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FILOSOFIA E ARCHITETTURA

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<strong>FILOSOFIA</strong> E <strong>ARCHITETTURA</strong>A testimonianza della estrema vicinanza tra pensiero filosofico e architettura,riportiamo una bella pagina di una conferenza del 1951 di Martin Heidegger – unodei massimi filosofi del Novecento.L’essenza del costruire è il «far abitare». Il tratto essenziale del costruire è l’edificare luoghimediante il disporre i loro spazi. Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire.Pensiamo per un momento a una casa contadina della Foresta Nera, che due secoli fa un abitarerustico ancora costruiva. Qui, ciò che ha edificato la casa è stata la persistente capacità di far entrarenelle cose terra e cielo, i divini e i mortali nella loro semplicità. Essa ha posto la casa sul versanteriparato dal vento, volto a mezzogiorno, tra i prati e nella vicinanza della sorgente. Essa gli ha datoil suo tetto di legno che sporge a grondaia per un largo tratto, inclinato in modo conveniente perreggere il peso della neve, e che scendendo molto in basso protegge le stanze contro le tempestedelle lunghe notti invernali. Essa non ha dimenticato l’angolo del Signore dietro la tavola comune,ha fatto posto nelle stanze ai luoghi sacri del letto del parto e dell’«albero dei morti», come sichiama là la bara, prefigurando così alle varie età della vita sotto un unico tetto l’impronta del lorocammino attraverso il tempo. Ciò che ha costruito questa dimora è un mestiere che, nato esso stessodall’abitare, usa ancora dei suoi strumenti e delle sue impalcature come di cose.Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire. Il richiamo alla casa contadina dellaForesta Nera non vuol dire affatto che noi dovremmo e potremmo tornare a costruire case comequella, ma intende illustrare, con l’esempio di un abitare del passato, in che senso esso fosse capacedi costruire.Ma l’abitare è il tratto fondamentale dell’essere in conformità del quale i mortali sono. Forse,questo tentativo di riflettere sull’abitare e il costruire può gettare qualche luce sul fatto che ilcostruire rientra nell’abitare e sul modo in cui da questo riceve la sua essenza. Sarebbe giàabbastanza se si fosse riusciti a portare l’abitare e il costruire nell’ambito di ciò che è problematico,degno di interrogazione, e che quindi essi restassero qualcosa degno di essere pensato. (…)Costruire e pensare sono sempre, secondo il loro diverso modo, indispensabili per l’abitare.Entrambi sono però anche insufficienti all’abitare, fino a che attendono separatamente alle proprieattività, senza ascoltarsi l’un l’altro. Questo lo possono fare quando entrambi, costruire e pensare,appartengono all’abitare, rimangono entro i loro limiti e sanno che l’uno e l’altro vengonodall’officina di una lunga esperienza e di un incessante esercizio.[Martin Heidegger, “Costruire abitare pensare”, in Saggi e discorsi, ediz. ital. a cura di GianniVattimo, Milano, Mursia, 1976, pp. 107-108 (tit. orig.: Vorträge und Aufsätze)]Proponiamo allora un breve percorso alla ricerca di una più precisa definizione delrapporto tra filosofia e architettura.In modo particolare la nostra attenzione si rivolge a quell’espressione del pensieroarchitettonico che potremmo definire “razionalismo” e che ci porta, innanzi tutto,all’origine del razionalismo moderno, al famoso Discorso sul metodo di Cartesio:… le grandi costruzioni, iniziate e compiute da un solo architetto, sono, di solito, più belle earmoniose di quelle che parecchi hanno cercato di ristrutturare valendosi di vecchi muri costruiticon altre finalità. Perciò le città antiche che, nate da semplici borgate, sono divenute un po’ allavolta grandi città, per lo più sono così disarmoniche in confronto a quelle, rispondenti a criteri diregolarità, che un ingegnere, seguendo la sua ispirazione, traccia in una pianura. E se anche i singoliedifici, presi uno ad uno, rivelano spesso pregi artistici non minori, o addirittura più grandi, tuttavia,a vedere come sono disposti, qui uno grande, là uno piccolo, e come rendono curve e irregolari lestrade, si direbbero messi lì a quel modo dal caso piuttosto che dalla volontà di uomini ragionevoli.


Considerando poi che sempre vi sono stati dei funzionari incaricati di sovraintendere all’ediliziaprivata ai fini del pubblico decoro, ci si renderà conto di quanto sia difficile realizzare cosepienamente soddisfacenti lavorando solo sulle opere altrui.[René Descartes, Discorso sul metodo, seconda parte, trad. di Maria Garin, Roma-Bari, Laterza,2008 (tit. orig.: Discours de la Méthode)]Ludwig Wittgenstein – filosofo viennese (peraltro ingegnere di formazione) morto aCambridge nel 1951 – in una sua opera fondamentale, pubblicata postuma, riprendel’esempio della città utilizzandolo come metafora del linguaggio. Appare evidente lacritica a un’impostazione esclusivamente razionalistica della ricerca filosofica sullinguaggio.… chiediti se sia completo il nostro linguaggio; – se lo fosse prima che venissero incorporati in essoil simbolismo della chimica e la notazione del calcolo infinitesimale; questi infatti sono, per cosìdire, i sobborghi del nostro linguaggio. (E quante case o strade ci vogliono perché una città cominciad essere città?) Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo distradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tuttocircondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi.[Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, §18, edizione italiana a cura di Mario Trinchero,Torino, Einaudi, 2009 (tit. orig.: Philosophische Untersuchungen)]Il brano seguente è stato scritto da un importante filosofo a noi contemporaneo,Emanuele Severino, e ci mostra come il razionalismo in architettura (ma nella culturain generale) abbia oggi esaurito la sua funzione per motivi che sono però del tuttoconsequenziali alla logica da cui lo stesso razionalismo era nato. Viene qui illustratoil senso di una svolta epocale.Dopo Hegel, la grande tradizione epistemica dell’Occidente si avvia al tramonto. Ci si rendesempre più conto che l’Eterno dell’episteme greco-cristiana, che dovrebbe essere il supremo riparoe rimedio contro il supremo pericolo del nulla, finisce con l’essere peggiore del male che essodovrebbe guarire, perché rende impossibile e impensabile, soffocandolo, il divenire della vita, chepure è la suprema evidenza dell’Occidente e che, pur essendo la scaturigine dell’angoscia, è anche ilrespiro dell’esistenza. Il divenire della vita è il pericolo, ma per i mortali non c’è vita che neldivenire; e l’eterno dell’episteme soffoca il divenire e la vita.Questo significa che la Raumgestaltung [“configurazione dello spazio”], che nell’architettura dellatradizione occidentale è il simbolo dell’Eterno epistemico, assorbe e annulla lo spazio che essadovrebbe configurare. Non potendo essere sorpreso o modificato da alcun evento, l’Eterno anticipain sé ogni evento e rende apparente il divenire dell’universo, così come, nelle architetture dellatradizione occidentale, la Raumgestaltung epistemico-geometrico-matematica prestabilisce eanticipa, e quindi rende apparente il movimento di coloro che le abitano. […]Oggi, invece, si tendono a porre sullo stesso piano tutte le forme culturali – cioè sul pianodell’assenza di ogni verità definitiva. E questo accade perché si ignora che è sul fondamentodell’esistenza del divenire del mondo – ossia sul fondamento di ciò che per l’Occidente è l’evidenzae la verità suprema e unica – che la negazione di ogni eterno e di ogni verità che presumano porsi aldi sopra del divenire è qualcosa di necessario e di inevitabile. In questa situazione, l’inevitabilitàdella distruzione della tradizione occidentale – che è innanzitutto inevitabilità della distruzionedell’episteme e che costituisce l’anima più profonda e più nascosta del pensiero degli ultimi duesecoli – viene persa di vista, e tale distruzione viene a presentarsi come scetticismo ingenuo: lostesso che, presentandosi come tolleranza nei confronti di ogni espressione umana, caratterizza granparte della cultura, dunque dell’arte, dunque dell’architettura più recente.


[Emanuele Severino, “Raumgestaltung”, in Tecnica e architettura, a cura di Renato Rizzi, Milano,Raffaello Cortina, 2003, pp. 91-94]Concludiamo il nostro itinerario minimo facendo riferimento a un filosofo-politico anoi molto “vicino”, Massimo Cacciari, il quale ci mostra le difficoltà che oggi deveaffrontare la pianificazione urbanistica, dal punto di vista della stessa logica deiproblemi che è chiamata ad affrontare. È evidente anche qui come il “razionalismo”non sia sufficiente a risolvere le contraddizioni, in quale direzione andare è peròmolto difficile dire.Prima di discutere di scelte urbanistiche dobbiamo (…) porci la domanda: che cosa chiediamo allacittà? Chiediamo di essere uno spazio nel quale ogni forma di ostacolo al movimento, allamobilitazione universale, allo scambio, sia ridotto ai minimi termini, o chiediamo ad essa di essereuno spazio in cui ci siano luoghi di comunicazione, luoghi pregnanti dal punto di vista simbolico,dove vi sia attenzione all’otium? Si chiedono purtroppo entrambe le cose con la stessa identicaintensità, ma entrambe non sono proponibili in alcun modo insieme, e quindi la nostra posizione neiconfronti della città è del tutto schizofrenica.Questo non vuol dire che essa sia disperata, anzi è molto bella perché chissà cosa salterà fuori. Èuna contraddizione talmente acuta che potrebbe essere la premessa di qualche nuova creazione.(…) è necessario partire dalla contraddittorietà di questa domanda e cercare di valorizzarla inquanto tale, facendola esplodere. È meglio fare dei progetti di architettura e di urbanistica in cuimettere in evidenza di fronte al pubblico il carattere contraddittorio della sua domanda, senzacoprire e mistificare questa situazione, senza credere di superarla con qualche fuga in avanti oritornando al passato di Atene. Non ci saranno più agorà.[Massimo Cacciari, La città, Rimini, Pazzini Editore, 2006, pp. 27-29]Scheda a cura di Ruggero Zanin

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