>as allora, lungi dall’essere il dato originario,cost<strong>it</strong>uisce la scelta costante, continuamente re<strong>it</strong>erata, chel’uomo fa per se stesso, allontanando da sé l’altro in sé,l’animale che dunque è, riconoscendolo per poi misconoscerlo. Eccoperché ciò che chiamiamo Homo sapiens non è «né una sostanza néuna specie chiaramente defin<strong>it</strong>a: è, piuttosto, una macchina o unartificio per produrre il riconoscimento dell’umano» (p. 34). Homosapiens è dunque un artificio antropogenico che produce l’umanoattraverso una dinamica di inclusione ed esclusione, l’essereumano infatti per essere tale deve prima riconoscersi nel nonuomo.Nella macchina antropogenica, sia antica che moderna è dunque ingioco la produzione dell’uomo attraverso «l’opposizioneuomo/animale, umano/inumano» (p. 42). La macchina moderna isola ilnon‐umano nell’uomo: «entrambe le macchine possono funzionaresoltanto ist<strong>it</strong>uendo al loro centro una zona d’indifferenza, in cuideve avvenire l’articolazione fra l’umano e l’animale» (p. 43).244


S&F_n. 7_2012Le amene passeggiate di Heidegger nella Foresta nera e quelle diJacob von Uexküll tra mondi invisibili e sconosciuti, aiutanomeglio a riflettere sulla differenza ontologica. Ogni animalecostruisce il proprio Umwelt, sostiene lo zoologo prussiano, ecioè seleziona dall’intero Umgebung unicamente gli stimolirilevanti per la propria sopravvivenza. Ciascun animale vivedunque chiuso all’interno del proprio specifico ambiente diverso eimpermeabile da tutti gli altri. L’incomunicabil<strong>it</strong>à tuttavia non èsinonimo di caos. Un piano naturale, un armonia presiede la v<strong>it</strong>adi queste monadi cieche e sorde all’altro da sé. Secondo <strong>Agamben</strong>l’antiumanesimo nel moderno trova grande carica espressiva nelladescrizione dell’epopea di una zecca ad opera di Uexküll: la zeccaè cieca e sorda, ma risulta sensibile a soli tre stimoli, l’odoredell’acido butirrico presente nei mammiferi, il calore dellapelle, la sensazione tattile del corpo del mammifero. Attende lazecca su un ramo l’avvento della preda, all’arrivo si lanciaconfigge il rostro depone le uova e muore. L’Umwelt della zecca siriduce a questa relazione, è questa appassionata quanto fugacerelazione. Eppure esperimenti di laboratorio hanno provato che unazecca può resistere sino a diciotto anni in attesa della preda.Attesa paziente, sonno profondo, letargo? Che ne è della zecca edell’epopea del suo piccolo mondo? «Come è possibile che un esserevivente, che consiste interamente nella sua relazione conl’ambiente, possa sopravvivere in assoluta deprivazione di esso?»(p. 51). Il filosofo all’ascolto dell’essere dal canto suo, restòmolto affascinato dalle passeggiate dell’eclettico baroneprussiano, a partire dalle quali nel’29 elaborò per l’animale ilconcetto di “povertà di mondo”, per distinguerlo dall’uomo e dallasua parola, che fa, che costruisce costantemente il mondo.L’animale al contrario ha e non ha mondo, nel senso che entra inrelazione con esso soltanto nella forma di un disinib<strong>it</strong>ore. Eccoperché per Heidegger l’animale non accede mai alla manifestativ<strong>it</strong>àdell’ente in quanto tale, ma rimane imprigionato nello stordimento245


RECENSIONI&REPORTS recensionedel proprio cerchio ambientale che è come un tubo che non siallarga né si restringe, e che consiste nell’appagamento qui e oradel bisogno presente. L’allodola per Heidegger non vede l’aperto:le passeggiate di Rilke, (che pure amava lo zoologo prussiano,tanto da considerarlo il proprio consulente biologico) mostravanol’animale quasi più umano dell’uomo e presentavano, a detta diHeidegger una mostruosa antropomorfizzazione dell’animale e unacorrispondente animalizzazione dell’uomo. Di nuovo confini elim<strong>it</strong>i diventano malleabili a seconda delle lat<strong>it</strong>udini e dei puntidi vista.Anche Heidegger sembra sentire questa vertiginosa prossim<strong>it</strong>à: lelezioni del ’29 analizzano uno stato d’animo fondamentale che è lanoia: nell’essere lasciati vuoti, nell’essere lasciati in sospesoda un ente che si rifiuta nella sua total<strong>it</strong>à, sembra far capolinoquesta vicinanza estrema human<strong>it</strong>as‐animal<strong>it</strong>as; la noia sembraevocare allora la Benommenhe<strong>it</strong> animale. E tuttavia è proprio apartire da questa vicinanza estrema che scatta la macchinaantropogenica e dunque il riconoscimento che si trasforma inscelta per la distanza, per l’allontanamento, per l’estroiezione.La noia infatti riconsegna il Dasein alla sua possibil<strong>it</strong>azioneoriginaria. Ecco perché quella che sembrava una prossim<strong>it</strong>à sirivela invece come un abisso che non può essere colmato da nessunamediazione. Ancora una volta la macchina antropogenica hafunzionato, Heidegger, secondo <strong>Agamben</strong>, è stato l’ultimo pensatorea «credere in buona fede che il luogo della polis […] fosse ancorapraticabile, che – tenendosi in quel luogo rischioso – fosseancora possibile per degli uomini – per un popolo – trovare ilproprio destino storico» (p. 78). Da allora la macchinaantropologica sembra girare a vuoto. Per <strong>Agamben</strong>, le soluzionipossibili sono due: l’uomo post‐storico cerca di governare lapropria animal<strong>it</strong>as attraverso la tecnica, oppure «l’uomo, ilpastore dell’essere, si appropria della sua stessa latenza, della246


S&F_n. 7_2012sua stessa animal<strong>it</strong>à, che non resta nascosta né fatta oggetto didominio, ma è pensata come tale, come puro abbandono» (p. 82).FABIANA GAMBARDELLA247

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